Copertina
Autore Dario Biagi
Titolo Il ribelle gentile
SottotitoloLa vera storia di Piero Manzoni
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2013, Eretica speciale , pag. 152, cop.fle., dim. 15x21x1 cm , Isbn 978-88-6222-366-9
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe arte , critica d'arte , biografie
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Indice


L'astro, la meteora, le ombre                     3

In cerca della ghianda                           14

Disintegratore. Anzi, organicista                26

La vita in bianco                                40

Bohème da gentiluomo                             47

Giochi senza frontiere                           57

Corporale                                        67

Gemelli diversi                                  87

Sul ponte di comando                             94

C'è del genio in Danimarca                      107

La rabbia in scatola                            121

Un sogno borghese                               134


Ringraziamenti                                  149


 

 

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Pagina 3

L'astro, la meteora, le ombre


Manzoni è stato un mio mito giovanile. Un mito lontano, lunare. Come gli eroi di certe favole fantasy che vivono sospesi in una bolla fuori dal tempo. Gli umani li vedono ammiccanti, le loro gesta sono ancora calde, ma in realtà appartengono a un'altra dimensione. Ricordo come fosse ieri un pomeriggio del '73 in cui un giovane docente dell'Università Statale di Milano, Adriano Antolini Altamira, espose a me e ad altre matricole le prodezze di quel giovanotto iconoclasta nella Milano del Boom.

Rammento l'incredulità e poi il senso d'orgoglio che ci pervase all'epifania della Merda d'artista, delle Sculture viventi, della Base magica, dei quadri bianchi, delle Linee, realizzati a un chilometro da dove ci trovavamo, come in un gioco terribilmente serio, un gioco cui assisteva tutt'Europa. Solo molto più tardi, mi resi conto che l'insegnante era a sua volta un artista d'avanguardia che pascolava in territori minimalisti e concettuali e doveva averci trasmesso una delle sue passioni.

Quella storia aderiva perfettamente al cliché romantico del genio; di più, ci appariva un meraviglioso suggello alla mitologia dell' enfant gaté: non solo Piero aveva adempiuto alla missione di sovvertitore, ma era morto prima di compiere trent'anni, come Jimi Hendrix, Jim Morrison, James Dean e altri beniamini degli dei, ad onta di quel suo aspetto pacioso da Buddha. Per questo non avevo sentito il bisogno di approfondire: me la tenevo in tasca come un dogma caro, da non profanare. Anche molti anni dopo, ogniqualvolta m'accadeva di passare davanti al numero 16 di via Fiori Chiari e volgere lo sguardo alla lapide affissa sopra il portone (In questa casa visse, operò e morì Piero Manzoni, artista concettuale), mi limitavo a sospirare sui fantasmi di Brera e sull'eldorado perduto di quegli anni.

Ma quest'anno, per questo 2013 cinquantenario della sua morte, sopraggiunta la notte del 6 febbraio 1963, la curiosità si è messa in moto. Del Manzoni uomo sapevo ben poco; della sua traiettoria di meteora conoscevo le banalità della vulgata e le fanfare del mito. La fama e il prestigio dell'artista non sono stati intaccati dagli anni; si sono anzi consolidati. A una recente asta londinese un suo Achrome, un quadro bianco, è stato aggiudicato per quattro milioni di sterline. Una sua Base magica è stata battuta da Sotheby's, nel 2011, per 289mila euro; una delle famigerate scatolette di merda è stata acquistata nel 2007 per 124mila euro. Di lui si occupa da qualche anno il più potente mercante d'arte del globo, Larry Gagosian, un americano con ascendenze armene, gallerie a New York, Londra e molte altre metropoli del pianeta. Fioccano retrospettive e omaggi; il neodirettore dell'Esposizione Internazionale di Venezia, Massimiliano Gioni, un trentanovenne, ha recentemente dichiarato che il suo sogno è possedere Lo zoccolo del mondo, altrimenti noto come La base del mondo, la più poetica delle invenzioni manzoniane.

Leggenda intatta, se si rimane in superficie, ma, ragionando sul successo di Manzoni, in vita e postumo, mi sono reso conto subito che c'era una stonatura, una nota dissonante assolutamente casalinga: la disattenzione di Milano nei suoi confronti. Per un genio celebrato in tutto il mondo, anche se probabilmente più all'estero che in patria, come da copione, mi sarei aspettato un culto locale, visibile e diffuso, magari un monumento, un certo rilievo nelle guide turistiche, soprattutto una religiosa cura del luogo in cui operò e morì. Magari che fosse riprodotto e messo sotto vetro, come lo studio di Francis Bacon nel museo di Dublino. Troppa grazia, forse.

È vero che Milano gli ha intitolato un vicoletto, mentre a Lucio Fontana nemmeno un giardino, e anche nel luogo apparentemente più consono: lo spiazzo o, meglio, il passaggio fuori dal bar Jamaica (la vera casa di Piero Manzoni), un pertugio che collega via Brera a piazza San Marco e che una volta, nella bella stagione, fungeva da polveroso dehors, una sorta di cortiletto in cui Ugo Mulas, Mario Dondero, Uliano Lucas , Johnny Ricci, Alfa Castaldi, Ennio Vicario, Giulia Niccolai, Carlo Bavagnoli e altri fotografi emergenti dell'epoca si potevano esercitare liberamente a ritrarre l'intellighentia lombarda e il popolo di Brera mischiati in conversazioni sui massimi sistemi, oppure in cazzeggi e partite a scopone. Peccato che il viottolo sia così nascosto che solo gli avventori dei due tavolini esterni possono notare la targa.

Ma lo studio? Anche se Manzoni non era un pittore in senso stretto e tutt'al più spalmava e incollava (vinavil, gesso, caolino, bambagia, lenzuoli e tessuti vari, michette, sassolini e così via), perché a nessuno era venuto in mente di trasformare quei locali in sacrario? Con questa ingenua domanda in testa sono tornato davanti al portone di Fiori Chiari 16. Ho avuto fortuna perché era aperto. Il portinaio mi ha indicato dei finestroni in cortile e accennato ad alcuni passaggi di mano. Prima scoperta: già nel giugno del '63, tre mesi dopo la morte di Piero, l'atelier era stato affittato dal baritono Giuseppe Zecchillo, amico e collezionista di Manzoni. La famiglia sembrava aver fretta, quasi smania, di disfarsene, tanto che non sgomberò nemmeno le ultime tele. Ironia della sorte, il locatore, nonché proprietario di tutto lo stabile, era il conte Giuseppe Panza di Biumo, ovvero il più grande collezionista italiano, e probabilmente mondiale, di dipinti monocromi. Ma quelli di Manzoni non gli interessavano, mi ha confermato suo figlio Alessandro, e quindi non bussò mai alla porta del suo talentuoso inquilino.

Zecchillo, che balzava ogni tanto all'onore delle cronache ambrosiane per le sue battaglie di sindacalista autonomo della Scala, usava lo studio per i suoi esercizi canori e per sfogare qualche velleità artistica. Nel '78, racconta suo figlio Graziano, erede di quei locali ora adibiti a ufficio, rilevò lo spazio: il conte Panza aveva deciso di vendere tutto il palazzo. In quello stesso anno – cadeva il venticinquennale della morte di Piero – fece affiggere a proprie spese la lapide esterna. Dunque non era stata un'iniziativa della famiglia.

Sconcertato, riuscii a recuperare su Internet l'ultimo blog del cantante lirico, deceduto nel 2011: sito, guarda caso, oscurato in questo 2013 fitto di celebrazioni ufficiali. Conteneva parole durissime nei confronti dei congiunti di Piero. Come queste: «Quando subentrai come inquilino nello studio di Piero in via Fiori Chiari 16, studio che poi comprai, vi trovai abbandonati alcuni quadri un po' sporchi; telefonai a casa Manzoni per sapere quando riportarli. Una voce di donna, non quella della signora Valeria, che conoscevo, mi rispose: "Veramente non ci interessano, se le danno fastidio, li butti pure via". Il grande amore dei familiari per Piero Manzoni scoppiò quando il suo nome varcò l'oblio e il mercato cominciò a richiedere le sue opere». Il j'accuse di Zecchillo era ben circostanziato:

Tutti gli amici e i conoscenti di Piero erano al corrente che, per ciò che produceva l'artista, i familiari erano sconcertati, indignati e persino scandalizzati. Si sa che, dopo le scatole di Merda d'artista, Piero fu praticamente emarginato. Sua madre, la signora Valeria — incontratomi in via Fatebenefratelli — mi disse che, se ero veramente amico di Piero, invece di comprargli una "scatoletta", avrei dovuto dissuaderlo dal fare una cosa simile. Era fortemente irritata e concluse che mi avrebbe tolto il saluto. Cosa che fece; solo alcuni anni dopo la morte di Piero, nel 1970, la signora mi venne a trovare nello studio (...) e ci riconciliammo.

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Pagina 7

Appena ho iniziato a rovistare nella vita privata dell'artista in cerca di appigli, mi sono imbattuto in un articolo di Francesca Bonazzoli, critico d'arte del "Corriere della Sera"; ben diverso dai soliti peana. Riportava la testimonianza dell'ultima compagna di Manzoni, Nanda Vigo, artista e designer di fama internazionale, sull'ultima notte dell'amato. Racconto fondamentale perché la Vigo fu colei che lo rinvenne, ormai esanime, nell'atelier e per prima avvisò gli altri, il medico e gli amici più cari. Fin dall'attacco, un pugno nello stomaco: «Piero Manzoni morì a 29 anni, nelle prime ore del mattino del 6 febbraio 1963, a causa di una devastante cirrosi epatica: il collasso cardiaco fu una conseguenza». Dunque Piero sarebbe stato un alcolizzato in rotta con la famiglia.

Naturalmente ho interrogato a lungo Nanda Vigo e altri testimoni che accorsero quella notte in via Fiori Chiari, ma lascerò per ultima la ricostruzione dell'atto finale. Dall'architetto Vigo, che allora aveva ventisette anni e già da due era fidanzata in casa con Piero, ho voluto sapere innanzitutto se davvero Manzoni era stato scaricato dalla famiglia: moralmente, materialmente, umanamente. «Dopo la storia delle scatolette – dalla metà del '61, dunque – la famiglia lo trattava malissimo. Gli buttavano addirittura i quadri fuori di casa, sul pianerottolo. Lo ritenevano uno spostato», attesta Nanda Vigo. «Siccome Piero tornava quasi sempre ubriaco alle sei del mattino, a volte succedeva che Elena, la sorella, nemmeno gli aprisse la porta. Usciva sul balcone urlando: "Albergo! Albergo!". Più volte Luca Scacchi Gracco, l'amico gallerista che per primo lo lanciò all'estero e che in quelle occasioni lo riaccompagnava a casa, gli pagò da dormire in qualche alberghetto di prostitute di via Pontaccio. Altre volte era l'amico di turno, Bubi Jachino, Gualberto Colombo o il tipografo Antonio Maschera, a scortarlo fino in studio. Lui non si lamentava apertamente, ma era molto addolorato per l'atteggiamento dei suoi. Non sapevano niente di quel che faceva, non andavano mai alle sue mostre, gli dicevano giusto "buon giorno" e "buona sera"».

Sempre più spesso, nell'ultimo anno di vita, Piero si rifugiò nell'atelier di Fiori Chiari, affittato al principio del '62. Vi aveva anche installato il telefono. «C'era uno stanzone con due cavalletti e un piccolo scaffale», così lo descrive la fidanzata. «In un'altra stanzetta, un letto a una piazza e mezza con la testiera in legno d'abete. Lui stesso l'aveva disegnato e fatto costruire dal suo falegname. Ci dormivamo spesso. Contro il muro, una vecchia credenza da cucina in cui teneva cataloghi e raccoglitori».

L'ultima notte di Piero fu lunga e movimentata, da vivo e anche da morto. Due medici si avvicendarono nello studio e vi fu un discreto viavai di persone; i familiari giunsero dopo varie ore, perché Nanda, che aveva le chiavi dello studio, aveva avvertito prima un medico e poi alcuni amici. Appresero da loro l'accaduto e ritirarono il certificato di morte. Ma di tutto questo riferirò in dettaglio al termine della ricognizione. Curiosamente la notizia riportata l'indomani dai giornali – due, il "Corriere d'informazione" e "l'Unità" – raccontava un'altra storia: una versione aggiustata, edulcorata, tranquillizzante, come in seguito sarebbe stato tutto il racconto ufficiale della vita di Piero: depurato delle punte più trasgressive e scandalose.

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In cerca della ghianda


Piero cresce nella bambagia come un giovin signore pariniano. Tra grande città e campagna lombarda, vacanze in villa, collegi di preti, scuole esclusive. È figlio primogenito del conte Egisto Manzoni di Chiosca e Poggiolo e di Valeria Meroni, ricca proprietaria terriera cremonese. Il ramo paterno è approdato nel '700 a Lugo di Romagna dalla Val Brembana; quello materno, a Soncino dalla Val Trompia. Il titolo nobiliare è stato conferito ai Manzoni dal Duca di Modena nel 1768. Dei due, la più facoltosa è sicuramente lei, di sei anni più giovane del consorte.

A Milano il conte è tra i soci della Rinaldo Rossi, azienda alimentare che produce grissini molto rinomati e cibi dietetici; a Soncino la famiglia Meroni possiede due terzi dei terreni agricoli e delle cascine, dati in affitto ai contadini della zona, e trae altri proventi dalla grande filanda, ora convertita in museo della seta e centro polivalente, edificata nel 1898 accanto alla Rocca Sforzesca: manifattura che fino al '61, anno della chiusura, ha dato lavoro, per tutto l'anno, a cinquecento operaie. I Meroni hanno anche fondato, nel 1864, la Banca Popolare di Soncino, di cui lo zio materno di Piero, arrivato nel 2013 alla veneranda età di 104 anni, è stato a lungo presidente.

Il conte Egisto viene descritto come un uomo di cultura e un buongustaio, amante dei libri come della buona tavola e delle libagioni copiose: passioni che avranno un peso nella sua morte prematura — nel 1948, a 47 anni — per infarto. A Milano finanzia una libreria antiquaria, Antiquitas, che Piero frequenterà, ancora preadolescente, con avida curiosità.

Dopo le nozze, la coppia si stabilisce in un appartamento in affitto di quattordici locali in via Cernaia 4, a due passi dalla chiesa di San Marco. La contessa, però, vuole dare alla luce l'erede nella sua Soncino, nella villa divisa con il fratello Giuseppe, avvocato e amministratore del patrimonio familiare, e così Piero nasce, il 13 luglio 1933, in un borgo della Pianura padana.

Battezzato con il nome del nonno materno, per quattro anni sarà figlio unico. Poi arriveranno quattro fratelli: Maria Melania nel '37, Elena nel '39, Giacomo nel '40 e Giuseppe nel '46. Piero trascorre l'infanzia a Milano, ma negli anni della guerra sfolla con la famiglia a Soncino. Farà le medie a Lodi nel collegio dei Padri Barnabiti, lo stesso frequentato dagli zii materni. All'esame di licenza se la cava senza infamia né lode: 8 in matematica ed educazione fisica, 7 in italiano, francese e storia, 6 in geografia e latino. «Temperamento indolente e alquanto svogliato», diagnostica il preside del collegio San Francesco. «Ma, dotato di vivace intelligenza, potrà dare buoni risultati in qualsiasi genere di studi, specialmente se si applicherà diligentemente". In effetti Piero è un ragazzino sveglio, allegro, socievole e ingegnoso: attende solo gli stimoli giusti per far erompere la sua intraprendenza. È anche agile e sportivo: ottimo nuotatore, buon ciclista e pure dotato di una buona manualità. La sorella Elena ricorda che nel cortile della villa di Soncino fabbricava aquiloni con le sue mani e che, nelle giornate di vento, riusciva a farli volare altissimi.

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Il principiante adotta i materiali canonici dell'epoca: olio, gesso, catrame, smalto; ma fin dall'esordio introduce uno scarto dalla norma. Nelle due tele con cui debutta, Papillon fox e Domani chi sa, sono impresse sagome di chiavi, un ammicco ai readymade dada. Il giorno dell'inaugurazione, l'11 agosto '56, dall'altra parte dell'Oceano muore Jackson Pollock, altro genio ad alta gradazione alcolica, e Manzoni diverte e scandalizza il pubblico della fiera agricola soncinese. Suscita l'attenzione della stampa e lo scherno di popolino e benpensanti. Il giornale locale parla di «personalissimo stile surrealista», il volgo sghignazza. «Quando hanno visto i suoi quadri, qui ridevano tutti», ricorda il fotografo Gianni Nobilini, memoria storica locale. «E, quando è finita la mostra, glieli hanno mezzo rotti». Accadrà altre volte: è il destino del provocatore.

Due ingredienti della prima fase pittorica manzoniana sono già enucleati. I titoli dal sapore ironico, magico, evocativo, in inglese, latino e italiano – Tenderly, Stomp, Wildflower, Paradoxus Smith, Milano et mitologia, L'invincibile Jean – e le impronte di oggetti comuni sulla tela: forbici, pinze, bottoni, chiavi inglesi, tenaglie, chiodi, forcelle. Poi gli oggetti della vita quotidiana lasceranno il posto a forme biomorfe debitrici a certi moduli di Baj e Crippa, con tracce di Matta, Lam ed Ernst e, infine, ai cosiddetti ominidi od omuncoli. Caricature di extraterrestri ridotti a un pattern infantile, figurine totemiche in cui allora si poteva magari scorgere un omaggio agli alfabeti di Capogrossi e Tobey, mentre a noi posteri sembrano più una spiritosa anticipazione del graffitismo di Haring e Basquiat.

Con Manzoni, comunque, non bisogna mai andare lontano per trovare le fonti di ispirazione: pesca sempre, genialmente, dalla sua vita, dalla vita quotidiana e materiale. Attrezzi che vede maneggiare da fattori e contadini; tela che, per un industriale tessile qual è lui per parte di madre, assurge a medium fatale e quasi feticistico; titoli che riecheggiano quelli dei brani jazz che ascolta in quel periodo. E anche per gli ominidi, che a un certo punto prolificano in famigliole e sembrano precorrere l'avvento dell'i-Pod con un accenno di cuffietta auricolare, sono facilmente individuabili le suggestioni. Piero è un grande lettore di gialli e libri di fantascienza. Non perde un libro della serie Urania, né una puntata del Dottor Quatermass, saga iniziata nel '53. Il suo quadro L'invincibile Jean cita un personaggio d'un romanzo di fantascienza di Pierre Versins del '57, mentre un'opera che crea in coppia con Baj, Arrivo dell'ultracorpo, rimanda esplicitamente al famoso film del '56 L'invasione degli ultracorpi. Il suo è un ironico controcanto alla mitologia dello Sputnik e della conquista spaziale e alla connessa psicosi da Ufo. Ed è pure una sorta di scanzonata autocaricatura: «Gli uomini o amebini o quello che volete vedere nelle sue cose '55-'56, Paradoxus Smith, Papillon Fox, Milano et mitologia», confermerà Sordini, «non erano che degli autoritratti. Veri e propri teatrini con se stesso come primattore...».

Il genio di Manzoni consiste nel ribaltare la propria imperizia pittorica in apertura al nuovo. Nel fare del proprio dilettantismo una forza, la leva per scardinare le regole codificate e andare oltre. È un autodidatta, e lo confessa apertamente. Uno che ha imparato frequentando gli studi di pittori veri come Fontana e Crippa. Altri, Dangelo ad esempio, sono autodidatti e non lo nascondono. Ma solo Manzoni saprà mettere a profitto così radicalmente, e per certi versi spudoratamente, la mancanza di mestiere per inventarsi una propria dimensione.

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Bohème da gentiluomo


Piero comincia a correre per l'Europa, ma il suo palcoscenico rimane Brera, la Montmartre milanese che ha il suo epicentro artistico-intellettuale in un piccolo caffè dai tavolini di marmo a due passi dall'Accademia: il Jamaica. L'ex fiaschetteria di Adelina Mainini, mamma Lina per gli habitués, ha spodestato a fine anni '40 il dirimpettaio bar Titta, complice un improvvido restyling del concorrente. Prima era la Fiaschetteria del Ponte di Brera, il nuovo nome gliel'ha trovato il critico musicale Giulio Confalonieri, suggestionato dalla visione de La taverna della Giamaica, film di Hitchcock con Charles Laughton.

Piero appartiene alla seconda generazione di giamaicani. La prima, quella che l'ha reso grande, «era quella dei Somaré, dei Biondo, dei Dova, dei Chighine e dei Peverelli», inquadra Uliano Lucas. Luciano Bianciardi , che abita sopra il locale, al terzo piano, dividendo una camera ammobiliata con il fotografo Carlone Bavagnoli, lo trasfigura ne La vita agra in un covo di esistenzialisti sfaccendati, "pittori capelluti" e "ragazze coi piedi sporchi": il bar delle Antille. Lucas concede che un cinquanta per cento degli avventori fosse composto da flanellisti; ma «che palestra per la mente», rilancia: «Era luogo di eterna discussione. Tutti potevano partecipare, senza distinzioni e divisioni di età», ricorda. «Se avevi un po' di curiosità e intelligenza, potevi farti raccontare dal surrealismo ai processi di Stalin, dal futurismo a Guttuso, da Pratolini a Nanni Balestrini». «Era l'unico posto veramente caldo in quegli anni», riconosce la compagna di Bianciardi, Maria Jatosti , «che ti accogliesse con affetto».

Ordinando un semplice bianchino, potevi passarci la serata e, alle due del pomeriggio, consumare un minestrone caldo facendo mettere in conto. Cuore burbero ma grande, quello di mamma Lina, al pari delle sorelle Pirovini di via Fiori Chiari. Nella loro latteria come al Jamaica, o da Pino Pomè, all'Oca d'oro, o da Pino alla Parete, tanti artisti squattrinati, pittori, scrittori, scultori, la crema delle arti italiane del Dopoguerra, Manzoni compreso, si sfamano saldando i debiti con quadri e disegni. «Allora frequentare il Jamaica significava esser veramente fuori dalla società borghese», ha affermato il fotografo Alfa Castaldi. Tra palazzi ancora sventrati e ricostruzioni di lusso, la stessa via Brera stava cambiando pelle, resisteva il borgo, incistato tra le vie borghesi Borgonuovo, Solferino e dell'Orso. Un borgo il cui mito fondativo era la Resistenza. «Era quasi un'onta stare a Brera senza aver fatto il partigiano», ironizza Nanda Vigo. Su via Madonnina, via Pontaccio e corso Garibaldi aprivano decine di botteghe artigiane che offrivano di tutto e risolvevano qualunque problema pratico. Laboratori e pensioncine. C'era anche quella fauna umana caratteristica che poteva ispirare Jannacci, Fo e Gaber, come l'orologiaio Viotti, l'Ambrogio con il cane Bill e quel Sigfrido Brambilla, imbianchino omosessuale, da cui Manzoni affittò uno studio, il secondo per lui, alla fine del 1959 in via Fiori Oscuri. «Girava il quartiere in pantaloncini corti. Un Ferragosto dette i numeri», rievoca Lucas. «Spalancò la sua finestra, che dava su piazza San Marco, e si mise a urlare frasi deliranti. Lo rinchiusero al Paolo Pini».

Piero abita a due passi dal borgo e sguazza in quell'atmosfera. Ha fatto propri il mito resistenziale – «Era caustico verso fascisti, pittori che facevano schifezze e letterati che scrivevano cavolate», enumera Nanda Vigo – e una passione letteraria per marginali e derelitti alla Henry Miller, alla Giovanni Testori. Quasi sempre le sue scorribande notturne, che si concludono all'alba, contemplano una visita al Palazzo dell'informazione in piazza Cavour, dove ama intrattenersi con una guardia notturna, o poco più in là, al Gatto nero, dove conversa con i cronisti appena smontati dal lavoro. Uno di loro è Elio Pagliarani, il poeta dei novissimi che apprezza di più. Altra sua tappa prediletta, un night davanti al Dal Verme, la Taverna messicana, pieno di prostitute. «Più erano scalcinate e più gli interessavano», il lapidario commento della Vigo.

Frequenta, con Lucas, Sordini, Colombo, Maschera e il futuro esegeta Vincenzo Agnetti, due storiche passeggiatrici del parco Sempione. Una è soprannominata la corazzata Potemkin per la stazza; un'altra è la francese Jeanette, che ha lavorato per la Legione straniera: «Simpaticissima. Piero stava ore a chiacchierare con lei», precisa Lucas. Una volta scoppia una rissa con alcuni protettori perché Sordini ha beneficiato gratuitamente dei servizi di alcune lucciole.

Curiosamente, anche il nobile Manzoni ha mantenuto l'abitudine di frequentare donne di strada, come tanti suoi coetanei svezzati nelle case di tolleranza, che la legge Merlin sigilla nel '58.

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Pagina 62

Il picco cui accennavo è anche creativo: in mezzo alla sarabanda di corrispondenze, autopromozioni e spedizioni all'estero, Piero riesce a concepire un'altra rivoluzione. Elementare, geniale. Le Linee, grado zero del disegno, capolinea dell'iconico. Due mesi prima, in febbraio, Fontana ha presentato i suoi primi tagli, le Attese, alla galleria del Naviglio. Manzoni replica con l'azzardo più povero, più minimalista, più Zen che l'arte potesse ancora estrarre dal cilindro riduzionista. Traccia con un tampone imbevuto d'inchiostro linee di varia lunghezza su rotoli di carta. Un paradosso sublime: banale e persino rozzo all'apparenza, poetico e metafisico nella sostanza. Perché quelle Linee rappresentano, anzi racchiudono, l'idea di tempo e di infinito. Ne sono la rappresentazione simbolica. Come chiarisce il loro artefice, «la linea si sviluppa solo in lunghezza, corre all'infinito: l'unica dimensione è il tempo». Sono lunghe 19 metri e 93 come 33 o 63 metri (Piero ne creerà 68 il primo anno), fino a un massimo di 7 chilometri e duecento: misure casuali e arbitrarie, certificate dall'artista sull'astuccio di cartone nero che le contiene.

È chiaro che possono essere lunghe più o meno del dichiarato, o non esserci affatto, dentro l'involucro opaco. L'etichetta in cui l'autore ne dichiara natura, misura e data d'esecuzione non fa assolutamente fede. Ma ciò è abbastanza irrilevante: perché sono un concetto. Implicano un atto d'immaginazione da parte del fruitore. Il loro valore artistico e la loro audacia consistono in un'intrinseca, ascetica profondità concettuale. «Manzoni arrotola il tempo e lo chiude in un astuccio», sintetizza Emiliano Dante, tra i più acuti studiosi dell'artista. Lo spiegherà in modo ironicamente didascalico Manzoni stesso a uno sbalordito giornalista danese, l'anno seguente: «Io sperimento quelle cose che sono liberate da ogni limite perché contengono esse stesse il limite. Avendo fatto una linea di questo tipo, è molto importante per me sottolineare il pensiero stesso che sta dietro a questa operazione. Per questo metto la linea in un contenitore e lo sigillo, in modo che la gente sappia che compra una linea, non la forma in cui essa in realtà appare. Non sono linee, ma pensieri, quelli che offro. Io vendo idee, idee con piccole variazioni».

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La rabbia in scatola


Tra il '51 e il '58, il tasso di crescita dell'economia italiana è del 5,5 per cento l'anno, poco meno dei livelli della Cina attuale. Le campagne si spopolano: tre milioni di contadini in meno. L'esodo è dalla campagne verso le città e da Sud a Nord. Scende l'analfabetismo, dal 13 all'8 per cento, mentre aumentano i consumi. Sulle strade circolano, a centinaia di migliaia, le utilitarie Fiat. Nel '55, Valletta ha lanciato la Seicento, nel '57 la Cinquecento. La motorizzazione di massa è favorita dal triplicarsi della rete autostradale.

Nel '57, apre il primo supermercato: a Milano, in viale Regina Giovanna. Il frigorifero è ancora da annoverare tra i beni di lusso (138mila lire per un Rex da 215 litri, mentre lo stipendio medio s'aggira intorno alle 70-100mila), ma i consumi alimentari lievitano a vista d'occhio, specie quelli di carne. Nel '61, per la prima volta, l'incremento dei consumi supera quello dei redditi: è l'affermazione del modello di vita americano, la cosiddetta società dei consumi.

«Il soldo girava in maniera incredibile, s'acquistavano quadri in nero: si doveva investire», contestualizza Uliano Lucas. «Era iniziato il mercato. Ma la città non sopportava la provocazione, non era pronta. Aveva grandi letterati, gente come Vittorini, Arbasino e Montale, ma non c'erano critici all'altezza. In un mondo del genere, per il pittore era importante apparire, frequentare salotti. Se, prima, sposava la professoressa che lo manteneva, ora mirava ad accasarsi con la sciura che lo introduceva nel giro dei salotti buoni. Il quadro era diventato uno status symbol, uno strumento di promozione sociale per i parvenus. Era anche divertente: c'erano pranzi incredibili e belle donne. Ecco, quella società, Piero non l'ha mai frequentata», conclude il fotografo. «Aveva altre storie, batteva altre strade. Viveva in un mondo immaginario tutto suo dentro una città che non poteva capirlo».

Senza queste premesse non potremmo affrontare, né afferrare, le ragioni del gesto più scabroso e mediatico di Manzoni: la merda in scatola, una sorta di frontiera-spartiacque nella sua produzione e nella sua fortuna critica. Perché, se è vero che l'operazione può apparire in un certo senso già scritta, risultando perfettamente in linea con una sequenza logico-concettuale impostata da tempo, non si può non cogliervi il significato letterale della sfida e dell'oltraggio. La merda in lattina è, prima di tutto, un grido di rivolta.

Manzoni procede con logica implacabile: dopo lo stadio dell'arte divorata e metabolizzata, non può che esservi l'arte defecata. È l'ultima traccia di quella vita organica – la vita reale dell'autore – posta al centro della sua riflessione. Del pari, progredendo sull'altro suo grande binario concettuale, quello dell'occultamento dell'oggetto artistico (la linea, ovvero il tempo, nascosta nell'astuccio; il fiato, ovvero l'anima, rinchiusa in un palloncino), può coerentemente proporre le feci in scatola.

Corrispondono al corpo decomposto, spiega Emiliano Dante, ovvero alla più funerea delle reliquie. Meglio ancora, delle metareliquie. Ma in questo caso c'è un salto: una volontà di scandalo esibita, l'infrazione di un tabù, il più dissacrante dei cortocircuiti, anche se l'effetto risultante è più comico, o grottesco, che drammatico. Né l'autore, né il fruitore possono ignorare il significato eversivo dell'equazione merda-arte, la materia più vile mischiata al Sublime. Il fatto stesso che Manzoni scelga il vocabolo più brutale per designare la materia inscatolata denota una volontà di scioccare.

L'artista dichiara testualmente alla stampa: «Un conferenziere famoso aveva detto che l'opera d'arte è materia più sensibilità dell'artista. Ho voluto aprire una polemica». Parole che ricalcano quelle adoperate con Vautier pochi mesi prima: «Se i collezionisti vogliono qualcosa di intimo, qualcosa di veramente personale dell'artista, ecco per loro la merda d'artista».

Parole da cui trapelano risentimento e un atteggiamento di fronda: la reazione a uno smacco personale sublimata in sberleffo al mercato, alla società e a una condizione artistica ormai falsata. Secondo Agostino Bonalumi, un episodio preciso sarebbe all'origine del gesto: «Una sera ci trovammo al Jamaica, alla fine della mostra al Prisma», riferisce. «C'era anche Romano Lorenzin, un collezionista famoso che sosteneva vari giovani ma da noi non voleva nulla. Gli chiedemmo di comprarci qualcosa. Rifiutò. Glielo offrimmo a metà prezzo e lui rifiutò di nuovo. Gratis, rilanciammo; e lui: "Non seccatemi. Non mi interessa". Uscimmo dal locale, lo ricordo come fosse ieri, e restammo a parlare appoggiati al muro. "Questi stronzi di borghesi milanesi"; inveì Piero. "Vogliono la merda. Ma, se è quella che vogliono, gliela faccio"».

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