Copertina
Autore Nadine Bismuth
Titolo La fedeltà non fa notizia
EdizioneVoland, Roma, 2003, Amazzoni 22 , pag. 156, dim. 145x206x10 mm , Isbn 978-88-88700-05-2
OriginaleLes gens fidéles ne font pas les nouvelles
EdizioneLes Éditions du Boréal, -, 2001
TraduttoreCristiano Felice
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa canadese
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Indice

Un segreto ben custodito                PAG   7
Il Giardino dell'Eden                   PAG  13
Fonduta cinese                          PAG  19
Amore a buon mercato                    PAG  35
Il brunch                               PAG  39
Buona fortuna!                          PAG  53
La damigella d'onore                    PAG  61
Una patata bollente come il mio cuore   PAG  75
Sito storico                            PAG  82
Vaniglia o cioccolato                   PAG 104
Grasso di prosciutto                    PAG 1l7
La tradizione                           PAG 123
La fedeltà non fa notizia               PAG 144
 

 

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Pagina 7

UN SEGRETO BEN CUSTODITO



Quando ho visto il signor Séguin stecchito dentro la bara, è al buon Dio che ho pensato per prima cosa. Ma è durato poco. Ero troppo impegnata a sistemarmi per bene gli occhiali scuri sul naso e abbassare il berretto blu ancora più giù, fin sulle orecchie. E poi faceva così caldo, e io ero così nervosa all'idea che un collega del signor Séguin spuntasse dal nulla e si avvicinasse a me dicendo: "Ma che ci fa lei qui?" Per calmarmi dovevo ripetermi ogni secondo che il giorno prima mi ero fatta tingere i capelli biondi di un nero corvino ed ero quindi irriconoscibile. Ma avevo lo stesso i brividi per tutto il corpo. Forse era la vista della salma a spaventarmi. Il fatto è che la morte non si addiceva granché al signor Séguin: la pelle era bianca, flaccida e piena di rughe. Cercavo di vederlo bello e attraente, ma era impossibile. L'infarto, insieme alla vita, gli aveva portato via anche il fascino. Ho posato in terra il mazzo di fiori vicino alla bara, tra gli altri, e sono andata a sedermi.

È stato in quel momento che è entrata la moglie. L'ho riconosciuta subito. Indossava un vestito azzurro mare a piccoli pois bianchi e uno scialle rosso le copriva le spalle. Quando mi è passata accanto ho percepito un lieve profumo. Si è avvicinata al feretro e ha tirato fuori un fazzoletto dalla borsa. Ha accarezzato il viso del signor Séguin e ha cominciato a sussurrargli alcune parole che non sono riuscita a capire. Ne ho osservato le braccia magre che si muovevano al di sopra della bara e questo mi ha consolato un po': fra noi due probabilmente era lei a soffrire di più.

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Pagina 22

Jean prese un cucchiaio di salsa ai tre pepi e lo versò in un angolo del piatto; ripeté lo stesso gesto con la salsa béarnaise e la salsa al curry, di un arancione cosi intenso da avvicinarsi quasi al rosso. All'improvviso disse: "Quando si vedono quei bambini per le strade di Calcutta, pensi veramente che l'inferno sia qui, su questa terra. Non si può immaginare una scena peggiore, proprio non si può descrivere. Bisogna vederla, e basta." Lasciò sgocciolare il brodo dal pezzetto di carne sulla pentola della fonduta, lo mise nel suo piatto e lo immerse nella salsa al curry. Soffiò e lo portò alla bocca. Masticò lentamente, inghiotti e infine aggiunse: "Bisogna vederla: è cosi assurdo, non si può descrivere, non ci sono parole." Scosse gravemente la testa, come se stesse soffrendo più per il fatto di non riuscire a spiegarsi che per le disgrazie che voleva descrivere.

Lise pensò a Calcutta, a quel reportage terribile e appassionante che aveva visto pochi giorni prima in televisione. Era su Madre Teresa e intorno a lei c'erano molti bambini, sicuramente gli stessi di cui parlava Jean: credette allora di capire quello che lui voleva dire. Ricordò il viaggio in India e in Indonesia che Murielle e Jean avevano fatto l'anno prima. Erano stati via un mese; Lise era passata alcune volte a casa loro per innaffiare le piante. Per ringraziarla le avevano regalato la statuetta di un piccolo uomo buffo e panciuto: "È Buddha" aveva detto Jean. Lise l'aveva trovata carina. Laveva sistemata nel seminterrato, sulla mensola sopra la lavatrice. Però doveva cambiarle posto, dato che ogni volta che prendeva la scatola del detersivo o l'ammorbidente, la statuetta rischiava di cadere. Quel posto non era per niente adatto.

"Lise, questa fonduta è deliziosa, un vero successo: sei straordinaria" esclamò Murielle mentre tirava fuori dal brodo un pezzettino di broccolo. Normand era d'accordo e Jean fece un discreto cenno di assenso con il capo. In realtà avrebbe voluto replicare: "Per favore Murielle, non dire una cosa cosi ridicola." Come ci si poteva sbagliare a preparare una fonduta cinese? Bisognava proprio essere terribilmente sfortunati, oppure veramente maldestri. O piuttosto semplicemente cretini? A ogni modo le rispose "Grazie" pensando che avrebbe potuto servire un arrosto, un pollo o del pesce. Ma Murielle e Jean erano amici di vecchia data. Lei e Normand non li vedevano da quasi quattro mesi e la fonduta cinese era sembrata il piatto più informale che ci fosse: tutte le forchette nello stesso brodo, tutti a nutrirsi dallo stesso seno, tutte le anime in perfetta comunione. "Già... la fonduta cinese non è forse il piatto che crea un'atmosfera di osmosi collettiva?" si era detta, convinta della bontà della scelta.

Jean prese un fungo con la forchetta e lo immerse nel brodo. Urtò la forchetta di Normand che, a sua volta, toccò quella di Murielle. "Il Borobudur, a Giava" disse Jean con tono assente. "Quando vedi quel monumento ti senti cosi piccolo, cosi minuscolo, così... un nulla. Nulla, non è forse ciò che siamo tutti? Poi il Borobudur, quando lo vedi, è come se all'improvviso ti sentissi una cacca, o un granello di polvere." Jean mimando cercò di mostrare qualcosa che rendesse l'idea di un granello di polvere. Aveva avvicinato il pollice all'indice e corrugato gli occhi per mostrare fino a che punto fosse microscopica la distanza fra le dita. A Lise venne la pelle d'oca: no, era impossibile, non sarebbe mai stata cosi piccola. Mai e poi mai. Jean esagerava sempre un po'. Però, se proprio doveva scegliere, pensò che sarebbe stato meglio diventare una cacca piuttosto che un granello di polvere. Cosi poteva rimanere attaccata alla terra e non sarebbe stata trasportata in eterno dal vento. L'instabilità non la sopportava proprio.

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Pagina 61

LA DAMIGELLA D'ONORE



- Vino bianco o rosso?

Non ho esitato: ho preso il bianco. Dopotutto eravamo ancora all'aperitivo. Il cameriere ha riempito il bicchiere e ha continuato a girare per i tavoli facendo a tutti la stessa domanda.

Ne ho bevuto un sorso e poi ho alzato lo sguardo: in alto, proprio al centro del soffitto, c'era un enorme lampadario sospeso, ma era difficile capire come si reggesse. Catene non ne vedevo. Pareva stare su da solo, come per magia. Era un sole? Chissà! Mi è sembrato altrettanto abbagliante, e sono sicura che se lo avessi fissato ancora per qualche istante mi sarebbero venute le vertigini o addirittura sarei diventata cieca. Purtroppo quello non era proprio il momento giusto per ammalarsi, e così ho riabbassato lo sguardo all'altezza della sala.

Gli invitati erano tanti e si erano tutti seduti ai tavoli loro assegnati. Questi erano rotondi, e con i colori intensi degli abiti creavano un caleidoscopico effetto. Ho cercato di riconoscere qualche volto familiare, ma non avevo gli occhiali con me. A dire il vero la cosa non mi ha disturbato più di tanto.

Ho preso dalla borsetta un pacchetto di sigarette, ed è stato in quel momento che quasi furtivamente nella sala ha cominciato a sollevarsi un brusio. All'inizio era qualcosa di appena percepibile. Poco a poco è aumentato, fino a divenire insopportabile. Ho guardato le persone intorno a me: sembravano partecipare tutti a questa sorta di spettacolino che consisteva nel far tintinnare i bicchieri con le forchette. Alcuni hanno cominciato a gridare "Bacio! Bacio!" altri, forse gli stessi, a battere i piedi in terra. Alla fine mia sorella si è alzata seguita da Michael e si sono baciati. Gli applausi sono durati più del bacio degli sposini, e alla fine ognuno ha ripreso il proprio posto.

Anche mia sorella ha cercato di sedersi ma non è stato così semplice. Il vestito era troppo grande. La mamma si è alzata per aiutarla e la signora Smith, la madre di Michael, si è data da fare pure lei. Nel giro di cinque minuti la situazione era di nuovo sotto controllo, e il vestito ben sistemato fra i braccioli della sedia. Mia sorella non sembrava contenta; si è chinata verso Michael e mi è parso di sentirle dire che alla prossima sinfonia di forchette non si sarebbe alzata. Quello che ha detto Michael non l'ho capito, ma era sicuramente d'accordo con lei. Poi il corpulento signor Smith ha gridato che con quanto gli era costato affittare la sala dei ricevimenti dell'hotel, trovava scandaloso che non avessero una sedia abbastanza grande per il vestito vaporoso e fluttuante della sposa. Forse lo diceva per scherzare, però credo che nessuno si sia messo a ridere eccetto lui, perlomeno non a lungo.

Mi sono accesa una sigaretta e Karl ha fatto lo stesso. Era seduto alla mia sinistra e vicino a lui c'era Katie, la moglie del fratello di Michael. "Per favore, potreste soffiare il fumo dall'altra parte?" ha detto. Karl l'ha guardata con aria educata ma interrogativa al tempo stesso: "Sono incinta di sei mesi" ha detto seccamente Katie. Karl si è voltato verso di me con la sua espressione dubbiosa, le sopracciglia aggrottate, la fronte corrugata. Chiaramente non aveva notato che Katie era incinta e non l'avrei sospettato nemmeno io, se non me lo avesse detto mia sorella quella mattina. Il fatto è che, incinta o no, Katie è grassa. Probabilmente anche lei sapeva di non poter tacciare il mio ragazzo di mancanza di rispetto nei confronti delle donne incinte, poiché nulla a prima vista lasciava intuire la sua gravidanza, salvo forse il fatto che, alla domanda del cameriere "Vino bianco o rosso?" lei aveva ordinato un virgin ceasar. Però questo Karl poteva anche non averlo sentito.

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Pagina 82

SITO STORICO



Nel maggio scorso Mathieu ha avuto l'idea del viaggio in Europa. La prima volta che me ne ha parlato non sembrava volermi includere nel progetto. In seguito, ogni volta che dalla sua bocca uscivano parole come 'viaggio', 'Europa', o 'estate', cominciavo a piagnucolare, e lo facevo così bene che alla fine mi ha chiesto di andare con lui. Ho domandato ai miei cosa ne pensassero. Dopo una breve consultazione mi hanno firmato un assegno da cinquemila dollari, dicendo che in fin dei conti i viaggi sono concepiti per formare i giovani. Allora io e Mathieu abbiamo fatto i passaporti, comprato i biglietti per l'aereo, preparato i bagagli - due grossi zaini - e siamo partiti per Lisbona. Era la metà di giugno.

So che molti ragazzi della mia età sognano di visitare l'Europa. Durante tutto l'anno, finite le lezioni, si precipitano sui loro lavoretti da commessi nei negozi di calzature o nei fast food per poter volare, una volta arrivata l'estate, verso il vecchio continente. Per me non era così. Certo, ero ansiosa di rivedere con occhi di giovane donna i paesi visitati da bambina ma, a essere sinceri, secondo me il grande vantaggio di questa storia era che il signor Laflèche, padre di Mathieu, un uomo d'affari sempre in viaggio, grazie alla sua ditta era riuscito a intrallazzare qualcosa per farci avere tariffe bassissime nella catena degli hotel Hilton. Questo rendeva il viaggio davvero conveniente: grandi letti matrimoniali, bagni spaziosi, televisione, pay TV, telefono, servizio in camera a ogni ora del giorno e della notte, minibar ben fornito e altro. Insomma le piccole comodità di casa propria, ma dall'altra parte del mondo. Ero contentissima. A volte Mathieu, col viso nascosto dietro una mappa o una guida turistica, mi comunicava il desiderio di visitare qualche angolo sperduto del pianeta; allora controllavo nell'annuario internazionale Hilton gentilmente prestatoci dal signor Laflèche e poi nove volte su dieci dicevo: "Li è impossibile. Non ci sono Hilton nel raggio di dieci miglia."

Tutto è andato a meraviglia fino ad Amsterdam quando una sera, a circa metà viaggio, Mathieu ha detto con voce più ferma del solito di averne abbastanza degli Hilton dall'odore asettico; da quel momento in poi voleva dormire in posti più piccoli, tipici e autentici. Stavamo tornando da una passeggiata a Vondel Park quando, mentre apriva con la chiave la porta della camera, ha detto:

- Elsa, ho voglia di cose vere, antiche, sono stufo di queste stanze che si somigliano tutte, a Barcellona come a Parigi.

Poi è andato a prendere dallo zaino la guida degli ostelli della gioventù che, con mia grande gioia, non ci era ancora servita. Mentre aspettavo il suo verdetto mi sono accesa una sigaretta. Gli ho accarezzato la schiena con la punta delle dita, sperando che cambiasse idea, per distrarlo ho persino proposto una puntata veloce al quartiere a luci rosse, ma non è servito a niente. Con gesto deciso ha richiuso la guida e mi ha annunciato:

- Domani andiamo a Domburg. Si trova a sud, a due ore da qui. L'ostello è segnalato come sito storico, deve essere un bel posto, semplice e con tutte le caratteristiche di cui ti ho parlato. Torneremo dopodomani, visto che abbiamo già prenotato i biglietti del treno per Monaco.

Ho cercato di sorridere perché, a dirla tutta, non ero per niente entusiasta. Mathieu è andato in bagno e io di nascosto ho controllato nell'annuario Hilton se ce n'era uno a Domburg: la città non figurava nemmeno sulla carta. Ero spacciata.

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