Autore Bergsveinn Birgisson
Titolo La fonte della vita
EdizioneIperborea, Milano, 2021, n. 328 , pag. 320, cop.fle., dim. 10x20x2,5 cm , Isbn 978-88-7091-628-7
OriginaleLifandilífslækur
EdizioneBjartur, Reykjavík, 2018
TraduttoreSilvia Cosimini
LettoreMargherita Cena, 2021
Classe narrativa islandese












 

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Pagina 7

Capitolo I


In quel tempo la vita della nazione islandese era appesa a un filo. Intorno al giorno di san Giovanni nell'anno del Signore 1783, la crosta terrestre si spaccò nei pressi dello Skaftárjökull, a ovest del grande ghiacciaio Vatnajökull, e una massa di lava incandescente investì gli insediamenti circostanti; dalla fenditura infuocata eruppero scariche di pomice e cenere che oscurarono il sole. Fiamme ardenti zampillarono verso il cielo, e si racconta che il fuoco si distinguesse da una distanza di sei o sette giorni di cammino,- nonostante l'aria fosse avvolta in una densa caligine. E a causa delle emissioni di cenere che si produssero durante tali sconvolgimenti, nella lingua di tutti i giorni questo periodo di calamità fu chiamato móðuharðindi, «foschi patimenti». Un'altra caratteristica di quelle eruzioni fu la loro durata senza precedenti, poiché la terra continuò per quasi un anno intero a sputare fuoco e cenere, tanto che molti credettero, col passare del tempo, che il fuoco non si sarebbe mai spento.

[...]

La cosa più tragica fu che mentre la miseria generale conseguente ai disastri naturali colpiva per lo più indigenti e fannulloni, vecchi decrepiti, feccia emarginata e sudicia, dissoluti e ammalati, consumatori di carne di cavallo, infingardi e vagabondi - ci pensò la pestilenza a uccidere i migliori, gente nel fiore della giovinezza, persone robuste che avevano sopportato le peggiori privazioni.

Ogni forma di vita era impossibile.

Vivere, non era possibile.

Delle condizioni della nostra piccola nazione si venne a sapere ovunque e se ne parlò in molti altri paesi, poiché tutti sperimentarono la nera nube di cenere che si depose sull'emisfero settentrionale, dalla Siberia all'Alaska e a sud fino in Italia, dove l'uva non riusciva a raggiungere la piena maturazione a causa del freddo; per non parlare della scarsità dei raccolti nelle regioni settentrionali del continente europeo, che alcuni sostengono abbia contribuito alle grandi rivoluzioni.

Il naturalista George-Louis Leclerc , conte de Buffon, riferì nella sua Histoire naturelle delle tribolazioni degli islandesi, dei sospiri opprimenti dell'Hekla, dei terremoti e dei miasmi velenosi dei vulcani, e pure Voltaire nei suoi scritti citò i patimenti degli islandesi. I loro testi giunsero fino all'italiano Leopardi , il poeta del dolore. Nelle sue Operette morali Leopardi rappresentò la natura come una gigantessa di pietra, spietata e indifferente. La natura afferma che non le importerebbe di annientare l'intero genere umano, nemmeno se ne accorgerebbe; si occupa di tutt'altro, e non del benessere degli uomini. E con ciò pare che si principi a cancellare dai cieli il buon Padre che finora si era interessato ai nostri travagli - ma basta così.

Nel testo di Leopardi questa fredda natura dialoga con un islandese. Quel «povero islandese» che va «fuggendo la natura» diventa il portavoce del poeta e, se ne dobbiamo dedurre che la vita è futile e la natura in generale spietata, lo è «più che altrove» in Islanda; e su ciò il filosofo poté fondare il suo giudizio nei confronti della vita, con i recenti esempi dei disastri avvenuti nella nostra piccola isola. Non bisogna pensare che con le sue satire Leopardi intendesse prendersi gioco delle sorti umane. In seguito, molti rispettabili letterati e filosofi convennero che Leopardi esprimesse soprattutto compassione nei confronti del destino degli uomini, e benché nell'esempio citato si percepisca questo atteggiamento rivolto all'intero genere umano, non si può assolutamente negare che, almeno in quel caso, la compassione sia rivolta principalmente a noi islandesi; talché possiamo affermare che i disastri naturali della nostra piccola nazione stimolarono speculazioni filosofiche che ben ne superarono i confini, destando una certa partecipazione.


***



La gente non sapeva decidersi se dietro a questi fenomeni ci fosse Iddio o il Diavolo, o se si trattasse di una loro mutua cooperazione; un po' come se il primo avesse deciso di strappare il velo della pietà per la cattiva condotta degli uomini, dando all'altro, al contempo, la possibilità di scatenare i propri appetiti. Eppure, c'era anche chi diceva che dietro tali disastri non ci fosse né l'uno né l'altro - c'era chi scriveva che le chiese volate via nel vento o sepolte dal magma erano «inutili» e non andavano rimpiante. Erano gli uomini dei tempi nuovi, che passavano come un vento fresco sulla nostra parte di mondo, era l'uomo nuovo, che voleva vincere la natura con le maniere forti delle scienze, domarla con il suo ingegno e la sua capacità di comprendere le leggi del grande ingranaggio del Signore. Tutto si poteva misurare, comprendere e scomporre in categorie opportunamente create, e quando ogni cosa era stata assegnata al posto giusto, come aveva insegnato il grande scienziato rivoluzionario Descartes , il compito delle scienze era di sondare la natura della cosa in sé e per sé, e non in relazione ad altro, perché l'antica dottrina della signatura rerum era ormai considerata un obsoleto abbaglio clericale - buono ormai solo per chi cercava il disegno del Signore néll'opera della creazione senza comprenderne le leggi, e preparava cure per l'emicrania con le noci in virtù della loro somiglianza con il cervello umano. Non si doveva credere in niente senza averne delle prove empiriche, bisognava dubitare di tutte le antiche idee che erano state accolte senza un pensiero critico. L'uomo nuovo pensava; chi non pensava o non dubitava, in un certo senso non esisteva.

Un abbaglio clericale, storie clericali, metafore clericali ed errori papisti erano tutti termini che si sentivano spesso sulle labbra dell'uomo nuovo, che bollava le antiche forme di pensiero come fanfaluche alchemiche, insensate signaturae o frottole astrologiche, avvolte nelle tenebre della superstizione e della stregoneria. Finalmente le scienze erano mature e andavano tenute alla larga da ogni superstizione - sì, da ogni credenza. Le scienze non dovevano occuparsi di ciò in cui gli uomini credevano, ma piuttosto fondarsi su misurazioni e indagini strumentali, per cui ogni ipotesi doveva essere dimostrata con esperimenti scientifici illuminati dalla luce radiosa della scienza. E questo spirito doveva mirare a ciò che era vero e bello, innalzare la nobiltà dell'uomo a un livello più alto e renderlo artefice del proprio destino.

Nonostante tra le nubi si potessero ancora distinguere i contorni di un Dio con la parrucca inargentata, come una sorta di supremo maestro delle scienze nonché sommo fattore, tale immagine stava svanendo in fretta; l'Onnipotente partecipava sempre meno agli scompigli terreni, secondo l'uomo nuovo.

Gli uomini nuovi affermavano: «Non c'è né Iddio né il demonio dietro a tutto ciò, solo i cataclismi di una natura cieca!» I vulcanisti sostenevano che la terra si era squarciata come per una tensione interna, e il suo furore lavico si era riversato all'esterno come fa il sangue da un'abrasione profonda; sotto c'era un gran pozzo di magma incandescente. Sull'Hekla non v'era la bocca dell'inferno, ma solo un varco verso il fuoco che arde al di sotto e che affiora dagli eczemi della crosta terrestre. Era la sua natura, erano le sue leggi; le sue forze cieche non avevano alcuna considerazione per la persona umana. Altrimenti come spiegare che la Chiesa di Nostra Signora a Copenaghen era andata in cenere, mentre il bordello accanto era rimasto in piedi? Povertà e miseria erano da imputare soltanto all'uomo, i disastri naturali erano colpa della natura cieca. Dio non aveva niente a che fare con certe faccende.

Erano in pochi a credere a tali affermazioni, e se vi credevano, non era mai per più di una frazione del giorno.

Ma alcuni di questi uomini nuovi ebbero modo di constatare che le radici della natura umana sprofondano in un passato di tenebre e spettri, e non si poteva estirparle tutto d'un colpo, o forse mai.

Ma dov'ero rimasto?

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Capitolo III


Fu nei giorni dei «foschi patimenti» che spuntò di nuovo la vecchia proposta di far evacuare la popolazione dall'Islanda. L'idea si può rintracciare già all'inizio del secolo, quando era rivolta agli sfaccendati e ai vagabondi che si diffondevano come la peste tra le persone sane. Il giudice Gottrup voleva inviarli nelle Indie Occidentali, liberandosi in questo modo di quattromila sfaticati, ma alla fine non se ne fece nulla. Jón Sveinsson, il magistrato del distretto di Suður-Múli, rispolverò l'idea perché voleva liberarsi di svariate centinaia di accattoni e di indigenti che angustiavano la gente onesta. Poi il progetto prese forma, come abbiamo spiegato, nella Reale camera delle Finanze, proposto con foga dallo stimatissimo cancelliere Levetzow. Un certo numero di islandesi sarebbe stato trasferito nel Finnmark, in Norvegia, una parte nello Jutlahd, la maggior parte a Copenaghen. Nelle prime lettere si trattava di alcune centinaia di persone, quelle nelle condizioni peggiori, ma negli ultimi documenti erano diventate migliaia, e poi, infine, si parlò di ventimila persone abili al lavoro, cifra che all'epoca comprendeva praticamente quasi tutti coloro che erano in grado di viaggiare. Skúli Magnússon scrisse una durissima relazione contro l'idea del trasferimento, che Jón Eiríksson corredò di note a margine. Vi si dice, tra l'altro: «Riguardo alla proposta di sottrarre alle campagne i giovani utili e abili al lavoro, non solo ciò raddoppierebbe il danno arrecato, ma completerebbe per giunta la distruzione del paese.»

All'epoca, secondo i documenti storici, gli islandesi erano solo 38.667, perché tra il 1784 e il 1785 morirono ben 9.336 persone, la maggior parte nell'arco di sei mesi, per effetto della combinazione dei motivi prima illustrati, prendendo per buono il ragguardevole scritto del vescovo Hannes Finnsson, Calo demografico dovuto a carestie, lievemente emendato dall'onorevole Magnús Stephensen. Da tutti i suoi calcoli si deduce che il numero di pecore fosse sceso da 232.731 a 42.243, principalmente per la peste ovina di cui si è parlato in precedenza. I cavalli rimasti erano in tutto 8.395.

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Capitolo IV


Attraverso l'oblò della sala di carteggio della fregata Jægersborg entra un raggio di sole che proietta una luce sfavillante sulle strumentazioni in ottone dorato. Non si sente un rumore, se non i bassi cigolii e gli occasionali schiocchi del fasciame e del sartiame della nave. Il nostro uomo a bordo della fregata a tre alberi che sta solcando le onde dell'oceano osserva quella meraviglia, la bellezza del quadrante di ottone con la scala graduata, il mirino e la livella che d'un tratto luccicano davanti a lui sul tavolo. Lo strumento assume una lucentezza dorata ed emana un bagliore che gli ricorda i quadri cattolici di Maria e di Gesù con il capo circondato dall'aureola. «L'aureola della scienza!» pensa. Non sa se l'ha detto a voce alta. Si guarda intorno. Non c'è nessun altro nella sala di carteggio.

Il corso di rilevamento topografico che l'accademia Reale danese delle Scienze, unitamente ai rappresentanti della Reale camera delle Finanze e dell'archivio Reale danese delle Carte nautiche, aveva invitato Magnus Aurelius a frequentare era stato il coronamento della sua formazione storica. Il nostro uomo è un dotto - come si diceva allora, un attestatus bachalaureus con il grado di laudabilis. Anche se Magnus Aurelius Egede ha accettato in cuor suo l'invito a condurre i rilievi come un riconoscimento per essersi distinto nei suoi trascorsi studi scientifici, non sono stati i suoi successi nelle discipline classiche a determinarlo. Piuttosto, è stata la zona che gli sarebbe stata assegnata. Lo avrebbero inviato in un posto la cui latitudine era ancora misurata e definita come ufuldstændig, «incompleta», e rilevamenti del genere dovevano essere un gioco da ragazzi per un uomo con degli assistenti. Con ufuldstændig gli eruditi dell'accademia delle Scienze e dell'archivio delle Carte nautiche significavano che, sulle carte disponibili all'epoca, la latitudine di sessantasei gradi nord era a dir poco approssimativa. Il nostro uomo sarebbe stato inviato sugli Strandir e perfino più a nord, sugli Hornstrandir. Infatti, la famiglia Egede era esperta delle regioni settentrionali estreme: all'inizio del secolo lo zio Hans Egede aveva fondato una colonia in Groenlandia e tutto ciò giocava a favore del nostro uomo, che era fiero delle conquiste dei suoi parenti.

Sulle carte realizzate durante il periodo delle esplorazioni, l'Islanda era raffigurata inizialmente come un cigno a due teste, per venire poi circondata da bitorzoli man mano che i cartografi si accorgevano delle baie e delle isolette dei dintorni; successivamente, nella prima parte del XVIII secolo, finì per assomigliare a un coniglio scuoiato. Adesso l'Islanda ricordava piuttosto un piccolo di dinosauro con la pelle squamosa e la bocca spalancata, con le penisole di Reykjanes e di Snæfellsnes che formavano le zampe e i fiordi occidentali la testa irsuta, con le fauci spalancate dell'Ísafjarðardjúp. La posizione era quella di un pulcino che apre il becco nella speranza di ricevere qualcosa da mangiare. L'Islanda era spesso definita «irregolare» dai cartografi del tempo.

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La missione, tuttavia, conteneva una strana incongruenza, che colpì Magnús Árelíus dopo uno dei numerosi incontri: perché misurare e preparare il terreno per il commercio e per il traffico navale in Islanda, se gli abitanti dovevano essere trasferiti?

Ma tali considerazioni svanirono in fretta quando ricevette i trecento talleri destinati al vitto e al sostentamento, al noleggio dei cavalli e alla paga degli assistentes oltre agli altri costi correlati e imprevisti, come l'acquisto di antiquitates et curiositates.

Magnús Árelíus aprì la borsa di pelle che conteneva pile di carte accuratamente ordinate in fascicoli: gli scritti sull'Islanda di Anderson, il borgomastro di Amburgo, con le obiezioni di Horrebow e i registri catastali della zona; nel fascicolo successivo gli appunti dal trattato di Olaus Magnus sugli abitanti del Nord -- almeno per quanto riguardava l'Islanda - e anche dalla Crymogæa di Arngrímur Jónsson l'erudito, poi un estratto della Historia rerum Norvegicarum di Torfæus, una copia della sezione sugli Strandir del Reise i gennem Island di Eggert e del physicus Bjarni e lo scritto del segretario della Camera Olavius, che aveva attraversato quelle zone tempo prima, oltre a vari appunti tratti dagli scritti di altri eruditi. Tutto quel materiale doveva essere valutato alla luce delle prove scientifiche e verificato con precisione strumentale ovunque se ne presentasse l'occasione. Estrasse la missiva reale dallo scomparto più sacro della sua borsa, la lisciò con la mano, lesse le parole: «Ciascun islandese, di alto o basso rango, dovrà fare il possibile per facilitare il compito al qui presente inviato della Reale camera delle Finanze e della Cancelleria Regia», firmato Kr 7 R, re Cristiano VII.


***



Profondamente immerso nei suoi appunti, annotava sul diario: Hvitserc, Olaus Magnus, i pirati che tali loci inhabitano, et cetera, Mókollsdalur Strandasyssel, Olavius, caolino, prelevare nuovo exemplum, E. & B. lignite nel Kollafjord et cetera... quando fuori dalla cabina si udì del trambusto.

Era il capitano Zachariassen che caracollava giù dalla scaletta.

«Monfrere capitain!» esclamò l'uomo di scienza senza togliere gli occhi dal diario.

Il capitano aveva le spalle curve, ma la schiena più dritta dei professori piegati dallo studio che l'uomo di scienza aveva frequentato in quegli ultimi anni; non era propriamente in carne, a parte una trippa notevole davanti. Camicia bianca senza merletti, giacca blu scuro e un panciotto abbottonato e lungo fino alle ginocchia. Si tolse il tricorno, su cui era ricamata un'ancora in filo d'argento, e lo lanciò sul tavolo.

«Vi serve a poco studiare e leggere, amico mio», ansimò Zachariassen arrivando in fondo alla scaletta, e versò dell'acquavite nei bicchieri di peltro, «non ne capirete mai nulla di questa gente, non più di quanto vostro zio abbia capito i barbari di Groenlandia.» Il capitano aveva il naso largo, il mento robusto e una profonda voce di basso che dava il solletico alle viscere a chi lo ascoltava da vicino.

«Degeneratio e incesti, sapete. Voi, che siete istruito in classicis e historia, sapete bene dove porta tutto ciò, andrà a finire che la gente non vorrà migliorare, non importa quanto vi darete da fare, non importa quanta istruzione e quanto supporto gli offrirete. Fanno sempre l'opposto di quello che gli si chiede. Il cancelliere non ha certo valutato le konsekvens, se tutte quelle persone dovranno essere trasferite a Copenaghen e cominceranno a riprodursi anche lì, come topi nelle tane. La degeneratio si diffonderà pure tra la vostra gente.» Il capitano bevve una generosa sorsata, poi osservò con stupore infantile il bicchiere vuoto. Si allungò di nuovo a prendere la bottiglia.

«Permettetemi di farvi notare, mon capitain, che la degeneratio non si diffonde quando una popolazione ne incontra un'altra, bensì solamente quando un gruppo di persone si isola dagli altri.» Magnús Árelíus sorrise, e bevve un sorso dal bicchiere per fare compagnia al capitano dalla voce di basso.

«In ogni modo, lo vedremo presto», proseguì l'uomo di scienza, «se e come la gente della Strandasyssel pratica l'incesto. Si dice che siano talmente pochi da non dover tenere a mente le genealogie - pare che tutti discendano dalla stessa famiglia. Lo si potrebbe analizzare dalla fisionomia e dalle abilità motorie.»

«Che cosa state dicendo!?»

Dal torace di basso del capitano uscì per la prima volta un suono stridulo.

«Non intenderete recarvi in quelle zone, voglio dire: in factis?»

Magnús Árelíus alzò un poco la testa; il suo sguardo contegnoso aveva una sfumatura interrogativa.

L'uomo dalla voce di basso si mise a ridere scuotendo il tavolo, tanto che l'acquavite schizzò fuori dai bicchieri, i fogli si mossero, le carte si spostarono.

«Mon capitain ride?»

«Ma non mi dite!... Ah, ah, ah!... Non sarete serio, vero!? Certo non avreste fatto tutto questo viaggio fin qui, caro mio...» e raccolse l'aria nei polmoni dopo l'accesso di risa. «Voi parlate troppo poco con la gente. Siete prigioniero delle vostre letture! Mentre ve ne state qui a rimuginare, gli altri delegati sono in sala da pranzo, già tutti ubriachi, a organizzare due settimane di bagordi a Hafnarfjördur e a Reykjarvík. Dove trovano il vino e le puttane migliori.»

«Mon capitain vuol dire che non hanno intenzione di portare avanti l'indagine loro assegnata?»

«Ah, ah, ah! Oh, no, certo che no. Non ce ne sarà bisogno, del resto non è che il cancelliere li costringa a farla, la spedizione. Intascano i talleri per il viaggio ma non vanno da nessuna parte. Parlano con la gente nelle zone più vicine ai porti, e poi scrivono un rapporto - ma inoltrarsi in quelle brughiere coperte di cenere: nej, oh nej!» L'uomo dalla voce di basso riprese fiato e sbadigliò.

«Dovreste parlare con la gente, invece di starvene sui libri. Vi dirò», e il capitano si ricompose facendosi un poco più serio, «se andate nella Strandasyssel non tornerete più. Lì c'è la peggiore barbarie di tutta l'Islanda. Ammazzano la gente e la usano come esca, me l'ha detto un tale che viene da lì. E l'esca la usano per pescare una specie di squalo che poi mangiano putrefatto, così com'è. Riempiono le crepe e le fessure in casa con le pagine strappate dalla Bibbia. Vendono i figli ai doggers olandesi. Ve lo scrivo io, il rapporto. Bastano due parole: barbarie! Trasferimento!»

E riempì di nuovo i bicchieri di peltro.

«Comprendo le parole del capitain», disse l'altro, composto, «ma mi sono stati assegnati vari incarichi, che gli altri non hanno.» Magnús Árelíus buttò un occhio al quadrante nuovo di zecca accanto alla custodia foderata di velluto, dove aveva il suo sicuro ricetto insieme al cannocchiale luccicante.

«C'è un gran bisogno di misurazioni precise dal Nord, per le carte nautiche e per i porti.»

Zachariassen fece una breve risata e sospirò in modo tale che, per la prima volta, l'uomo di scienza si sentì totalmente umiliato dall'impertinente durezza del capitano.

«Non c'è bisogno di determinare le coordinate di un porto dove non c'è nulla da andare a prendere!»

«Voi dimenticate le persone», disse Magnús Árelíus.

«Io non dimentico nessuno!» rispose l'altro secco e brusco, con la voce da basso che fece vibrare le viscere del suo interlocutore. Magnús Árelíus rifletté che il freddo dei mari del Nord doveva essersi introdotto nell'animo di quel capitano indurendogli lo spirito; la sua indignatio non si sarebbe mai più disciolta in altruismo. Per fortuna intravide il deretano del suo assistente che scendeva la scaletta della cabina.

«Benvenuto, mastro specialista orticoltore Grimsen!» Zachariassen si raddrizzò, cercò un altro bicchiere e glielo riempì.

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Mio graziosissimo monsieur e maeceneas, cancelliere e stimatissimo amante delle scienze, Levetzow!


Vergo questa breve missiva come un prologus al nostro rapporto sulla Strandasyssel, nella speranza che il prevosto Pedersen qui nel Rutafjord rechi il presente scritto oltre le brughiere fino a Stykkishólmur.

[...]


Cenere in quantità si è deposta qui sui campi e sulle cascine, le carcasse del bestiame giacciono sparse sulle coste, sui campi e nelle forre. Il disgelo non principiò fino a maggio, ci riferì il pescatore Gundersen, ma quando finalmente poterono calare le barche in mare di pesce non ne trovarono, e nessuno sfida più la fortuna nei fiordi. Domandammo: ci potrebbe essere del pesce adesso, malgrado non ve ne sia stato in primavera? Gundersen: Può essere, ma nessuno ha provato. Domanda: Per quale cagione nessuno ha provato? Risposta: Non abbiamo né lenze né reti. Domanda: E se ve le procuraste? Risposta: Di rado c'è un buon clima, etc. Ma poi emerse che la pesca non è per loro profittevole in alcun modo. Gundersen ci spiegò: il pesce, a parte la tassa per censo e la tassa del giudice, va ai nostri proprietari terrieri, e poi ai delegati del magistrato che è subentrato nella fattoria di Gottrup, ovvero come affitto a sua Maestà il re; e finisce nel conto ittico della Compagnia, al servizio dei nostri signori e padroni. Noi, che con la pesca paghiamo il feudo sulle tenute regie, teniamo solo le teste e le interiora, e su quelle dobbiamo pagare la tassa di taglio, la tassa d'affitto e il dazio. Dalle interiora poi va tolta la tassa per l'illuminazione, la decima per i poveri, la decima per la chiesa e quella per il prete, cosicché dei merluzzi pescati non ci resta null'altro che le mandibole. Ergo, summa summarum: nessuno affronta il mare per delle mandibole.

[...]


È come se in questo paese abitassero due razze, da una parte i contadini che sono più spesso gli affittuari dei proprietari terrieri, e dall'altra i loro lavoranti, che ci è stato detto non si possano sposare a meno che non occupino un podere di terra, che non si potranno mai permettere di comperare. Il lavoro sotto un contadino è molto duro, ma chi si è guadagnato la libertà dal lavoro da sottoposto in fattoria si definisce contadino autonomo, e contadini e preti ne parlano assai male. I contadini vogliono costringerli a lavorare per una paga scarsa o nulla, mentre loro minacciano di andare altrove, pretendono paghe alte e d'altra parte vogliono fare il minimo possibile. In queste zone si tocca con mano quanto la classe inferiore abbia in odio i propri padroni, e come i padroni a loro volta odino i loro braccianti, cosa che aggrava e opprime lo statum oeconomicum di questo paese. Scevri da tali risentimenti sono i proprietari terrieri, che stanno a guardare i loro inferiori litigarsi le briciole di pane cadute dalla loro tavola, come da dietro un sipario.

[...]


Una cosa voglio dire al mio signore della camera delle Finanze e alla nostra suprema grazia, il re Cristiano VII: l'invio di segale e orzo che sua Maestà ha fatto recapitare ad Hafnarfjord per la sua graziosissima pietà - non è mai giunta fin quassù nelle aree più remote dove ve n'è il massimo bisogno. E perché mandare loro barili di cibo o legname per la costruzione di case, anziché permettere loro di procurarsi da soli i materiali, dalle loro coste? E ben so ora di valicare la mia sfera di competenza: gli editti e le tassazioni reali non saranno disapprovati in questa mia missiva - sed de his satis.

Infine, le conclusioni scientifiche.

[...]


In alternativa, si potrebbe muovere la popolazione a piedi attraverso la brughiera fino a Stykkisholm e imbarcarla sulle navi della Marina Reale, e da lì condurla al regno della nostra Nobile Grazia e Maestà il sovrano.


Il servo del cancelliere, assai debitore e riverente

addì, 20 maggio 1785

Stadarbakki - Rutafjord

Magister philosophiae M.A. Egede

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Fu così anche quando Hallgrímur, il contadino di Guðlaugsvík, accettò di guidare i gentiluomini fino a Guðlaugshöfði. Li vide trascinare le ossa sulla riva e parlare a voce sempre più alta, e scrivere note e misurare e sfogliare le carte e gli scritti e infine mettersi a gridare e abbracciarsi; era sul punto di raccontare loro del piccolo di balena che si era arenato lì quand'era bambino, e di come ricordasse ancora quando fu macellato. Ma il contadino aveva già tali informazioni sulla punta della lingua quando il magister si voltò verso di lui ed estrasse dalla scarsella un intero tallero, dicendogli che sarebbe stato suo se prometteva di non riferire a nessuno di quelle ossa, né ai suoi conterranei e men che meno agli eruditi stranieri.

Jón Grímsson vide la voluminosa scarsella che il gentiluomo estrasse dalla tasca interna e chiese, mentre la loro esultanza aleggiava ancora nell'aria, quale fosse l'entità del sussidio ottenuto da quella spedizione; e Magnús Árelíus gli rispose trecento talleri, ma sarebbero stati molti di più una volta che avessero presentato le ossa all'accademia delle Scienze.

Il contadino promise di non dire nulla a nessuno e si unì al giubilo per il ritrovamento delle ossa gigantes di quegli eruditi. Purtroppo, però, una sera si lasciò scappare la notizia, che si sparse rapidamente per tutto il distretto. Talmente in fretta, in effetti, che mentre si spostavano per la zona non venivano additati in altro modo che «quelli dell'osso di balena» dalla gente degli Strandir, e quando quelli del posto dicevano che «l'Osso di balena» era diretto ancora più a nord, si riferivano al magister.

La colpa non era di quegli studiosi. In primo luogo, qui si evidenzia molto chiaramente la natura della scienza: si ragiona sempre sulle linee di pensiero tracciate in precedenza, che diventano a loro volta la realtà a cui ci si aggrappa saldamente, e che non si abbandona senza lottare nonostante si affaccino nuove teorie. Inoltre, loro non conoscevano la meccanica di Galileo Galilei , che aveva calcolato che le ossa dei giganti avrebbero dovuto essere di un materiale ben più duro di quelle degli esseri umani o degli animali, altrimenti un gigante sarebbe crollato sotto il proprio peso. Il testo di Galileo sui sistemi del mondo era ancora all'indice; per i più, la Terra era ancora ferma in mezzo all'universo. La natura non era ancora considerata bella, ma solo più o meno utile. Si soffiava il fumo del tabacco nel retto degli ammalati con un imbuto per determinare se fossero morti. Il mondo era come era sempre stato, forgiato da leggi meccaniche in una settimana scarsa e messo in moto dall'orologiaio supremo. Gli uccelli non migravano verso altri paesi durante l'inverno, si trovavano una dimora nelle grotte. Quello che stava scritto nei libri antichi era vero. Le ossa dei giganti e degli esseri umani erano fatte dello stesso materiale. Le coordinate della latitudine erano assai variabili.

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Capitolo XII


A questo punto bisogna velocizzare la narrazione, perché non è materia degna di essere raccontata che un uomo solo su un cavallo e con altri due al seguito carichi di casse e bisacce, abbia attraversato passi montani e istmi, abbia cavalcato lungo le coste e sopra le scogliere, abbia guadato fiumi ed estuari, sia passato accanto a smottamenti pullulanti di volpi e a scogli coperti di foche e a laghi senza cigni mentre il vento fischiava nelle forre e le nubi orlate di rosso scorrevano per la volta del cielo. E che il nostro uomo abbia vagato con lo sgomento nel petto per quei lidi stranieri nell'estate del 1785, nemmeno questo in sé e per sé è materia degna di essere raccontata. Del resto, chi non aveva lo sgomento nel petto, nell'estate del 1785?

Era andato tutto a meraviglia, per un fatto di umiltà. L'esistenza del magister si era fusa con quella dei cavalli, aveva avuto cura di farli riposare e di dissellarli ogni volta che potevano trovare del verde da masticare, e inoltre la solitudine in una natura estranea e terribile affina i sensi e la concentrazione: ebbe modo di conoscere nuovi lati di sé, nuove forze che non sapeva di avere. Aveva cominciato a parlare con i cavalli. Loro non avevano cominciato a rispondergli. Le luminose notti estive andavano e venivano, quelle in cui il sole rosso sangue non faceva niente di più che inchinarsi cortesemente sulla superficie infinita del mare blu. Gli offrivano ospitalità ovunque andasse, dandogli le solite risposte lamentose e il poco vitto che avevano in dispensa. Magnús Árelíus si commuoveva vedendo che chi aveva così poco era disposto a dare tutto a un estraneo.

Aveva perfino trovato un bracciante di Krossnes come assistente nei rilievi della latitudine sul punto più esterno della penisola, e anche sulla lingua di terra davanti alla fattoria di Fell. Ormai trangugiava le pinne di foca abbrustolite e il lardo salato come se fossero leccornie prelibate, e quando non c'era nient'altro di meglio addentava perfino pezzi di squalo, anche se il boccone era ingiallito in mezzo e indurito sui bordi. Cominciava ad apprezzare i «canti rustici», come li chiamava lo stimatissimo Horrebow, che venivano recitati nella baðstofa la sera. Il blu e il bianco dei suoi vestiti erano scomparsi velocemente e ormai non si notavano più se non li si andava a cercare alla luce del sole. Era talmente coperto di terra che molti lo prendevano per un venditore ambulante di brennivín locale e gli chiedevano il prezzo. Spesso non riconoscevano la sua origine, almeno finché non doveva declinare fjörður: si ostinava a non impararlo e usava la stessa forma, fjord, per tutti e quattro i casi, come in danese.

Aveva conversato con la figlia di un contadino, sua coetanea, e chissà come avevano finito per parlare dell'America e la ragazza gli aveva chiesto se si trovasse nella regione meridionale. Anziché scandalizzarsi aveva sorriso e si era messo a discettare di terre lontane, finché lei non l'aveva fermato, a metà della lezione:

«Ma è bello anche qui, non trovate?»

L'accoglienza affettuosa e umile della gente del posto aveva acceso in lui una gratitudine profonda, diversa da quella che aveva provato in precedenza durante tutti gli anni di studio. Per dare un'idea, anziché pensare: «Quale umana miseria, quale bassezza, tirare avanti in un tugurio di torba impregnato d'umidità con persone affamate, cinque pecore e una barca sfondata e non sapere nemmeno dov'è l'America», si domandava piuttosto se quell'esistenza non fosse sufficiente, per un essere umano, e che tutto l'appagamento e la pienezza della vita che aveva sempre attribuito alla forza della sua cultura e del suo benessere non li provasse anche lei nell'animo, finché restava ignara della sua cultura e del suo benessere.

O forse magari non era vero, che la felicità della giovane fosse identica alla sua. Come poteva saperlo? Era vincolato alla grande incombenza che temeva di portare a termine, e che temeva ancora di più di non portare a termine. Era come un uccello tenuto in gabbia che non può alzarsi in volo. Non aveva via d'uscita. Lei aveva un volto radioso e sereno che seguiva la luce del giorno e l'ombra dei monti alla sera. Cantava delle strofe mentre svolgeva le sue faccende domestiche. La sera mentre lavorava a maglia rideva alle storie senza senso di suo padre, che raccontava di un uomo fatto a pezzi dopo uno scontro con un orso polare che risorgeva come nuovo il mattino dopo. Lui invece non riusciva a tirare fuori dalla gola nemmeno una canzoncina, aveva la voce rotta da spietate accuse verso se stesso. Non conosceva nemmeno una storia, se non quelle che parlavano di eleganti scampagnate dove tutto era appropriato e logico - e mortalmente noioso.

Cominciava ad apprezzare l'umorismo liberatorio delle fabulae soprannaturali di questo cosiddetto popolo ignorante, forse era lui quello povero, e la vita stava dalla parte della ragazza. Forse lei era nella condizione paradisiaca di Eva prima di mangiare dall'albero della conoscenza - lui invece apparteneva a un mondo caduto che avanzava sempre maggiori pretese, che doveva diventare sempre più potente, più ricco, più grande e più istruito. Il suo mondo doveva espandersi senza sosta e progredire con ritorni economici sempre più vantaggiosi e rilevamenti sempre più precisi. Il mondo della ragazza era determinato dai monti e dalle colline, dai torrenti che attraversano i poderi e dagli orticelli, dal palpito delle onde sulla riva. Allora forse la sua felicità era più profonda, perché la vita non pretendeva nient'altro da lei se non che facesse quel che doveva fare in compagnia dei suoi cari, con gli animali, il mare e il vento.

Lui era intrappolato nel ruolo dell'uomo di scienza che, in fondo in fondo, sapeva di non essere. Doveva recitare il ruolo come facevano gli altri, doveva compiere imprese per ricevere pacche sulle spalle dalle autorità e dagli eruditi nella speranza di essere ingaggiato per qualche incarico, in modo da farsi una reputazione e una carriera nel «sistema», come si chiamava, una reputazione di cui nemmeno gli importava, sebbene i suoi genitori ci tenessero. E poi, nella sua vita, dov'era l'amore? Lei era sempre nella condizione naturale e umile in cui adesso si trovava anche lui, e che insegna all'animo umano a essere riconoscente per il poco che si ha. Sapeva che sarebbe svanita non appena fosse tornato alla civiltà - dove niente dava soddisfazione se non era più grande, di più, migliore. C'era un'anima negli occhi di lei, nella sua voce. Le persone come lui non avevano quel luccichio negli occhi. Nel suo mondo tutti cercavano qualcosa, cercavano di essere i signori della natura, i signori del proprio destino, mentre lei lasciava che i venti del mondo la cullassero a loro piacimento. Lui cercava di raggiungere Cap de Nord per misurarne la latitudine, di rivoluzionare le teorie sui gigantes del Nord, di trovare qualcosa di rilevante per i suoi rapporti, per esempio un dogger olandese. Lei non cercava di fare niente. Quando le condizioni lo consentivano usciva in barca con suo padre, la sera mungeva le pecore negli ovili, rastrellava il fieno quando c'era del fieno da rastrellare. La vita non pretendeva altro da lei se non che si assicurasse del cibo e un riparo contro gli agenti atmosferici, possedeva una fede arcaica, una potente, antica fede nella vita, lo vedeva da come lavorava, da come si muoveva e da come parlava. Era sicura di essere la benvenuta in quel mondo, di essere stata creata da Dio. Lui non era il benvenuto, se non quando faceva di più. Se dava prova di sé, se faceva progressi, se diventava migliore, più ricco, più colto - era la sua maledetta cultura, che portava in sé il germe della fine. La vita di lei era un nihil insignificante agli occhi della sua cultura. Era una patologia.

Erano due mondi inconciliabili, e lui ringraziava il cielo di essere stato costretto a mescolarsi con la gente semplice, che l'aveva accolto quand'era solo e sporco. Impotente. L'aveva cambiato. Era stato come un bagno purificante per l'animo - a tal punto sapeva essere poetico quando la sera scriveva nel suo diario. I libri non erano riusciti a farlo diventare un filosofo. Era stata l'esperienza della vita, a lui estranea, della povera gente.

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Ma a che serviva un rapporto? Prove scientifiche che giustificassero i trasferimenti forzati? Comprese che lui stesso era la pestilenza finale, quella che avrebbe distrutto ogni cosa su quelle coste. Avrebbe costretto la giovane e tutte le altre donne come lei a salire su una nave per finire in una manifattura tessile a Copenaghen, e tutti quegli uomini barbuti e accoglienti nelle fabbriche di cordame dello Jutland, pagati a pane e acqua; e lentamente, a poco a poco, sarebbero appassiti e sarebbero morti di tedio. Sarebbero diventati come la sua gente, e lui non lo voleva - loro erano diversi, e questo ristorava l'animo. D'un tratto, ora che lo guardava con occhi nuovi, il suo ruolo gli era del tutto alieno.

Che cosa ne pensava, lui, di quel ruolo?

Dentro di lui le categorie cominciavano a sovrapporsi. A scuola aveva forse imparato a suddividere le persone tra compratori e venditori, ma la vita gli aveva dimostrato che chi compra può anche vendere. Lui ormai non era né l'uno né l'altro, eppure entrambi. Si era mescolato tutto. Non era più obiettivo quando guardava negli occhi quelle persone. Che strumenti aveva, per decidere se le loro condizioni di vita fossero buone o cattive? E proprio chi si prende la libertà di decidere che cosa sia meglio per gli altri a non capire niente, né in termini umani né culturali. C'erano tante cose da valutare: la radiosità dei volti, la voglia di svegliarsi al mattino, la schiavitù o l'indipendenza. Un pensiero lo colse all'improvviso: forse proprio lì - in mezzo a quel guazzabuglio che sentiva nel petto - si trovava la scienza suprema. In quella mescolanza delle categorie con gli istinti e le emozioni, come una cuoca coscienziosa davanti alle sue pentole. Era possibile mediare quel guazzabuglio di ragione e sentimento con il metodo scientifico? Le scienze potevano classificarlo, quel guazzabuglio? È possibile classificare un guazzabuglio?

Mai in precedenza era stato tanto evidente quanto fosse prigioniero della propria cultura. Più partecipava alla cultura di quel casale, più se ne rendeva conto.

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Capitolo XVI


Venne il giorno in cui Magnús Árelíus annunciò la sua partenza per la fattoria successiva, non poteva aspettare il bel tempo per tutta l'estate, se voleva raggiungere la nave del Reykjarfjord. Si coricò a letto assai depresso, quella sera, e si guardò intorno per cercare Sesselja e controllare dove dormisse. Era seduta su uno sgabello accanto al focolare e lavorava a maglia. Guardò tutta la stanza per capire quale fosse il suo letto, prima di accorgersi che l'aveva occupato lui. Gli altri famigliari nei letti russavano sotto i piumoni gonfi. La guardò, lei attizzò le braci, íl fuoco divampò, lui capì, la giovane aveva gli occhi cupi. Le diede la buonanotte.

Comparve accanto al suo letto verso la mezzanotte. Il pallido chiarore del focolare le carezzava il corpo. Era nuda. Bianca. Pura. I seni pesanti e arrotondati gli esplosero nei palmi delle mani mentre le imprimeva in lei, la prese per i fianchi pieni, profumava come un fiore appena sbocciato e irradiava fiotti di tenerezza che gli scorrevano nelle vene. Lei rispondeva a ogni sua emozione con un'altra più forte, avrebbe voluto rimanere in quell'istante per sempre. Poi gli parve di udire come la bellissima eco di un canto, oltre i monti - comprese che era il canto che dimorava nel suo cuore, cominciò a sentire il canto del suo cuore. Il suo essere volò oltre il confine della solitudine, come un'onda che s'infrange sulla costa e supera la linea consueta della battigia e sale fino ai piedi di un campo di fieno. Ma non lo capisce, la gente, che la natura tutta è una metafora per ciò che si agita nel cuore umano? Che senza la natura l'uomo non saprebbe dire niente? La guardò nei suoi puri occhi bovini, come aveva cominciato a chiamarli. «Ho capito che è doloroso avere figli.» Parlava carezzandole la testa di capelli corti e scuri, inebriato dal loro profumo. «È dolorosa la vita di un essere umano. È doloroso morire. Ma che cos'è tutto questo, in confronto a momenti del genere? Niente. Come i flutti contro le scogliere, o il fischio del vento.» Lei lo baciò. «Vorrei saper essere più poetico.» Lei lo baciò di nuovo.

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