Copertina
Autore Claude Bleton
Titolo I negri del traduttore
EdizioneVoland, Roma, 2006, Intrecci 46 , pag. 122, cop.fle., dim. 145x205x9 mm , Isbn 978-88-88700-61-8
OriginaleLes Nègres du traducteur
EdizioneMétailié, Paris, 2004
TraduttorePaola Carbonara
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa francese
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Pagina 9

Vedi, ora mi dedico alla forma. A quella delle bottiglie, per esempio. Ovali, allungate, panciute. Le mie dita scorrono sulla loro sagoma. Compro, stappo, svuoto. Con entrambe le mani tra il culo e il collo. In via del tutto accessoria, bevo. Una volta leggevo le etichette, sceglievo i crus, restavo a lungo incerto. Sapere quello che si fa, sapere quello che si beve. L'attesa faceva parte del piacere. Quando bevevo, ne lasciavo sempre un po' sul fondo — la feccia. Una parola fin troppo graziosa rispetto a ciò che designa. Poi buttavo la bottiglia. Vedi, un buon modo per misurare la strada fatta: ora me ne frego del gusto. Da questo mi rendo conto che sono cambiato. Ma mi chiedo quando sia successo.

Un tempo bevevo un primo bicchiere, lentamente, passaggio obbligato lungo il palato. Gli altri a seguire. Oggi tutto ha lo stesso sapore, dall'inizio alla fine. E non lascio più nulla sul fondo, perché dovrei, visto che non si deposita più nulla nelle bottiglie. Potrei tranquillamente cominciare dall'ultimo bicchiere. Fine, inizio, non faccio più distinzioni. Invece di sistemare, rimetto tutto in disordine. Come Aurore. Aurore... Appena parlo di lei riaffiorano colori e odori, i due grandi assenti di oggi. L'avevo incontrata a un cocktail. Mentre stavamo per andare via i nostri sguardi si incrociarono. Perché? E perché ci siamo scambiati gli indirizzi? Nessun calcolo in quell'istante. E quando è, allora, che si è insinuato tra di noi? Sicuramente quando gli istanti si sono mescolati. Sicuramente nella successione degli istanti. Ma ho l'impressione di prendere tutto al contrario. All'improvviso mi infastidisce bere l'ultimo bicchiere prima del primo. Mi piacerebbe rimettere il vino al dritto. Perché non ha più nessun gusto? Non è stato sempre così. Dammi un'altra bottiglia. Riesco ad accarezzarle solo quando sono piene. Solo allora la carezza ha ancora un senso.

Quando incontrai Aurore, mi sembrò un'ingiustizia non averla incontrata prima. Improvvisamente provai rancore verso di lei perché aveva una vita privata. Perché non era comparsa nel momento in cui lo avevo deciso io. E smisi di credere che la vita è una strada più larga che lunga da percorrere lontani dalle vie già battute. Ma le cose non accaddero affatto come ti ho appena detto.

– Vuoi che ti racconti delle storie?

- Sì.

La semplicità della risposta fu disarmante. Sì. Eppure non ci conoscevamo. Avrei potuto essere lo strangolatore, il serial killer del quartiere. La fiducia è un fenomeno incomprensibile. In seguito ne ho largamente approfittato. La rividi a casa sua, la settimana dopo, un ultimo piano nel XII arrondissement. Capelli biondissimi, lunghissimi, lineamenti un po' accozzati, sguardo limpido, passo leggermente claudicante ma portamento assai eretto. Una sportiva. E soprattutto due occhi straordinariamente azzurri. Iniziai subito, me lo ricordo, con una delle storie di Chiudilocchio.

C'era un lungo sentiero erboso, una radura, un albero. E una profusione di animaletti, ovviamente. Si avvicinava la tempesta e la foresta era tutta in subbuglio... Palpitante proprio come il suo cuoricino che sussultava sotto il mio palmo, attraverso il seno.

Questo tipo di storia deve sembrarti ridicolo. Non è di quelle che si raccontano a una ragazza al primo incontro. E tuttavia Aurore ascoltava con tutta se stessa. Per otto ore raccontai le avventure di Chiudilocchio. Poi rientrai, sfinito. Lei mi aveva gentilmente spinto verso la porta e baciato sulle guance. Uscendo sentii nascere il disordine. All'improvviso sentivo che la vita non è una lunga infanzia, le storie sono un rifugio illusorio contro la memoria e il passato, anche se sotto mentite spoglie, ritorna.

Bisogna però che proceda con ordine. Innanzitutto il primo bicchiere, in nome della fedeltà alle mie manie di un tempo. Questa mania dei racconti l'ho ereditata da me stesso, dalla mia infanzia. Non ho ricordi, solo storie. Cominciai il mio primo romanzo all'età di dieci anni. A dieci anni e mezzo ne avevo scritte diciotto pagine. Impossibile andare avanti. Impossibile anche far partire una macchina. Mi sembrava che scrivere "la macchina partì" fosse un'impostura e i lettori avrebbero capito subito che non ne sapevo nulla di meccanica e di guida. E soprattutto pensavo che non avrebbero capito la successione degli eventi. Osservavo la gente al volante, scoprivo l'esistenza di cambio, frizione, accensione, freno a mano in alcuni casi... ma non sapevo come collegare tra loro questi elementi. E a volte avevo l'impressione, invece di scrivere un romanzo, di redigere un manuale per imparare a guidare. Strappai quindi pagine su pagine dal mio quaderno poiché la macchina non riusciva a partire e i delinquenti avevano tutto il tempo di prendere il largo.

Impiegai altri sei mesi per realizzare, dopo un calcolo estremamente complesso per un bambino della mia età, che a quel ritmo mi ci sarebbero voluti quarant'anni per finire un primo romanzo. Compresi che non sarei mai stato un autore e che la soluzione migliore era di ricopiare quanto gli altri avevano scritto. L'inizio di una vera vocazione da pigro: sarei diventato traduttore. Certamente, all'epoca, mi attiravano altre strade. Pompiere o motociclista. Ma tali carriere non erano meno legate a quei medesimi problemi tecnici di partenza, manutenzione ed equilibrio precario tra i pedali del freno e della frizione. Posso dire, senza timore di esagerare, che le scatole del cambio sono all'origine della mia vocazione di traduttore.

Dopo aver fissato il mio obiettivo, mi restava da decidere come raggiungerlo.

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Pagina 37

Un editore parigino, ovviamente incontrato a una cena – è incredibile quanto mangino gli intellettuali – ricevette un'eloquente chiamata da Barcellona: era appena uscito un libro, notevole, un best seller, già alla quarta edizione e gli si consigliava vivamente di pubblicarlo in francese, del resto un certo Aaron Janvier, parlandone, aveva fatto intendere che sarebbe stato un successo garantito per chi si fosse arrischiato a tradurlo.

Devo dire in verità – farlo una volta non costituisce un'abitudine – che non si trattava di un editore qualunque, ma di Cyril Deschanel, direttore e fondatore di La Graverse, coraggiosa casa editrice famosa per le sue audacie editoriali e la sana gestione. E questo signore, anche se ancora non lo sapevo, stava per essere strettamente legato alla mia carriera, nelle sue fasi alternativamente ascendenti e discendenti.

L'editore in questione aggrottò la fronte, affidò l'opera ad alcuni lettori ispanisti che redassero le loro schede di lettura. La storia era la seguente: dopo la morte di Franco, per riconciliare "le due Spagne" il governo decide di far adottare l'animale domestico di una famiglia franchista da democratici dichiarati, sperando in questo modo di contribuire all'avvicinamento di due frange estreme fino ad allora inconciliabili. Il cane di una famiglia notoriamente fascista, stranamente chiamato Ichka (anticomunismo istintivo! Come spiegare altrimenti perché dei franchisti puri e duri avessero dato un nome russo all'animale?), viene adottato da una famiglia repubblicana che ha appena fatto ritorno in patria. All'inizio il cane rifiuta il cibo, ma grazie alla pazienza dei due figli di questa famiglia unita, alla fine ricomincia a mangiare e recupera la salute. All'inizio i genitori dicono ai figli: "Lasciatelo crepare!" impedendo al cane di entrare nella stanza dei pargoli malgrado le suppliche dei bambini che non hanno i pregiudizi degli adulti, a dimostrazione che il conflitto generazionale racchiude aspetti positivi rispetto alla Storia con la s maiuscola. Questa favola toccante, sorta di metafora sulla transizione democratica, era stata accolta con favore dalla critica spagnola. Il libro si vendeva come il pane e si parlava perfino di un adattamento cinematografico.

L'editore mi propose un contratto. Per me era il primo, avevo ventitré anni. Mi circondai di ogni garanzia possibile per portare a buon fine il lavoro. Innanzitutto, lo scrittore parlava il francese e quindi avrebbe potuto aiutarmi; d'altro canto avevo l'orecchio e l'amicizia di un filosofo — per essere precisi quello che negava l'esistenza di una letteratura classica — che ebbe la bontà di rileggere il tutto. Alleggerì la forma, mi insegnò a rendere scorrevole un testo ("chiuse dolcemente la porta dietro di sé e scese le scale" diventava quindi "si defilò", e "lo farei di nuovo se dovessi farlo" cambiava in "c'è tempo"), mi consigliò anche di eliminare il discorso indiretto, residuo di forme letterarie superate, e di sostituirlo con il discorso diretto e i trattini del dialogo, il che mi obbligò ad alcune forzature quando davo la parola al cane. Il giovane filosofo mi consigliò anche di trasformare l'identità dell'animale per adattarlo al gusto francese. Così, Ichka divenne Mohamed, e la transizione democratica divenne l'integrazione repubblicana. Poco a poco capivo in che misura tradurre volesse dire ricreare. Ne approfittai per nazionalizzare i personaggi principali lasciando spagnoli solo la domestica e un muratore chiamato d'urgenza per aggiungere un tramezzo nella stanza dei bambini – i genitori non avrebbero assolutamente permesso che la loro progenie coabitasse con un cane, sospettato di essere arabo, quindi musulmano, ovvero terrorista, e in ogni caso non cattolico.

Questa prima traduzione conobbe quello che può definirsi un successo di stima. Ebbe l'onore di un trafiletto su tre supplementi letterari (ad esempio: "Questo breve romanzo giunto dalla penisola riflette in maniera stupefacente una verità che supera di gran lunga le frontiere iberiche") e durante le festività fu citato tra i duecento migliori libri dell'anno. Così avevo ipotecato la mia carriera. L'editore era entusiasta, perché gli avevo restituito il testo in un francese a lui comprensibile. Si era limitato a suggerire di cambiare la razza del cane: preferiva un animale a pelo corto, dava un'idea di pulito e rendeva l'integrazione più credibile.

Davanti a questo primo successo mi tuffai nella lettura con rinnovato ardore. Rileggendo Alla ricerca del tempo perduto fui tentato di riscrivere il racconto con un approccio un po' austero, ma tutto sommato ero ancora un novellino; mi sarei potuto dedicare a imprese di simile spessore solo dopo avere un po' consolidato la mia situazione. E poi la Recherche... era già ufficialmente in francese.

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Pagina 69

In realtà l'interesse per la letteratura portoghese fu del tutto ca- suale. Avevo aiutato Pura Romero Zapatero, una ragazza che su mia indicazione aveva scritto I flauti, romanzo senza successo (del resto ne ho dimenticato il contenuto ma è piuttosto facile da immaginare: si prende un uomo, una donna, una madre, la morte che incombe e si mescola il tutto). L'avevo incontrata a Pontevedra, remota città della Galizia dove mi aveva presentato un amico portoghese, scrittore emergente invitato a un congresso di intellettuali iberici: João Brendao. Aveva talmente tanti progetti che bisognava quasi mettergli un bavaglio per riuscire a dire due parole di fila in sua presenza, comunque non tardai a trovarne il punto debole: desiderava sopra ogni cosa essere riconosciuto come il grande simbolo dell'anima portoghese all'estero, come un tempo era stato per Amalia Rodrigues in un campo diverso.

– João Brendao, amico mio, mi occupo di tutto io – gli dissi alla fine della cena durante la quale ci eravamo conosciuti. – Hai un talento innato per descrivere i percorsi insondabili della straziante saudade dell'anima lusitana, farai piangere tutta l'Europa e i lettori verranno con interi pullman a visitare la patria della nostalgia universale e del dolore senza fondamento. Ti indicherò su quali temi esercitare il tuo talento, ti lascerò libero di invertire i verbi, accumulare aggettivi, utilizzare incisi dall'insopportabile suspense, in una parola dovrai solo scrivere quel che vorrai, la mia traduzione sarà lì per guidarti sul cammino della creazione.

Insomma esposi a questo nuovo collaboratore un manifesto inattaccabile del perfetto scribacchino desideroso di diventare grande scrittore. Versò una lacrima, non so se di riconoscenza o di rimpianto, per alcune illusioni svanite che peraltro lo attraevano in quanto singhiozzo supplementare da aggiungere al programma di saudade.

Poco tempo dopo gli inviai una versione quasi completa anche se solo abbozzata di La nostalgia del diavolo, serie di variazioni in tono minore sul rimpianto del diavolo di non essere stato alla fine l'angelo redentore, quanto piuttosto la vittima della scelta arbitraria di un Dio impavido e freddo; il diavolo rivendicava di essere l'unico ad avere sentimenti umani, di essere identico agli uomini, e si profilava così sin dal primo libro quella che sarebbe stata la caratteristica di tutta l'opera futura di questo giovane scrittore, pensavo, una cosmogonia intrisa di misticismo e nostalgia per il paradiso perduto, in cui Dio, megalomane e paranoico, avrebbe sempre sognato di diventare un giorno simile all'uomo, mentre il diavolo diventava la vittima di un sistema totalitario, e quindi divino.

Presentai con particolare piacere quest'opera a La Graverse. In effetti gli editori sollecitavano ogni tre o quattro mesi autori e traduttori a presentare i titoli di prossima pubblicazione ai rappresentanti i quali a loro volta avrebbero dovuto convincere i librai che le future uscite erano veri e propri capolavori destinati a vendite record.

In Francia il libro ebbe un successo immediato, in quanto dotato di ogni virtù: era corto, scritto grosso, le linee generali del messaggio contenute nelle prime righe ("Chi ha redatto questa legge iniqua che condanna il diavolo a essere il Diavolo nei secoli dei secoli"), il che risparmiava ai critici l'ingrato compito di leggere fino all'ultima pagina. Il libro spiegava attraverso una sorta di fatalità il grande smarrimento ideologico, o diagnosticato come tale dagli "specialisti", del mondo d'oggi; insomma veniva pubblicato in Francia in piena campagna elettorale e fu immediatamente considerato un severo pamphlet contro i politici che non sanno più se devono essere dio o il diavolo.

Su un settimanale dal notorio gusto per le frasi forti un critico aveva perfino scritto: "Se Corneille fosse stato portoghese, e se fosse vissuto nel XX secolo, è così che avrebbe scritto le stanze di Rodrigo...!" Ecco una conferma del mio talento, della qualità delle mie scelte, e la certezza di essere sempre al centro del dibattito. Qualche settimana dopo la pubblicazione del libro, l'editore di La nostalgia del diavolo me ne disse ogni bene e mi consegnò la lettera di un lettore appassionato che si complimentava con il traduttore per il suo zelo e talento.

Caro signore, io non la conosco e lei non conosce me, ma...

Riconoscevo la frase e lo stile. Un ammiratore fedele. Ancora meglio.

Quando il libro uscì in Portogallo, con due mesi di ritardo ovviamente – la puntualità non è una virtù iberica – fu accolto con entusiasmo assai più mitigato: si rimproverava all'autore di essere passatista e di dare dell'anima portoghese un'immagine premoderna che non avrebbe favorito la candidatura del Portogallo a entrare nel Mercato comune. Spiegai al mio amico João Brendao che non sapeva sfruttare al meglio tutte le virtù del portoghese e che, essendo ancora piuttosto giovane, non era stato in grado di padroneggiare l'originale lirismo della sua lingua senza essere schiacciato da un nazionalismo un po' angusto. Per confortarlo gli promisi che avrei preparato per lui un nuovo libro, molto più narrativo ma decisamente slegato, con dimensioni spazio-temporali talmente strapazzate che nessuno avrebbe potuto più rimproverargli di scrivere contro l'ammissione del Portogallo in Europa. Mi fu riconoscente per la sottile analisi e mi diede carta bianca.

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