Copertina
Autore Andrea Bisicchia
Titolo Teatro e scienza
SottotitoloDa Eschilo a Brecht e Barrow
EdizioneUTET Universita, Novara, 2006 , pag. 148, ill., cop.fle., dim. 150x230x15 mm , Isbn 978-88-6008-030-1
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe arte , storia dell'arte , teatro italiano , storia della scienza
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Indice


  5    I  Dalla sapienza alla scienza
 14   II  Eraclito ed Eschilo
 22  III  Meteorologia, astronomia, astrologia, alchimia
          in Eschilo, Euripide, Aristofane, Seneca
 34   IV  La difficoltà ad uscire dal mito:
          Medea e Deianira tra magia e filtri d'amore.
 43    V  Dalla magia classica a quella rinascimentale.
          Astrologi, negromanti, streghe, alchimisti, fattucchiere:
          Ariosto, Grazzini, Bruno, Della Porta, Jonson, Marlowe
 71   VI  Dal Galileo storico al Galileo di Brecht
104  VII  Fisici, astrofisici, matematici sulla scena
          del teatro del Novecento


139       Indice dei nomi

 

 

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Pagina 5

Capitolo primo
Dalla sapienza alla scienza



Da tempo, scienze come l'antropologia, la psicologia, la psichiatria, si sono interessate al teatro, indicando nuovi metodi di lettura del testo, dell'ipotesto, dell'ipertesto; si sono cioè avventurate in territori di confine, per rintracciare le radici, le fondamenta della rappresentazione; hanno permesso pertanto alla storiografia teatrale di allargare le sue vedute, di fare un uso più complesso dell'interdisciplinarità che consentisse un cambio di rotta estendendo il concetto stesso di teatralità verso campi inesplorati. Non esiste uno studio che introduca al rapporto tra teatro e scienza, non si può, pertanto, far uso di una bibliografia che possa venirti in aiuto in un campo ostico per chi possiede una cultura umanistica. La scienza appartiene ad un'altra formazione, presuppone conoscenze che non hanno nulla a che vedere con gli studi letterari, tanto da sembrare estranea al teatro. Basterebbe ricercare, nel passato, un simile connubio, per constatare quanto sia ridotta, se non sparuta, una teatrologia scientifica, forse perché, per il teatro, l'ipotesi di un approccio oggettivo, con metodi e concetti delle discipline scientifiche, sembra impossibile; tutt'al più, tale approccio ha potuto fare uso dell'utilizzazione mitico-magica, se non grottesca, di nozioni e metodi presi in prestito da discipline scientifiche come geometria, matematica, o parascientifiche, come astrologia o astronomia. Quelle che oggi hanno avuto più fortuna sono state la semiotica, con alcuni suoi derivati, come la cinesica e la prossemica, divenute oggetto di verifiche sperimentali; la biologia, i cui fondamenti sono da ricercare nella nozione stessa di azione; l'etnografia, attenta, come l'antropologia, a descrivere il teatro dei popoli primitivi o le azioni mimetico-rappresentative, sia religiose che ludiche; la sociologia, sollecita ad indagare le funzioni sociali della teatralità attraverso le feste, le cerimonie, i riti, magari attingendo alle forme del folclore. Tale promiscuità ci spinge a chiederci se anche la teatrologia possa aspirare ad una scientificità; tanto da poter individuare delle contiguità con le scienze citate. Se intendiamo la scienza come campo di studio, ovvero come disciplina, il teatro può considerarsi tale e non ha nulla da rimproverarsi per quanto riguarda i suoi metodi di indagine. Del resto, non credo che un tale problema possa oggi essere messo in discussione. Se lo pose, circa quindici anni fa, Ferdinando Taviani, a proposito di una scientificità della teatralogia, non nascondendo qualche sospetto: «Che alla teatrologia si applichi o no l'apposizione scienza è un fatto irrilevante, un modo di dire che non cambia né in meglio né in peggio il modo di operare». Chi conosce Taviani, sa già che il suo discorso aveva come fine l'ISTA, ovvero l'International School of Theatre Anthropology, fondata e diretta da Eugenio Barba; la possibilità, pertanto, di comparazione, era legata ad una scienza ben precisa, quella dell'antropologia. Il mio interesse non è di questo tipo, dato che mi propongo di analizzare autori e testi che abbiano affrontato, a livello drammaturgico, problemi di carattere scientifico, che abbiano avuto a che fare con la tecnica, la fisica, l'astronomia, la matematica, l'astrofisica, la cosmologia, e che abbiano dato un contributo fondamentale alle divulgazioni di dette scienze. Il mio lavoro, pertanto, sarà duplice, nel senso che terrà principalmente conto dei problemi del teatro, sarà corredato da una bibliografia legata agli spettacoli esaminati, ma, nello stesso tempo, un apparato bibliografico, più marcatamente scientifico, consentirà dei confronti e contribuirà alla diffusione di argomenti teatrali che hanno avuto per oggetto la scienza. L'indagine avrà un percorso storico che dagli autori del passato, che non abbiano disdegnato di parlarne, arriverà fino ai giorni nostri, benché l'apporto, dopo tante ricerche, mi sembra abbastanza limitato, sia per quanto riguarda la materia tragica, dove il tema della tecnica è presente nel Prometeo di Eschilo, quello dell'alchimia nelle Trachinie di Sofocle e nella Medea di Euripide, quello dell'astronomia nell' Ifigenia in Tauride di Euripide; che per quella comica, essendo matematica e geometria oggetto di scherno nelle Nuvole di Aristofane. Certo, il problema della scienza, nell'antichità classica, appartiene più al pensiero filosofico che a quello del metodo sperimentale; la scienza era oggetto di conoscenza e le varie scoperte non apparivano del tutto attendibili. Chi si è addentrato in questo mondo complesso è stato, recentemente, Lucio Russo che ha analizzato il pensiero scientifico greco in rapporto alla scienza moderna, decisamente convinto che la nascita di quest'ultima debba farsi risalire alla fine del IV secolo a.C. e che Euclide non sia stato altro che il precursore di una forma di pensiero che sarebbe fiorita nel secolo XVII, oltre che un esponente importante di una vasta schiera di scienziati, le cui invenzioni e le cui pratiche sperimentali arriveranno fino a Galilei.

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Capitolo sesto
Dal Galileo storico al «Galileo» di Brecht



Se lungo tutto il Rinascimento sia i pensatori che i drammaturghi si erano limitati a sfiorare la vera scienza, nel senso che la loro ricerca non era mai stata di tipo sperimentale, essendosi mossa ai margini della natura e non dentro la natura, con Copernico e Galileo le cose cambiarono, nel senso che grazie a loro ci si avviava alla vera, prima rivoluzione scientifica. L'astronomia tolemaica subì, nel secondo Cinquecento, un colpo mortale e, con essa, l'astrologia, oltre che la vecchia maniera della ricerca empirica. Il geocentrismo entrò in crisi, vacillarono gli stessi supporti morali e religiosi, mentre si affacciò un nuovo sistema cosmologico. Copernico scoprì che il Sole è immobile al centro dell'universo, che i pianeti girano intorno al Sole, che è la Terra a compiere i moti di rivoluzione, descrivendo una circonferenza intorno al Sole, e di rotazione, della durata di ventiquattro ore, obliquamente al piano dell'eclittica.

Galileo, inserendosi nel movimento scientifico dell'epoca che, oltre a Copernico, vantava anche Keplero, dette la sterzata definitiva, benché le sue ricerche prendessero le mosse anche da quelle di Nicolò Tartaglia (1511-1557), costruite sull'esperienza pratica, o meglio, artigianale; o da quelle stesse di Giovan Battista Della Porta e, in particolare, dai libri della Magia Naturale. Buoni furono anche i rapporti con Bruno, ma soprattutto con Tommaso Campanella, come si puo ricavare dal loro epistolario, anche se entrambi non aderirono completamente al sistema astronomico galileiano, mentre accolsero, con favore, la scoperta delle novità celesti, come il momento liberatorio della teologia dall'aristotelismo. Scrive Giulio Preti: «Per opera di Galileo il sistema copernicano cessava di fatto di essere una semplice ipotesi astronomica, per apparire il più naturale sistema di meccanica celeste entro la nuova intuizione meccanicistica della natura e dello spazio fisico, che i teoremi fondamentali della fisica galileiana venivano mettendo in rilievo nei suoi caratteri fondamentali». Insomma, con Galileo non nasce soltanto la nuova scienza, ma anche un metodo per accostarsi ad essa, fondato sul ragionamento e sull'esperienza sensibile, ben noto, nei suoi duplici aspetti, come metodo risolutivo (analitico-induttivo) e compositivo (sintetico-deduttivo). Non è questa la sede per addentrarsi nella vicenda galileiana, che ho approfondito attraverso gli studi di Antonio Banfi, Vita di Galileo Galilei (1955); di Giorgio De Santillana, The Crime of Galileo (1955); di Guido Morpurgo Tagliabue, I processi di Galileo e l'epistemologia (1945); di Ludovico Geymonat, Galileo Galilei (1957); di Stillman Drake, Galileo (1980), solo per citare alcuni degli studiosi più noti, ma per analizzare Galileo attraverso il testo che Brecht scrisse, in prima edizione, nel 1938, in seconda edizione nel 1957, e che ebbe la «prima» italiana la sera del 22 aprile 1963, al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler, anticipata da un clima di polemiche, di intromissioni da parte del potere religioso, di spaccature che si verificarono durante le prove e nell'attesa del debutto.

Per dare un'idea del clima, la scena della vestizione di Urbano VIII fu considerata, da un gruppo di retrogradi, addirittura sacrilega!

Durante quella sera, ormai storica, si vide un servizio d'ordine massiccio, affidato a funzionari di grado elevato. Dopo 124 giorni di prove, Strehler e la compagnia arrivarono al debutto stremati. Paolo Grassi era stato addirittura accusato di aver sperperato denaro pubblico, anche se l'allora direttore aveva confutato, voce per voce, le spese della realizzazione. Ci si preparava al peggio, durante quella notte nuvolosa; ma alla fine fu il trionfo dell'Arte, della Fantasia, della Scienza. Contro gli improvvisati denigratori, si verificò, ancora una volta, l'apoteosi della ragione nei confronti di chi andava in cerca di valori dogmatici in un periodo in cui il dibattito scientifico aveva raggiunto vette inaudite.

Brecht era a conoscenza di questo dibattito fin dadi anni Trenta, si era interessato vivamente alla ricerca scientifica e aveva progettato un'opera su Albert Einstein. Da queste sue riflessioni molto probabilmente nacque Leben des Galilei (La vita di Galileo).

Italo Alighiero Chiusano sostiene che Brecht la scrisse quando ebbe notizia che la scissione dell'atomo era riuscita, nel frattempo si apprestò a finire una seconda versione, mentre negli Stati Uniti, pur salutando la fine della guerra, i cittadini rimasero sbigottiti dal bombardamento atomico su Hiroshima.

Non dobbiamo dimenticare che l'interesse di Brecht per i risultati della scienza era quello di un artista consapevole delle differenze esistenti tra il piano della creazione e quello scientifico.

A questo proposito, mi sembra opportuno riferire alcune sue considerazioni che ho trovato nei suoi Scritti teatrali, riproposte nel programma di sala del Piccolo Teatro, pubblicato in occasione della «prima»:


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Ma che cos'ha in comune la scienza con l'arte? Sappiamo benissimo che la scienza può essere divertente; ma non tutto ciò che diverte rientra necessariamente nel dominio del teatro. Spesso mi è accaduto di ascoltare, quando insistevo sui servizi inestimabili che la scienza moderna può rendere all'arte e in particolare al teatro, l'affermazione che l'arte e la scienza siano due campi dell'attività umana stimabilissimi, ma totalmente diversi. Questo è naturalmente un marchiano luogo comune, e si farà bene a rispondervi sempre sì, che è giustissimo, come lo è per la maggior parte dei luoghi comuni.

Il piano della scienza e quello dell'arte sono diversissimi, d'accordo. Eppure io devo confessare che non riesco a lavorare come artista senza servirmi di un certo bagaglio scientifico. È possibile che tale fatto susciti in molte persone seri dubbi circa le mie capacità artistiche: costoro sono avvezzi a vedere, nei poeti, esseri in certo modo fuori dalla natura, che con la sicurezza di autentici dèi intuiscono cose che altri non possono penetrare se non a costo di duri sforzi e di grande studio. È spiacevole, evidentemente, dover ammettere di non appartenere a questa schiera di eletti: ma bisogna ammetterlo. Bisogna anche negare che tali confessati (excursus) scientifici si riducano a scusabili attività marginali, a occupazioni del sabato sera, una sorta di dopo lavoro. È noto che anche Goethe coltivò le scienze naturali e Schiller la storia, ma si tende cortesemente a pensare come a una specie di hobby. Non voglio senz'altro accusare questi due grandi di aver avuto bisogno delle scienze per la loro attività poetica, non voglio giustificarmi per mezzo loro, ma tuttavia devo ripetere che a me la scienza è necessaria. Più ancora, devo confessare che non vedo di buon occhio una quantità di persone, delle quali mi è nota la non completa padronanza del campo scientifico, persone che cantano come cantano gli uccelli, o come ci si immagina che cantino gli uccelli. Non dico con questo che respingo un grazioso componimento poetico sul sapore di una triglia o sul piacere di una gita in canotto, perché il suo autore non ha studiato gastronomia o nautica. Ma sostengo che i grandi e complicati avvenimenti non possono essere sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non si provvedano di tutti gli strumenti utili ad intenderli.

Supponiamo che si debbano rappresentare grandi passioni o fatti capaci di influire sul corso della storia dei popoli. Una di tali passioni è ritenuta oggi, diciamo, l'impulso del potere. Ammesso che uno scrittore non senta questo impulso, e voglia presentarci un uomo in lotta per il potere: come riuscirà a compenetrarsi nel complicatissimo meccanismo che costituisce oggi l'ambiente di ogni lotta per il potere? Se il suo eroe è un politico, qual è il reale ingranaggio della politica? Se invece è un uomo d'affari, qual è l'ingranaggio degli affari? E poi, ci sono pure scrittori che si interessano e si appassionano agli affari e alla politica in misura assai minore che all'impulso di potere dei singoli individui! Come possono essi procurarsi le nozioni necessarie? Con l'andare semplicemente attorno tenendo gli occhi aperti, non otterranno certo una visione sufficientemente chiara delle cose; comunque, sempre di più che se si limitassero a strabuzzare gli occhi in un sacro delirio. La fondazione di un giornale come il «Volkischer Beobachter» o di una società come la Standard Oil è una faccenda piuttosto complicata: non sono cose che uno si trova da un momento all'altro bell'e cotte dinnanzi. Un campo importante per gli autori di teatro è la psicologia. Molti credono che, se non un uomo qualunque, uno scrittore perlomeno, dovrebbe essere in grado, senza bisogno di particolare istruzione, di rintracciare i motivi che spingono un uomo all'omicidio, che dovrebbe potere, per virtù propria, dare il quadro dello stato psichico di un assassino. Si ritiene che basti, in casi consimili, guardare dentro se stessi e poi deve pur soccorrere un po' di fantasia... E invece, per una quantità di ragioni io non riesco più ad abbandonarmi alla piacevole speranza di potermela cavare tanto a buon mercato. Non posso più trovare in me stesso tutti i motivi determinanti che – come si apprende dai resoconti giornalistici o scientifici - sono individuabili negli uomini. Cosi come avviene al giudice comune che pronuncia la condanna, anche a me non è possibile formarmi un quadro completo delle condizioni psichiche di un assassino. La psicologia moderna, dalla psicoanalisi al behaviourismo, mi procura nozioni che possono benissimo indurmi a un giudizio totalmente diverso sul caso in esame, soprattutto se tengo conto dei risultati delle indagini sociologiche e se non trascuro l'economia e la storia. Si dirà che questo è voler complicare le cose. Io non posso che rispondere: le cose sono complicate. Forse allora qualcuno si lascerà convincere e consentirà con me nel riconoscere che una quantità di letteratura è a uno stadio fortemente primitivo, ma si chiederà anche, molto preoccupato, se serate teatrali di questo genere non corrano il rischio di essere notevolmente opprimenti. La risposta è: no.

Il contenuto scientifico che può essere racchiuso in una opera poetica deve essere, infatti, completamente risolto in poesia. La sua utilizzazione soddisfa appunto il piacere che è reso possibile dal contenuto poetico. Comunque, anche se non soddisfa quel piacere che trova appagamento nella autentica scienza, è sempre necessaria una certa disposizione a penetrare più a fondo nelle cose. Un desiderio di rendere il mondo padroneggiabile all'uomo, per poterci assicurare, in un'epoca di grandi scoperte e invenzioni come la nostra, anche il godimento della sua poesia.

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Com'è possibile capire, Brecht, pur considerando diversa l'arte dalla scienza, ammette come l'artista non possa lavorare senza un vero e proprio bagaglio scientifico. Anzi sostiene che per lui la scienza è addirittura necessaria, perché alimenta la disposizione a penetrare più a fondo nelle cose.

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Capitolo settimo
Fisici, astrofisici, matematici sulla scena
del teatro del Novecento



La scienza novecentesca, dall'idea evoluzionistica alla teoria della relatività, dalla fisica atomica agli studi di genetica, ha posto l'uomo di fronte a problemi che riguardano non solo il rapporto con la natura e le sue leggi, ma anche quello con la conoscenza, oltre che con la coscienza. Da Charles Darwin ad Albert Einstein, da Werner Heisenberg a Robert Oppenheimer, da Niels Bohr a John D. Barrow, a Margherita Hack, solo per citare alcuni fisici, matematici, astrofisici che sono stati portati anche in scena, la scienza ha posto una serie di quesiti sulla sua violabilità o inviolabilità, sulla sua responsabilità, sulle nuove relazioni che sono venute a crearsi tra rami diversi del sapere, ovvero tra matematica e fisica, tra scienza e natura e scienze sociali eccetera, domande che hanno anche scompaginato quella certa linearità che stava alla base della storiografia scientifica; così come l'uso del testo scientifico sul palcoscenico, ovvero il modo con cui la scienza possa parlare a teatro, ha scompaginato le stesse forme della drammaturgia, non costruita su pensieri astratti, ma su copioni capaci di parlare di scienza. In questo capitolo esaminerò alcune commedie scritte, se vogliamo, nella forma tradizionale, quella dei testi nati per la scena, e analizzerò i trattati scientifici che hanno trovato la via del palcoscenico, non sempre in maniera impropria. Il teatro, quando raggiunge alti livelli, è un luogo di dibattito, con una forza provocatoria tale da dividere, non solo gli spettatori di professione, ma anche politici, religiosi, uomini di scienza, pubblico in generale. È quanto accadde col Galileo di Brecht, ovvero con un testo «scandalo» che aprì un ampio dibattito sulla capacità di tradurre, in linguaggio teatrale, quelle che furono le responsabilità dei primi protagonisti della scienza moderna, responsabilità che confronterò con quelle che apparterranno ai protagonisti della scienza contemporanea. Dal Galileo di Brecht a Infinities di Barrow, a Copenaghen di Michael Frayn, a Variazioni sul cielo di Margherita Hack, molte cose sono cambiate, anche nel rapporto tra uomo e scienza; diciamo che è venuta a mancare la dicotomia che ha creato un particolare distacco tra cultura umanistica e cultura scientifica, mentre si è sempre affermata una libertà di pensiero, confortata dalla democratizzazione della cultura scientifica, oltre che da una maggiore divulgazione, benché spesso il rischio della divulgazione possa coincidere con una dose di banalizzazione. Il grande teatro, quello che crea divisioni, controversie, dibattiti, non può permettersi questo; non se lo permise Brecht quando scrisse Galileo, né se lo permisero Friedrich Dürrenmatt con I Fisici (1966), Heinar Kipphardt con Sul caso J. Robert Oppenheimer (1965), Salvato Cappelli con Duecentomila e uno (1966), Michael Frayn con Copenaghen (2001), tutti testi di autori che hanno scritto per il teatro; né se lo sono permessi due scienziati come John Barrow o Margherita Hack, che con il teatro non hanno nulla a che vedere. Il problema potrebbe essere un altro, ovvero: fino a che punto il teatro può tradire il concetto di scienza? Fino a che punto l'uso del dialogo può nuocere alla comprensione, nel senso profondo, della ricerca? Può il teatro fare ricerca così come fa la scienza? Ne ha i mezzi? Dal punto di vista tecnico, il teatro ha raggiunto risultati inimmaginabili; ma la tecnica non è a sua volta, l'effetto di scoperte scientifiche? Credo che il vero teatro sia quello che si mette sempre in discussione, proprio come la scienza, per essere protagonista della sua contemporaneità; un teatro che vive della gloria del suo passato è simile alla scienza che vive della gloria delle sue scoperte; pertanto, sia l'uno che l'altra, non possono non guardare sempre avanti. Quando Dürrenmatt scrisse I Fisici, sapeva di scrivere una storia paradossale, convinto che, come i logici, neppure i fisici possano evitare il paradosso; ma soprattutto era consapevole del fatto che il suo testo non poteva avere per oggetto i contenuti della fisica, quanto quelli dei suoi effetti, che non riguardano gli scienziati ma gli uomini in generale; pertanto, utilizzando il paradosso, egli non faceva altro che accontentarsi, il più possibile, della realtà.

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Pagina 119

Circa un anno dopo, Giorgio Strehler decide di ritornare sull'argomento, con una novità di Salvato Cappelli: Duecentomila e uno, che, pur trattando il tema della bomba sganciata su Hiroshima, va alla ricerca, non dei reati politici, o di quelli scientifici, bensì delle possibili ripercussioni individuali. Il teatro-scienza, in questo caso, si interroga e ci interroga sulle responsabilità di chi esegue gli ordini di sterminio, di chi utilizza la scienza, non a scopi umanitari, ma per fini disumani; di chi uccide duecentomila persone e di chi ne uccide soltanto una. Non è possibile, sembra dirci l'autore, che non esistano delle responsabilità, delle colpe; delle convivenze tra coscienza individuale e coscienza collettiva; non è possibile che la conoscenza, accumulata dall'uomo moderno, non sia sufficiente a proteggerlo dalle insidie e dai pericoli dei ritrovati scientifici; così come non è possibile che lo scandalo della sofferenza sia semplicemente oggetto di un processo indiziario; può e deve esistere un'azione espiatoria per chi è responsabile di una catastrofe atomica? È sufficiente un'indagine di tipo morale? Salvato Cappelli porta in scena questi interrogativi, utilizzando, come protagonista, il pilota che lanciò la bomba su Hiroshima; ne ricostruisce il comportamento ne studia le azioni e le reazioni, i rapporti con i compagni della disavventura oltre che i processi delle loro coscienze. Sul palcoscenico, Strehler ricostruisce la famigerata era atomica, con la conseguente possibilità dell'apocalisse, evidenziando l'ingenua credenza di chi pensa che quel che è accaduto non debba più ripetersi, con la convinzione che nessuna distruzione di materiali atomici possa rappresentare una vera garanzia per l'umanità. La struttura del testo è ancora quella del teatro-documento, con una commissione d'inchiesta che sta indagando su un semplice omicidio, la morte del generale Greene, il più tenace assertore della necessità della guerra, considerato il peggiore dei cinque che parteciparono allo sgancio della bomba, per il suo acceso militarismo, per essere rimasto il solo a non aver avuto un complesso di colpa, e a mostrarsi pronto a rifare quello che ha fatto. Dell'omicidio è accusato Nicola Dafour, colui che ha maggiormente risentito dell'accaduto, che ha sentito la coscienza ribollire, che ha continuato a porsi delle domande, fino a diventarne ossessionato, e quindi a divenire oggetto di una patologia da curare in ospedale psichiatrico; scopriremo, alla fine, che ad uccidere il generale sia stata Gloria, forse per salvare Nicola da una violenta colluttazione con Greene, o perché ha capito che lui non lo avrebbe mai fatto. In fondo, Greene diventa il capro espiatorio di una tragedia della quale i responsabili sono coloro che danno gli ordini, i quali sono convinti che ogni guerra annulli le colpe individuali. Ad un certo punto, Gloria dirà a Nicola:

Guarda bene in faccia chi giura che uno vale duecentomila! Chi lo dice non difende il diritto di ognuno alla vita ma l'arbitrio di ammazzare duecentomila, o di più. La nostra è una specie avara e sa che i numeri vanno rispettati, che sono vive, vere entità. Tu lo sai, e sei un uomo. Greene lo nega, ed è un robot.

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Pagina 126

[...] In verità, il problema è un altro e consiste nel capire in che maniera un'opera scientifica possa essere risolta in poesia, e in che modo possa soddisfare il piacere del lettore o dello spettatore. Luca Ronconi ha pensato sia alla prima ipotesi che alla seconda, nel senso che ha immesso lo strano «copione» di Barrow in un clima poetico e ha permesso al pubblico di divertirsi, facendogli seguire le cinque sequenze, in cui è strutturato lo spettacolo, in uno spazio apocalittico, di 2500 metri quadrati, qual è quello degli ex laboratori della Scala, alla Bovisa, avvalendosi di 12 attori, 22 allievi della scuola del Piccolo, 19 ricercatori del Politecnico. Il risultato è stato duplice: uno ideologico e uno drammaturgico. Grazie al primo, Ronconi ha dimostrato come la divulgazione scientifica non fosse opera soltanto degli addetti ai lavori; grazie al secondo, il regista è riuscito a tradurre le astrazioni nel suo consueto linguaggio scenico, utilizzando cinque spazi e facendo ricorso a tutti gli accorgimenti tipici di uno spettacolo, ovvero al suo inconfondibile linguaggio scenico che, in questo caso, si protrae all'infinito, come la trama intessuta da Barrow e costruita su cinque scene: quella dell' Albergo infinito, collocata in uno spazio fatto di ballatoi con parapetti di protezione, che si allungano per otto piani e che offrono alla vista una serie infinita di camere; quella di Vivere in eterno, come se la morte non esistesse, ambientata in uno spazio ristretto e buio, dove una trentina di sagomatori illuminano le facce degli attori, rese spettrali da maschere di lattice, che si muovono utilizzando carrelli ospedalieri o di altro tipo, montati su un apparato scenico che utilizza delle strutture in acciaio e che permette agli attori di muoversi all'infinito, mentre recitano brani di testi di Clark, Swift, Barnes. Da questo luogo buio si passa in uno spazio labirintico una specie di Biblioteca di Babele di Borges o di Castello di Kafka, dove si porta in scena il Paradosso della duplicazione, secondo il quale, in un universo di grandezza infinita, qualsiasi cosa abbia una probabilità diversa da zero di accadere, accade un numero infinito di volte, con un numero infinito di nostri «doppi». Lo spazio costituito da corridoi, con armadi che arrivano fino al soffitto e specchi che ne prolungano la vastità, dà allo spettatore l'idea di trovarsi immerso in un dedalo, dove si aggirano degli esseri che sembrano clonati e che attraversano questi armadi con appositi ponti di legno, mentre, con strane macchine elettriche, si muovono avanti e indietro, lungo i corridoi. Dalla sala della Biblioteca si passa ad una Sala di lettura, con lunghi tavoli pieni di libri, lavagne bianche appese ai muri, dove si affronta il tema degli Infiniti numerabili e si discutono le teorie di Cantor, il grande matematico che morì nel 1918, in una clinica psichiatrica, noto anche ai teatranti per aver voluto provare che il vero autore dei testi di Shakespeare fosse Francis Bacon. L'ultima tappa è quella che ci trasferisce in una specie di Macchina del tempo, dove vengono utilizzate le dottrine di Gödel, forse il più grande logico del Novecento, il quale scoprì che la teoria di Einstein consente che si verifichino viaggi nel tempo, senza sapere, però, se si possono realizzare nel nostro particolare universo. Terminate le sequenze, il pubblico è invitato, se vuole, a ripeterle all'infinito. Serata certamente memorabile, perché lo spettatore non esce soltanto con la consapevolezza di aver assistito ad uno spettacolo di Ronconi, ma di essere stato protagonista dell'esistenza di un teatro infinito, la cui forza consiste nel farti credere ancora di essere al centro di un universo non virtuale, dove la tua presenza diventa necessaria quanto quella della scienza, che, magari, con le sue esagerazioni, riesce a raccontarti delle vicende umane, esaltandone persino le componenti parodistiche, grazie ad un copione che sa fare interagire concetti appartenenti alla matematica, con la biografia degli scienziati; ma grazie anche a Ronconi che filtra questa materia con distacco ed ironia. Sicuramente, Infinities segna una tappa fondamentale nel percorso che stiamo facendo sul rapporto teatro-scienza; apre una serie di interrogativi sulla funzione stessa del teatro, sulla sua capacità di andare oltre una drammaturgia logora, invecchiata, che si rotola su se stessa, senza riuscire più a dialogare con il pubblico, a renderlo partecipe, se non a educarlo.

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