Copertina
Autore Jean-Philippe Blondel
Titolo Vista mare
EdizioneVoland, Roma, 2009, Intrecci 60 , pag. 112, cop.fle., dim. 14,4x20,5x0,8 cm , Isbn 978-88-6243-033-3
OriginaleAccès direct à la plage [2008]
TraduttoreDaniele Petruccioli
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe narrativa francese
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Indice


1972 CAPBRETON
Philippe Avril                   8
Danièle Girard                  13
Jean-Michel Courtine            16
Henri Carni                     20
Michel Avril                    23

1982 HYÈRES
Sabrina Lejeune                 28
Pascal Mai-tre                  32
Line Avril                      37
Gilles Veriniani                41
Francis Rozé                    44

1992 PERROS GUIREC
Hannah Gromer                   50
Otto Gromer                     54
Cristophe Courtine              58
Fabienne Rozé                   62
Vincent Decaze                  66

2002 ARROMANCHES
Eva Courtine                    72
Julien Cami                     76
Léo Veriniani                   81
Maud Procureur                  86
Philippe Avril                  92

ALLEGATI                        97


 

 

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Pagina 8

PHILIPPE AVRIL



Tutte le mattine passo davanti al Mickey Club.

Al Mickey Club ci sono le altalene, gli scivoli, gli animatori abbronzati in maglietta, e poi c'è la piscina.

Mamma dice che una piscina sul mare è da cretini.

Secondo me no.

Poi, sento le loro voci. Gridano, ridono, si divertono, loro.

Certe volte se ne vede spuntare uno.

Mentre arriva in cima allo scivolo grande della piscina.

Quando avrò dei bambini, li iscrivo tutti al Mickey Club.


Io sono seduto in spiaggia, protetto da chili di crema solare e con un cappelletto da baseball in testa. Mamma, sotto l'ombrellone rosso a frange bianche, parla con la sua amica Natacha. Pare che non si chiami davvero Natacha, ma Natacha fa più chic, è come l'hostess di Spirou.

Quando Natacha arriva, papà si sposta sempre un po' più in là. Si vede benissimo che non gli sta tanto simpatica. È troppo spudorata, dice. Quando siamo a casa e si arrabbia, la chiama in tutti i modi che non si possono dire, salvo che con i miei amici, quando non ci sono i genitori.

Mamma dice: perché non giochi sulla riva, o fai un castello di sabbia? Oppure: ma non hai un amico? Perché non te ne fai qualcuno, invece di stare sempre tra i piedi?

Ma come faccio a farmi degli amici? Ci sono quelli arrivati in colonia, quelli di qui, quelli già in gruppo, poi ce ne sono alcuni come me, ma di solito restano poco. Noi ci fermiamo due settimane. Prima stavamo tutto il mese, ma un mese è troppo, adesso, e poi comunque è troppo caro se vogliamo mettere da parte i soldi per la casa. Prima ne affittavamo una con i pini, ora stiamo in un appartamento. Comunque mamma dice che è meglio, perché è più facile da pulire.

Natacha affitta sempre una casa tutta per lei. Ti credo, lei non ha figli, può spendere i soldi come vuole, dice papà. Mica come quando sei incastrato dai ragazzini, che non puoi più fare come vuoi. Non parlare così davanti al bambino, Michel. Ma figurati, è troppo piccolo, cosa vuoi che capisca?


Sono a riva.

Mi avrebbe fatto piacere se mamma veniva con me, ma non le va di muoversi. Papà inutile provarci, lui il mare lo odia. Odia anche la spiaggia. Se era per lui andavamo in montagna a cogliere funghi e a fare passeggiate. Ma dice che lo iodio mi fa bene, quindi veniamo al mare. Stiamo tutto il giorno sotto l'ombrellone, io me ne vado in acqua a giocare da solo oppure aspetto.

Sono belle le onde.

Ci puoi saltare sopra.

Ti ci puoi tuffare dentro.

Puoi lasciartici rotolare fino a riva.

Puoi seguire una conchiglia o un'alga fare su e giù.

Con un po' di allenamento riesci a farlo anche per due o tre ore, così arriva il momento di andare via.


Tornando, passiamo davanti al Mickey Club e li sento sempre ridere, con gli animatori che dicono: sì! grande, ancora, dài, bravissimo. Incontriamo anche quelli delle colonie, fanno chilometri cantando con il mento alzato, roba da consumarsi le scarpe. Passiamo davanti al casinò e Natacha butta sempre un occhio per vedere se c'è qualcuno di famoso. Dopo viene il Boudigot, un ristorante dove non andiamo mai, e poi il Residence dei Pini, dove c'è il nostro appartamento. A volte resto fuori, sulle altalene.


Stasera sulle altalene c'era un bambino della mia età, allora mi sono seduto sulla panchina e ho cominciato a leggere Spirou.

So che ha la mia età perché dopo abbiamo parlato. Si è avvicinato lui. Mi ha chiesto se avevo altri Spirou. Gli ho detto di sì, ce li avevo a casa, e sono anche andato a prenderli. Abbiamo letto un po' in cortile e poi abbiamo parlato. È venuto per un mese. Sta con i suoi nonni. Abitano nell'appartamento di sotto. Sapeva già chi ero. Ero il figlio di quello che urla sempre contro una donna chiamata Natacha. Sono diventato tutto rosso.

Gli ho detto che non lo avevo mai visto in spiaggia. Mi ha risposto che non ci veniva perché andava al Mickey Club.


Il cuore mi è balzato in gola.

Uno del Mickey Club.

In carne e ossa.

Uno vero.

Gli volevo fare duemila domande sul Mickey Club. Com'era dentro visto che dalla spiaggia non si vedeva niente, quanto era grande la piscina, se l'acqua era calda o fredda, a che giochi giocavano. Ma sono riuscito a balbettare solo ah! bello.

E lui ha detto bah!

Bah!

La donna del primo piano ha aperto la finestra e si è sentita Pop Corn alla radio.

Gli ho chiesto perché bah.

Ha alzato le spalle.

Sto tutto il giorno là. I miei nonni mi ci scaricano alle nove e tornano a prendermi alle cinque. Non sono ancora mai andato in spiaggia. Non sono ancora mai entrato in mare.

E i tuoi?

I miei stanno a Parigi.

Ah! lavorano?

No.

Ah!

Dicono che ho bisogno d'aria. Che mi fa bene lo iodio, l'aria di mare.

Quando parti?

Tra una settimana.

Noi ci mettiamo sempre allo stesso posto. Vicino ai bagnini, per via di Natacha.

Io non posso uscire dal Mickey Club.

E di notte?

Di notte cosa?

Potremmo andare al mare di notte.

I miei nonni non mi lascerebbero mai.

Neanche i miei genitori. Ma mica glielo dobbiamo dire per forza.

Mi sento un salvatore. L'eroe che permette al bambino di vedere finalmente il mare, di giocare con le onde.

Fa una serie di smorfie.

Non sa che pensare.

La cosa lo tenta, ma insomma...

Io non dico niente.

Alla fine mi tende la mano e dice: mi chiamo Benoît.

Gli stringo la zampa stile papà e faccio: Philippe.

Siamo d'accordo. Appuntamento per domani sera.


La sera del giorno dopo, i miei decidono di andare tutti a Biarritz.

Ho provato a ribellarmi e mi sono beccato due sonori ceffoni.

Non l'ho più visto.

I suoi erano venuti a prenderlo.

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Pagina 23

MICHEL AVRIL



La montagna è l'ideale.

Sì.

Nessuno mi crede mai.

Passeggiare lungo i sentieri dei pastori, guardare le nuvole formarsi e scomparire, raccogliere funghi, pescare nei laghi d'alta quota. Senza sentire niente, solo il rumore del vento.

Alzarsi presto la mattina sapendo che te ne starai fuori tutto il giorno.

Solo.

Niente ragazzini urlanti. Niente femmine che ciacolano. Niente venditori di gelati e ciambelline della regina.

Il vento e basta.


Nessuno mi sta mai a sentire.

Mai una volta siamo riusciti ad andare in montagna.

Tutti gli anni la stessa storia. Due settimane dai suoceri, a rompermi i coglioni in una casa dove mi odiano tutti, anche se mi fanno dei gran sorrisi, e a coltivare l'orto con mio suocero. E poi due settimane al mare. Prima era peggio. Al mare ci stavamo un mese. Un mese spalmati su asciugamani muffiti che volano alla minima brezza. Senza contare quanto ci costa. Con quello che ci costa d'affitto potevamo già esserci comprati un quarto del terreno per la casa. Invece no. Bisogna andare al mare. Bisogna guardare le onde. Bisogna comprare il ghiacciolo. Bisogna comprare la crema. Bisogna ascoltare le cazzate di quella baldracca di Natacha.

Bisogna sorbirsi il bambino che non sa giocare per conto suo. Peggio ancora, bisogna stare a guardare mentre tua moglie cambia da così a così.


Appena si mette in costume.

Succede non appena si mette in costume.

E si infila gli occhiali da sole.

Sta tutto il giorno a guardare.

Non entra mai in acqua, non sa nuotare.

Non fa altro che spettegolare con Natacha e guardare.

Guarda gli altri uomini sulla spiaggia.

E fa il confronto.

Fa il confronto, io lo so.

Questo è più muscoloso, pensa, quello ha un'aria carina, dev'essere un padre migliore.

E di sicuro quell'altra troia la incoraggia. Con tutte le sue arie da parigina e il suo trucco esagerato. Le dirà che in spiaggia è come al supermercato, giri per i reparti, valuti, dài un'occhiata al prezzo e non sei nemmeno obbligato a comprare.


Comunque gli uomini li guarda, lo so.

A casa si trattiene, ma cosa crede, io me ne accorgo lo stesso. Il maestro della porta accanto, tanto per dirne una. E dài che parlano di bambini, e di insegnamento, e di come renderli più bravi e più autonomi, ma sotto sotto a lei non gliene frega niente. Vorrebbe solo entrargli in casa, infilarglisi nel letto e vedere come scopa.

Lo fa apposta per farmi stare male.

All'inizio non ci volevo credere, sono stati i miei genitori ad aprirmi gli occhi. Guarda come se la rigira, mi hanno detto, sta sempre a trattarti da schifo e poi fa la lagna come se la vittima fosse lei. È proprio vero.

Se ne approfitta perché sa come sono fatto, lo dice anche mamma. Ti scaldi subito, sei sempre stato così, hai un cuore d'oro ma ti scaldi subito, non c'è niente da fare, sei fatto così, e comunque ci si guadagna a stare con te, hai un ottimo posto nelle ferrovie, sei un gran lavoratore, porti i fiori a casa quasi tutti i sabati, non si rende conto della fortuna che ha, sai quante vorrebbero stare al suo posto.


E poi è una schifosa.

L'altro giorno avevo giurato di non arrabbiarmi, visto che me lo rimprovera di continuo. Dice che urlo. E tutti i vicini sentono le cose che dico. E allora? È bene lo sappiano, i vicini, che ho sposato una baldracca, una baldracca che va in giro con altre baldracche. Comunque, insomma, non mi sono arrabbiato. E lo sa solo Dio cosa ho passato. Quando mi ha portato il caffe quasi freddo, quando la marmellata è colata giù dal pane e lei nemmeno l'ha pulita, quando ho visto le macchie sul pavimento in cucina, quando l'ho vista guardare il maestro di nuoto, non ho detto niente, ho morso il freno. Pensate che mi abbia detto grazie? Col cazzo. Allora basta, dico. Basta con le concessioni. Fine, abbiamo già dato. Sono sempre io a fare sforzi, lei niente. Cose da pazzi. Ho sposato una troia, e devo pure ringraziare! Ma a me non mi ci tratta così.

Il peggio, come dice mia madre, è che mi ha messo contro il bambino. E certo, io mi faccio il culo, sto tutta la settimana fuori, torno solo il weekend, quindi hanno tutta la settimana per sparlare ben bene di me, c'è poco da fare. Il bambino diventa uguale a lei, è evidente. Prima di tutto mi evita. Poi fa le smorfie, come sua madre. Fa la faccetta disgustata quando scherzo. Fa il superiore. Gliel'ha insegnato lei. E per di più è appiccicoso. Sta sempre in mezzo ai piedi, non è capace di giocare per conto suo, ti chiama in continuazione, vuole fare un castello di sabbia, vuole un gelato, vuole il suo Spirou, il signorino, con quello che ci costa potevamo già esserci comprati un quarto del terreno per la casa.

Se non altro in montagna saprebbe cosa fare. Andremmo insieme per funghi, faremmo i picnic. Lei potrebbe fare quello che vuole. Potrebbe restare a casa a cucire, o a guardare la Tv. La montagna non le piace. Embè? Neanche a me piace il mare, però me lo sorbisco tutti gli anni.

E poi potremmo prendere una casa isolata, in mezzo ai Pirenei. Una roba tutta per noi, senza altri turisti. Tranquilli. Lei, al massimo, potrebbe mettersi a guardare le mucche.

Mia madre la pensa come me. Sarebbe una buona idea, dice. In un modo o nell'altro, secondo lei, bisogna tenerla a bada. Pure tu, cosa ti è saltato in testa di sposarti una così? Il mondo è pieno di donne che ti avrebbero supplicato in ginocchio di sposarle e tu ti vai a prendere quella smorfiosa con l'aria da vittima. Non te ne eri accorto, eh, cucciolotto? L'amore ti aveva accecato, è così?


Eh sì.

Proprio.

Ma non è colpa mia se è rimasta incinta alla prima botta, subito dopo il ballo.

Poteva premunirsi.

O dirmi che non era il momento giusto. Avrei capito.

Alla fin fine, mica sono un mostro.

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Pagina 41

GILLES VERINIANI



Non avrei mai pensato potesse succedere a me.

Non sono il tipo.

Non ho mai avuto visioni romantiche come stare mano nella mano sulla spiaggia, camminare nell'acqua, schizzarsi, ridere.

Forse dieci anni fa. Dieci anni fa, sì.

Mi ricordo che passavo le vacanze in attesa del colpo di fulmine, l'anima gemella, le tragedie alla partenza, le promesse per l'anno venturo.

Sono sempre venuto in vacanza qui, con i miei genitori.

Ritrovavamo le stesse famiglie, gli stessi amici.

Organizzavamo grigliate, giochi, gare a chi pisciava più lontano.

Mi ricordo una ragazzina di un paio d'anni più piccola, pazza di me. Un anno si era perfino fregata la mia maglietta dei Rubettes per mettersela quando andava a letto.

Avevo nove anni. Lei sette.

Una bambinetta.

Quando si è fatta grande, i suoi hanno preferito la Bretagna.

Gli amici si sono sparsi un po' dappertutto. Qualcuno, causa disoccupazione, in vacanza non ci è più venuto. Ci siamo scritti qualche volta, poi basta.

Restava solo Olivier.

Ci siamo divertiti tanto io e Olivier, ma era chiaro che quando incontravamo una ragazza non era me che avrebbe scelto. E non abbiamo mai trovato le due proverbiali gemelle per risolvere il problema.


Poi all'improvviso niente più genitori per coprire le spese. Per pagarsi gli studi, bisognava sfacchinare d'estate. Olivier si è trovato un lavoro, durante i mesi estivi deve sudarsela e lasciare la spiaggia alle coppie con figli. Presto toccherà a lui. Sua moglie è incinta. Non so se lo invidio.

Ho venticinque anni. Sono libero da qualunque rapporto, l'ultima fortunata si è liberata dalla palla al piede neanche un mese fa. Lì per lì ero indeciso. È una pessima idea, mi sono detto, andare al mare da solo nello stesso posto dove andavo da piccolo. Mi verrà una depressione nera.

Stavo per lasciar perdere. Poi ho ripensato alla via pedonale che sale al mercato, all'Almanar, all'isola di Porquerolles, alla dolcezza dell'aria quando stai in spiaggia e chiudi gli occhi. E qualunque cosa è meglio di rimanere a casa da solo, a guardare gli amici che partono uno a uno, ho pensato.


I primi giorni sì, è stata dura.

Mi aggiravo per questo squallido bilocale chiedendomi cosa fossi venuto a fare.

Avevo un bisogno tremendo di parlare con qualcuno.

Ma la solitudine più brutta l'ho sentita uscendo la sera. Io che ho sempre adorato le discoteche. Guardavo una ragazzina giovanissima ballare con un tipo che pensava solo a scoparla. Mi sto facendo del male, mi sono detto. Sono andato via quando hanno cominciato a prendersela col magrebino.

Nel parcheggio c'era una ragazza della mia età, un po' spersa. Il suo ragazzo voleva rimanere con gli amici. Lei invece aveva voglia di tornare. Ma era una discoteca in mezzo al nulla. Abitava a Hyères, in centro. Mi sono offerto di accompagnarla. Ha fatto una risatina. Non sarebbe una decisione saggia. A te la scelta. Se lo sa il mio ragazzo, va su tutte le furie. Non ne avrebbe motivo. Dopotutto, perché no?


Non era lontano, abbiamo parlato a malapena. Ma quando mi sono fermato davanti a casa sua, non è scesa dalla macchina. Io non faccio mai il primo passo. Né il primo né quelli successivi. Ha aggrottato la fronte. Mi ha detto: vivi nel dipartimento dell'Aube? Ho fatto sì con la testa. Aveva letto la targa. Anche un mio amico era di lì. Silenzio. Ti stranisci se ti chiedo il tuo numero? No, ma si stranirà il tuo ragazzo. Uscendo, mi ha sorriso e ha detto grazie.


Alle tre di notte mi stavo facendo un caffè per schiarirmi le idee quando il telefono ha squillato. Volevo essere sicura di non aver scritto male il numero. Mmh. Dormivi? No. Che facevi? Caffè. Anch'io ti pensavo. Non mi hai neanche chiesto come mi chiamo. Cerco sempre di non correre troppo. Ti ho riconosciuto subito. Scusa? A Parigi, da qualche parte in camera mia, ho ancora la tua maglietta dei Rubettes.


Imparare a conoscere l'altro.

Addomesticarlo.

È come per questa città. Mi è familiare, eppure tante cose sono cambiate. Bisogna cercare di riempire i vuoti, stanare i dolori, rovistare i sentimenti sottopelle. Mi sembra di non averlo fatto per anni. Forse mai.

Quando mi sveglio sento il suo naso sul mio petto. Dorme così, rannicchiata su di me. Guardo il soffitto e sento gli occhi riempirmisi di lacrime. A colazione cerchiamo di vedere un pezzetto di mare, ma i palazzi bloccano la vista.

Il suo ragazzo è tornato a Parigi. Lei è rimasta. Io sono rimasto. Siamo rimasti.

Ieri ci siamo fermati a guardare gli annunci immobiliari nelle vetrine delle agenzie. Volevamo trovare un affitto per tutto l'anno.

Vivrò una vita di vacanze.

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