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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 15 BIZZARRIE DEI POTENTI E ANTIDOTI DEGLI INTELLIGENTI 17 Serse e il platano 19 Caligola, il signore delle immagini 21 Editti di Claudio 23 L'antisemiotico 25 Il pittore delle due religioni 30 La vana gloria di Cosimo de' Medici 33 La boccuccia del Re Sole 39 FALSARI O BENEFATTORI? 41 La santità della Terra Santa 44 I falsi d'autore del duca di Berry 47 La storia esemplare del cittadino Pallois 50 Storia di falsi e d'anarchia 53 STOLTI O TROPPO FURBI? 55 L'antenato di Amleto 58 Credulità 61 Gli svergognati 64 Ognuno a suo modo 66 La triste avventura dei furbi scornati 70 La Garibaldumasseide 73 CREDENZE FUORI DAL COMUNE 75 Generare figli senza le donne 79 Madonne che piangono, però non sudano 83 Cristo non morì sulla croce 86 I miracoli (dispettosi) di Asclepio 89 La Sindone alla prova del fuoco 93 Lo scienziato della jettatura 97 UNA SCIENZA NON PROPRIO ORTODOSSA 99 Oniromania, bagni e purganti 102 L'invenzione della nostalgia e le vacche degli Svizzeri 106 Il vero nome del "mal francese" 110 Il giunto cardanico e l'oroscopo di Gesù Cristo 113 Il gran ritorno dei draghi 117 FORTUNE E SFORTUNE DELLE NUOVE TECNOLOGIE 119 Ctesibio e gli automi 123 Nel mezzo, vile meccanico! 128 Come cavare statue dalla carta 132 L'invenzione del fax 135 Bretelle di sicurezza 138 La cerniera lampo 143 CÓLTI PER CASO 145 Omero era una donna 149 Anagrammi latini e grammatica ludica 155 Doppi stoici 158 Un'epica del promemoria 164 L'inventore della prima banca dati (interattiva) 167 Titivillus, il demone degli scriptores 170 Perché mai pagare i professori universitari? 174 La rivincita di Sanciu 179 STORIE DI SESSO (ESTREMO?) 181 Un'Odissea da capezzale del letto (molto del letto) 184 Storie di nuvole 187 L'invenzione dei manuali erotici 192 L'amante di sua moglie 195 Amor di statue 199 A che servono gli specchi? 202 Le confessioni pericolose 205 GOLA PROFONDA 207 Un ghiottone crudele e impaziente 212 Il rombo di Domiziano 215 Le donne romane, che non bevono vino 219 Il sedano ripieno di Federico II 223 Mangiare col brivido 227 Mangiare con gli occhi 231 À LA MODE COMME À LA MODE 233 Semiramide e l'invenzione delle mutande 237 Donnai o Donnaioli? 240 Il mistero della "braghetta" scomparsa 244 Il primo caso di spionaggio cosmetico 248 Il collezionista di alberghi 253 BIZZARRIE BIBLIOGRAFICHE 261 APPENDICE 263 L'Antibizzarro 267 Il correttore smascherato |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneSe si dovesse credere ai dizionari della lingua italiana, la bizzarria sarebbe un'arancia. Più precisamente sarebbe un'arancia variegata, che alterna liste del giusto colore a liste color del cedro. Oppure sarebbe un'uva che, nella stessa pigna, mescola acini viola con acini gialli: "l'uva bizzarria", come la chiamano quegli appassionati i quali, ovviamente, la coltivano solo per curiosità. Non è certo questo il primo significato della parola, così come non si può certo pretendere di far risalire al frutteto l'aggettivo "bizzarro", il padre di ogni "bizzarria". Eppure, in questa accezione diciamo fruttuosa, o fruttifera, della bizzarria, c'è qualcosa di estremamente attraente. L'arancia/cedro, l'uva bianco/viola ci confermano infatti nell'idea che la bizzarria ha prima di tutto un sapore: ovviamente un sapore agrodolce, biancoviola, bizzarro. [...] Quale che sia l'origine di un termine tanto oscuro nelle sue origini, quanto fortunato nella sua carriera successiva, rimane il fatto che il senso della parola "bizzarria" è abbastanza chiaro e accettato da tutti: essa indica un comportamento anomalo, che non solo rifugge dalle regole solitamente condivise (anche la ribellione lo è, e spesso non è affatto bizzarra), ma lo fa addirittura sovvertendone il significato, mettendone in dubbio la tenuta, saggiando i loro limiti. Il bizzarro è insomma un "diverso", un "altro", un "extracomunitario" (nel senso, forse più proprio, di "fuori dal comune"). Il bizzarro contesta implicitamente, e mai in modo diretto o violento, le norme vigenti, e prova a capire che cosa succede a starne fuori. Certo, il bizzarro non è né un logico né un dialettico, e a volte le sue stranezze rischiano di farlo apparire anche stupido. Le sue azioni hanno infatti il sapore enigmatico dell'arancia/cedro: acido e delizioso, paradossale e profumato... Eppure, il modo bizzarro di stravolgere le regole contiene sempre una forma di intelligenza acuta, e a volte aspra, la quale finisce per far risaltare il fatto che la dóxa da tutti accettata è piena di tarli. Il bizzarro esemplare, in altre parole, è colui che in fin dei conti, col suo fare insolito, risulta l'unico capace di dire: "il re è nudo". Non è un caso, allora, che i bizzarri si moltiplichino proprio quando le società e le culture sono più rigide. Fioriscono in epoca di antichi tiranni, di mentalità feudali, di signorie assolute, di corti irreggimentate, di padronati cinici, di rivoluzioni crudeli. È chiaro: quando il potere è esageratamente sovrano, l'unica forma per sfuggirgli è quella di mettersi da un lato, e dichiararsi un po' pazzi. Vi sono stati, in implicito o in esplicito, grandi teorici di questa forma del vivere. A cominciare da Socrate, il quale, secondo i suoi seguaci, invitava i discepoli a dire cose serie - in apparenza - scherzando; l'uomo che portava lo stesso mantello in ogni stagione e camminava a piedi scalzi sulla sabbia ardente dell'estate; l'eroe che morì al modo - nobilissimo e bizzarro che tutti conosciamo. La massima socratica fu ripresa nel Medioevo da artisti, scienziati, astrologi e diplomatici, ad esempio al tempo di Federico II, per evitare di incorrere nelle ire dei potenti e praticare una conoscenza vietata. Fu dottamente sostenuta nel Rinascimento da coloro, come Nicola Cusano, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e altri umanisti che, per giustificare la verità del sapere pagano, sostenevano che gli antichi riuscivano a dire cose profonde in forma scherzosa, e chiamavano questo procedimento serio ludere. Nel Seicento diventò maniera di comportamento nei manuali del retore catalano Baltasar Gracián, che predicava la agudéza, o arte del ingenio come modo per sopravvivere a corte, e anzi ottenervi successo, o in quello di Torquato Accetto, napoletano, intitolato alla dissimulazione onesta. Fu regola di vita per Voltaire, e in seguito per tanti illuministi poco propensi a prendere troppo sul serio la rivoluzione giacobina. E così via, fino a oggi, transitando per imperialismi, fascismi, comunismi e persino dittature democratiche, come a volte è capitato in certe fasi di capitalismo rampante. Va detto, a questo punto, che non tutti i bizzarri di tutti i tempi sono uguali. Infatti, nella cultura occidentale vi sono varianti nazionali differenti - fra loro anche molto differenti - della bizzarria. Descriverle nel dettaglio richiederebbe più di un volume e, ovviamente, non basterebbe ancora. A noi sarà sufficiente abbozzarne solo un rapido schema, invocando l'indulgenza del lettore per qualsiasi (involontaria) concessione allo stereotipo. Si può dunque dire che esiste la versione britannica della bizzarria: un misto di comportamenti e di linguaggi - fra sense of humour e snobismo - che consiste nella ricerca della "distinzione" individuale dal resto del mondo. Poi c'è quella francese, tutta tesa alla provocazione e alla spacconata, che Dumas padre ha ribattezzato "guasconeria". E c'è quella spagnola, che invece potremmo qualificare come picara, e che dal Lazarillo de Tormes al Quijote si esprime in un avventuroso e sarcastico antieroismo. Oppure quella latino-americana, tendente a produrre il più radicale sentimento dell'assurdo, e che culmina, in tempi moderni, con Jorge Luis Borges. È lecito affermare l'esistenza anche di una specifica "bizzarria italiana"? D'accordo, siamo noi, a quel che sembra, gli inventori di questa parola - ma abbiamo anche contribuito a creare una forma specifica e nazionale di tale atteggiamento? Difficile dirlo. Non c'è niente di più faticoso, infatti, del provare a descriversi dal nostro stesso interno, ovvero del provare a spiegare agli "altri" le caratteristiche della propria identità. Ma forse potremmo tentare in questo modo: a differenza dello snobismo individualistico anglosassone, della sonora bizzarria francese, del sarcastico antieroismo spagnolo, la cifra della bizzarria italiana consiste nell'escogitare ogni giorno i mezzi necessari per sopravvivere, e anzi, per vivere bene, nella gabbia di matti (e però potenti e dominanti) nella quale siamo costretti a risiedere da un incredibile numero di secoli. La bizzarria italica è, insomma, la testimonianza dello spirito ironico e beffardo con cui le persone riescono, e sono riuscite, a cavarsela. Ironico: perché butta sul ridere la tragicommedia di chi si prende troppo sul serio. Beffardo: perché lascia trapelare che la prosopopea altrui non regge il confronto con la saggezza intrinseca, e la profonda tradizione culturale, di chi, pur sottomesso, la osserva e la giudica. È la bizzarria di gente che la sa lunga, perché ha conosciuto le origini della civiltà, anzi il suo massimo sviluppo, per poi dimenticarla e ricostruirla varie volte nel corso di una storia millenaria. Una bizzarria spesso consapevolmente, spesso inconsapevolmente, "dotta", che non ha mai dimenticato le sue radici classiche. Ecco perché, fra gli esempi che abbiamo scelto - la nostra cassetta di arance/cedri, il nostro paniere di uva bianco/viola -, se ne troveranno parecchi che vengono direttamente dal mondo greco e romano. I quali possono essere considerati a buon diritto gli archetipi, o meglio ancora i modelli, della nostra specifica e nazionale "declinazione" della bizzarria. Serio ludere, dunque, è la filosofia del bizzarro. La sua definizione rinascimentale è chiara e perfetta. Ecco cosa ne diceva il Ficino nel proemio del suo In Platonis Parmenidem: "Era costume di Pitagora, Socrate e Platone scherzare facendo sul serio, e giocare con grande applicazione [...] ogni volta che toccavano con figure e sentenze i misteri divini". Quanto a Nicola Cusano, non era da meno - il che non meraviglia in un uomo che aveva il coraggio di scrivere un libro di filosofia ispirandosi al gioco della palla (De ludo globi): "Che si giochi questo giuoco; ma non in modo puerile, bensì alla maniera della santa saggezza divina nel creare il mondo". A questo principio si sono sempre applicati i bizzarri, e a questo principio, in fondo, ci siamo ispirati anche noi, nello scrivere questo volume, che racconta una cospicua serie di stravaganze vissute dai personaggi più vari nel corso della storia. La nostra raccolta inizia dall'antichità, e prosegue con episodi, come abbiamo detto, per la maggior parte italiani. Laddove siano stati riportati casi stranieri, si tratta di una scelta di "simpatia": la vicenda narrata, infatti, ci è sembrata far famiglia con lo spirito che abbiamo sommariamente descritto (le mentalità, come disse Foucault, stanno scritte nei testi, e non all'anagrafe). In ogni caso, il lettore scoprirà facilmente che al di là di attori e fatti bizzarri, a tenere la scena è talora un personaggio che, per forza di cose, non può essere né italiano né straniero: il caso, la storia, il semplice sviluppo degli eventi o il procedere sinuoso della cultura. Per quanto gli uomini, infatti, possano sforzarsi di essere bizzarri, non riusciranno mai a superare la bizzarria di ciò che i Greci chiamavano semplicemente la Tyche. | << | < | > | >> |Pagina 19Caligola, il signore delle immaginiSi racconta che Caligola, imperatore in fama d'esser folle, aveva fatto erigere un tempio al culto di se stesso. In questo tempio "stava un simulacro aureo con le sue fattezze, che ogni giorno veniva abbigliato con una veste identica a quella indossata da lui". La tecnica era abile. In effetti le statue, anche le più belle, dal punto di vista del guardaroba sono un po' monotone, vestono sempre allo stesso modo. Così facendo, invece, Caligola ravvivava molto l'aspetto della sua statua di culto. Ma non solo. Mutando ogni giorno la sua veste, e raddoppiando così quella che lui stesso indossava, l'imperatore rendeva quella statua molto più simile a una figura riflessa che non a un'effigie di marmo. L'aspetto della statua "dipendeva" infatti, di volta in volta, dallo stato del suo referente, proprio come accade con un'immagine allo specchio. Caligola si specchiava insomma nella sua statua. O era vero forse il contrario? Se era la statua che stava nel tempio, ed era addirittura una statua d'oro, allora forse il dio era lei, e Caligola ne era a sua volta il riflesso. Non indossava forse lo stesso abito indossato dalla statua? Referente e immagine a un tempo, Caligola doveva sentirsi, oltre che imperatore, realmente dio. Fra immagine e persona - fra statua eretta nel tempio e imperatore in carne e ossa - il rapporto era dunque quotidiano. Era come se ogni mattina i due si guardassero di sottecchi, si aggiustassero la toga, per farla cadere nello stesso modo, si dessero una reciproca passata sui capelli, dopo di che Caligola poteva continuare nelle sue occupazioni, e la statua era autorizzata a farsi adorare dai fedeli. Che anzi, con le immagini delle divinità Caligola dialogava davvero. Racconta ancora il biografo dell'imperatore, Svetonio: di giorno parlava in segreto con la statua di Giove Capitolino, ora sussurrando al suo orecchio e prestandogli, in cambio, il proprio, ora ad alta voce, non senza insultarlo. Una volta lo si sentì infatti minacciare Giove gridandogli "o tu togli di mezzo me, o tolgo io di mezzo te!". La minacciava dottamente, quella statua di Giove, citando un verso di Omero: però la minacciava. Se Caligola rivivesse oggi, litigherebbe continuamente con gli schermi della televisione, e ogni volta che comparisse in trasmissione qualche suo odioso rivale - anche oggi di "divinità" ce ne sono in giro parecchie - gli griderebbe: "togliti di lì!". Finì anzi, Caligola, per sentirsi davvero padrone delle immagini. Di tutte, non solo della propria o di quella che egli considerava praticamente sua, in quanto appartenente a Giove. Un giorno infatti fece abbattere e spezzare le statue degli uomini illustri che Augusto [...] aveva fatto trasportare in Campo Marzio. E per il seguito vietò che si erigessero statue od immagini a persone viventi senza la sua autorizzazione e il suo invito. Bisogna riconoscere che Caligola, nonostante la sua follia, o forse proprio perché era un mitomane, aveva compreso perfettamente l'importanza delle immagini, e quale fosse la loro reale funzione sociale. Meglio averne il meno possibile, in giro, di statue: soprattutto, voleva esser lui a stabilire chi dovesse, o meno, disporre della propria persona in duplicato. Se Caligola rivivesse ai giorni nostri, di sicuro si prenderebbe il controllo assoluto delle reti televisive, e sarebbe assai parco nel distribuire spazi a personaggi diversi da se medesimo. Le immagini accrescono la presenza del referente, vivo o morto che sia, dichiarano una grandezza che evidentemente Caligola sentiva confacente solo a se stesso. Caligola, il signore delle immagini, oggi sarebbe il signore delle televisioni. Poco mancò anzi che dalle biblioteche di Roma sparissero addirittura i ritratti di Virgilio e di Livio. E addirittura, racconta ancora Svetonio, che sparissero anche le opere di questi due grandi scrittori latini. A Caligola non piaceva affatto come scrivevano. Speriamo bene, con i moderni signori dei libri. | << | < | > | >> |Pagina 79Madonne che piangono, però non sudanoNonostante l'innegabile innalzamento dell'istruzione nazionale, con relative statistiche del Censis, in Italia le statue continuano a piangere. Si tratta quasi regolarmente di statue della Madonna, il che si spiega, forse, sulla base del fatto che gli Italiani hanno sempre paura di far piangere la "mamma". Qualche mese fa, in Sicilia, si era messa a piangere (sangue) anche una statua di Padre Pio, ma i carabinieri non hanno avuto difficoltà ad accertare il dolo e a rintracciarne persino l'autore. In Italia piangono solo le Madonne, i santi è meglio che non ci provino. Tutti ricorderanno certamente che di queste Madonne miracolose ce n'è stata una qualche anno fa, a Civitavecchia, la quale piangeva lacrime di sangue e apparteneva a un bidello di scuola. Questa statua ha fatto molto parlare di sé sui giornali e alla televisione, anche perché, per accertare l'autenticità del miracolo, ossia la natura e la qualità del sangue versato dagli occhi della statua, furono scomodati chimici e biologi. Mentre fra i più strenui difensori del pianto della Madonna ci fu anche il vescovo di Civitavecchia, il quale, in un'intervista televisiva, dichiarò che, in attesa del giudizio ufficiale della Chiesa sul miracolo, si era premurato di racchiudere "la Madonnina" in una scatola con la bambagia. Forse temeva che, con tutte quelle analisi, la statuina finisse per scombussolarsi. Nel frattempo, a Civitavecchia ferveva già la costruzione di alcuni nuovi alberghi, i pullman fioccavano e il sindaco si strusciava le mani. Un anno dopo c'è stata poi un'altra statua, ancora della Madonna, la quale si è messa ugualmente a piangere. Questo avveniva vicino a Livorno, in una casa di vacanze nella località di Tirrenia. Vi abitava un'anziana coppia, che riceveva amici/fedeli in un giardinetto antistante il garage. Era lì che la Madonna piangeva, circondata da fiori di plastica e corone di lumini. Stavolta però il vescovo si è ben guardato dall'intervenire. In genere, quando i giornali parlano di queste cose, anche i più illuminati - e sono sempre meno - fanno al massimo il parallelo con le statue piangenti degli anni cinquanta, che erano anch'esse della Madonna e avevano però un'ispirazione spiccatamente democristiana. Volendo, però, nel tempo si può andare anche molto più indietro di cinquant'anni. Dunque si era nel 181 avanti Cristo, e a Roma le cose non andavano bene. La pestilenza infuriava, tanto che non si riusciva neppure a seppellire i morti, mentre nel recinto di Marte e della Concordia pioveva sangue. Come se non bastasse a Lanuvio, sui monti Albani, la statua di Giunone Sospita si era messa a piangere. Per la verità questo simulacro divino doveva avere una certa facilità alla tracimazione corporea, perché risulta che anche un secolo dopo comparvero delle gocce di sangue nella cella della divinità. La Giunone Sospita di Lanuvio era una dea, come dire, un po' di campagna, legata a un culto di fertilità annuale e gelosa custode della verginità delle fanciulle. Assai simile dunque a qualcuna delle nostre madonnine che piangono - e che piangono più o meno nelle stesse zone, oltretutto, perché si tratta sempre del Lazio. Ma cosa dire di Apollo? A Cuma, nel 130 avanti Cristo, una sua statua pianse infatti per ben quattro giorni di fila. E poi c'erano le statue che sudavano. Una del dio Mercurio, che sudò ad Arezzo nel 93 avanti Cristo, un'altra del dio Marte, che fece lo stesso a Roma esattamente quarant'anni dopo. Anche nell'Eneide di Virgilio c'è una statua che suda, il celebre Palladio che rappresentava la dea Atena. Ulisse e Diomede avevano strappato questa statua ai Troiani, ma la dea non ne voleva proprio sapere di stare nel campo greco: il simulacro era addirittura sobbalzato tre volte da terra, i suoi occhi avevano lanciato fiamme e un "sudore salato" aveva invaso le sue membra. I Romani avevano idee sicuramente più laiche, meno bacchettone, riguardo agli umori delle loro divinità. Non si è mai visto, credo, una Madonna che suda, sarebbe considerato sconveniente. Le Madonne possono solo piangere. | << | < | > | >> |Pagina 135Bretelle di sicurezzaIl signor Carlo Cacciari, impiegato milanese, odiava i treni. No, non è esatto. Ammirava i treni, portatori del simbolo del progresso, ma odiava viaggiare sui treni, operazione che gli provocava un vero e proprio terrore. A dire la verità, la cosa era accaduta pochissime volte, perché di treni, in quei primi anni sessanta dell'Ottocento, non se ne vedevano molti. Da quando quello strano inglese, mister Stephenson, aveva inventato la locomotiva a vapore in Inghilterra nel 1825, il mondo era progredito parecchio, ma non così l'Italia. Il re di Napoli, a cui piacevano le tecnologie anche se pochissimo capiva a cosa servivano, era stato un pioniere, costruendo la bellezza di quattordici chilometri fra Napoli e Portici nel 1839, e ne aveva parlato con stupore tutta la penisola. Gli Austriaci avevano creato una bella linea fra Milano e Monza, e questa Cacciari l'aveva davvero provata un paio di volte. Il piemontese, il conte di Cavour, che pensava sul serio al futuro, aveva invece riempito il suo regno di treni e binari: i giornali parlavano di ben ottocento chilometri e trentanove fra locomotive e carrozze. Si diceva anche, tuttavia, che la strada ferrata nascondeva l'intenzione di velocizzare il trasporto delle truppe, e che il treno era il segno delle sue intenzioni di invadere il resto del paese. Voci. Quando si era fatta l'Unità d'Italia si erano mossi tutti a piedi, e se non era per quel santo di Garibaldi non sarebbe successo proprio nulla. Come che sia, ora l'Italia c'era, e qualche treno pure. Ma restava la grandissima paura. Il treno andava veloce, correva sui binari: e se non si fosse fermato? E se si fosse inclinato da un lato? E se quegli arditi ponti di ferro che gli facevano attraversare i fiumi non avessero retto il peso? Lasciando perdere le visioni più pessimistiche, si potevano anche immaginare problemi ugualmente seri. I rallentamenti e le accelerazioni, ad esempio, sballottavano il passeggero da tutte le parti, con gravi rischi per l'incolumità fisica. Le reticelle in alto, per sostenere il bagaglio, potevano lasciarlo cadere sulla testa del viaggiatore fuori posto. E che dire di quel "tu-tum, tu-tum" così ritmico e fastidioso prodotto dalle rotaie, che induceva spesso alla sonnolenza e aumentava i pericoli per il corpo lasciato a peso morto? Il signor Cacciari non si capacitava. Tutti discutevano delle grandi invenzioni del mondo moderno, descritte nelle riviste illustrate più popolari, e presentate in quei luoghi di meraviglia che erano le Esposizioni universali. Lo stesso Cacciari era abbonato al "Giornale dei viaggi e delle avventure di terra e di mare", che gli facevano sognare mondi lontani e forse oggi raggiungibili, e poi all'"Illustrazione italiana", e si teneva informato delle scoperte più recenti leggendo in ufficio il "Bollettino delle privative italiane del Regno d'Italia". In quei giornali si trovavano le cose più mirabolanti, ma quasi nulla sui treni e sull'attrezzatura per il passeggero.
Da lì, la decisione. Con un amico specialista in disegno tecnico si mise a
realizzare qualche oggetto buono per la bisogna, come un bastone per tenere
l'equilibrio se uno avesse dovuto camminare lungo il treno in corsa, che so, per
un bisogno urgente di latrina; oppure un fermaoggetti per le reticelle
portabagagli, con calamita in caso di fuoruscita dalle valigie di materiale
metallico. Ma uno gli sembrò davvero degno di attenzione: le bretelle salvagente
per carrozze ferroviarie. Era l'uovo di Colombo. Si realizzavano due bretelle in
cuoio invece che di stoffa, per evitare strappi, un po' più grosse di quelle
normali e molto più lunghe. Le bretelle erano unite al vertice, e questo andava
collocato e stretto con un nodo scorsoio a una sbarra del porta-reticella sulla
testa del passeggero. Le bretelle, poi, dovevano essere passate sotto le
ascelle: così si era sicuri di non subire spostamenti troppo subitanei. Le mani
rimanevano libere, e si poteva comodamente leggere un libro o una rivista. Ma
non solo: appoggiando i gomiti al loro interno e incrociando le braccia, ci si
poteva perfino appoggiare la testa, e schiacciare un sonnellino.
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