Autore Fred L. Block
Titolo Capitalismo
SottotitoloIl futuro di un'illusione
Edizioneil Mulino, Bologna, 2021, contemporanea 304 , pag. 286, cop.fle., dim. 13,5x21,3x1,5 cm , Isbn 978-88-15-29312-1
OriginaleCapitalism. The Future of an Illusion
EdizioneUniversity of California Press, Oakland, 2018
PrefazioneEmanuele Felice
TraduttoreSimone Selva
LettoreRiccardo Terzi, 2021
Classe economia politica , storia economica , scienze sociali , globalizzazione












 

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Indice


Presentazione dell'edizione italiana,
di Emanuele Felice                                7

Ringraziamenti                                   17

I.   L'illusione capitalista                     19

II.  Elaborare un'alternativa                    49

III. L'illusione che la democrazia
     sia una minaccia per l'economia             85

IV.  L'illusione che l'avidità sia un bene      117

V.   L'illusione di un sistema immutabile       155

VI.  L'illusione di un ordine globale
     organizzato dal capitalismo                191

VII. Oltre le illusioni                         225

Postfazione                                     255

Riferimenti bibliografici                       271


 

 

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Pagina 19

1. L'illusione capitalista


«The economy, stupid», recitava una delle frasi che James Carville scelse per la campagna presidenziale condotta da Bill Clinton nel 1992 e che affisse nel quartier generale del candidato democratico a Little Rock. Quella frase fungeva da richiamo per tutto lo staff elettorale affinché profondesse ogni possibile sforzo per sottolineare quanto effimera fosse stata la ripresa economica sotto la presidenza di George H.W. Bush, lo sfidante in carica. Sia prima che dopo quella tornata elettorale, molte campagne presidenziali sono state decise dalla percezione che l'elettorato ha avuto dei punti di forza e di debolezza dell'economia americana. La sorprendente vittoria di Donald Trump nel 2016 si spiega in buona misura con il giudizio che una larga fetta dell'elettorato ha dato degli obiettivi raggiunti sul terreno economico dall'amministrazione Obama, giudicati insufficienti a generare i tassi di crescita attesi. Anche alcuni elettori che avevano creduto, all'epoca della sua elezione, nella capacità di Obama di aprire prospettive di ripresa e crescita economica si rivelarono scettici nei confronti di Hillary Clinton, ritenendo altamente improbabile che fosse in grado di creare posti di lavoro stabili e di aumentare i salari reali.

Molti elettori hanno ritenuto che i successi raggiunti da Donald Trump nei suoi affari fossero una garanzia, in merito alle sue capacità di gestire l'economia americana meglio della sua sfidante.

Se la scelta politica è fortemente condizionata dall'immagine che l'elettore ha dello stato di salute dell'economia, altrettanto importanti sono l'idea di economia che abbiamo, il suo funzionamento e le decisioni politiche che riteniamo necessarie per rafforzarla, o diversamente le misure che ne peggiorano le prospettive di crescita. Al giorno d'oggi pressoché tutte le forze politiche in campo, siano esse di sinistra, destra o centro, danno per scontato tanto la natura capitalistica dell'economia in cui viviamo quanto la sua capacità di autoregolarsi secondo una propria logica interna e la sua autonomia da altre sfere della società. Molti portano questa visione allo stadio successivo, sostenendo che se la politica adotta misure in stridente conflitto con questo tipo di economia capitalista e i suoi imperativi, ciò può avere effetti controproducenti e spingere il ciclo economico verso un sensibile rallentamento, con gravi effetti sull'occupazione.

[...]

Nonostante questa situazione, esiste una strada per uscire dal circolo vizioso costituito da speranze e frustrazioni circa il futuro dell'economia: si tratta di mettere in discussione l'idea che il capitalismo funzioni in virtù delle proprie leggi interne, e che dunque viva di una propria autoregolazione.

Il titolo di questo libro, Capitalismo. Il futuro di un'illusione, è preso a prestito da un'opera di Sigmund Freud del 1927, L'avvenire di un'illusione. L'illusione che Freud metteva in discussione era la religione. In quel testo Freud sosteneva che le religioni raccontano storie inventate che fanno perno su alcuni dei conflitti psicologici più dirimenti dell'esistenza umana. All'epoca, il titolo del libro di Freud rappresentò un affronto per molti, ma oggi sostenere che il capitalismo sia un'illusione costituisce un'idea ancora più radicale e provocatoria. Dopotutto, infatti, le imprese orientate verso un profitto di tipo capitalistico esercitano il loro controllo su larga parte del sistema economico-produttivo mondiale. Perché si dovrebbe sostenere che un'etichetta così di successo altro non sia che un'illusione?

Per comprendere ciò Freud è un'ottima guida. Nel momento in cui usava la parola «illusione» per definire le religioni, egli non intendeva relegarle allo stato di irrilevanza, né tantomeno tacciarle di incoerenza. Era cosciente dell'importanza delle credenze religiose nel determinare i movimenti e l'azione dei popoli. Freud scrisse quel libro poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando milioni di persone erano morte al fronte credendo di essere accompagnate da Dio nel loro sacrificio. Inoltre, Freud era profondamente convinto che i dettami delle religioni fossero strettamente connessi a un insieme di atteggiamenti puritani nella sfera sessuale, che giudicava psicologicamente deleteri. In poche parole, Freud sosteneva con convinzione che nello sviluppo dell'umanità le religioni rivestissero un ruolo di assoluta importanza, ma che al contempo costituissero una grande illusione.

L'argomentazione che qui sostengo ricalca il ragionamento di Freud. La percezione, ampiamente diffusa e condivisa, che si viva in una società di tipo capitalistico priva di alternative ha grande rilevanza. Tuttavia, molte delle storie che si narrano circa la natura del capitalismo sono tanto mitologiche quanto la vicenda biblica del giardino dell'Eden. L'obiettivo di questo libro è quello di sfatare l'immagine del capitalismo quale forza egemone priva di alternative. Fugare questa illusione potrà consentire di aprire la strada a itinerari di riforma politica ed economica del capitalismo stesso al momento del tutto marginali nel dibattito politico contemporaneo.

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Pagina 26

[...] A lungo i banchieri si sono proposti quali decisi sostenitori dell'ortodossia economica, opponendosi a politiche di spesa in deficit da parte dei governi e a qualsivoglia mutamento dello status quo economico. Inoltre, in anni recenti si è assistito a governi di centro-sinistra che hanno attivamente sostenuto gli interessi del mondo finanziario. L'amministrazione Clinton negli Stati Uniti (1993-2000) e il governo del New Labour di Tony Blair sono diventati famosi per la loro attenzione premurosa nei confronti delle banche operanti a Wall Street o alla City di Londra.

Nel tentativo di tracciare i legami tra mondo della finanza e classe dirigente politica il concetto più utile sembra essere quello di «cattura cognitiva». Non si tratta semplicemente di un rapporto di dipendenza delle élite politiche nei confronti degli interessi finanziari determinato da relazioni personali o da generosi contributi del mondo finanziario alle campagne elettorali. Il dato di fatto fondamentale che spiega la cattura cognitiva è che la maggior parte degli esponenti politici occidentali, ivi inclusi «populisti» quali Trump, ha adottato la stessa idea dell'economia e dei suoi meccanismi di funzionamento propria delle élite finanziarie. È come se avessero frequentato le stesse scuole e avessero letto gli stessi libri: il risultato è che ora condividono le stesse idee e gli stessi principi. Ciò vuol dire che riforme radicali del sistema esistente vengono automaticamente considerate irrazionali e controproducenti, e dunque scartate.

Ma quali sono le idee che hanno «catturato» a livello intellettuale le menti di questi leader politici? Si tratta esattamente di ciò che chiamo «illusione capitalista». Tanto le classi dirigenti quanto la più vasta opinione pubblica sono giunte a credere che, data la natura del capitalismo, tutto ciò che si può fare per stimolare la crescita economica sia tenere sotto controllo il debito pubblico, ridurre i meccanismi che regolano la libera iniziativa economica e affidarsi unicamente alle banche centrali per espandere l'offerta di moneta. Qualsivoglia riforma più radicale di queste misure viene sistematicamente scartata a priori in quanto ritenuta presumibilmente incompatibile con la natura stessa del capitalismo.

Questa cattura cognitiva ha luogo sia a causa del formidabile potere della finanza e dei rapporti diretti tra esponenti politici e influenti finanzieri che ne foraggiano l'attività politica, sia quale esito di una campagna di lungo periodo volta per decenni a convincere l'opinione pubblica dell'idea che il capitalismo sia una realtà dotata di una propria coerenza sistemica e immutabile. In poche parole, le élite politiche si sono ritrovate del tutto impreparate e incapaci di affrontare l'onda di rivolta del malcontento populista, proprio perché si sono ridotte alla mercé di questa illusione capitalista, la quale fa tabula rasa di ogni ipotesi di riforma del capitalismo stesso che potenzialmente potrebbe rivitalizzare le sorti dell'economia.

[...]

Poiché il mio obiettivo è sfatare l'illusione capitalista, ricostruire la storia del complesso intreccio che ha condotto pensatori di destra e di sinistra a influenzarsi reciprocamente sarebbe fuorviante. Al contrario, cercherò di concentrare la mia analisi sulla definizione di capitalismo offerta dagli intellettuali di centro e di destra formulandone una critica. Nella postfazione affronterò alcune illusioni circa la natura del capitalismo rintracciabili nella cultura degli intellettuali di sinistra.




1. La natura dell'illusione capitalista


La mia definizione di illusione capitalista, e delle sue principali componenti, non costituisce qualcosa di immediatamente riconoscibile. Non abbiamo a che fare con qualcosa di simile alle rivendicazioni che solitamente troviamo sugli adesivi oppure gridate dai candidati politici nei discorsi delle campagne elettorali. Piuttosto, si tratta di qualcosa di simile a quella parte sommersa dell'iceberg che non riusciamo a vedere sotto la superficie dell'acqua. Abbiamo cioè a che fare con quell'insieme di credenze e supposizioni implicite che costituiscono le fondamenta insostituibili dell'aura retorica attorno al discorso pubblico sulla politica economica nel dibattito contemporaneo. E proprio perché si tratta di assunti intangibili e taciuti è necessario dedicare un intero libro al tentativo di identificarli e metterli in dubbio.

L'illusione principale è costituita dall'idea che il capitalismo sia un sistema autonomo dotato di una propria logica e di proprie leggi, alle quali dobbiamo obbedire altrimenti rischiamo di perdere i livelli di benessere e sviluppo economico sinora raggiunti. Inoltre, si ritiene che, per lo meno nel corso degli ultimi due secoli, questo sistema sia stato fondamentalmente stabile. La maggior parte delle definizioni di capitalismo a nostra disposizione concorda nel sostenere che si tratti di un sistema nel quale i detentori della proprietà privata competono tra loro sul mercato per fare profitti: tale dinamica di competizione avrebbe l'effetto di stimolare le imprese ad accrescere la loro efficienza produttiva. Ma questa concezione del capitalismo oggi largamente egemone porta con sé quattro corollari impliciti cui possiamo ascrivere la pretesa di autonomia, coerenza logica e stabilità sottesa a tale idea di capitalismo.

[...]

Il primo corollario che la definizione egemone di capitalismo porta con sé è costituito dall'idea che il regime economico capitalista sia dotato di una propria autonomia tale da permettere al capitalismo stesso di seguire la propria logica. Si ammette che i governi e i poteri pubblici possano attuare alcuni interventi, quali ad esempio leggi per promuovere il diritto e i contratti di proprietà, così come la difesa nazionale, ma sempre e comunque evitando di interferire rispetto all'autonomia dell'economia capitalista. Il secondo corollario è rappresentato dalla tensione fondamentale esistente fra democrazie e capitalismo: gli elettori potrebbero stupidamente eleggere leader politici inclini a interferire con l'autonomia del mercato ricorrendo a un eccessivo aumento della pressione fiscale o adottando un insieme di leggi di regolamentazione del mercato stesso gravose per gli attori economici. Il terzo corollario è che il capitalismo richiede alle persone di rispondere ai segnali del mercato: pertanto la società deve enfatizzare l'importanza per gli individui di perseguire il proprio interesse personale, e in particolare l'accumulazione di ricchezza economica. L'ultimo corollario è costituito da una teoria della causalità, secondo la quale il capitalismo funzionerebbe perché si basa su fondamenta microeconomiche. Ciò significa che gli individui perseguono il proprio interesse personale nel contesto di un insieme di rapporti di proprietà che premiano adeguatamente coloro i quali fanno investimenti produttivi.

La definizione di capitalismo largamente prevalente di cui abbiamo detto, sommata ai corollari appena illustrati, costituisce una sorta di teoria sociale delle società capitalistiche. Ma ciò che la differenzia dalla maggior parte delle teorie sociali è che in questo caso ci troviamo di fronte a una vera e propria forma di determinismo economico priva di dubbi o remore. La teoria sociale del capitalismo che stiamo cercando di descrivere risponde a una logica alquanto simile a quella contenuta in una frase di Carville del 1992: «spetta all'economia orientare e forgiare la società, ed è nostro compito fare tutto il possibile perché la dinamica fondamentale del capitalismo e i suoi meccanismi di funzionamento non vengano ostacolati».

[...]

Tutti gli intellettuali e gli opinionisti che cercano di conferire alla parola «capitalismo» un significato differente da quello sotteso all'illusione capitalista si trovano in una situazione simile a quella descritta da Lewis Carroll nel suo Attraverso lo specchio [...]. Alice si intrattiene in una conversazione alquanto illuminante con Humpty Dumpty tutta incentrata sul vero significato delle parole e dei concetti. Il dialogo viene aperto da Humpty, il quale sostiene che è più importante celebrare tutti i giorni dell'anno in cui non si festeggia il compleanno rispetto al giorno del compleanno, essendo i primi ben 364 contro un unico giorno in cui ciascuno festeggia la propria nascita.

«E solo uno per i regali di compleanno, sai. Piglia su e porta a casa!».

«Non capisco cosa dovrei portarmi a casa», disse Alice.

Humpty Dumpty fece un sorriso di disprezzo. «Naturale... devo dirtelo io. Volevo dire, "ecco un argomento che ti stende definitivamente!"».

«Ma "piglia su e porta a casa" non è proprio come dire "ecco un argomento che ti stende"», obiettò Alice.

«Quando io uso una parola», disse Humpry Dumpty in tono alquanto sprezzante, «questa significa esattamente quello che decido io... né più né meno».

«Bisogna vedere», disse Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole».

«Bisogna vedere», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda... è tutto qua».


Ciò che sostiene Carroll è che poiché il linguaggio è qualcosa che viene creato e plasmato nella società non si può pensare di dominarlo come pensa di poter fare Humpty. Alle parole non corrispondono solo delle definizioni, ma anche delle precise associazioni e connotazioni. In particolare, parole quali «capitalismo», «socialismo», o «liberalismo», che a lungo sono state oggetto principale del dibattito politico, portano con sé un'ampia varietà di associazioni. Quando gli scienziati sociali cercano di formulare una definizione precisa di queste parole si trovano nella stessa situazione di Humpty Dumpty: immaginano di poter esercitare un dominio su espressioni che hanno acquisito una propria identità e un insieme di significati.

La realtà è che, a prescindere dalla definizione data, quando il lettore vede la parola «capitalismo» la associa in maniera automatica al significato che, attraverso processi di costruzione pregressi del sapere, si è affermato come prevalente su altri. Il problema è che, talvolta, accade che il significato che il lettore associa alla parola «capitalismo» è esattamente l'opposto del suo significato originale.

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Pagina 43

4. Il piano del libro


La mia tesi è che l'illusione capitalista sia una teoria sociale complessiva divenuta parte del senso comune della nostra società. Questa erronea teoria sociale altera la nostra percezione della realtà e si somma ai problemi politici che abbiamo di fronte, rendendo assai più difficile individuare quali mutamenti istituzionali, a livello locale, nazionale o globale, possano aiutarci ad affrontare i molteplici fattori di crisi cui ci troviamo di fronte. Tuttavia, non si può lanciare una sfida efficace nei confronti di questa teoria egemone senza offrire una convincente teoria alternativa. È necessario costruire impalcature teoriche per spiegare la realtà del mondo in cui viviamo, e anche quando ci troviamo di fronte a una teoria come questa che mostra enormi lacune, è difficile liberarsene fino a quando non si è trovata una teoria a essa alternativa.

La teoria alternativa che propongo si basa in larga misura su quattro percorsi di ricerca tutti in un qualche modo peculiari e unici.

[...]

Nel prossimo capitolo scoprirò le carte, spiegando in maniera piuttosto concisa le fondamenta essenziali sulle quali si basa il mio approccio concettuale. Anche se il capitolo non sviluppa tutti gli aspetti del mio quadro teorico, dovrebbe essere sufficiente per far capire al lettore quale genere di alternativa offro. I successivi quattro capitoli sviluppano una critica dell'approccio oggi egemone, illustrandone problemi e lacune. Nell'ultimo capitolo spiegherò come sia possibile, se si adotta la teoria sociale alternativa che propongo, percorrere strade politiche rese oggi del tutto invisibili dal modo di pensare prevalente. Infine, nella postfazione, chiarirò come la mia prospettiva si distanzi nettamente da letture e interpretazioni che continuano a essere condivise dalla sinistra politica.

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Pagina 65

4. Le contraddizioni della globalizzazione


Un ulteriore argomento della mia analisi attiene al modo in cui concettualizziamo l'economia globale, spesso vista come un sistema capitalistico globale. La stessa tendenza a naturalizzare i processi economici, che riscontriamo nei singoli mercati e nelle economie nazionali, la ritroviamo, se si vuole ancora più potente ed efficace, sul piano dell'economia globale. Il capitalismo globale viene sempre e inevitabilmente visto come un organismo vivente, sia quando lo si immagina come una piovra tentacolare in grado di raggiungere e dominare ogni angolo del pianeta, sia quando lo si accosta a una gallina che deposita le proprie uova d'oro. Le nazioni che tentano di mettere in discussione le leggi proprie di ogni organismo sono destinate ad andare incontro a un rapido declino dei propri livelli di vita, se non a cadere addirittura nel caos e nel disordine più totale. Inoltre, si considerano queste leggi naturali come assolute, nel senso che non lasciano spazio alla scelta individuale: vengono viste come l'espressione più autentica del sistema capitalistico globale. Un contesto economico dominato dal libero commercio, dal libero movimento dei capitali e da un limitatissimo ruolo dello stato nell'economia fa parte della logica propria dell'organismo naturale.

Si tratta di una lettura sbagliata. L'economia globale risponde a determinate regole, ma esse non sono né naturali né immutabili, e alcune di esse vengono abitualmente e clamorosamente ignorate o calpestate. Per di più, per molte centinaia di anni la forza principale in grado di modellare e rafforzare le leggi dell'economia globale è stata sempre una potenza egemonica globale, prima l'Inghilterra e poi gli Stati Uniti. Queste grandi potenze non hanno operato secondo alcun manuale di gestione dell'economia globale. Coloro i quali hanno cercato, per conto di queste potenze, di fare tutto il possibile per migliorare gli affari e il benessere dei loro cittadini, hanno anche commesso molti passi falsi. E spesso hanno fallito sia nel tentativo di dare una logica al sistema nel suo complesso sia nello sforzo di portare benefici ai propri concittadini.

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Pagina 85

3. L'illusione che la democrazia sia una minaccia per l'economia


L'illusione più pericolosa cui dà luogo il concetto attualmente dominante di capitalismo è la convinzione che troppa democrazia costituisca una minaccia per lo sviluppo economico. Ampi settori delle nostre classi dirigenti politiche ed economiche ritengono che per rendere perfettamente funzionante l'economia capitalista sia utile contrarre e limitare gli spazi democratici. Si tratta di una visione totalmente sbagliata. Le economie di mercato hanno storicamente potuto svilupparsi proprio grazie all'interazione virtuosa fra mercato e democrazia politica. Per contro, le limitazioni degli spazi democratici hanno sempre prodotto conseguenze economiche altamente negative.

[...]

Un immediato corollario di questa tesi è che le società democratiche devono adottare misure necessarie a proteggere le economie nazionali dai rispettivi elettorati. Una delle soluzioni che si individuano a tal fine è quella di porre i rappresentanti politici in seno alle istituzioni al riparo dalle pressioni provenienti dai corpi elettorali, imponendo ai governi per via legislativa il pareggio di bilancio, ed escludendo in tal modo la possibilità di ricorrere, all'atto di approvazione annuale della legge di bilancio, a politiche di disavanzo della spesa pubblica. Tale principio, relativo al pareggio di bilancio, è sancito nella Costituzione di molti stati USA ed è stato più recentemente recepito negli ordinamenti nazionali di Italia, Germania e Svizzera. L'Unione Europea ha imposto ai propri stati membri un preciso e vincolante rapporto tra debito pubblico nazionale e prodotto interno lordo. Negli Stati Uniti tale principio ha rappresentato a lungo un cavallo di battaglia dei conservatori. Esso prevede in genere delle eccezioni, normalmente rappresentate da emergenze straordinarie quali l'entrata in guerra di un paese o situazioni simili. In tali casi, di norma, al fine di evitare che l'eccezione si faccia regola, quasi sempre le legislazioni nazionali prevedono che la deroga al pareggio di bilancio debba essere approvata da ampie maggioranze parlamentari: solitamente per approvare un bilancio in deroga al pareggio, o per aumentare la pressione fiscale, è necessario il voto favorevole dei due terzi di entrambi i rami del parlamento.

L'attuale assetto della govemance dell'economia globale riflette esattamente questo approccio: la sovranità popolare non deve interferire con il funzionamento delle economie di mercato. Ogni qualvolta un paese ricorre al Fondo monetario internazionale per ottenere aiuti economici, la richiesta che viene recapitata al rispettivo governo nazionale, quale requisito fondamentale per la concessione di aiuti, è lo smantellamento di misure legislative in contrasto con il pieno sviluppo economico, come ad esempio i sistemi pensionistici pubblici. Analogamente, nel corso della crisi che ha recentemente colpito l'Eurozona, l'Unione Europea ha costretto i propri paesi membri ad annullare determinate leggi vigenti. I paesi aderenti all'Organizzazione mondiale del commercio si sono impegnati a non adottare misure economiche che possano riscuotere vasto consenso popolare, quali ad esempio sovvenzioni a imprese impegnate a creare nuovi posti di lavoro. Parimenti, i meccanismi di risoluzione delle dispute internazionali, presenti in molti trattati di commercio internazionale, prevedono per le multinazionali estere il diritto di ricorrere a tribunali a ciò deputati, ogni qualvolta vengano approvate a livello nazionale misure legislative che godono di ampio consenso tra l'elettorato, ma che ostacolano gli investimenti di una multinazionale estera in un dato paese.

Questa profonda avversione nei confronti della democrazia, condivisa da gran parte delle classi dirigenti e dalla destra politica, ha compresso enormemente la sovranità popolare, tanto a livello locale e regionale, quanto sul piano nazionale e sovranazionale. Essa trova fondamento nella convinzione che l'economia capitalista, realtà autonoma da ciò che la circonda, debba essere libera di seguire le proprie leggi naturali, al fine di creare quella prosperità economica cui è deputata. Ma questa concezione largamente diffusa, di un'economia sciolta dal contesto circostante, è una pura illusione; la relazione fra mercato e democrazia è ben diversa.




1. Una diversa prospettiva


Rispetto a questo orientamento interpretativo generale, la mia tesi è del tutto eterodossa. Tanto l'opinione pubblica di destra quanto quella di centro sostengono che capitalismo e democrazia siano del tutto compatibili solo nella misura in cui approntino adeguate limitazioni alla sovranità popolare. Anche in seno all'opinione pubblica di orientamento progressista, qualcuno sostiene che la democrazia rappresentativa costituisca l'ideale sistema di governo per le società capitalistiche, proprio perché parlamenti e assemblee rappresentative impediscono al popolo di esercitare quel potere decisionale che incarna a loro giudizio una minaccia per lo sviluppo economico e la prosperità. Al contrario, la mia argomentazione è volta a sostenere che quanto più diffusa e radicata è la democrazia in una società, tanto meglio funzionerà l'economia di mercato di quella stessa società o di quel paese. Ogni miglioramento e progresso della democrazia concorrono a rendere più dinamica e competitiva un'economia di mercato.

Non a caso, infatti, assai pochi nel panorama internazionale sono i casi di economie di mercato prive di istituzioni democratiche in grado di prosperare a lungo. È sicuramente vero che nel corso della storia Germania, Giappone, Unione Sovietica, Corea del Sud e Taiwan sperimentarono periodi di accelerato sviluppo economico sotto regimi monarchici o dittatoriali, ma in tutti questi casi la crescita economica conobbe un limite oltre il quale essa non andò. Nei casi di Germania e Giappone le tensioni sociali interne indussero le élite politiche a intraprendere l'azzardo dell'aggressione militare a danno di altri paesi che li condusse, al termine della guerra, a subire un'umiliante sconfitta e l'imposizione di un regime democratico da parte dei paesi vincitori. Nel caso dell'Unione Sovietica, il dinamismo economico del paese svanì non appena si passò da un modello di crescita di tipo estensivo a uno intensivo. In Corea del Sud e a Taiwan la crescita economica stimolò l'affermarsi di movimenti tesi a democratizzare i rispettivi paesi, e questo processo favorì l'ulteriore sviluppo economico di entrambe le economie nazionali. Nel corso della storia solo i paesi che hanno intrapreso processi di democratizzazione e di progressiva partecipazione democratica sono stati in grado di conservare elevati tassi di crescita economica e di godere per lungo tempo di un'economia nazionale fortemente dinamica.

La grande eccezione a tutto ciò, naturalmente, è rappresentata dalla Cina, la quale sotto il regime dittatoriale del Partito comunista ha conosciuto una forte crescita economica per ben trentacinque anni. La Cina costituisce un caso eccezionale sia perché ha un forte governo centrale, sia perché dispone di una popolazione enorme. Il combinato disposto di queste due caratteristiche ha storicamente permesso alla Cina di poter contrattare prestiti e investimenti a condizioni particolarmente vantaggiose con prestatori e investitori internazionali, impossibili da negoziare per molti altri paesi. Ma nonostante questa posizione di indubbio vantaggio, la stessa Cina deve attualmente profondere molti sforzi al fine di mantenere i propri alti tassi di crescita economica: ciò potrebbe ben presto voler dire che anch'essa diventerà l'ennesimo caso di paese retto da un regime autoritario la cui economia raggiunge un limite di crescita non superabile.

Come si spiega la compatibilità tra forti economie di mercato e regimi democratici?

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Pagina 113

5. Conclusioni


È opinione diffusa e consolidata ritenere la democrazia una vera e propria minaccia per l'economia di mercato e per la sua dinamicità. Il pericolo sarebbe dato dal fatto che una classe politica non disinteressata alle risorse economiche della collettività possa ottenere sostegno elettorale ed essere eletta, promettendo a specifici settori dell'elettorato risorse e benefici economici in eccesso rispetto a quanto la collettività può realmente permettersi di distribuire ai vari gruppi sociali. Ne scaturirebbe un governo incline all'affarismo, in grado di condizionare il mondo economico e le imprese, e dedito a promulgare e rendere operativi costosi programmi di spesa pubblica e assistenza sociale, destinati in taluni casi a far aumentare la pressione fiscale, e in altri a condurre lo stato alla bancarotta. In verità, la realtà delle cose è esattamente l'opposto.

Prima della nascita delle moderne democrazie e dell'affermarsi dei diritti politici le élite più facoltose non facevano altro che appropriarsi dei beni e delle ricchezze della collettività. Queste élite dominanti usavano la loro influenza, se non il loro dominio sui rispettivi governi, per consolidare le proprie posizioni e per stroncare sul nascere ogni tipo di opposizione politica o economica allo status quo. Talvolta queste ricche classi dirigenti facevano investimenti volti a modernizzare i sistemi produttivi o a migliorare e ammodemare le grandi arterie di comunicazione e i trasporti, dalle vie di terra ai corsi d'acqua: tuttavia, questi nuovi investimenti non erano di portata ed entità tali da generare un incremento della crescita economica analogo a quello conosciuto da alcuni paesi nel corso degli ultimi due secoli.

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7. Oltre le illusioni


È sicuramente irrealistico pensare di smettere di usare la parola «capitalismo», e ciò a prescindere da quanto fondate possano essere le argomentazioni che si adducono contro tale sistema. Tuttavia, è mia intenzione spronare le persone, quando sentono o leggono tale termine, a riflettere riguardo alle tante illusioni che vi sono associate. In particolare, tre di esse sono molto rilevanti.

La prima di queste reiterate ma false argomentazioni è che non possiamo risolvere i problemi dell'ambiente, ridurre le diseguaglianze più estreme che caratterizzano la distribuzione del reddito e della ricchezza, o eliminare la povertà senza minare la prosperità che l'economia di mercato ha generato. Tale affermazione si fonda sul falso presupposto secondo il quale le economie di mercato sarebbero entità autonome, e sull'incapacità di comprendere che per funzionare i sistemi di mercato hanno bisogno di limiti al perseguimento dell'interesse personale o dei singoli gruppi.

Chi sostiene tale argomentazione ricorre spesso alla tesi della perversità, ovvero afferma che misure motivate da buone intenzioni, quali ad esempio i salari minimi, i programmi sociali per l'assistenza dei più poveri o l'insieme di misure con cui lo stato interviene per regolare l'economia, non fanno altro che scatenare conseguenze perverse, perché interferiscono con la capacità propria del meccanismo dei prezzi di ottimizzare l'uso delle risorse economiche di cui un'economia dispone [...]. Ma se ci liberiamo dell'idea che il mercato sia un'entità autonoma, dotata di moto proprio, possiamo capire come le suddette conseguenze perverse non costituiscano esiti inevitabili.

Infatti, possiamo individuare un meccanismo perverso sotteso allo stesso funzionamento delle economie di mercato. Gli sforzi condotti dalla destra politica per eliminare l'insieme di regole a tutela di lavoratori e consumatori non fanno che incoraggiare il mondo degli affari ad aumentare i propri profitti scaricando i costi su lavoratori, consumatori e altre categorie. Le decisioni della Corte suprema di cui abbiamo detto, volte ad annullare i limiti ai finanziamenti privati alle campagne elettorali, contribuiscono a creare una sorta di oligarchia, poiché espandono il potere e l'influenza sul sistema politico delle élite economiche dominanti. Tale oligarchia mina seriamente il dinamismo economico, giacché le imprese che si trovano al riparo dalla competizione non hanno pressoché stimoli a fare investimenti o a innovare.

La seconda illusione fondamentale è che tutti gli sforzi volti a trasformare i meccanismi di funzionamento dell'economia di mercato sono destinati a fallire, perché sono incompatibili con il DNA proprio del capitalismo. Questo è stato l'argomento preferito cui è ricorsa la destra per denigrare ogni ipotesi di riforma dei mercati, volta a proteggere l'ambiente o a ridurre le diseguaglianze. Si può facilmente sfatare tale illusione, se prendiamo in considerazione tutte le trasformazioni che sono avvenute nel corso degli ultimi due secoli nelle società fondate sul perseguimento del profitto economico privato. Le società più avanzate sono infatti passate da un regime fondato sul governo di ristrette élite alla democrazia di massa. Si è avuta una crescita straordinaria delle dimensioni e del peso dello stato e delle politiche pubbliche, e il livello di scolarità e alfabetizzazione delle popolazioni è migliorato enormemente. Allo stato attuale, non possiamo immaginare quali trasformazioni potranno intervenire nel corso del prossimo secolo, se la società verrà riorganizzata attorno al paradigma dell'economia dell'abitare.

[...]

Inoltre, vi sono assai poche speranze che la situazione possa migliorare nel breve periodo. Le classi dirigenti chiave dell'Europa e degli Stati Uniti continuano a manifestare una netta preferenza per politiche d'austerità, e hanno sistematicamente contrastato e rimosso ogni tentativo di riavviare il sistema economico mediante il ricorso alla spesa pubblica. A partire dal 2010, il loro mantra è sempre stato che la ricerca del pareggio di bilancio avrebbe ridato fiducia agli investitori, traducendosi poi in una crescita degli investimenti privati. Il fatto che ciò non sia avvenuto per otto lunghi anni non sembra affatto aver minato la fiducia delle classi dirigenti europee e americane in tale opzione di politica economica.

Il persistere di politiche di austerità vuol dire che l'economia globale si trova di fronte al serio rischio di incorrere in una nuova recessione globale, che potrebbe definitivamente distruggere ciò che resta dell'ordine precedente. La debole crescita economica che ha caratterizzato il periodo a partire dal 2010 si è intrecciata a un acuirsi dei conflitti in Medio Oriente, ai confini della Russia e nel mar Cinese meridionale. All'interno della stessa Europa, movimenti e partiti politici di destra, fortemente avversi all'immigrazione, e in precedenza marginali nel contesto politico-elettorale europeo, hanno guadagnato significativi consensi, anche nei principali paesi dell'Unione. Nel caso l'economia globale ricadesse in una nuova seria crisi economica internazionale, non sarebbero affatto esclusi un riacutizzarsi dei conflitti armati internazionali e un rinnovato consenso per i partiti di estrema destra più fortemente inclini a forme di nazionalismo e di razzismo. Di fronte a tali crescenti difficoltà diventerebbe ancora più complicato organizzare sforzi cooperativi globali per riattivare l'economia mondiale.

[...]

Nonostante tutto ciò, la gran parte delle élite politiche, non solo negli Stati Uniti, continua a non cogliere il fallimento delle politiche e del sistema di regole vigenti. Esse ignorano le proteste di massa e il consenso elettorale di cui godono i partiti che fanno dell'avversione alle classi dirigenti la loro ragion d'essere, sulla base del presupposto che una volta rimosse, tali proteste si dissolveranno esattamente come i rispettivi protagonisti scompariranno di scena. Ciò è risultato evidente nel modo in cui l'Unione Europea nel 2015 ha considerato e trattato l'ascesa al potere in Grecia di Syriza. Anziché interpretare la vittoria di un partito di sinistra radicale appena nato quale testimonianza del disperato bisogno della popolazione greca di politiche differenti, le élite europee lessero l'ascesa di Syriza come uno stupido errore elettorale da parte di una popolazione priva di guida adeguata. È d'uopo chiedersi perché queste élite politiche ed economiche globali siano così cieche e così determinate a considerare le politiche di austerità quale soluzione a ogni tipo di problema. Possiamo in sostanza dire che esse sono preda dell'illusione che il capitalismo sia un sistema immutabile dotato di una propria logica interna, e che debba essere rispettato e lasciato intatto a tutti i costi. Senza dubbio, la resa a tale illusione viene quotidianamente rafforzata da due tendenze. In primo luogo, il fatto che i mercati finanziari globali sono pronti a punire e contrastare i leader politici che mettano in discussione l'ortodossia del mercato. In secondo luogo, i settori più ricchi delle classi dirigenti dell'Occidente insistono nel sostenere che allo status quo non ci sono alternative possibili.

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2. Una breve digressione: come affrontare il problema della crescita


Questo libro ha trattato la questione della crescita e del dinamismo economico come qualcosa di positivo, nella misura in cui ciò implica un uso efficiente delle risorse naturali per produrre prodotti sempre migliori e su più vasta scala senza scaricare i costi di tutto ciò su lavoratori, consumatori o ambiente. Tuttavia, oggi si sostiene con forza da più parti che l'obiettivo storico della crescita materiale stia distruggendo il pianeta e che si debba invece intraprendere un percorso di decrescita [...]. Gli apologeti della decrescita hanno sicuramente ragione quando sottolineano che il modello di sviluppo perseguito nel corso dei due secoli passati è insostenibile. Ma i teorici della decrescita non colgono che è possibile migliorare le condizioni materiali di vita delle persone senza per questo dover necessariamente ricorrere a quel modello di crescita fondato sulla distruzione delle risorse naturali che fu tipico dell'età industriale.

Possiamo chiarire la questione distinguendo fra crescita quantitativa e crescita qualitativa [...]. La crescita quantitativa è quel modello di crescita che venne portato avanti a partire dalla rivoluzione industriale e che prevedeva un aumento della produzione di beni materiali attraverso il ricorso a un maggior uso delle risorse naturali. La crescita qualitativa tende a essere compatibile con la tutela e la salvaguardia delle risorse naturali e cerca di soddisfare i bisogni umani senza compromettere la sopravvivenza del pianeta. Ci troviamo di fronte a esempi di crescita qualitativa ogni qualvolta si fanno investimenti per pulire un fiume da sostanze inquinanti, o si sviluppano tecnologie che ci permettono di riciclare materiali.

Molti paesi hanno già avviato la propria transizione verso un modello di crescita di tipo qualitativo. Questo è parte dell'affermazione di un paradigma centrato sull'economia dell'abitare.

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1. La dimensione globale


In questo libro ho sostenuto costantemente che le istituzioni internazionali svolgono un ruolo estremamente importante nel limitare e vincolare i margini d'azione politica possibili in seno alle nazioni. In questo senso, concordo circa l'importanza di studiare il livello globale dello sviluppo capitalistico, suggerita sia dalla scuola del capitalismo variegato sia dall'«analisi del sistema-mondo» di Immanuel Wallerstein [...]. Come ho argomentato nel capitolo 7, per poter affrontare e risolvere le diseguaglianze globali è di fondamentale importanza concentrare l'attenzione sul sistema di regole e istituzioni sovranazionali esistenti.

La teoria del sistema-mondo si è rivelata particolarmente importante al fine di comprendere la centralità dell'imperialismo europeo nel processo di avvio della crescita economica che ha caratterizzato l'Europa occidentale in età moderna. Anziché interpretare colonialismo, schiavitù e segregazione razziale come fenomeni separati dal processo di sviluppo economico, l'analisi del sistema-mondo li ha considerati processi fondamentali per il percorso storico che ha aperto la strada alla rivoluzione industriale. Per secoli si è avuta una sorta di gioco a somma zero, secondo il quale determinati popoli si arricchivano in misura proporzionale all'impoverimento di altri. Questa intuizione è stata fatta propria e sviluppata dagli studi sul cosiddetto «capitalismo razziale», che hanno sottolineato il nesso fra soggiogamento razziale e progresso economico nella storia degli Stati Uniti [...].

Tuttavia, alcuni autori dell'analisi del sistema-mondo sostengono che questo gioco a somma zero è continuato fino ai giorni nostri. Quindi, se nel corso dell'età contemporanea la classe operaia in Scandinavia ha utilizzato i partiti socialdemocratici e i sindacati per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, ciò ha implicato il parallelo peggioramento delle condizioni di povertà in cui versavano i popoli africani o quelli dell'America Latina. In parole povere, il processo di miglioramento del sistema di welfare scandivano sarebbe dipeso dal mantenimento di condizioni di sfruttamento di tipo imperiale in altre parti del mondo. Si tratta della riedizione in chiave contemporanea della tesi di Lenin secondo la quale i frutti dell'imperialismo avrebbero creato nel tempo un'«aristocrazia operaia» nei paesi industriali avanzati, i cui interessi divergerebbero radicalmente da quelli del resto della classe operaia.

Se la tesi di Lenin era già piuttosto debole nel 1917, le sue declinazioni contemporanee sono del tutto prive di fondamenta empiriche. La realtà è che il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli scandinavi è il risultato dell'adozione di nuove tecnologie che hanno calmierato fortemente i prezzi di beni materiali e servizi. Non esiste più alcun meccanismo automatico per il quale il miglioramento delle condizioni di vita di alcuni popoli debba avvenire a discapito di altri. È vero che i potenti smartphone usati in Scandinavia sono fatti di tantalio, di cui normalmente l'Occidente viene rifornito dalle zone di guerra della Repubblica Democratica del Congo. Ma si tratta di una relazione contingente, e non certo necessariamente presente, a fronte del miglioramento delle condizioni di vita o di lavoro di una nazione. Se il Congo avesse un sistema politico stabile e democratico, sarebbe in grado di sostenere i prezzi del tantalio rispetto alla domanda internazionale. Prima della nascita dell'OPEC, le nazioni più sviluppate dell'Occidente erano in grado di acquistare petrolio presso i paesi produttori a prezzi stracciati, ma dopo che fu costituito il cartello dell'OPEC, quelle stesse economie industriali avanzate fecero ai paesi produttori concessioni economiche che permisero di trasferire loro quote significative della propria ricchezza, sotto forma di pagamento del greggio.

Inoltre, il fatto che nel corso degli ultimi due decenni un miliardo di persone in India e Cina abbia raggiunto condizioni economiche tali da renderlo oggi parte della classe media globale, suggerisce che l'economia mondiale non è bloccata da una divisione rigida e immutabile fra ricchi e poveri. Nonostante le nostre società siano rimaste ancorate al principio della proprietà privata, è stato possibile ridurre drasticamente la quota di popolazione mondiale che versa in condizioni di indigenza. Pertanto è plausibile credere che con l'attuazione di progetti di riforma del capitalismo, volti a generare crescita economica nei paesi meno sviluppati, si potranno ottenere ulteriori risultati in questa direzione.

Il problema principale dell'analisi del sistema-mondo è che essa considera le regole e le istituzioni globali create o affermatesi in un determinato periodo storico quale mero portato dello stesso capitalismo globale, e non coglie che esse sono invece l'esito di rapporti di potere fra nazioni o fra gruppi e interessi sociali in seno a una nazione. Inoltre, come ho sostenuto nel capitolo 6, tali regole e istituzioni mutano costantemente e continueranno a mutare in futuro. L'ordine economico internazionale di Bretton Woods, che terminò nel 1973, pur presentando molte debolezze, rese possibile attuare importanti riforme economiche e sociali nei paesi industriali avanzati. Non può certo dirsi altrettanto per i regimi economici pienamente fondati sul libero mercato che si sono affermati a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Essi hanno alimentato l'attuazione di politiche di austerità e lo smantellamento di riforme messe in atto precedentemente. Il punto è che questo regime economico, basato sul libero mercato, è sostanzialmente fallito e, se ci fossero sufficienti pressione e iniziativa politica, volte a mutare lo stato di cose presente, sarebbe facilmente possibile sostituirlo con un sistema economico differente.

Se si insiste nel considerare le regole e le istituzioni quali strumenti operativi e mezzi del capitalismo, non si fa altro che rafforzare le tesi sostenute dai difensori dello status quo, i quali non fanno che ripetere che non ci sono alternative a un'economia mondiale organizzata sulla base del libero commercio, del libero movimento dei capitali e dell'instaurazione di misure che tutelino al massimo gli investitori. Al contrario, la verità è che il commercio globale potrebbe ben prosperare anche in un contesto di regole del tutto differenti in materia di commercio, finanza e proprietà intellettuale. Inoltre, non è difficile immaginare che se si cambiassero tali regole e istituzioni sarebbe più facile condurre una lotta per ottenere più uguaglianza, più democrazia e maggiore tutela dell'ambiente.

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Pagina 265

Polanyi è per noi una guida esemplare, perché delinea con chiarezza gli obiettivi del processo di riforme. Non si tratta di qualcosa di astratto, come ad esempio l'emancipazione umana o la fine dell'alienazione. Si tratta, piuttosto, di espandere e radicare la democrazia ancor meglio di quanto già lo sia, al fine di subordinare i mercati ai sistemi politici democratici. Per secoli i popoli hanno lottato per dotarsi di strutture istituzionali democratiche e di un sistema di diritti, al fine di rovesciare dittature, monarchie e aspiranti autocrati. Come ben sappiamo, sulla base di esperienze recenti, si tratta di una battaglia senza fine, mai vinta per sempre. L'argomento chiave di Polanyi è che estendere la democrazia alla sfera economica costituisce un passo necessario per preservare e rafforzare l'autonomia della sfera politica e dei governi.

Tale osservazione è particolarmente importante in un momento storico nel quale si registra una contrazione degli spazi democratici e ci sono leader politici democraticamente eletti che calpestano le regole democratiche per affermare il proprio potere personale. Pressoché sempre questi leader fanno leva su divisioni etniche o religiose ed esasperano conflitti regionali o globali quale strumento per indebolire o silenziare gli oppositori interni. Esattamente come negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la rinascita del nazionalismo autoritario rappresenta il sintomo morboso delle disfunzioni dell'economia globale. Incapaci di proteggersi da soli dalla crescente insicurezza e dall'instabilità economica che li travolge, gli elettori scelgono di affidare il loro consenso all'uno o all'altro dei leader divisivi che sono sulla scena politica e che promettono di rendere il loro paese great again.

La minaccia che questo indebolimento della democrazia diventi contagioso e si estenda difficilmente può essere esagerata. Con la ricomparsa in molti paesi del nazionalismo più estremo diminuiscono gli spazi di manovra per una cooperazione globale che voglia affrontare le sfide della crisi economica, di quella climatica o ancora di quella dei rifugiati, mentre il rischio che si aprano nuovi conflitti armati aumenta.

Nel corso della crisi del 2008-2009 abbiamo potuto osservare quanto solo un alto livello di cooperazione globale nel governo della crisi abbia potuto evitare che la contrazione dell'economia internazionale si tramutasse in una vera e propria depressione globale. Di fronte a una nuova crisi di proporzioni simili, questo tipo di cooperazione potrebbe non più materializzarsi. Inoltre, gli eventi climatici estremi previsti quale conseguenza dei mutamenti ambientali potrebbero acuire le divisioni in essere fra le nazioni, ed erodere la cooperazione globale. Di fronte ai pericoli e alle incertezze che caratterizzano il mondo di oggi è probabile che un numero sempre crescente di leader politici sposi la causa del nazionalismo più estremo e della «democrazia illiberale».

La strada più promettente per evitare una spirale di questo tipo è quella di riformare l'economia globale e le economie nazionali, al fine di proteggere le persone dalla forte incertezza economica e dalle crescenti minacce che provengono dai mutamenti ambientali. Molte delle politiche necessarie a questo scopo sono ben note, ma un ostacolo fondamentale su questa strada è costituito dall'illusione che il capitalismo sia un sistema immutato e immutabile, la cui logica interna vada assecondata e seguita. Se saremo capaci di infrangere questa illusione, potremo riuscire a cogliere l'opportunità di dare vita a una vasta coalizione riformatrice, sufficientemente forte per superare l'opposizione di quanti traggono benefici dall'attuale iniqua redistribuzione delle risorse. Il successo di questo percorso non è affatto certo, ma l'alternativa è inconcepibile.

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