Copertina
Autore Donald Bloxham
Titolo Il "grande gioco" del genocidio
SottotitoloImperialismo, nazionalismo, e lo sterminio degli armeni ottomani
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 , pag. 384, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,5x3 cm , Isbn 978-88-02-07778-9
OriginaleThe Great Game of Genocide. Imperialism, Nationalism, and the Destruction of the Ottoman Armenians [2005]
PrefazioneMarcello Flores
TraduttoreLuisa Cetti
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe storia contemporanea , storia criminale , storia: Europa , paesi: Turchia , paesi: Armenia
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Indice

VII  Presentazione di Marcello Flores
 XI  Prefazione
 XV  Abbreviazioni
  5  Introduzione


 35  PARTE PRIMA Omicidi di massa entro un sistema internazionale


 37  I. PROLOGO: QUESTIONI ORIENTALI, RISPOSTE NAZIONALISTE

– Origini e obiettivi delle riforme ottomane, p. 37
– Appoggio e pressioni esterne per le riforme, p. 43
– Cambiamenti sociali e scontri etnici nell'impero ottomano, p. 50
– L'internazionalizzazione della questione armena, p. 59
– Abdόlhamit II e il panislamismo, p. 61
– I partiti politici armeni, p. 66
– I massacri del 1894-1895 e le loro conseguenze, p. 68
– L'ascesa al potere del CUP, p. 77
– I massacri del 1909 in Cilicia, p. 82
– La contrapposizione tra turchi e armeni nell'era delle guerre
    dei Balcani, p. 84
– «Sul cratere di un vulcano», p. 89

 93  II. «RAPPRESAGLIA» E PULIZIA ETNICHE

– Agitazione etnica e «rappresaglia etnica» nelle regioni lungo
    i confini orientali, p. 97
– Radicalizzazione del centro e prime deportazioni dalla Cilicia,
    p. 108
– Da misure regionali a una politica generale, p. 116
– Una valutazione dell'operato dei nazionalisti armeni, p. 127
– La gestione del massacro, p. 131
– Il genocidio in sintesi, p. 132

137 INTERLUDIO: IL GENOCIDIO E IL SUO CONTESTO

– La politica demografica del CUP e la prima guerra mondiale, p. 137
– Kemal e la ripresa del nazionalismo turco, 1919-1923, p. 143
– Armenia e Azerbaigian, p. 146
– Le guerre greco-turche, p. 149
– La repubblilca turca e la questione curda, p. 150
– Conclusioni, p. 156


159 PARTE SECONDA Reazioni e responsabilità internazionali nell'era
    del genocidio


161 III. GERMANIA IMPERIALE: UN ESEMPIO DI IDENTITΐ TRAVISATA

– I legami con la Germania: funzionari, sentimenti anti-armeni
    e contesto culturale, p. 162
– «Isteria dell'insurrezione» e contesto militare, p. 165
– Deportazioni, «esigenze militari» e deliberato genocidio, p. 168
– L'evoluzione delle reazioni diplomatiche tedesche, p. 173
– Lo stato dell'alleanza, p. 178
– La Germania e la campagna di propaganda dell'Intesa, p. 182
– Conclusioni, p. 185

189 IV. L'INTESA E LA VIOLENZA ETNICA, 1915-1923

– Gli accordi segreti, p. 190
– Le prime reazioni inglesi al genocidio, p. 192
– Francia, Siria, Cilicia e gli armeni, p. 196
– Gli effetti della rivoluzione russa, p. 202
– Dalla sconfitta ottomana alla rinascita nazionalista, p. 208
– La Gran Bretagna e lo sbarco greco, p. 211
– L'occupazione della Cilicia e la Legione Armena, p. 214
– Le scelte politiche britanniche del 1920, p. 219
– Le conseguenze di Sèvres per le popolazioni, p. 221
– Il Caucaso, 1918-1920, p. 226
– La conferenza di Londra, p. 229
– La fine della politica greca, p. 232
– Conclusioni e inizi: Losanna, p. 235


241 INTERLUDIO: NUOVI PROBLEMI DELLLE MINORANZE NEL NUOVO
    VICINO ORIENTE

– L'atteggiamento delle grandi potenze verso la persecuzione
    dei cristiani, p. 242
– La Gran Bretagna e le dinamiche della questione regionale
    curda, p. 246
– Retaggi, p. 252
– Conclusioni, p. 254


259 PARTE TERZA Dalla reazione al riconoscimento?


261 V. GLI STATI UNITI: DAL NON-INTERVENTO AL NON-RICONOSCIMENTO

– Il contesto diplomatico, p. 263
– Il contesto all'origine del mutamento di politica del 1919, p. 266
– Gli interessi americani ed europei nel Vicino Oriente, p. 269
– La credibilità della nazione turca e la questione del mandato
    armeno, p. 271
– Protezione delle minoranze e turchizzazione, p. 275
– Revisione dell'immagine del «terribile turco», p. 281
– Eredità delle relazioni turco-americane, p. 287
– Conclusioni, p. 292

295 VI. EPILOGO: LA GEOPOLITICA DELLA MEMORIA

– Le origini e gli scopi della negazione, p. 296
– I primi echi del passato, p. 302
– La causa del riconoscimento durante la guerra fredda:
    parte prima, p. 307
– La causa del riconoscimento durante la guerra fredda:
    parte seconda, p. 313
– Riconoscimento e nuovo ordine mondiale, p. 317
– Sull'altro versante del riconoscimento?, p. 326
– Riflessioni finali, p. 334

337 Bibliografia

367 Indice analitico

 

 

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Pagina VII

Presentazione



Molto spesso alla ribalta per motivi politico-culturali che riguardano la memoria e l'uso che ne viene fatto a livello pubblico, il genocidio degli armeni è argomento che continua a produrre una riflessione storiografica sempre più articolata e matura.

Il libro di Donal Bloxham pubblicato adesso dalla UTET Libreria (The Great Game of Genocide. Imperialism, Nationalism, and the Destruction of the Ottoman Empire, Oxford University Press) ne è certamente l'ultimo esempio; esso segna anche l'affrancamento di questo tema da una riflessione troppo a lungo dominata da studiosi legati – per origine, formazione, interessi – alla cultura delle vittime dell'oggetto di studio (gli armeni) o a quella dei suoi responsabili storici.

La storiografia di origine armena ha avuto a partire dagli anni Ottanta il merito di avere fatto uscire il ricordo del genocidio armeno dall'ambito ristretto della diaspora o dalle preoccupazioni politiche del riconoscimento internazionale, facendolo diventare oggetto di ricerca storica in senso pieno. Attorno ad alcuni autori, pur con rilevanti differenze tra loro, si è costruito nel tempo una sorta di canone storiografico e di interpretazione egemone di parte «armena», capace di imporsi lentamente alla più vasta opinione pubblica e di sollecitare ricerche e studi in ambito accademico e scientifico.

Θ soprattutto nei confronti di questa storiografia, e del suo autore più noto, Vahakn N. Dadrian, che Bloxham ha inteso polemizzare sul terreno scientifico, della ricostruzione più verosimile degli eventi e della loro interpretazione: giungendo a conclusioni che si possono sostanzialmente condividere e che convergono – non certo in tutto, ma in alcuni assunti fondamentali – con le riflessioni, ad esempio, di Taner Akgam, Ronald Suny, Hilmar Kaiser (e cioè di storici con differenti background culturali ma uniti da un approccio storiografico non unilaterale e fortemente critico di spiegazioni monocausali).

L'aspetto centrale della distanza critica che Bloxham prende da storici come Dadrian risiede nella presunta «connessione» – che nello storico armeno costituisce il leit-motif della propria interpretazione – tra i massacri degli anni Novanta del XIX secolo e il genocidio del 1915-1916. Una connessione che per Dadrian ha l'aspetto di un legame indissolubile e di stretta continuità, e che individua in una presunta «cultura» e «mentalità» omicida e in una «cultura fondata sul massacro» prevalente nel mondo turco il fulcro esplicativo del perché del genocidio.

Bloxham si sofferma anche con chiarezza e intelligenza sul sorgere del nazionalismo a cavallo tra XIX e XX secolo e sulla trasformazione che provoca nello stato e nella politica, nella cultura e nei rapporti tra musulmani e non musulmani. L'attenzione con cui guarda anche al nazionalismo armeno lo porta a interrogarsi sugli effetti – spesso non considerati e neppure immaginati – che il suo diffondersi e radicalizzarsi hanno avuto nella società ottomana. Del nazionalismo turco mette in rilievo l'origine largamente «periferica» della maggior parte dei suoi dirigenti, e quindi particolarmente sensibile alle condizioni dei musulmani espropriati dei loro beni e immigrati in Anatolia dai territori perduti dell'impero; ma anche la rapidità con cui, in sintonia con quanto succede in tutta Europa, il nazionalismo «liberale» cede il posto a un nazionalismo sempre più «autoritario» che, nel caso ottomano, si nutre al tempo stesso di una forte polemica antioccidentale e di una marcata propaganda antiarmena. Questa radicalizzazione ideologica, legata alle trasformazioni sociali, culturali e internazionali, non si trasforma, tuttavia, in una coerente ipotesi di distruzione degli armeni, rendendo così difficile legare in modo deterministico e necessario i massacri hamidiani con quelli del 1915-1916.

Il libro di Bloxham si occupa estensivamente anche del periodo successivo al genocidio e alla guerra, ponendo particolare attenzione alle dinamiche internazionali degli anni della Conferenza di pace (Sèvres e dintorni), alla ripresa del nazionalismo turco sotto Kemal fino alla costituzione della Repubblica turca, alla progressiva riduzione del territorio armeno e al suo inserimento nell'URSS come repubblica socialista. L'attenzione a tutti gli attori in scena (inglesi e francesi, sovietici e americani, turchi e armeni) permette di collocare i conflitti, le violenze e gli esiti di un quinquennio particolarmente intenso e travagliato nell'area mediorientale in una cornice adeguata, che permette di tener conto di tutte le variabili esistenti. Di particolare spessore sono i capitoli dedicati alle responsabilità tedesche nel genocidio e alla politica americana, ambigua e contraddittoria nei comportamenti dell'Amministrazione, del Congresso, delle iniziative umanitarie e dei numerosi missionari presenti nella regione.

La ricostruzione della geopolitica della memoria, che a partire dagli anni Venti ha costruito su e attorno al genocidio una battaglia sul passato che ha coinvolto stati e governi, partiti e associazioni, studiosi e mezzi d'informazione, costituisce una riflessione approfondita e necessaria per comprendere l'attuale livello della discussione pubblica, i mutamenti avvenuti e gli effetti che ne sono derivati allo studio scientifico e accademico.

Il confronto crescente con il proprio passato che la società civile turca sta compiendo con difficoltà ma anche con progressi inarrestabili, malgrado gli ostacoli di gran parte del governo e dell'establishment, si nutre con particolare attenzione dei contributi che vengono da storici professionisti, oltre che dal lavoro efficacissimo di giornalisti e scrittori; e guarda con interesse alle posizioni diffuse in proposito in Europa. Θ in questo ambito che un lavoro come questo di Bloxham può contribuire, oltre che alla conoscenza di un momento storico cruciale, a favorire quell'incontro tra culture e popoli che è l'unico antidoto possibile al negazionismo e alla manipolazione storica per interessi politici e ideologici.

Marcello Flores

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Pagina XI

Prefazione



L'evento storico al centro di questo libro è lo sterminio di circa un milione di armeni cristiani sotto gli auspici del governo ottomano nel 1915-1916. L'analisi che lo correda cerca di gettare nuova luce sull'evento e sulle forme che ha assunto da allora nella coscienza politica e storica mondiale. Il titolo del libro deriva dal nome – Big Game, il Grande Gioco – comunemente attribuito alla sfida tra Russia e Gran Bretagna per l'egemonia nell'Asia centrale, e allude all'importanza dello scontro tra grandi potenze e alla mutevole geopolitica del Vicino Oriente.

Il progetto da cui il libro ha preso inizialmente avvio intendeva focalizzarsi sulla negazione turca del genocidio armeno e sull'accettazione occidentale di tale negazione. Tuttavia, è risultato subito evidente che non sarebbe stato possibile capire pienamente la negazione e l'adeguamento a essa senza un approfondimento dei modi in cui il mondo esterno si è adattato alle scelte dell'impero ottomano durante la prima guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. In seguito, ho compreso che era a sua volta impossibile spiegare compiutamente questo schema di influenza reciproca senza fare riferimento alla precedente e vitale interazione tra lo stato ottomano e le «grandi potenze» nella «questione armena» fino al genocidio e alla sua attuazione. In effetti, come sosterrò più avanti, tale interazione fu una delle cause principali del genocidio a breve e a lungo termine. Questi tre filoni di ricerca sono intimamente connessi e, in ordine inverso, costituiscono le tre sezioni in cui è diviso Il Grande Gioco del genocidio.

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Pagina 5

Introduzione
Il genocidio e il caso armeno



Nei mesi che vanno dall'autunno del 1914 all'estate del 1915 il governo ottomano prese una serie di decisioni che sfociarono nella decimazione della popolazione armena cristiana dell'impero ottomano. Prima della guerra la comunità armena era sparsa per l'impero. La maggioranza apparteneva alla chiesa apostolica armena, benché esistessero anche alcune minoranze cattoliche e protestanti. Vi erano alcune concentrazioni particolari di popolazione armena, che non costituivano però maggioranze demografiche, tranne a livello locale negli insediamenti storici armeni. Essi erano situati in Cilicia, a nord e nord-ovest del golfo di Alessandretta sulla costa mediterranea, dove gli armeni vivevano fin dall'inizio del Medioevo, e nelle province orientali dell'Anatolia, vasta regione delimitata dal Mediterraneo e da Cilicia, Siria, Mesopotamia, Persia, Caucaso e mar Nero, un'area dove l'insediamento degli armeni risale a 3000 anni fa (si veda la Carta 2). Anatolia e Cilicia costituiscono parte rilevante del territorio della Turchia moderna.

Durante la prima guerra mondiale, gli armeni dell'Anatolia orientale vennero uccisi sul posto – destino riservato a molti uomini e ragazzi – o deportati nelle zone desertiche del moderno Iraq o verso sud, in Siria. Lungo il tragitto della deportazione subirono massicce e ripetute depredazioni – stupri, rapimenti, mutilazioni, uccisione diretta e morte per fame, sete o per il caldo – per mano dei gendarmi ottomani, delle truppe irregolari turche o curde e delle tribù locali. Anche l'esercito ottomano fu coinvolto nei massacri. Alle donne rapite e ad alcune sopravvissute e a molti orfani venne imposta la conversione all'Islam come mezzo di assimilazione alla «nuova Turchia».

Gli armeni deportati dalla Cilicia e da alcune aree dell'Anatolia occidentale non furono oggetto dello stesso tipo di vessazioni durante il loro viaggio verso sud; senza grandi molestie affrontarono il loro destino nel deserto o l'esilio lontani dai loro luoghi d'origine. Così, con qualche diversità legata alle condizioni locali, queste marce della morte servirono allo stesso scopo complessivo: l'eliminazione di una presenza collettiva significativa armena sul suolo turco. Molti di coloro che riuscirono a raggiungere i centri di concentramento nel deserto furono massacrati in una serie di attacchi nel 1916. Nel loro insieme, questi eventi costituiscono il genocidio armeno. Approssimativamente un milione di armeni ottomani morì, pari a metà della popolazione del periodo precedente alla guerra e a due terzi dei deportati.

I principali responsabili del genocidio furono i leader e il comitato centrale del Comitato d'Unione e Progresso (Ittihad ve Terrai; CUP), il partito dominante nel governo ottomano. Il CUP si era formato da gruppi eterogenei di opposizione, noti collettivamente come Giovani Turchi, nati a fine Ottocento. Svolsero un ruolo importante nel destituire l'ultimo sultano importante, Abdόlhamit II, con un colpo di stato nel 1908.

Il nazionalismo del CUP divenne più marcato ed esclusivo nella fase finale della presenza in Europa dell'impero ottomano, durante le guerre balcaniche del 1912-1913, sullo sfondo di una prolungata erosione dei territori ottomani, in particolare nell'ultimo quarto dell'Ottocento. A giustificazione della politica delle deportazioni, il CUP indicò i fermenti nazionalistici armeni, sostenendo che miravano a dividere mediante la secessione ciò che restava dell'impero. A causa del tradizionale appoggio russo all'indipendenza balcanica cristiana o ai movimenti autonomisti e della crisi esistenziale dell'impero nel corso di una guerra con il nemico «ereditario» moscovita, il CUP sospettava, inoltre, una collaborazione militare russo-armena nelle regioni di confine caucasiche-persiane-ottomane. Dunque, secondo la logica dichiarata del CUP, le deportazioni armene costituivano una «necessità militare».

Tuttavia, per quanto accelerate dalla guerra, le deportazioni e i massacri furono funzionali al proposito di risolvere con la violenza la cosiddetta «questione armena», così definita dai diplomatici europei. Deportazioni e massacri permisero al CUP di garantirsi in Anatolia un'area etnicamente «purificata», essenziale per lo sviluppo nazionale della popolazione turca. Inoltre, gli eventi del 1915 non possono essere considerati nella sola prospettiva degli anni di guerra. A partire dal 1870 circa, il fermento politico per le riforme e per l'autonomia della comunità armena era stato esacerbato dai massacri su vasta scala avvenuti in tutto l'impero nel 1894-1896 e in Cilicia nel 1909, e venne ulteriormente influenzato dalle numerose vessazioni e discriminazioni quotidiane che si erano intensificate nella seconda metà dell'Ottocento. Benché i massacri dell'ultimo decennio dell'Ottocento non siano direttamente collegabili con il genocidio del 1915, dal momento che le ideologie dei responsabili erano diverse, e le prime uccisioni non siano state attuate sotto lo stesso tipo di rigida autorità centralizzata come negli episodi successivi, entrambi gli episodi avvennero nel contesto essenziale del declino finale dell'impero. Inoltre, i massacri stessi del 1895-1896 costituirono un precedente che influenzò l'atteggiamento sia dello stato sia delle vittime.

Le sofferenze degli armeni non ebbero comunque fine con l'attenuarsi del genocidio nel 1916. Nel 1918, dopo che la rivoluzione bolscevica aveva allontanato la Russia dalla guerra mondiale, le forze ottomane raggruppate si spinsero in Transcaucasia per attuare le ambizioni espansioniste che il governo nutriva quando entrò nel conflitto europeo nel 1914. Entrarono così in contatto con gli ex rifugiati provenienti dall'Anatolia orientale così come con gli abitanti di quella che era stata l'Armenia russa ed era diventata dal maggio 1918 una repubblica indipendente con capitale Erevan. Come conseguenza della guerra tra i due stati vi furono nuovi massacri ed è probabile che anche gli armeni commisero atrocità, come già erano state compiute da gruppi armeni in Anatolia orientale nel 1917. Inoltre, a partire dal maggio 1918 si verificarono scontri tra comunità armene e azerbiagiane con reciproche «pulizie etniche», mentre entrambi i governi erano impegnati a stabilire i propri confini e a consolidarsi internamente.

La sconfitta ottomana nell'ottobre del 1918 portò a una tregua temporanea, finché un rinascente movimento nazionalista guidato da Mustafa Kemal (Ataturk) riuscì a trarre vantaggio dalla mancanza di unità degli Alleati per ristabilire il controllo turco dell'Anatolia e rilanciare l'assalto allo stato armeno nel 1920. Dopo aver rapidamente sconfitto l'impreparato esercito armeno, la Turchia impose una pace draconiana, riducendo il territorio armeno alle terre sterili e prive di sbocchi sul mare, che oggi formano il territorio dello stato. Intorno al 1920-1921, la pressione e la penetrazione bolscevica culminarono nell'annessione dell'Armenia all'interno dell'impero sovietico, fino alla sua caduta. Contemporaneamente, le forze nazionaliste turche allontanarono le truppe d'occupazione francesi dalla Cilicia e furono liete di vedere decine di migliaia di armeni partire insieme a loro – molti erano scampati al genocidio avvenuto durante la guerra ed erano ritornati nella regione fidandosi erroneamente della sicurezza garantita dalla presenza francese. Negli anni successivi, i nazionalisti cominciarono a «incoraggiare» i pochi armeni rimasti nell'Anatolia interna a partire, mentre l'ultima presenza armena significativa, a Istanbul, fu oggetto di una crescente discriminazione economica e politica.

Il mio contributo allo studio degli eventi del 1915-1916 e degli anni successivi, e delle loro cause e insegnamenti, non vuole essere la semplice riaffermazione dei fatti avvenuti, anche se chiunque conosce lo sterminio degli armeni sa anche che esso è formalmente negato dai regimi succeduti al CUP in Turchia. Il mio primo intento è fornire una nuova interpretazione dello sviluppo del genocidio e, in conclusione, mettere in discussione le interpretazioni esistenti. Per quanto riguarda il mondo esterno all'impero ottomano, il mio obiettivo è individuare il nesso tra gli interventi esterni nei rapporti stato-minoranze a partire da metà Ottocento, considerando le reazioni al genocidio stesso e la divisione postbellica del Vicino Oriente fino all'accettazione odierna dei propositi negazionisti della moderna repubblica turca. In particolare, cerco di mostrare che questi aspetti non sono distinti: il coinvolgimento delle grandi potenze negli affari interni ottomani fu un elemento chiave nell'inasprimento delle dinamiche che portarono allo sterminio mentre la sensibilità turca rispetto agli interventi esterni a favore degli armeni – sia diretti verso le riforme prima del 1914 o l'indipendenza dopo il 1918 – fu un fattore essenziale che contribuì a far emergere il negazionismo.

Questi obiettivi saranno indicati in maniera più dettagliata verso la fine dell'Introduzione, ma prima di tutto è importante collocare il progetto all'interno di una serie di contesti più ampi tesi a giustificare la mia scelta di dare rilievo a un problema – il genocidio – che nel solo Novecento ha riguardato decine di milioni di persone. Cercherò di spiegare la scelta di soffermarmi sul genocidio armeno esaminando in primo luogo in quale modo il genocidio in generale, e il caso armeno in particolare, si sia radicato nella coscienza moderna, e in secondo luogo illustrando il significato storico intrinseco degli eventi del 1915-1916.

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Pagina 9

Le politiche di identificazione e di indifferenza

A un primo sguardo, uno degli aspetti sconcertanti del genocidio armeno è che sia così poco conosciuto. Una cerchia sempre più ampia di studiosi e un crescente numero di attivisti della comunità armena hanno retto la fiamma del ricordo e periodicamente hanno risvegliato l'attenzione dell'opinione pubblica sulla questione, ad esempio mediante ripetuti, ma finora infruttuosi, tentativi di ottenere il riconoscimento di questo crimine da parte del Congresso americano. Con il primo Holocaust Memorial Day nel gennaio del 2001 in Inghilterra, il genocidio armeno ha rialzato la testa, anche se paradossalmente per protestare per la sua esclusione dagli annunci ufficiali. La Francia, con la sua popolazione armena piuttosto numerosa, ha espresso posizioni più esplicite nelle dichiarazioni pubbliche sul crimine (si veda il capitolo 6). Tuttavia, il genocidio armeno deve ancora entrare nella coscienza collettiva di gran parte dei non armeni.

Ma, perché, a mio parere, l'assenza di consapevolezza rispetto a ciò che è stato definito come il primo genocidio moderno è sorprendente soltanto a un primo sguardo? In primo luogo, perché pochi genocidi sono ben conosciuti. L'ovvia eccezione è l'Olocausto, tuttavia è soltanto negli ultimi due decenni che si è significativamente radicato nella coscienza dei non ebrei o dei non specialisti. Inoltre, il complesso di massacri che avvennero parallelamente alla «soluzione finale della questione ebraica» — l'uccisione di slavi, rom, malati mentali e disabili — non è oggetto di pari interesse.

La convenzione vuole che si individui nell'incessante negazione turca del genocidio armeno la ragione principale del suo basso profilo. A mio parere, ciò rappresenta soltanto una risposta parziale, poiché la negazione ha finito per attirare un certo interesse che altrimenti sarebbe probabilmente mancato, in particolare negli ambienti di sinistra e liberali. Inoltre, in termini di produzione di studi, il genocidio armeno è, dopo l'Olocausto, uno dei casi storici più discussi. Su questa base, dobbiamo considerare ragioni di natura molto più generale per quanto concerne l'esclusione di questo o di altri genocidi dalla «coscienza collettiva» del mondo non armeno e, in particolare, nell'Occidente egemone, i cui politici dettano le norme internazionali e i cui storici codificano la memoria storica.

Il Novecento si è dimostrato sia un secolo di genocidi sia un secolo di oblio dei genocidi, o più precisamente di disinteresse per i genocidi. Storia e politica sono strettamente legati. L'Olocausto ha assunto rilevanza per molte ragioni, incluse la portata, l'entità e l'intento della strage. Tuttavia, un'altra spiegazione è fornita dal fatto che è stato compiuto in Europa da europei contro europei. Θ evidente che l'importante comunità ebraica americana e gli obiettivi dello stato di Israele contribuiscono con un ruolo che non può certo essere riprodotto, ad esempio, dalle vittime rom sopravvissute ai nazisti o dalle popolazioni della regione di Chittagong in Bangladesh, anch'esse vittime di uno sterminio patrocinato da uno stato. In termini ristretti, selettivi, la storia ha registrato la politica del passato e, in maniera circolare, le priorità politiche del presente influenzano le porzioni della storia che vengono prese in considerazione. Poiché il genocidio è generalmente perpetrato dal più forte nei confronti del più debole, nella maggior parte dei casi sono i proverbiali vincitori a trascriverlo nella «Storia».

Tra i molti altri esempi di genocidio o di massacro di massa appoggiati da uno stato e avvenuti nel solo Novecento, il caso del Rwanda gode almeno di una certa risonanza, sulla base della sua vicinanza cronologica. La consapevolezza della «pulizia etnica» nell'ex Iugoslavia ha potuto beneficiare del progresso tecnologico, utilizzato nel quadro della recente enfasi sugli «interventi umanitari» in politica estera. Tuttavia, i genocidi che hanno scarsa prossimità geografica o cronologica sono esposti facilmente al rischio di emarginazione in «Occidente», poiché possono essere presentati come atti compiuti e subiti da «altri» che sono lontani e i cui destini hanno poco da dirci sulla nostra stessa situazione. In effetti, vi è un profondo divario tra l'effetto prodotto da occasionali articoli o comunicati stampa pubblicati a Berlino sul genocidio armeno e la consapevolezza storica di quel genocidio suscitata in Libano, ad esempio, con la sua ampia comunità armena e i suoi storici rapporti con l'impero ottomano, o nel quartiere armeno di Gerusalemme, con le sue scritte che invitano il passante a «ricordare il genocidio armeno».

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Pagina 11

La politica di identificazione e il caso armeno

I confini concettuali sono connessi a quelli geografici, ma il loro rapporto non è preciso e coerente. L'«idea» di Europa è cambiata insieme alle opinioni su quali siano i confini con l'«Asia». Ecco che emerge il legame concettuale tra Ovest e questione armena. Nonostante la presenza dell'Armenia nei tornei di calcio europei, è improbabile che oggi l'«uomo della strada» inglese consideri europei gli abitanti della Repubblica Transcaucasica dell'Armenia, anche se il suo equivalente francese potrebbe essere meno categorico. In termini geopolitici, oggi l'identità armena potrebbe essere raffigurata, come regione, parte del blocco economico del Vicino Oriente. La potenza centrale di quest'area è la Turchia, essa stessa un Paese che è rimasto, contrariamente ai propri desideri, fuori dall'Europa. Le ragioni principali dell'insuccesso della Turchia nell'ottenere l'ammissione nell'Unione Europea sono quelle del tutto legittime connesse alle violazioni dei diritti umani e alle tendenze autoritarie e militaristiche, ma resta il sospetto che la Turchia sia considerata dai centri di potere della «comunità» come non appartenente all'Europa, in qualche misura. Per lungo tempo il termine «Vicino Oriente» o più semplicemente «Oriente» è bastato a etichettare tale «alterità». «L'Oriente – come Edward Said ha sostenuto in maniera eloquente – ha contribuito a definire l'Europa [...] come immagine, idea, personalità ed esperienza in contrapposizione».

Tuttavia, spesso i rapporti dell'Europa con la Turchia, così come con la sua popolazione armena di un tempo, sono stati caratterizzati dall'ambiguità piuttosto che dalla contrapposizione. L'impero ottomano ha rappresentato un elemento integrante delle vicende europee fin dal quattordicesimo secolo. Non soltanto era di grandi dimensioni e caratterizzato dal potere ereditario, ma possedeva anche ampi territori europei. In effetti, prima della fase 1875-1913, quando ormai l'impero era stato sospinto fuori dall'Europa, il suo centro di gravità era in larga misura collocato nel sud della penisola balcanica, in Tracia, in parte della Bulgaria e in Macedonia – la regione nota come Rumelìa.

Anche gli armeni conquistarono l'attenzione di un gran numero di europei e americani del tempo e a permettere i primi contatti furono i viaggiatori e i missionari. A partire dall'Ottocento, gran parte dell'attenzione rivolta agli ottomani cristiani era connessa alle difficoltà subite e ai periodici massacri. La «cristianità sofferente» veniva spesso contrapposta al «terribile turco», in particolare durante la prima guerra mondiale. Inoltre, alcuni osservatori occidentali descrissero i cristiani come una forza industriosa e aperta alla modernità, in contrapposizione allo stereotipo del musulmano indolente e retrogrado. Allo stesso modo, era possibile stigmatizzare gli armeni sulla base delle qualità stesse che li avevano fatti emergere. Come dichiarò un pastore della Chiesa Riformata americana nel 1922, «in Oriente incontriamo tipi di cristianità che sono molto lontani dagli standard normali, sia nella fede sia nella condotta». Apparentemente, era la scaltrezza negli affari a illustrare al meglio tali manchevolezze. Secondo il pastore, in Oriente la gente valutava i propri vicini secondo la seguente graduatoria: «due ebrei sono pari a un greco e due greci sono pari a un armeno. Ciò significa che, quanto ad accortezza negli affari, un armeno è pari a quattro ebrei. Questa gente, in generale, è malvoluta ovunque».

In qualche maniera, il paragone tra armeni ed ebrei è ben fondato: non in senso peggiorativo, ma nel senso di minoranza etnico-religiosa che, grazie alle tradizionali restrizioni religiose riguardo al suo ruolo socio-economico, ha sviluppato determinate specializzazioni professionali e una relativa sovra-rappresentazione all'interno delle attività commerciali e finanziarie che ha contribuito a far emergere stereotipi ben radicati. Come commentò l'ambasciatore tedesco a Istanbul nel 1913, i primi massacri armeni erano stati considerati in Germania come una «naturale reazione al sistema parassitario della classe affaristica armena. Gli armeni sono noti come gli ebrei dell'Oriente». Tuttavia, proseguiva notando che si tendeva a dimenticare che in Anatolia gli armeni comprendevano una forte comunità contadina. In effetti, i contadini costituivano il 70-80% circa della popolazione armena, e all'interno della restante popolazione urbana molti conducevano vite precarie come piccoli artigiani e lavoratori. Ebrei e armeni sono stati spesso catalogati insieme come «minoranze di intermediari», vulnerabili a causa della loro visibilità sociale e della grande disparità tra il potere economico di alcuni e il potere politico della totalità. Si tratta di un paragone su cui non si dovrebbe insistere troppo poiché vi erano profonde differenze tra l'antisemitismo cristiano e l'anticristianesimo musulmano. Per il momento è sufficiente sottolineare il fatto che, benché si potesse ritenere che entrambi i gruppi avessero legittime aspirazioni alla «occidentalità» – gli armeni sulla base della loro religione, gli ebrei per la loro collocazione ed entrambi per la loro «modernità» – furono abbandonati dall'Europa.

L'ambiguità stessa del rapporto dell'«Occidente» con la Turchia e l'Armenia influenzò le reazioni internazionali allo sterminio degli armeni, così come incise sulle percezioni della gente. Tale ambiguità spiega l'emergere della negazione accompagnata dalla sua accettazione, rispetto a fenomeni simili ben più diffusi, quali l'ignoranza e l'indifferenza. In Occidente, a un certo livello culturale condiviso, la popolazione armena ottomana «contava»; quindi il suo sterminio suscitò critiche e venne ricordato come è accaduto per i crimini commessi da molti stati. Prima, durante e dopo il 1915 i leader turchi hanno spesso replicato alle critiche esterne con paragoni con l'esperienza del colonialismo e dello schiavismo europei, ma senza profitto. Di conseguenza, il governo turco, nato dalle ceneri della prima guerra mondiale, dovette adottare un sistema di trasposizione più efficace – la negazione ufficiale – per timore d'ereditare lo stigma morale del suo predecessore e perfino di dover indennizzare le vittime con terre e denaro su pressione internazionale. Tuttavia, la «nuova Turchia» si rinsaldò sotto Kemal ed ereditò la sollecitudine di cui godevano gli Ottomani da parte delle potenze grazie ai loro forti interessi nella regione. La negazione venne dunque accettata all'esterno semplicemente perché la Turchia contava in termini materiali più dell'Armenia o degli armeni.

Grazie a questo singolare concatenarsi di circostanze, il fenomeno della negazione del genocidio armeno è diventato una prova decisiva di moralità della politica estera occidentale. Se un crimine che aveva avuto una notevole risonanza in Europa e negli Stati Uniti al momento in cui era avvenuto poteva essere forzatamente cancellato, diventano ancor più vaghe le prospettive di riconoscimento e di reazione rispetto a altri crimini passati e presenti, caratterizzati da minori legami geografici o culturali. E poiché nel caso armeno la negazione è esplicita, è possibile analizzarne radici, contesti, linguaggio e accoglienza, traendone una dimostrazione particolarmente chiara dei modi in cui la memoria collettiva viene manipolata dai rapporti di potere. Tale significato paradigmatico è una delle ragioni per cui ho scelto di analizzare il genocidio armeno in mezzo alla legione di altri casi che avrei potuto scegliere.

Anche altri aspetti del libro hanno implicazioni più vaste. Ai fini del contesto e del confronto rientrano in questo studio riferimenti al destino degli «Assiri» ottomani, dei greci e dei curdi durante e dopo la prima guerra mondiale e anche di altri gruppi dentro e fuori l'impero, inclusi i musulmani dei Balcani e del Caucaso sotto il controllo della Russia. In effetti, i musulmani albanesi, bosniaci e georgiani, i curdi, gli «zingari», e alcuni gruppi arabi ed ebraici furono costretti a spostarsi all'interno dell'impero durante e dopo gli anni della guerra, sulla base dell'obiettivo dell'assimilazione e, in alcuni casi, per punizione, anche se nessun gruppo venne deportato in massa come gli armeni né fu vittima del massacro quasi totale che decimò gli armeni. Dunque, anche all'interno di una più ampia storia di deportazioni e sofferenze emergono convincenti motivazioni intellettuali per esaminare il caso armeno nella sua specificità.

Il genocidio armeno fu più sistematico e accurato dell'attacco del CUP contro gli assiri. Collettivamente, le sofferenze armene furono più intense e l'intento dello stato più esplicitamente brutale rispetto all'epurazione sia dell'«etnia greca» in Anatolia sia dei musulmani sul territorio greco o alla prolungata persecuzione dei curdi da parte di Kemal. Benché questi episodi testimonino l'intensificarsi del nazionalismo etnico nella regione, nel caso greco lo scopo finale era la migrazione interna; nel caso curdo era l'assimilazione anche se le forze di polizia turche sconfinarono spesso in massacri di massa, ad esempio a metà degli anni Venti e alla fine degli anni Trenta. All'interno della più ampia storia dei massacri interetnici e delle deportazioni forzate dall'Asia centrale al Caucaso, all'Anatolia, ai Balcani e all'Europa centrale e orientale a partire da metà Ottocento durante la crisi e il crollo dell'impero ottomano, della dinastia Qing, dei Romanov e degli Asburgo, il genocidio armeno costituisce un esempio insolitamente completo di cancellazione di una comunità. Si tratta di qualcosa che la successiva, ancor più radicale vicenda dell'Olocausto ha teso a oscurare.

Il genocidio armeno fu consumato nel mezzo di un grande bagno di sangue, il cataclisma della Grande Guerra. Se raffrontato al numero di caduti delle trincee, il fato armeno si rivela significativo in termini sia di cifre assolute che relative. Le morti tra i militari ammontarono approssimativamente a nove milioni di uomini. Senza contare i soldati armeni morti in combattimento nei ranghi ottomani, il popolo armeno ha perso tra ottocentomila – un dato accettato nel 1919 da Kemal stesso – e un milione e mezzo di persone, ed è probabile che una cifra più precisa oscilli tra un milione e un milione e duecentomila (anche se altre decine di migliaia morirono per mano dei turchi e di altri durante le complesse vicende del 1917-1923). La cifra di un milione è superiore alle intere perdite inflitte all'impero britannico; include donne, bambini, uomini anziani e giovani e deve essere sottratta alla popolazione armena mondiale di quattro milioni, che non costituiva certo il gruppo più numeroso tra gli abitanti dei principali paesi europei combattenti.

In proporzione, durante la guerra la popolazione armena ottomana di due milioni soffrì più di ogni altra popolazione, ancor più dei serbi nell'impero austro-ungarico, più dei musulmani del Caucaso e più di altri gruppi etnici, spesso dimenticati, quali i musulmani kirghisi dell'Asia centrale, che caddero vittima nel 1916 di un'accusa diffamante di slealtà che presenta tratti di somiglianza con la «logica» del CUP negli eventi del 1915. Tuttavia, il rapporto tormentato del genocidio armeno con il mondo esterno all'impero ottomano va ben oltre l'esperienza condivisa del massacro e ci porta ad affrontare la precisa questione analizzata in questo libro e l'angolo prospettico da cui il tema viene affrontato.

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Il genocidio armeno e il contesto internazionale

Negli studi sull'Olocausto, uno dei temi affrontati riguarda le reazioni del mondo libero agli eventi dell'Europa nazista e induce a domandarsi se si sarebbe potuto fare di più per aiutare gli ebrei e, in tal caso, perché non lo si è fatto. Al centro dell'attenzione sono le chiare risposte anglo-americane a una situazione che non avevano contribuito a sobbillare. Dopo la guerra, la Germania ha ammesso le sue responsabilità nella «soluzione finale» e i suoi archivi sono stati esaminati attentamente, rendendo così la commemorazione dell'Olocausto relativamente chiara. Nel periodo 1939-1945 la situazione di «non partecipante» indicò dunque un atteggiamento di pura reattività ed emersero profonde differenze tra i fattori determinanti del periodo bellico e il confronto con l'Olocausto nel dopoguerra, tuttavia tutto ciò non è applicabile al caso armeno. Anche se i principali attori internazionali sono cambiati nel corso del tempo, vi è un rapporto definibile tra le azioni delle grandi potenze, da un lato e, dall'altro, la genesi del genocidio armeno e le difficoltà di un suo successivo riconoscimento.

Il rapporto delle potenze europee con lo scontro tra comunità nell'impero ottomano non cominciò con il primo dispaccio ricevuto a Londra, Parigi o Berlino nel 1915 sui massacri nelle province ottomane. Un primo segnale può essere fatto risalire al 1569, anno in cui alla Francia venne garantita la concessione di «capitolazioni». Esse vennero in seguito concesse ad altre potenze europee e divennero permanenti. Benché agli inizi fosse conferito spontaneamente dai governanti ottomani come concessione di favori al fine di consolidare alleanze, il regime delle capitolazioni, che prevedeva privilegi legali ed economici per i cittadini delle potenze cristiane e i loro clienti cristiani residenti in uno stato islamico, divenne una spina nel fianco dell'impero ottomano, un segnale primario di interferenza esterna, che comprometteva la sovranità ottomana e contribuiva a seminare zizzania tra musulmani e cristiani.

In alternativa, possiamo considerare il 1774. In quell'anno, la Sublime Porta concluse il trattato di Kόηόk Kaynarca con la Russia, concedendole l'effettivo controllo del nord del mar Nero e il diritto di passaggio da quel mare all'Egeo, attraverso quel vitale passaggio noto come stretto dei Dardanelli. La Russia acquisì anche il diritto di costruire una chiesa ortodossa a Istanbul e di proteggere la sua congregazione, e su questa dubbia base la Russia fondò le sue future rivendicazioni a intervenire in nome dei sudditi ottomani di religione ortodossa, inclusi milioni di cristiani nei Balcani.

Queste vicende indicano che le affinità religiose ed etnico-religiose venivano manipolate per promuovere e sostenere gli interessi delle grandi potenze all'interno dell'impero ottomano. La definizione precisa di quali fossero tali interessi – profitto, prestigio, espansionismo territoriale, smembramento dei territori ottomani, mantenimento dell'impero ottomano, contenimento delle ambizioni regionali degli altri stati – variava a seconda delle potenze e delle fasi storiche, e fino al trattato di Losanna del 1923 il loro intreccio costituì la «questione d'Oriente». Le politiche delle potenze mondiali influenzarono i rapporti tra lo stato ottomano e le sue minoranze allo stesso modo in cui influenzarono, ad esempio, le finanze ottomane o la struttura delle forze armate ottomane. In effetti, l'imperialismo europeo era un sistema totale, che includeva nel suo arsenale armi economiche, politiche, ideologiche e culturali, e di conseguenza anche l'impatto delle potenze sul governo ottomano agiva in ogni sfera.

Nel corso dell'Ottocento, in particolare a partire dalla guerra russo-turca del 1827-1828, l'azione di tutte queste forze esterne si intensificò. I riformatori ottomani presero in prestito modelli di riforma europei, spesso su pressione degli europei stessi, per poi scoprire che rispetto alle potenze cristiane la forza ottomana continuava a declinare, l'influsso esterno sugli affari interni ottomani aumentava e si perdevano territori a ritmo accelerato. Θ il grado assoluto di influenza delle grandi potenze all'interno dell'impero da metà Ottocento che ci permette di andare oltre le ovvie considerazioni sulla sempre maggiore interdipendenza mondiale come fattore determinante dello sviluppo e della politica ottomana, in maniera simile all'esperienza semi-coloniale della Cina del tardo impero. Ad esempio, per gran parte dell'Ottocento la politica britannica puntò sul sostegno all'impero ottomano per contrastare le profferte russe. Questo fattore totalmente estrinseco, unito alla paura austro-ungarica che dalle rovine dell'impero ottomano in Europa nascesse un vasto stato slavo e, dal 1890 circa, all'interesse tedesco nel Vicino Oriente, fu l'elemento che maggiormente contribuì alla conservazion dell'impero fino alla prima guerra mondiale. Benché alla fine del secolo l'influenza britannica fosse ormai in declino, a Istanbul le voci europee erano talmente forti che, durante i massacri armeni del 1896, il primo ministro Salisbury poté teorizzare in tutta serietà che gli ambasciatori delle potenze «avrebbero dovuto essere informati che un cambio di Sultano era forse un espediente auspicabile».

L'esplosione della prima guerra mondiale comportò il tentativo ottomano di liberarsi di tutti gli intralci ed entro il 1923 l'operazione era stata realizzata in diverse aree. Il paese era in grado di rinegoziare i rapporti internazionali e, benché avesse perso ampie fette di territorio come esito della guerra, aveva ereditato la posizione strategica ottomana sui confini russi e persiani e attorno agli stretti. Quasi immediatamente dopo l'insediamento del regime bolscevico in Russia, la Turchia era considerata in alcuni ambienti britannici come un potenziale baluardo contro il suo vicino settentrionale, proprio come avvenne alla Germania agli albori della guerra fredda, a partire dal 1945. Con l'avvio vero e proprio della guerra fredda, a partire dal 1947, aumentò ulteriormente l'importanza strategica della Turchia. La tradizionale ostilità tra Turchia e Russia si rivelò opportuna per il blocco occidentale, ma il parziale riavvicinamento di carattere pragmatico avvenuto tra Turchia e regime sovietico a partire dal 1919 significò che la Turchia doveva essere continuamente adulata e insieme pungolata dalle potenze europee.

Con la caduta della cortina di ferro, la Turchia ha mantenuto un ruolo chiave a livello regionale come elemento di stabilità in un'area politicamente instabile. In quanto stato nazione conservatore, ma aperto alla modernizzazione, non espansionista e ufficialmente laico, benché lontano dall'omogeneità etnica che proclama, offre una sorta di modello per il passaggio dalla «arretratezza» all'organizzazione statale privilegiata all'interno del sistema internazionale guidato dall'Occidente. Di conseguenza, i pilastri di quel sistema ignorano opportunamente il tema delicato del genocidio armeno così come trascurano le ininterrotte sofferenze dei curdi in Turchia. Questo è il contesto di realpolitik delle grandi potenze, essenziale per l'intera questione, in particolare nella seconda e terza parte del libro, che esamina le reazioni esterne alle deportazioni e al massacro e il modo in cui la testimonianza storica di enormi sofferenze umane sia stata utilizzata e sfruttata fino al giorno d'oggi a fini economici e politici nel Vicino Oriente. Tuttavia, le questioni di high politics non rappresentano il solo criterio di analisi o di studio del rapporto tra causa ed effetto nelle politiche delle potenze e degli ottomani. Ciò è vero in particolare per quanto concerne la prima sezione, in cui cerco di delineare una visione più sfaccettata che vada oltre la pura e semplice analisi dei rapporti di potere con l'impero ottomano riguardo alla questione armena.

Manoug Somakian sostiene che «i fattori chiave che hanno portato alla ribalta la questione armena» furono «l'incapacità dell'impero ottomano di modernizzarsi, l'esempio del successo di movimenti indipendentisti balcanici e gli interessi contrastanti e mutevoli delle grandi potenze nei loro rapporti con l'impero ottomano». In effetti, è impossibile separare questi tre elementi; il primo e il secondo erano intrinsecamente legati al terzo. L'approccio relativamente lento alla modernizzazione da parte dell'impero ottomano pesava soltanto perché i regimi concorrenti avevano già modernizzato o stavano modernizzando, mentre i movimenti indipendentisti balcanici avevano successo in larga misura grazie al sostegno delle potenze confinanti, in particolare la Russia. La prima sezione del libro è, quindi, una storia delle interconnessioni internazionali nel senso più completo, una situazione in cui le politiche interne ottomane, sia quelle riuscite sia quelle fallite, affrontavano problemi derivanti dallo sviluppo ottomano, che a sua volta era in larga misura influenzato da pressioni politiche, militari, economiche e culturali esterne.

La pressione a riformare per sopravvivere cambiò in maniera irreversibile il tessuto costituzionale dell'impero ottomano. I governanti ottomani cercarono di evitare il secessionismo cristiano cercando di legare la fedeltà dei loro sudditi cristiani alle fortune dello stato. Da un lato, i programmi di riforma infastidirono molti musulmani con la retorica dell'uguaglianza tra religioni, ma dall'altro lato non garantirono cambiamenti significativi a gruppi quali le popolazioni rurali armene dell'Anatolia e non riuscirono a proteggerle dalla forte reazione negativa dei musulmani contro il loro comportamento ambizioso, giudicato «inappropriato». Nel frattempo, la spasmodica pressione europea sulla Sublime Porta incoraggiò gli armeni e altri gruppi a credere di avere difensori affidabili cui fare appello nelle loro sventure, quando la situazione era ben diversa. Il separatismo cristiano e la confisca di terre ottomane da parte delle grandi potenze implicarono, inoltre, una marcata trasformazione della composizione etnica dell'impero e insieme ad essa cambiò anche l'orientamento politico dell'élite ottomana. Molti aspetti di questo processo immensamente complesso, che interessò l'intera società, non riguardarono prioritariamente i rapporti tra armeni e ottomani fino agli ultimi decenni dell'Ottocento, e furono essenzialmente legati al mutamento di natura in atto, da un primo impero moderno a uno stato centralizzato e avanzato e, infine, a uno stato nazione, un passaggio che si concluse nel 1923 a Losanna.

Gli studi più sofisticati sul genocidio hanno contribuito a creare un diffuso consenso di pareri sul significato di tali mutamenti nella costituzione dell'impero nei suoi decenni di declino. La demografia ottomana subì modifiche fondamentali con la secessione delle minoranze essenzialmente cristiane nei Balcani e l'afflusso di profughi musulmani in fuga dai Balcani e dal dominio zarista nel Caucaso. Al di là del recente modello prevalente, sia pur ormai logorato, di maggiore inclusività inter-religiosa e di un più chiaro accento sulla maggioranza musulmana (sunnita), la prima grande riconfigurazione della politica demografica ottomana avvenne sotto il sultano Abdόlhamit II (1876-1909). Fu in questo clima che avvennero i massacri del 1894-1896. In seguito, il CUP condusse una campagna a favore del modello statale di omogeneità etnico-nazionale, egemonico in Europa, preparando il terreno per la repubblica laica di Kamal. Parte integrante di questa campagna fu l'espropriazione di massa dei cristiani allo scopo di trasferire capitali ai musulmani per la creazione di una borghesia turca e musulmana che fungesse da motore del nazionalismo turco e dell'indipendenza economica. Durante la fase di crisi della prima guerra mondiale, queste tendenze all'esclusione e allo sciovinismo si espressero nelle forme più estreme e sfrenate, attraverso i massacri.

Una delle molte prove, che supportano le interpretazioni delle origini del genocidio fondate sui cambiamenti della struttura e ideologia dello stato è la relativa stabilità dei rapporti tra ottomani e armeni prima della seconda metà dell'Ottocento. Gli armeni, in quando monoteisti non musulmani (dhimmi) come gli altri gruppi cristiani e gli ebrei, avevano all'interno della teocrazia islamica una posizione legalmente garantita, anche se decisamente subordinata e disprezzata. La vita della comunità, organizzata attraverso l'ordine confessionale noto come sistema dei millet, era quindi stabile, a livello individuale, in particolare per i contadini armeni dell'Anatolia orientale; sfruttamento e oppressioni varie facevano parte della vita quotidiana.

Θ in larga misura vero che prima che si profilasse la modernità nei termini del famoso programma di riforma Tanzimat di metà Ottocento, la tolleranza ottomana nei confronti dei non musulmani era paragonabile all'esperienza di molti stati europei nei confronti delle minoranze religiose. Questo sistema di stabilità attraverso il pregiudizio istituzionalizzato funzionava a condizione che i dhimmi continuassero ad accettare lo status quo gerarchico e che lo stato continuasse a imporlo. La questione delle riforme e la nascita del nazionalismo si dimostrarono fatali poiché agirono sia sulle aspirazioni delle minoranze sia sugli atteggiamenti della élite e della maggioranza musulmana. Tuttavia, fino all'ultimo decennio dell'Ottocento i massacri di massa di dhimmi, con l'appoggio del governo, erano limitati – come avvenne durante le guerre d'indipendenza greche intorno al 1820, in Siria e in Libano nel 1860 e a Creta nel 1866-1868, o durante le «atrocità bulgare» del 1876 – alle minoranze attivamente in rivolta, sia che si trattasse di rivolte ideologicamente nazionalistiche o, come avvenne nella città armena di Zeytun nel 1862, di motivazioni più locali e «tradizionali».

Gli ultimi tre decenni di vita dell'impero furono invece segnati da massacri sempre più enormi e indiscriminati, approvati dallo stato, a danno delle comunità cristiane fino ad allora «protette», in particolare nel 1894-1896 e nel 1909, mentre il genocidio del 1915-1916 fu di entità e intensità diversa rispetto a ogni altro episodio precedente. Di fatto, fu soltanto dopo l'accettazione della «questione armena» al tavolo diplomatico internazionale che essa divenne un tema talmente venefico per i successivi regimi ottomani da non essere più affrontato mediante la discriminazione, la persecuzione o la graduale emarginazione economica, bensì con il massacro immediato di massa. Per usare il linguaggio economico, dobbiamo distinguere tra gli ingredienti «necessari» e quelli «sufficienti» al genocidio. Lo scontro tra musulmani e cristiani originato dalle riforme attuate nell'Ottocento e dagli effetti dell'afflusso di profughi musulmani cadrebbero nella prima categoria, mentre l'internazionalizzazione della questione armena nella seconda. Come vedremo, l'«internazionalizzazione» provocò la reazione annientatrice che giustifica una sottolineatura del destino armeno come decisamente «differente» dalla moltitudine di repressioni subite da gruppi subordinati in tutti gli imperi e in tutti i tempi.

Gli armeni, in quanto cristiani, avevano grande interesse all'applicazione dei decreti di riforma Tanzimat del 1839 e 1856, ma il moderno punto di svolta della questione armena fu la «crisi d'Oriente» del 1875-1878 che aprì la strada al regno di Abdόlhamit II. Il trattato di Berlino del 1878 venne redatto al termine della terza guerra turco-russa, dopo la secessione di Serbia, Montenegro, Romania e di parte della Bulgaria, la netta riduzione della sovranità su Bosnia, Erzegovina e il resto della Bulgaria e la perdita, a vantaggio della Russia, delle province chiave sul confine del Caucaso. Conteneva l'impegno a garantire riforme e protezione agli armeni dell'Anatolia orientale alla luce delle rivendicazioni accumulate negli anni precedenti. La questione armena entrò nel dibattito internazionale con grande fastidio degli ottomani che videro le riforme stipulate come un annuncio di future imposizioni dirette a fare pressione per l'autonomia armena, se non l'indipendenza. Inoltre, negli anni successivi, le lagnanze e le aspirazione armene disattese sarebbero state espresse in misura crescente non attraverso la tradizionale gerarchia ecclesiastica armena o le istituzioni politiche ecumeniche, ma attraverso partiti nazionalistici. La loro esistenza stessa aggravò il timore ossessivo di Abdόlhamit di un collasso dell'impero.

Le azioni plateali dei partiti politici armeni erano influenzate dal desiderio di riconquistare l'attenzione delle potenze esterne – soprattutto la Gran Bretagna o la Russia in diversi momenti, ma anche la Francia – in modi che sembravano favorire anche i bulgari. Le eccessive aspettative dei nazionalisti non seppero tener conto delle diverse posizioni strategiche e delle distribuzioni etnografiche rispettive nei Balcani e in Anatolia orientale, dal momento che in quest'ultima regione i cristiani vivevano in mezzo a una maggioranza musulmana. Inoltre, i nazionalisti non compresero esattamente quale fosse per le grandi potenze il significato del termine «riforma».

Due verità tendono a prevalere riguardo all'atteggiamento delle potenze davanti alla crisi dell'impero ottomano. In primo luogo, i sentimenti rispetto alla «cristianità sofferente» si traducevano in scelte politiche soltanto quando coincidevano con gli interessi materiali, come avvenne per la Russia con le «atrocità bulgare» del 1876. In secondo luogo, le atrocità contro i musulmani dentro e fuori la regione – in Crimea e nel Caucaso dai tempi della guerra di Crimea, in Bulgaria nel 1876 o durante le guerre balcaniche del 1912-1913 – furono ignorate dalle potenze cristiane. Entrambe le verità avevano ramificazioni molto concrete nell'impero ottomano. Le proteste, non seguite da azioni decisive, producevano effetti dannosi sulle vite dei cristiani perché spingevano i governi ottomani e la popolazione in generale a interrogarsi sulla propria lealtà senza fornire protezione dalle conseguenze future di tali cambiamenti. La propensione retorica delle potenze a dare ascolto alla cristianità sofferente finiva per rafforzare negli ottomani il senso di trinceramento e di identificazione con l'Islam sofferente.

L'arco di tempo che va dal 1870 al 1923 non fu dunque caratterizzato soltanto da uno dei più radicali cambiamenti nel carattere dell'ordine sociale ottomano, ma anche da un'accentuazione della questione armena in una fase difficile. Mentre l'impero veniva sempre più sospinto fuori dall'Europa, gli armeni erano sempre più spinti allo scoperto come principale comunità cristiana delle zone «asiatiche». La questione delle riforme fu tragicamente sollevata per l'ultima volta dalla Russia nel 1913-1914 davanti alla furia del CUP, proprio mentre le guerre balcaniche si concludevano con l'espulsione dell'impero ottomano da quasi ogni angolo dell'Europa, e i territori ottomani venivano inondati da centinaia di migliaia di profughi musulmani.

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Insidie dell'approccio internazionale

Quando si enfatizzano i fattori strutturali di una vicenda storica, vi è sempre il rischio di sembrare di voler assolvere i singoli protagonisti dal proprio potere decisionale e dalle responsabilità morali. Non è di grande soddisfazione, in particolare per le vittime dei regimi responsabili di genocidio, vedere enormi sofferenze attribuite a niente altro che a un odio ideologico discreto, oggettivamente repellente e preferibilmente personificabile – sia che, come nel caso dell'Olocausto, tale personificazione dell'odio sia rappresentata da Hitler, dal partito nazista oppure dai tedeschi nel loro insieme. L'entità del crimine è direttamente proporzionale alla forza del bisogno umano di una responsabilità priva di dubbi. Dal momento che il genocidio è uno dei peggiori crimini, la logica vuole che un criminale mostruoso, e preferibilmente personalizzabile, e una motivazione mostruosa e indiscutibile siano necessari per collegare causa ed effetto con una linea netta e chiara. Il riferimento a generiche forze storiche e strutture socio-politiche non soddisfa questo bisogno né dovrebbe farlo.

Nel caso armeno i rischi di personificare la cause sono ancora più profondi che nell'Olocausto, a causa della tendenza di molte ricerche storiche turche o pro-turche a discolpare i responsabili attraverso l'uso strumentale del contesto. Nella forma più estrema di questa tendenza, la colpa viene rovesciata sui rivoluzionari armeni, come nei lavori di Kamuran Gόrόn, Esat Uras e molti altri, e si trascurano le discriminazioni e le persecuzioni anti-armene appoggiate dallo stato. Alcuni aspetti della catastrofe vengono inoltre estrapolati dal contesto per illustrare che il fato armeno vide soltanto deportazioni, malattie e stenti, oltre a qualche uccisione accidentale non autorizzata dal potere centrale. Le azioni dello stato ottomano sono dunque intese in un quadro di semplici reazioni, il ruolo di una qualsiasi ideologia statale è ignorato e il peso dei rivoluzionari armeni viene molto ingigantito. Si tratta di quella che Robert Melson ha definito «tesi della provocazione», e tra i suoi sostenitori figurano alcuni dei più eminenti studiosi occidentali del mondo ottomano, così come i responsabili stessi del CUP.

Il «contesto internazionale» è stato oggetto di un uso particolarmente scorretto. Θ dunque opportuno sottolineare subito che, benché l'ambito della responsabilità storica e morale del genocidio armeno si estenda fino alle grandi potenze, durante la prima guerra mondiale la responsabilità legale e criminale pesa interamente sul governo ottomano. Le potenze non furono corresponsabili, una posizione che alcuni storici hanno erroneamente attribuito alla Germania imperiale (si veda il capitolo 3).

Gli armeni non furono, come ha suggerito Salahi Sonyel, semplicemente «vittime della diplomazia europea», e il loro destino, a differenza di quanto sostiene Ersal Yavi, non fu l'esito del fatto che erano finiti «sotto gli artigli dell'imperialismo europeo». Θ essenziale non incoraggiare le affermazioni degli apologeti dello stato ottomano che fin dal 1915 sostennero che le azioni esterne provocarono rivolte in cui gli armeni inevitabilmente morirono, che la Russia e la Gran Bretagna incitarono la rivolta armena con i loro interventi e non lasciarono dunque scelta al potere se non deportare gli armeni per la sicurezza stessa dello stato.

Una versione economica di questa abrogazione della responsabilità dello stato ha ottenuto una certa popolarità grazie alla vasta accettazione, tra gli storici economici ottomani, della «teoria dei sistemi mondiali» di Immanuel Wallerstein. Tale approccio rivela un chiaro debito con le analisi marxiste dell'imperialismo e con le teorie della «dipendenza» e del «sottosviluppo» e cerca di spiegare, con particolare attenzione ai rapporti commerciali internazionali, come le economie esterne al «centro» delle potenze avanzate europee siano state penetrate e controllate o «rese periferiche» negli interessi del centro, all'interno di un fiorente «sistema economico mondiale» nel Settecento e Ottocento. Tale controllo si espresse in interventi tesi a indebolire le industrie locali e a mantenere l'economia periferica in condizioni di sottosviluppo, nel ruolo di fornitore di materie prime per lavorazioni da effettuarsi negli stati centrali, che avrebbero poi rivenduto il loro surplus ai produttori di materie prime. La teoria ha una certa validità rispetto ad alcune regioni dentro e fuori l'impero ottomano in alcuni momenti, non ultimi al giorno d'oggi i paesi in via di sviluppo, e nasce dal tentativo assolutamente lodevole di capire i rapporti di sfruttamento tra economie nazionali diverse; tuttavia rivela pericolose potenzialità nella sua applicazione al caso ottomano.

Un autorevole filone di analisi dei sistemi mondiali individua la popolazione non musulmana dell'impero ottomano come classe mediatrice che cooperò o per lo meno non ostacolò la penetrazione economica europea, dal momento che beneficiò dei privilegi commerciali trasmessi dagli europei attraverso il sistema delle capitolazioni. Sulla base del numero effettivamente sproporzionato di armeni e di greci attivi nel settore del commercio e della finanza, in particolare nei centri urbani di Istanbul e dell'Anatolia occidentale, ai cristiani vengono attribuiti interessi nettamente distinti da quelli dello stato islamico in cui risiedono, e si addossa loro la responsabilità di ostacolare, con la loro stessa presenza, lo sviluppo di una borghesia musulmana e di impedire lo sviluppo nazionale della Turchia. Tale visione trascura il fatto che il numero di cristiani che effettivamente beneficiavano del sistema delle capitolazioni era assai limitato e che esistevano ostacoli auto-imposti allo sviluppo di un capitalismo volto al profitto in una società musulmana che aveva fino ad allora venerato i consumi; inoltre, tale visione non dà peso agli elementi che suggeriscono che il successo economico cristiano fosse positivo per l'economia nel suo insieme, e dunque offre in definitiva l'immagine di un mercato del lavoro etnicamente stratificato in cui una minoranza consapevole di sé monopolizzò le posizioni borghesi cruciali. Se questa logica viene portata agli estremi, le violente espropriazioni e il boicottaggio delle attività commerciali dei greci e degli armeni da parte del CUP, e perfino le deportazioni di entrambi i gruppi, diventano giustificabili come misura di affermazione etnica turca, quasi un'autodifesa contro la minoranza oppressiva. Effettivamente, ecco che abbiamo una versione economica della «tesi della provocazione», che accoglie alcune delle giustificazioni addotte dai perpetratori stessi delle persecuzioni.

L'ideologia dei responsabili dello sterminio – l'elemento più importante nei casi di genocidio – è stranamente assente in entrambi i filoni di analisi. Cosa si può dire dell'ideologia nazionalista che guidò il CUP? Anche se si sviluppò in ritardo rispetto ai nazionalismi di molti altri popoli sudditi dell'impero ottomano e in parte come reazione ad essi, il nazionalismo turco era comunque l'ideologia di quello che entro la prima guerra mondiale sarebbe diventato il gruppo più forte dell'impero; di fatto, furono gli eredi del manto imperiale. Di conseguenza, aveva un colore particolare e, all'interno dei restanti territori ottomani, godeva di un'influenza molto maggiore di altri nazionalismi. Ogni dinamica nazionalista che nasceva tra dominatore e dominato sarebbe stata inevitabilmente ingiusta.

Soltanto l'ideologia del CUP poteva tradurre i suoi obiettivi in espropri e massacri di massa dei cristiani. Autorevoli studiosi come Donald Quataert e Roderic H. Davison, che vedono le limitazioni ermeneutiche dell'analisi dei sistemi mondiali e dell'approccio alla diplomazia internazionale degli storici della «questione d'Oriente», invitano a riconoscere l'opportunità che lo stato ottomano ancora aveva per determinare il proprio percorso. In maniera simile, negli ultimi vent'anni si sono espressi anche gli storici stanchi di stereotipi sull'atteggiamento supino degli orientali, implicito in molti studi occidentali sulla Cina tardo-imperiale. Eppure ciò significa che, oltre a riconoscere gli sforzi ottomani per resistere al controllo economico europeo, ad esempio, o per eliminare le capitolazioni e stringere alleanze favorevoli, dobbiamo anche riscontrare il peso dell'azione statale in aspetti meno lodevoli dello «sviluppo nazionale»: in questo caso, le uccisioni di massa.

Proseguono ancora i dibattiti sul preciso legame, all'interno del nazionalismo del CUP, in primo luogo, con l'identità etnica turca, e in secondo luogo con il panturchismo e il «turanesimo» — un'identificazione con le popolazioni di origine turca del Caucaso e dell'Asia centrale; in terzo luogo, con il senso duraturo della supremazia imperiale islamica all'interno del governo ottomano in cui le élite musulmane continuavano a considerarsi come milleti hàkime, il «millet dominante». A differenza dei loro sostenitori e di gran parte della base nazionale del partito, alcuni leader del CUP erano esplicitamente atei, la loro formazione era basata sul pensiero laico occidentale ed erano dunque imbevuti del positivismo anti-religioso di Auguste Comte e avevano sposato il rozzo darwinismo sociale, popolare tra i nazionalisti di tutta Europa alla fine del secolo. Queste idee non soltanto avrebbero fornito le giustificazioni ideologiche per l'allontanamento dei cristiani, ma, poiché liberavano i suoi sostenitori dalle nozioni di confraternita religiosa, significarono anche che i leader del CUP poterono cominciare a pensare alla distruzione dell'identità etnica curda.

Nell'insieme, i vari elementi ideologici del tardo nazionalismo ottomano non devono essere considerati contraddittori, anche se aspetti diversi vennero enfatizzati in luoghi diversi, davanti a elettori diversi, in momenti diversi. Mescolanze di identità religiosa e «razziale» accomunavano gran parte dei nazionalismi etnici nati in Europa orientale e sud-orientale a fine Ottocento. Come ha dimostrato Sόkrό Hanioglu, alcuni membri importanti del CUP erano attivisti chiaramente privi di formazione teorica, il cui principale precetto ideologico era l'impegno a preservare lo stato ottomano. La religione sarebbe stata sradicata dall'ideologia ufficiale soltanto con l'avvento dell'intensa campagna di secolarizzazione di Kemal. Per il momento è importante notare che entro il 1914, alla vigilia della guerra e del genocidio, nessuna formulazione nazionalista reputava i cristiani ottomani all'interno di un contratto di mutui obblighi.

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Il Grande Gioco del genocidio: una visione generale

Se gli armeni siano stati uccisi in massa è una questione a cui non intendo dedicare alcuno spazio, così come alla controversia sulla correttezza delle ampie prove del massacro e certamente non intendo convalidare alcuna discussione implicita o esplicita sulle eventuali giustificazioni del genocidio e della spogliazione di massa. A chi nega e offusca i fatti non dovrebbe essere concesso di stabilire le questioni da discutere, inoltre le discussioni in cattiva fede non contribuiscono affatto a promuovere l'esame di fenomeni complessi da parte degli studiosi. Il massacro orchestrato degli armeni è preso così com'è, un punto di partenza per la discussione, non la sua conclusione. Tuttavia, a differenza della storiografia «armena» che è impaziente – soprattutto come reazione alla negazione – di imporre una linea standard di interpretazione del genocidio, non intendo suggerire che non vi sia ampio spazio di dibattito sulla precisa relazione tra intenzioni e circostanze nello sviluppo della politica di annientamento del CUP nel 1914-1915.

Tale dibattito sarebbe un segnale di maturità della storiografia, pur toccando questioni assai delicate sia per gli armeni sia per i turchi. In parole semplici, l'attivismo nazionalista armeno influì in maniera importante sulle politiche ottomane verso gli armeni nel 1914-15 e sull'intensificarsi dei massacri del 1994-1996. Tuttavia, oltre a individuare gli eventi che hanno influito sulle politiche senza alcun determinismo ineluttabile in gioco, è necessario ricordare sempre che gli attori ottomani avrebbero potuto scegliere percorsi alternativi e non bisogna dimenticare il ruolo che l'ideologia e i pregiudizi, incluso l'odio viscerale, hanno avuto nelle loro decisioni. Quindi, pur accettando l'ammonimento marxista sul fatto che le scelte sono sempre condizionate dalle circostanze, ossia che è l'«uomo» che fa la storia, ma non esattamente come vorrebbe, gli armeni furono uccisi a causa delle scelte operate da figure che, nel senso stretto della parola, erano responsabili. Su questo contesto si fonda la mia affermazione che il genocidio armeno fu una risposta ideologica a tensioni strutturali molto concrete, interne ed esterne, che si erano accumulate sull'impero ottomano entro il 1915.

La prima sezione del libro, che comprende due capitoli, cerca di esplorare l'intimo legame tra intenti dello stato, contingenze e azioni dalle origini della questione armena fino al suo terribile sbocco finale. Analizza lo sfondo storico e in modo in cui il genocidio è maturato, fornendo un punto di riferimento, una base empirica, per le sezioni successive. Il primo capitolo esamina quattro temi interconnessi dall'inizio dell'Ottocento fino al 1914: i legami esterni di carattere politico, militare ed economico con l'impero ottomano; lo sviluppo dei nazionalismi dei sudditi cristiani all'interno dell'impero, che portarono all'autonomia e/o alla secessione o a pressioni in questa direzione; l'afflusso, all'interno dei territori ormai ridotti dell'impero, di profughi musulmani provenienti dal Caucaso e dalle terre ottomane perse nei Balcani, una popolazione esacerbata e anti-cristiana che aumentò la competizione per le risorse del territorio; e infine le politiche governative ottomane rispetto a ognuno di questi aspetti, dal periodo delle riforme di metà Ottocento fino al regno di Abdόlhamit II, con i relativi massacri degli armeni e la pressione delle grandi potenze per riforme a favore degli armeni, fino al «secondo periodo costituzionale» dal 1908 in avanti, in cui il CUP salì alla ribalta.

Al processo che porta al genocidio del 1914-1916 è dedicato il secondo capitolo. Il genocidio emerse a mano a mano che ognuno dei quattro temi sopra menzionati andava sviluppandosi proprio mentre era in preparazione una guerra che il CUP considerava come una lotta darwiniana per il crollo dell'impero o il suo rinnovamento. L'attività limitata dei nazionalisti armeni in tandem con le potenze dell'Intesa, in particolare la Russia, ebbe un ruolo importante nell'innescare l'escalation della politica ottomana, così come la fuga di alcuni musulmani dal Caucaso sotto il controllo russo. Poiché si tratta di un terreno delicato, il capitolo si conclude, dopo un'approfondita ricostruzione empirica, con un tentativo di stabilire precisamente cosa si può o non si può dire delle diverse forme di responsabilità storica rispetto al manifestarsi del genocidio armeno.

In queste pagine di apertura è opportuno ribadire con forza che non intendo cercare un terreno spurio intermedio tra interpretazioni in netto contrasto, ma che invece voglio tentare di sostituire una ricerca storica complessiva a quelli che spesso sono poco più che racconti di denuncia. Ad esempio, non considero affatto incompatibile con il riconoscimento della responsabilità centrale del CUP la critica dei leader politici armeni che nei loro rapporti con le potenze agirono sulla base della loro concezione degli interessi nazionali di lungo termine, pur consapevoli che sul breve termine avrebbero potuto esporre gli armeni alla collera dello stato. Tuttavia, in entrambi i casi, è necessario capire prima di giudicare. Le ampie responsabilità delle grandi potenze rispetto allo sviluppo dello scontro tra armeni e ottomani verranno chiarite nei primi due capitoli. La sezione successiva affronta le loro responsabilità al momento dello sterminio stesso.

Il terzo capitolo, incluso più per esigenze storiografiche che storiche, smonta l'idea avanzata da alcuni storici secondo i quali la Germania imperiale, alleata della Turchia nel conflitto mondiale, fu corresponsabile del genocidio. Il ruolo reale della Germania fu in generale piuttosto prosaico, caratterizzato da insensibilità e da interessi strategici che avrebbero probabilmente segnato il comportamento di qualsiasi potenza che si fosse trovata nella sua posizione. Tuttavia, la mia critica risponde a un utile proposito analitico nel quadro dei più vasti obiettivi del libro poiché, grazie anche al capitolo successivo, reinserisce il ruolo della Germania nel 1915 all'interno del contesto appropriato delle complessive macchinazioni imperialiste nella regione. Il «fattore imperialista» europeo mancava dell'imperativo ideologico necessario a portare a ebollizione le tensioni all'interno dell'impero ottomano, tuttavia sia per omissione sia per missione preparò debitamente il terreno al conflitto etnico, nel caso della Germania appoggiando militarmente un potere con cui aveva civettato per due decenni e sponsorizzando scontri etnici esplosivi, irregolari e sovversivi nei territori dei suoi avversari imperiali/militari.

Alcune delle accuse avanzate contro la Germania sia nel 1915-1916 sia in alcuni studi recenti derivano dal modo in cui la Germania seppe accattivarsi Abdόlhamit intorno al 1890. Una delle tecniche tedesche per acquisire un vantaggio competitivo rispetto al regime ottomano russofobico e sempre anglofobico consistette nello sconfessare ogni interesse politico nella questione armena, rinunciando a intervenire negli «affari interni» ottomani e mantenendo relazioni anche quando le altre potenze si ritrassero ipocritamente davanti ai massacri degli armeni del 1894-1896. Non è difficile individuare sentimenti anti-armeni tra alcuni diplomatici e militari tedeschi, o tra gli intellettuali arruolati per potenziare e giustificare le ambizioni tedesche nel Vicino Oriente. Alcuni di loro attaccarono gli armeni «traditori» e «parassiti» la cui presenza era considerata come opportuna per gli interessi degli avversari dell'impero tedesco e come fonte di debolezza per l'impero ottomano. Tuttavia, l'esistenza di opinioni simili non prova che vi fosse un atteggiamento ufficiale tedesco anti-armeno, così come le aperture russe nei confronti degli armeni ottomani intorno al 1870 o al 1913-1914 non provano un atteggiamento russo favorevole agli armeni. Ognuno è semplicemente il riflesso dell'altro, ossia un tentativo imperialista di usare la questione armena, sia in termini negativi sia positivi, per specifici fini imperialisti. Nel caso tedesco, il fine era l'estensione della sua influenza economica regionale e a questo scopo l'approvazione del governo ottomano era essenziale. Nel caso russo, nel 1913-1914 e perfino nei primi mesi della prima guerra mondiale, l'obiettivo era l'estensione del controllo politico informale sul territorio ottomano e più dell'ascendente sul governo era necessaria l'influenza sui popoli sudditi dell'impero ottomano.

L'uso e l'abuso delle sofferenze armene da parte delle potenze mondiali continuò durante e dopo il conflitto mondiale. Il capitolo 4 esamina come le potenze dell'Intesa si siano rapportate alla questione armena nel periodo chiave che va dall'inizio del genocidio fino alla conclusione della pace di Losanna. La vastità dei cambiamenti in atto nello stato ottomano in quegli anni era rispecchiata dalle significative modifiche della situazione internazionale. Inizialmente riluttante ad attrarre l'attenzione sulle sventure armene per paura di inimicarsi la vasta comunità musulmana indiana, la Gran Bretagna cominciò improvvisamente a mettere in luce le atrocità quando nell'autunno del 1915 si intensificò la campagna per convincere gli Stati Uniti a entrare in guerra. Le proteste russe contro il massacro in atto erano dirette ad accontentare la propria popolazione armena, mentre contemporaneamente Pietroburgo si preparava a minimizzare la presenza nazionale armena sul territorio orientale dell'Anatolia che la Russia avrebbe ereditato alla conclusione della guerra.

Con lo scoppio della rivoluzione bolscevica, per gli altri paesi europei la questione in gioco divenne la corsa al controllo del Vicino Oriente e dell'Asia centrale. Per la Germania, ciò significò la radicale espansione delle aspirazioni imperialiste rappresentate dal trattato di Brest-Litovsk, che consegnarono tranquillamente gli armeni russi all'alleato ottomano. Per la Gran Bretagna e la Francia significò battersi per una porzione più vasta nella spartizione dell'influenza territoriale che in precedenza, sulla base dei noti accordi segreti del 1915-1916, era stata assegnata a una tripartizione con la Russia. Allo stesso tempo, il vuoto lasciato nel Caucaso e in Asia centrale lasciava intravedere una possibile minaccia turco-tedesca agli interessi inglesi in India. Per contrastare questa minaccia la strategia inglese poggiò in parte sull'incoraggiamento della resistenza armena nel Caucaso, intimando che una sostanziosa fetta del territorio dell'Anatolia fosse la ricompensa per il sacrificio passato e futuro degli armeni.

Quando la guerra finì e la dottrina wilsoniana dell'autodeterminazione dei popoli si presentò come ostacolo ai fini imperialisti, nessuna nazione dell'Intesa si mostrò disposta ad appoggiare le belle parole a sostegno dell'Armenia, un «piccolo alleato». Le forze britanniche si ritirarono dal Caucaso prima che il nascente stato armeno fosse diviso tra la Turchia di Kemal e l'Unione Sovietica. Nel frattempo, la Gran Bretagna diede un forte contributo al conflitto etnico in Anatolia appoggiando l'occupazione militare di un'area dell'Anatolia occidentale da parte della Grecia. La mossa non soltanto diede slancio al movimento kemalista, ma portò in definitiva alla guerra tra Grecia e Turchia in cui entrambe le parti commisero atrocità di vasta portata in Anatolia contro i civili di opposte religioni. La Francia infiammò ulteriormente la situazione etnica in Cilicia a causa delle sue macchinazioni imperialiste, incluso l'uso strumentale delle aspirazioni nazionali degli armeni.

Nel 1920-1921 la Francia dovette lasciare la Cilicia e nel 1922 la Grecia, delegata dall'Inghilterra, fu costretta ad abbandonare l'Anatolia, mentre ogni potenza si vide obbligata ad adattarsi alla realtà della situazione. Tra i nuovi dati di fatto era incluso il riconoscimento di una Turchia di dimensioni ridotte, ma etnicamente ripulita e sovrana, ancora una volta a svantaggio degli armeni. Benché le dimensioni e l'influenza della Turchia fossero notevolmente ridimensionate, il regime di Ankara poté rinnovare la pratica ottomana di usare a proprio vantaggio le rivalità tra le grandi potenze, rafforzandosi contemporaneamente a livello nazionale.

Se gli europei avevano scaricato gli armeni con la stessa facilità con cui li avevano inizialmente appoggiati, i diplomatici americani impararono presto che politicamente c'era poco da guadagnare dalla causa armena. Come era avvenuto con la Germania intorno al 1890, per una potenza che avesse aspirazioni nella regione, dichiarare il proprio disinteresse per la questione armena si rivelò uno strumento utile alla promozione degli obiettivi politici in Turchia. La forza dell'abbandono diplomatico era direttamente proporzionale alla forza del sentimento domestico americano che in maniera velleitaria continuava a premere per la creazione di un'Armenia indipendente dopo la sconfitta dei greci da parte di Kemal. Il ruolo diplomatico americano è al centro del capitolo 5.

A dispetto della loro retorica, i diplomatici americani non aderirono semplicemente a una politica generale di non intervento, e ancor meno di isolazionismo. Il loro non intervento era frutto di una scelta precisa e di interessi egoistici. La politica degli Stati Uniti nei confronti dell'Armenia e della Turchia era capitalistica nel senso più vasto del termine e puntò a favorire la pace nella regione, essenziale per la stabilità, il commercio, la prosperità e, quindi, la sconfitta delle tendenze comuniste, secondo le argomentazioni del tempo. All'interno di tale visione, non aveva alcun senso dare sostegno a stati piccoli e precari come l'Armenia al prezzo della benevolenza di un'importante potenza regionale antibolscevica come la Turchia.

Su un punto le colpe dei diplomatici americani sono chiare. Nel tentativo di smorzare la questione armena e di reagire al fermento nazionale, si impegnarono in un'intensa campagna pubblica di revisione della recente storia ottomana a favore dei turchi, o per lo meno contro gli armeni. Alla stessa stregua, i nazionalisti impararono subito come fare pressione con successo sul Dipartimento di Stato ogni volta che la delicata questione armena veniva risollevata. Dunque, il non interventismo selettivo americano si tradusse in una politica compiacente di distorsione e non riconoscimento degli eventi del 1915-1916. Il dado fu tratto nel difficile decennio successivo alla guerra, con grande anticipo rispetto alla vera e propria guerra fredda e ben prima che lo stato turco avviasse a piena potenza la sua macchinazione negazionista, a partire dal 1980.

Ovviamente, dopo la seconda guerra mondiale il mondo era ormai diverso. I cambiamenti avvenuti nel sistema internazionale a partire dal 1945 e l'introduzione del concetto di genocidio nella legislazione internazionale, la crescente consapevolezza, dopo il massacro degli ebrei europei, del genocidio in quanto fenomeno e l'intensificarsi da parte degli armeni della diaspora della commemorazione del passato e dell'attivismo politico, non ultimo il terrorismo, avevano costretto sia l'atteggiamento negazionista turco sia la comunità internazionale ad adattarsi. Tuttavia, adeguandosi alla negazione turca, gli stati europei e americani rendevano semplicemente esplicito ciò che era implicito fin dalla prima guerra mondiale. Il capitolo 6 affronta, come epilogo, i contorcimenti in cui ancora si cimentano i politici e gli storici turchi, oltre ad alcuni omologhi occidentali. Poiché si tratta di uno studio della memoria falsata, così come della rimozione intenzionale, il capitolo affronta anche aspetti della «memoria» armena del crimine e i modi in cui l'espressione di tale memoria ha preso forma sulla base della battaglia stessa per non dimenticare e degli interessi nazionali e nazionalistici armeni, così come dei reali eventi del 1915-1916.

Al di là dei capitoli ortodossi, ho introdotto un paio di «interludi» per chiudere ognuna delle due prime sezioni del libro. Essi pongono la «questione armena» in contesti più vasti, comparativi. Il primo esamina il modo in cui il genocidio rientrava nei più ampi schemi demografici ottomani, nella formazione degli stati del Caucaso tra il 1918 e il 1920 e nel processo di omogeneizzazione etnica comune ad altri stati dei Balcani o dell'Europa centro-orientale nella prima metà del Novecento. Il secondo interludio mostra come la comunità internazionale abbia risposto alla situazione successiva al genocidio, mettendo a confronto gli atteggiamenti rispetto alla «rettifica dei confini» nell'Europa tra le due guerre. Esso illustra inoltre come, dopo la «risoluzione» brutale della questione armena da parte del governo ottomano, la Gran Bretagna abbia avuto un ruolo importante, con l'occupazione dell'Iraq, nell'inasprire la questione curda, ancora oggi aperta. Insieme, i due interludi contribuiscono a illustrare la decisa rilevanza attuale di un tema che troppo spesso è stato consegnato dagli storici occidentali al regno della torbida interazione tra barbari orientali.

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