Copertina
Autore Paolo Biondani
CoautoreMario Gerevini, Vittorio Malagutti
Titolo Capitalismo di rapina
Edizionechiarelettere, Milano, 2007 , pag. 264, cop.fle., dim. 13,7x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6190-023-3
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe economia finanziaria , politica
PrimaPagina


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Indice


Prologo                                                 3

Banda Popolare di Lodi                                  9
L'irresistibile ascesa di Gianpiero Fiorani

Razza predona                                          33
Gnutti e i bresciani: colpo grosso alla Telecom

Il Partito Trasversale degli Affari                    63
Il premier D'Alema e i compagni di Unipol.
Il commercialista Tremonti e il cliente Gnutti

Mattone d'assalto                                      81
Vita e opere di Ricucci e Coppola

Ricucci e l'Italia che conta                          105
La telefonata di Prodi, l'amico di Berlusconi,
l'incontro del 2002 con Fazio

Bankitalia e la favola dei controlli                  117
Il sonno di Fazio
e la lettera-denuncia di una stagista

La lobby delle scalate                                133
Le manovre sotterranee del partito Fiorani

Il grande assalto                                     161
La scalata ad Antonveneta,
le plusvalenze d'oro, il blitz della magistratura

I gemelli del crac                                    199
Tanzi e Cragnotti:
perché Cirio e Parmalat non hanno insegnato niente

Epilogo                                               231
Cinque piccoli eroi.
Ovvero il prezzo dell'onestà

                    DOCUMENTO

L'agenda segreta di Gianpiero Fiorani                 241


 

 

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Pagina 3

Prologo



Abbiamo fatto un sogno. Un sogno minaccioso. Di quelli che sembrano veri. E se le scalate finanziarie del 2005 avessero avuto successo?

Abbiamo visto banchieri e finanzieri e assicuratori con lo champagne in mano. E un codazzo di onorevoli e faccendieri pronti a brindare.

I vincitori hanno ridisegnato la mappa del potere economico. Molti ex nemici hanno accettato di trattare, ridiscutere vecchi progetti e avviare altri affari. I palazzi della politica, a destra come a sinistra, hanno trovato un'intesa con la nuova generazione di padroni del vapore.

Gianpiero Fiorani è l'amministratore delegato del gruppo Banca Popolare Italiana (Bpi)-Antonveneta, istituto di riferimento degli imprenditori del Nordest e della pianura lombarda. La vecchia Popolare di Lodi ha rattoppato i bilanci grazie alla fusione con l'Antonveneta e sta perfezionando nuove acquisizioni. Su consiglio del consulente per l'immagine e il business, Lele Mora, Fiorani punta alla Popolare di Milano e alla Popolare dell'Emilia Romagna.

Giovanni Consorte siede al vertice della Banca Nazionale del Lavoro (Bnl), da cui dipende il gruppo Unipol. Tutto è pronto ormai per l'ultima fase del grande progetto: la fusione con il Monte dei Paschi di Siena (Mps). Il gigante della finanza rossa sta per diventare realtà.

Stefano Ricucci si è conquistato un posto tra i soci che governano il «Corriere della Sera». La sua scalata al gruppo Rcs ha raggiunto l'obiettivo di dividere il fronte dei grandi azionisti e creare un nuovo patto di sindacato con partner industriali francesi. Sergio Billè ha lasciato la Confcommercio tra la commozione generale ed è entrato in società con Ricucci. Si candiderà in Parlamento per un partito di centro: ha solo l'imbarazzo della scelta.

Danilo Coppola è consigliere d'amministrazione di Unipol-Bnl-Mps e componente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca. Il suo barbiere ha aperto una filiale in via Montenapoleone.

Emilio Gnutti è vicepresidente di Bpi-Antonveneta e influente consigliere di Unipol-Bnl-Mps. Ha investito tutti i ricavi delle scalate del 2005 nelle Generali e i suoi alleati bresciani ne hanno seguito l'esempio. Si dice che sia già pronto, ben spalleggiato, a dare l'assalto al gruppo di Trieste.

Antonio Fazio è stato eletto presidente della Repubblica. Sul nome dell'ex governatore della Banca d'Italia è confluito un ampio consenso bipartisan: da destra a sinistra tutte le dichiarazioni di voto hanno ricordato gli illustri precedenti di Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi. Dopo l'ultima crisi di governo, Fazio ha affidato la guida del nuovo esecutivo tecnico a Francesco Frasca, ex capo della Vigilanza di Bankitalia.

Con la riforma dei reati fallimentari, approvata da una maggioranza trasversale, Sergio Cragnotti ha ottenuto la «prescrizione brevissima» nel processo per il crac della Cirio ed è rientrato nell'industria alimentare ricomprandosi il gruppo Del Monte. Primo azionista della Lazio attraverso la società Cylinder delle Antille olandesi, è in corsa per la presidenza della Lega Calcio.

Calisto Tanzi si è stabilito in Sud America, dove ha fondato una società chiamata Bon-Lat che ha scalzato la Parmalat di Enrico Bondi nella distribuzione di latte a lunga conservazione. La holding di controllo, denominata New PLT, ha sede nelle Isole Cayman.

Sveglia. Era un incubo. Non è andata così. Ma ci è mancato un pelo. Sappiamo come è finita. Quanto sappiamo, però? Poco, una grattatina alla superficie.

Molti fatti, personaggi e retroscena di quella spumeggiante stagione non sono mai stati raccontati. Cerchiamo di farlo qui, scavando nel passato, seguendo il flusso del denaro nero. Piccole storie di grandi uomini e grandi storie di piccoli uomini; vicende di sfrenata avidità; imbarazzanti contiguità con Bankitalia; coperture politiche ben più diffuse, a destra come a sinistra, di quanto già non si sappia. Trame, persone, fatti e documenti. Molti documenti riservati, inediti e, riteniamo, straordinariamente eloquenti.

Vogliamo capire come in dieci anni sia potuta crescere e prosperare indisturbata, anzi riverita, una categoria di manager e finanzieri legati tra loro da un intreccio indissolubile di relazioni d'affari private e pubbliche. Una sorta di patto di sangue. Praticamente una «famiglia».

Vogliamo scoprire di quali appoggi e complicità godessero. Ma non ci domanderemo il perché dei mancati controlli, non ci chiederemo, in altre parole, come mai la Popolare di Lodi, il vero motore, la grande cassaforte di questa galassia, abbia potuto svilupparsi senza freni nonostante bilanci drogati, enormi buchi patrimoniali, continue ruberie dei suoi massimi dirigenti. Non ce lo chiederemo per il semplice fatto che dimostreremo al di là di ogni ragionevole dubbio le colpe e le omissioni della Banca d'Italia e dei suoi ispettori (non solo il governatore Antonio Fazio, quindi) nonché l'evidente inutilità delle società di revisione e dei professori del collegio sindacale, pagati dagli azionisti per vigilare sui conti e sulla gestione della banca.

Daremo conto di una testimonianza risolutiva, spiazzante e ingenuamente feroce nel denudare la prosopopea dei professionisti della finanza. Ne anticipiamo qui i contenuti, come per fare stretching prima di entrare in partita.

È una lettera scritta al «Corriere della Sera» il 22 gennaio 2003 da una neolaureata di venticinque anni, di cui manteniamo riservato il nome. Era appena uscita da un periodo di stage e di lavoro alla Banca Popolare di Lodi. La lettera, in origine anonima, recapitata per posta pochi giorni dopo (c'è il timbro), è rimasta per anni malauguratamente intonsa, sepolta tra le carte d'archivio. Il perché lo spiegheremo più avanti.

Quando la neodottoressa in economia si mette al computer, mancano oltre due anni alle inchieste giudiziarie, alla scoperta dei buchi in bilancio e all'emergere delle scandalose pratiche che ruotano intorno al pianeta Lodi e, in particolare, alla direzione finanza. I fatti di cui parla si riferiscono al triennio 2000-2003. Allora a fare scandalo era la banca bresciana Bipop.

«Oggi – scrive la stagista – mi sono convinta dell'opportunità che io faccia conoscere anche ad altri le cose di cui sono venuta a conoscenza.» Basta, insomma, con «il far finta di nulla, questa deleteria e oramai radicata abitudine del popolo italiano [...]. Vorrei dire che quanto accaduto a Bipop, fra poco si presenterà con maggiore virulenza anche per la Popolare di Lodi». In poche righe la stagista descrive concretamente il malaffare all'interno della banca, facendo sembrare una barzelletta le ispezioni della Banca d'Italia e i controlli dei revisori e dei sindaci: «La cosa che più mi ha sconcertata è l'utilizzo scellerato che la banca fa dei nuovi strumenti finanziari [...]. Il capo della direzione finanza, Gianfranco Boni, è la vera mente di tutti questi giochetti e utilizza i fidi scudieri per compiere le sue malefatte [...]. Boni è in frequente contatto con tutta una serie di broker di Lugano, corrotti ben vestiti che non hanno alcuna conoscenza finanziaria se non la capacità di fregare».

La giovane apprendista spiega le modalità con cui si crea il «nero» ai danni della banca e a favore di pochi eletti. Era in vigore, scrive, «un simpatico meccanismo: se la transazione va bene, cioè vi è un guadagno, tutti gli utili rimangono sul conto» della controparte complice, che «procede poi a effettuare i trasferimenti al buon Boni; se va male, le perdite vengono addossate alla banca. Semplice ed efficace».

Siamo nel 2003, ricordiamolo. Questa ragazza vede brillare la stella di Fiorani, banchiere in grande ascesa, portato in palmo di mano dalla Banca d'Italia, dai politici e perfino dai vescovi. E contemporaneamente vede il marcio che c'è sotto. «Tutto il gioco è ben orchestrato e presuppone il coinvolgimento di non poche persone, soprattutto quelle deputate al controllo.» Proprio mentre la giovane neolaureata si stropicciava gli occhi per ciò che vedeva, una squadra di ispettori della Banca d'Italia, cui poi Fiorani invierà gentili e ricchi omaggi natalizi, moglie del capo ispettore compresa, stava passando al setaccio, per modo di dire, la Popolare.

«Alla fine gli unici che ci rimetteranno saranno i piccoli risparmiatori [...]. Quanto detto è solo il coperchio di un intreccio intricato [...]. Ci sono persone che sanno ma fanno finta di nulla [...]. E poi, come mai è fermo il fascicolo aperto dalla Procura di Lodi? Cosa fanno? Scaldano la carta? O sperano che le persone si dimentichino? [...] Alla fine a rimetterci siamo tutti [...] perché vi è una gestione da disonesti di un'azienda che potrebbe produrre valore per il paese [...]. Vorrei che la mia lettera fosse l'inizio di un qualcosa, vorrei avere la sensazione di vivere in un paese dove non è vero che sono sempre i più furbi che hanno la meglio.»

Fiorani non avrebbe mai scalato l'Antonveneta, Ricucci non avrebbe mai trovato i soldi per dare l'assalto al «Corriere», Gnutti e i bresciani non avrebbero tanto prosperato, l'Unipol non avrebbe potuto tentare la conquista della Bnl, l'estate delle intercettazioni non ci sarebbe stata e noi non avremmo scritto questo libro, se al posto di Fazio o del revisore o del presidente del collegio sindacale ci fosse stata quella stagista di venticinque anni. Che non solo aveva capito tutto ma era addirittura convinta che rubare fosse un reato. Anche se lo si fa con la cravatta, con l'autista che aspetta sotto l'ufficio e con le sofisticate alchimie dell'alta finanza. Questa lettera non lascia scampo.

C'è molto da raccontare, prima. Partendo da Lodi e arrivando a Roma, via Brescia e Bologna. E lo facciamo nel momento in cui il tempo posa una patina di indulgenza sui fatti e sui protagonisti di quella patologica stagione e mentre la prescrizione giudiziaria che estingue i reati non è più solo una possibilità ma una probabilità. «Basta con il far finta di nulla, questa deleteria e ormai radicata abitudine del popolo italiano.»

Ma dov'era Fiorani quando la ragazza scriveva la sua lettera indignata? Silenzio. Lo spettacolo sta per cominciare.

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Bankitalia e la favola dei controlli
Il sonno di Fazio
e la lettera-denuncia di una stagista



Addio alla lira, Fazio in campo

Lodi, per le vie del centro, febbraio 2002. Al termine del Forex, la riunione annuale degli operatori finanziari in titoli, un terzetto accompagna il governatore in una passeggiata: Cesare Geronzi, presidente della Banca di Roma che ha appena ricevuto la benedizione di Fazio a rilevare la Bipop, Fiorani e, a sorpresa in quel piccolo consesso di banchieri, il finanziere bresciano Emilio Gnutti, carico di liquidità dopo l'uscita da Telecom.

Modena, passeggiata a conclusione del Forex 2005. I commissari Ue alla concorrenza e al mercato interno hanno appena chiesto a Fazio chiarimenti su presunte barriere alle banche straniere in Italia. Risposta: non è vero, anzi il mercato italiano è il più aperto. Poi s'incammina, con il sigaro fumante, scortato da Fiorani e Gnutti. Con Geronzi è calato il grande freddo.

Interno di casa Fazio, inverno 2005. Sala da pranzo, tavolo apparecchiato, la signora Cristina che fa avanti e indietro dalla cucina. Capotavola il governatore, alla sua destra gli onorevoli Grillo e Tarolli. E poi Fiorani, il pupillo. Gli appuntamenti si ripetono quasi ogni settimana e a organizzarli è la moglie di Fazio, Cristina Rosati, scatenata fan di Fiorani. Figli e figlie ogni tanto fanno capolino. Il primogenito, Giovanni Fazio, ha anch'egli un feeling particolare con il manager lodigiano che è un uomo affabile, estroverso e non ha l'atteggiamento borioso di tanti colleghi.

L'argomento è il disegno di legge sul risparmio. «Io, Grillo e Tarolli – racconterà Fiorani – parlavamo di quanto era stato da ciascuno rispettivamente fatto per conquistare consensi.» In sostanza i «dirigenti» del partito «fazista» lavoravano nel sottobosco parlamentare, si infilavano negli iter procedurali, si incuneavano nel labirinto degli emendamenti, vigilavano sull'obbedienza degli «iscritti» e periodicamente facevano il punto con il capo. A casa sua, a tavola.

Sembra un secolo, ma è appena ieri. Sono fotogrammi di un film di serie B cominciato con il funerale della lira. Sarà una semplificazione schematica, ma lo spartiacque sembra proprio questo. È una coincidenza ma anche un dato di fatto che, chiusa l'epoca della vecchia valuta, gli scandali finanziari (Bipop, Banca Popolare di Lodi) e i grandi crac (Cirio, Parmalat), alcuni dei quali, tuttavia, hanno radici lontane, si siano susseguiti con una frequenza impressionante.

Fazio, ottavo governatore (1993-2005), l'unico costretto alle dimissioni, è l'ultimo a firmare le banconote italiane. Durante il suo mandato, Bankitalia, come le «sorelle europee», è svuotata di una parte consistente dei suoi poteri che vengono trasferiti alla Banca centrale europea (Bce). Fazio ha grandi e indiscutibili meriti nell'aver pilotato l'ingresso dell'Italia nell'euro con il governo Prodi-Ciampi, pur essendo un euroscettico (ma non antieuropeista). La stabilità valutaria, che era una delle condizioni essenziali, l'ha assicurata e difesa con mano ferma. Le riforme strutturali sono un altro dei suoi cavalli di battaglia. Aveva la vista lunga e su questi temi per anni, con scontrosa indipendenza, ha incalzato i governi che si passavano il testimone. Così come ha messo il guinzaglio all'inflazione calibrando saggiamente gli interventi di politica monetaria. Si è scontrato con gli industriali, oggetto di critiche pungenti per i loro arroccamenti dinastici, la scarsa propensione all'innovazione, la visione corta sulle privatizzazioni.

Ma a un certo punto, sul finire degli anni novanta, comincia un'altra storia. E quel punto sembra essere proprio l'addio alla lira, cioè l'amputazione delle prerogative di Bankitalia. Il governatore s'aggrappa al potere, comunque enorme, che gli resta e non lo gestisce più da arbitro, da garante delle regole. Non sta in tribuna, nemmeno in panchina, entra in campo, si mette in mezzo a fare il regista e guai a non passargli la palla.

Comincia nella primavera del 1999 bloccando le Opa lanciate da Unicredit su Comit e da Sanpaolo Imi sulla Banca di Roma. Non le boccia, formalmente, le fa cadere per mancanza di autorizzazione. Perché, se non ci sono gli «aggressori stranieri»? Il motivo è che i consigli di amministrazione delle banche bersaglio hanno respinto al mittente le offerte. E alla Banca di Roma il presidente è Geronzi, molto vicino a Fazio. La concorrenza ostile, che è il sale di un mercato sano e aperto, non è contemplata nel recinto del credito. Da notare che poi la Comit sarà assorbita da Banca Intesa e questa si fonderà con Sanpaolo Imi mentre Capitalia-Banca di Roma entrerà nel gruppo Unicredit.

Fazio blocca le offerte bancarie perché sono ostili, ma proprio in quelle settimane della primavera 1999 parte la più grande offerta ostile che sia mai stata lanciata sui mercati europei: l'Opa di Colaninno e Gnutti sulla Telecom. Poi il governatore irrompe anche nella Mediobanca del dopo Cuccia, quando insieme a Geronzi, secondo autorevoli ricostruzioni, decide di silurare Vincenzo Maranghi (deceduto nel 2007) per la sua apertura a Vincent Bolloré e ai francesi che sono entrati nel capitale.

Voci critiche? Nessuna. Fazio sembra come il papa, infallibile. E se è vero che ciò è dovuto anche al rispetto per l'istituzione che il governatore incarna, il risultato è che comunque i banchieri sembrano tanti soldatini affetti da una specie di sindrome di Stoccolma. E con Fazio, le Considerazioni Finali, l'appuntamento istituzionale del 31 maggio alla Banca d'Italia, sono al tempo stesso uno stimolante momento di riflessione sullo stato dell'economia e un gran circo dell'adulazione.


Bipop, la buccia di banana

La parabola della banca Bipop di Brescia, il fenomeno borsistico di fine millennio, è la prima buccia di banana. Fazio esercita brutalmente il suo potere, senza nemmeno salvare le apparenze, come nessun predecessore aveva fatto. Indica, anzi ordina che sia Geronzi il cavaliere bianco per i bresciani.

Bipop non è la storia di un crac, è la vicenda di una malagestione in cui Bankitalia è stata troppo assente prima e troppo presente dopo. Non ha saputo arginare la grandeur di Bruno Sonzogni, un manager abile e innovativo ma accentratore. Bipop aveva un'anima bancaria e un'anima finanziaria, aveva gli sportelli e aveva internet, i titoli esplodevano in Borsa ed erano la passione dei piccoli investitori. Era in perfetta sintonia, anche nelle acquisizioni, con le follie della new economy. Ma non era Tiscali, era una banca e in quei quattro anni pazzi che vanno dal 1998 al 2001 la Vigilanza di Palazzo Koch non si è mai vista. Solo a ottobre 2001, quando scoppia lo scandalo, arrivano gli ispettori. Uno di loro, il capo, Domenico Caccavo, si insedia alla scrivania del presidente di Bipop, Giacomo Franceschetti. Ma il telefono dell'ufficio è sotto controllo. Caccavo è intercettato dai magistrati bresciani che indagano sulla gestione della banca.

«Io me ne voglio andare» sbotta sconsolato l'8 febbraio 2002 parlando con un certo Peppe, suo collega ispettore. «Io sono una persona molto chiara con chiunque, non ho paura a dire delle cose, siccome io ho capito benissimo che le stronzate fatte dalla Banca d'Italia ci mettevano in una condizione...» Qui la telefonata diventa incomprensibile. Ma poco dopo Caccavo aggiunge: «La mia disgrazia è che queste cose in ispezione non c'è una testa di cazzo che le ha viste». A cosa si riferisce? Cinque anni prima, nel 1997, al termine dei controlli, la Vigilanza di Bankitalia aveva stilato un verbale durissimo contro la gestione di Bipop sottolineando la necessità di tenere monitorata l'attività dell'istituto.

Monitoraggio, ecco una parolina chiave: dopo le ispezioni, quando emergono problemi, scatta il monitoraggio. Alla Bipop, evidentemente, il meccanismo non ha funzionato. Peggio: l'esperienza non è servita per adeguare la procedura, per esempio, al caso della Popolare di Lodi, ispezionata nel 2001.

L'ispettore Caccavo a un certo punto butta lì a Peppe, tra molte parole incomprensibili, una frase confusa ma inquietante: «Mentre se vado a lavorare io con Fiorani per avventura [...] se io posso fare con Fiorani come ha fatto a suo tempo [...] a cui io faccio cosa, non te la faccio, dammi due miliardi e me ne vado». A Lodi, si sa, hanno pescato a piene mani dagli organici di Bankitalia.

«L'unica differenza tra me e te – borbotta sconsolato il funzionario – è che forse tu hai una speranza che la Banca d'Italia migliori nel tempo che ti resta da lavorare. Io non ne ho nessuna.»

Potrebbe essere lo sfogo qualunque di un dipendente qualunque di una qualunque azienda, se non fosse che è un capoispettore che si sta occupando di un caso (Bipop) particolarmente spinoso e se non fosse che le vicende successive gli daranno drammaticamente ragione.

Bipop mette a nudo la burocratica lentezza della Banca d'Italia, l'incapacità di uscire dagli schemi standardizzati delle comunicazioni documentali, la rigidità procedurale. L'ispezione parte sull'ottobre 2001 quando sui giornali la Bipop è già uno scandalo, con i suoi clienti privilegiati, gli azionisti sull'orlo del crac, consiglieri e manager sotto inchiesta, perdite nel bilancio.

Si diceva, dunque, di Fazio il regista che si mette in mezzo al campo e indica a Bipop la strada: Banca di Roma. Banca di Roma? A Brescia lì per lì pensano a uno scherzo, visto che sì, Bipop va sistemata e vanno cacciati i vecchi manager, ma la banca romana sono decenni che va sistemata, ha un portafoglio crediti quantomeno problematico e un livello di copertura delle sofferenze che mette paura. E poi è arcinoto nell'ambiente che diversi istituti, ben più solidi, sarebbero disposti a trattare Bipop. Ma la regola non scritta è che non bisogna disturbare il manovratore, soprattutto quando ha già deciso dove andare. Obiettargli che forse c'è un'altra strada non è consigliabile.

Così, nel silenzio totale dei banchieri, che solo in privato usano toni scandalizzati, Geronzi si prende la Bipop che alla firma, nell'estate 2002, arriva con un bilancio che sconta le perdite della precedente gestione. Nella banca romana un'analoga pulizia sui bilanci sarà fatta solo l'anno successivo. Diversi soci Bipop decideranno di far causa e di chiedere una revisione del prezzo.

È troppo smaccatamente dirigista la scelta di Bankitalia per non attirare, in quella primavera 2002, le critiche di un uomo pacato, democristiano nel sangue, come Mino Martinazzoli, bresciano, contrario fin dall'inizio a Banca di Roma. Era stato uno dei principali sponsor politici, nel 1993, della nomina di Fazio al vertice di via Nazionale: «C'è evidentemente un problema – afferma l'ultimo segretario della Dc – che riguarda le funzioni della Banca d'Italia. Qualche volta non c'è grande tempestività negli interventi di vigilanza. Mentre c'è un coinvolgimento nella risoluzione delle crisi bancarie che dovrebbe invece essere condotta salvaguardando l'imparzialità dell'istituto. Considero criticamente la circostanza che la Banca d'Italia nel caso Bipop abbia esplicitamente sponsorizzato la Banca di Roma».

Il malumore nei confronti del governatore è crescente e il mantovano Bruno Tabacci, anch'egli ex Dc, uno dei parlamentari più seri e preparati, presenta proprio in quelle settimane una proposta di legge per ridimensionare i poteri di Bankitalia.

Il seme Bipop ma anche la manovra sugli assetti di Mediobanca, ha generato la pianta del partito «antifazista» che poi avrà in Tremonti il suo animatore. Con Parmalat e Cirio sta per esplodere lo scandalo delle obbligazioni scaricate sui risparmiatori. Sarà uno scoglio durissimo da superare. Ma quel che è peggio, Fazio sta infilandosi in un vicolo cieco di complicità e collusioni con quel mondo emergente di finanzieri, banchieri, immobiliaristi, faccendieri, che conosciamo e che si muovono pericolosamente ai confini della legge. Lo sa? Se ne rende conto? E la struttura di Bankitalia ha presente chi sono gli interlocutori del governatore? Ha il quadro degli istituti di credito che forniscono il carburante ai «rambo» delle scalate, per le acquisizioni e per i blitz borsistici?

Bipop è una barzelletta rispetto alla folle corsa della Popolare di Lodi e alle truffe dei suoi dirigenti. E sulle colpevoli negligenze della Banca d'Italia, parlano fatti e documenti. Antonveneta (con Bnl e Rcs) è solo il capitolo finale dove convergono, come attratti da una calamita, molti protagonisti di questo libro e della finanza predatoria anni Duemila.

Apriamo, allora, il capitolo dei ciechi, dei sordomuti e degli ignoranti. Veri e presunti. Cioè chi è pagato per vedere, sentire e capire.


Ispezioni e distrazioni: Fazio dorme, Fiorani prospera

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