Copertina
Autore Norberto Bobbio
CoautoreMaurizio Viroli
Titolo Dialogo intorno alla repubblica
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2001, i Robinson , pag. 126, dim. 140x210x13 mm , Isbn 978-88-420-6375-9
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe politica , destra-sinistra
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Indice


    Prefazione                                V

1.  Repubblica e virtù                        3

2.  L'amore della patria                     13

3.  Quale libertà?                           27

4.  Mitezza e intransigenza                  33

5.  Diritti e doveri                         39

6.  Timor di Dio, amor di Dio                51

7.  La repubblica e i suoi mali              79

8.  Il potere occulto                        99

9.  Si può rinascere                        109


 

 

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B. È lo stesso discorso che abbiamo trattato più volte io e te a proposito del tuo libro Dalla politica alla ragion di Stato. In politica sono un realista. Si può parlare di politica solo mantenendo uno sguardo freddo sulla storia. La politica, sia quella monarchica, sia quella repubblicana, è lotta per il potere. Parlare di ideali, così come ne parli tu, per me significa fare un discorso retorico. Anche quando i tuoi scrittori celeberrimi parlavano di repubblica, in realtà quello che di fatto succedeva nel mondo, era la politica com'è sempre stata, dai Greci in poi. La politica come lotta per il potere la capisco, se parli invece della politica che ha per fine la repubblica basata sulla virtù dei cittadini, io mi domando cos'è questa virtù dei cittadini. Spiegami dov'è uno Stato che si regga sulla virtù dei cittadini, uno Stato che non ricorra alla forza! La definizione dello Stato che ricorre continuamente è quella secondo cui lo Stato è il detentore del monopolio della forza legittima, forza necessaria perché la maggior parte dei cittadini non è virtuosa, ma viziosa. Ecco perché lo Stato ha bisogno della forza; questa è la mia concezione della politica. È una categoria della politica diversa da quella che ritiene di poter parlare di Stati fondati sulla virtù dei cittadini. Ti ho detto, la virtù era l'ideale giacobino. La ragione per cui ci sono gli Stati, repubbliche comprese, è quella di tenere a freno i cittadini viziosi, che sono la maggior parte. Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.

V. Che cos'è la virtù civile, e per quale ragione essa è necessaria nelle repubbliche lo hai spiegato tu stesso, quando dici che la ragione per cui esistono gli Stati «è quella di tenere a freno i cittadini viziosi». Proprio perché il fine principale degli Stati è quello di tenere a freno gli arroganti, gli ambiziosi e i viziosi, è necessario che i cittadini sappiano e vogliano «tenere le mani sopra la libertà», come scrive Cattaneo citando Machiavelli.

B. Anch'io ho citato più volte quel passo di Machiavelli!

V. Il significato di quel passo è che per frenare coloro che hanno le mani lunghe ci vuole, oltre alle buone leggi, la virtù civile dei cittadini. I miei repubblicani e i tuoi maestri concordano. Machiavelli e Cattaneo su questo punto si incontrano: se non hai dei cittadini disposti ad essere vigili, ad impegnarsi, capaci di resistere contro gli arroganti, servire il bene pubblico, la repubblica muore, diventa un luogo in cui alcuni dominano e gli altri servono.

B. L'ho scritto io stesso in uno dei primi articoli pubblicati dopo la Liberazione sul giornale del Partito d'Azione, «Giustizia e Libertà». Dicevo che la democrazia ha bisogno di buone leggi e di buoni costumi. Che cosa sono i buoni costumi se non quel che con un sovrappiù di retorica tu chiami «virtù»?

V. Certo, per me la virtù civile non è la volontà di immolarsi per la patria. Si tratta di una virtù civile per uomini e donne che desiderano vivere con dignità, e poiché sanno che non si può vivere con dignità in una comunità corrotta fanno quello che possono, quando possono, per servire la libertà comune: svolgono la propria professione con coscienza, senza trarre vantaggi illeciti né approfittare del bisogno o della debolezza di altri; vivono la vita familiare su una base di rispetto reciproco in modo che la loro casa assomiglia più ad una piccola repubblica che non a una monarchia o ad una congrega di estranei tenuta insieme dall'interesse o dalla televisione; assolvono i loro doveri civici, ma non sono affatto docili; sono capaci di mobilitarsi, per impedire che sia approvata una legge ingiusta o per spingere chi governa ad affrontare i problemi nell'interesse comune; sono attivi in associazioni di vario genere (professionali, sportive, culturali, politiche, religiose); seguono le vicende della politica nazionale e internazionale; vogliono capire e non vogliono essere guidati o indottrinati; desiderano conoscere e discutere la storia della repubblica e riflettere sulle memorie storiche.

Per alcuni la motivazione prevalente all'impegno viene da un senso morale, e più precisamente dallo sdegno contro le prevaricazioni, le discriminazioni, la corruzione, l'arroganza e la volgarità; in altri prevale un desiderio estetico di decenza e di decoro; altri ancora sono mossi da interessi legittimi: desiderano strade sicure, parchi piacevoli, piazze ben tenute, monumenti rispettati, scuole serie, ospedali veri; altri ancora si impegnano perché vogliono raccogliere stima e aspirano agli onori pubblici, sedere al tavolo della presidenza, parlare in pubblico, essere in prima fila alle cerimonie. In molti casi questi motivi operano insieme, e l'uno rafforza l'altro.

Questo tipo di virtù civile non è impossibile. Ognuno di noi potrebbe citare i nomi di molte persone che rispondono a questa descrizione del cittadino che ha senso di responsabilità civile e che hanno fatto solo del bene alla comunità e a se stessi.

B. Parlare di virtù civile è importante per contrastare l'indifferenza e l'apatia politica che purtroppo adesso sta dominando nel nostro paese, per ragioni anche comprensibili, che non è il caso qui di ricordare. In quel periodo, dopo la Liberazione, c'era entusiasmo, desiderio di partecipazione come reazione alla politica imposta dall'alto ai tempi del fascismo. Ciascuno deve dare il proprio contributo. Ci vogliono i buoni costumi, la virtù dei cittadini.

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Quale libertà?



V. Hobbes è anche il teorico dell'idea della libertà intesa come assenza di interferenza, la cosi detta libertà negativa, che è poi diventata uno dei principi del pensiero politico liberale. La sua concezione della libertà come assenza di interferenza lo porta a sostenere che i cittadini di una repubblica quale Lucca non sono più liberi dei sudditi di un sovrano assoluto quale il Sultano di Costantinopoli in quanto gli uni e gli altri sono sottomessi alle leggi. Egli dimentica che ciò che rende i cittadini di Lucca píù liberi dei sudditi di Costantinopoli è il fatto che a Lucca tanto i governanti quanto i cittadini sono sottoposti alle leggi civili e costituzionali, mentre a Costantinopoli il sultano è al di sopra delle leggi e può disporre arbitrariamente delle propríetà e della vita dei sudditi, costringendoli in tal modo a vivere in una condizione di completa dipendenza, e dunque di mancanza di libertà.

Contrariamente a Hobbes, il repubblicano sostiene che per realizzare la libertà politica bisogna opporsi sia all'interferenza e alla costrizione in senso proprio, sia alla dipendenza, per la ragione che la condizione di dipendenza è una costrizione della volontà, e dunque una violazione della libertà. Questo significa che chi ha a cuore la vera libertà dell'individuo non può non essere liberale, ma non può essere solo liberale. Deve essere disposto a sostenere anche programmi politici che hanno per fine quello di ridurre i poteri arbitrari che impongono a molti uomini e donne di vivere in condizione di dipendenza.

B. Il concetto di indipendenza è chiaro quando lo si riferisce agli Stati, ai quali si attribuisce il carattere della sovranità, intesa la sovranità proprio come «potestas superiorem non recognoscens», anche se poi nell'evoluzione del sistema internazionale gli Stati stessi hanno cominciato da tempo a riconoscere varie limitazioni della propria sovranità per costituire una confederazione, com'è attualmente l'ONU. Mi riesce più difficile capire che cosa sia l'indipendenza intesa come «superiorem non recognoscens» se viene riferita agli individui che fanno parte di uno Stato e sono sottoposti alle sue regole. Nella tradizione giusnaturalistica, a cominciare da Hobbes, sovrani sono gli individui soltanto nello stato di natura, e per questo sono, come gli Stati sovrani del sistema internazionale, in continua guerra tra loro. Per salvarsi debbono rinunciare alla propria indipendenza, anche se nelle repubbliche ideali continuano a conservarla. Quando dici che «chi ha a cuore la vera libertà dell'individuo non può non essere liberale, ma non può essere solo liberale», e deve quindi «essere disposto a sostenere anche programmi politici che hanno per fine quello di ridurre i poteri arbitrari che impongono a molti uomini e donne di vivere in condizione di dipendenza», semplicemente non ho capito bene a che cosa ti riferisci.

V. Credo che qui ci sia un equivoco che possiamo dissipare. Quando parlo di indipendenza degli individui, intendo assenza di dipendenza dalla volontà arbitraria di altri individui, non di indipendenza dalle leggi dello Stato. Considera uno degli esempi che Philip Pettit fa nel suo libro, quando parla della condizione delle donne che sono sottoposte alla volontà arbitraria del marito. Non è detto che il marito opprirna, ma può, se vuole, opprimere. Essere sottoposti alla volontà arbitraria di un altro individuo, in altre parole, non significa essere oppressi; significa che si può sempre essere oppressi. È appunto, come dicevo, il caso dello schiavo, il quale, secondo il diritto romano non è schiavo perché è oppresso, ma perché dipende dalla volontà arbitraria del padrone. Il problema è che la dipendenza dalla volontà arbitraria di altri individui genera paura nei confronti delle persone che hanno poteri arbitrari; la paura, a sua volta, produce una mancanza di animo e di coraggio che alimenta atteggiamenti servili, spinge a tenere gli occhi bassi, a tacere o a parlare per adulare i potenti. La condizione di dipendenza genera insomma un ethos del tutto incompatibile con la mentalità del cittadino. Per questa ragione essa deve essere combattuta come il nemico più serio della libertà. L'opposto della dipendenza, per gli scrittori politici repubblicani, quali ad esempio Cicerone, Sallustio, Livio, Machiavelli, Harrington e Rousseau, non è la libertà dello Stato di natura bensì la dipendenza dalle leggi non arbitrarie che valgono per tutti. Tu stesso lo hai scritto nel saggio Governo delle leggi o governo degli uomini?: per Cicerone la libertà consiste nell'essere tutti sottoposti alle leggi della repubblica. Perché Cicerone definisce la libertà in questo modo? Per me la risposta è che se la legge è intesa come una volontà non arbitraria che si applica a tutti, allora la legge ti rende libero in quanto ti difende dalla volontà arbitraria degli altri individui. Io intendo indipendenza in questo modo, non come indipendenza dalla legge.

B. Quindi si può parlare di un cittadino indipendente all'interno dello Stato, se dipende solo dalle leggi. C'è una bella frase di Aristotele, che io cito, a proposito della superiorità del governo della legge sul governo degli uomini, che dice «la legge non ha passione». Non ha passione nel senso che non favorisce l'uno o l'altro e stabilisce un'uguaglianza fra tutti; tratta tutti allo stesso modo. Platone dice invece il contrario, che ciascuno deve essere trattato a suo modo. Ora, riflettendo sull'indipendenza, non riesco a trovare quel terzo significato di libertà diverso tanto dalla libertà intesa come assenza di interferenza (libertà negativa), quanto dalla libertà intesa quale autonomia (libertà positiva). Non riesco a vedere la differenza fra la libertà intesa come indipendenza e la libertà intesa come autonomia. L'indipendenza è la capacità di dare leggi a se stessi. Non vorrei sbagliare, ma in tedesco per tradurre autonomia dovresti usare il termine Selbständigkeit, ovvero indipendenza. Si dice infatti che uno Stato è indipendente e autonomo. Indipendenza e autonomia a me paiono sinonimi.

V. A me pare che la dipendenza o l'indipendenza (pensa agli esempi dello schiavo, o della moglie, o del suddito di un sovrano assoluto) si riferiscono a una condizione giuridica, sociale o politica, mentre l'autonomia si riferisce alla volontà o, se vogliamo usare un termine antiquato, all'animo o allo spirito e descrive l'attitudine a governarsi da sé, a reggersi da sé. Lo hai spiegato tu in uno scritto del 1954 quando hai chiarito la concezione democratica della libertà. Esempio della persona libera nella accezione democratica, cito dal tuo scritto, è la persona che ha una volontà libera: il «non conformista che ragiona con la propria testa, non guarda in faccia nessuno, non cede a pressioni, lusinghe, miraggi di carriera», ha insomma una volontà libera nel senso che si autodetermina, distingue dall'idea liberale di libertà come liceità (assenza di impedimento).

La concezione democratica della libertà è diversa dalla concezione liberale perché nella concezione liberale, «si parla di libertà come di qualcosa contrapposto a legge, a ogni forma di legge, per cui ogni legge (proibitiva e imperativa) è restrittiva della libertà» mentre nella concezione democratica «si parla di libertà come essa stessa campo di azione conforme a legge; e si distingue non più l'azione non regolata dall'azione regolata dalla legge, ma l'azione regolata da una legge autonoma (o accettata volontariamente) dall'azione regolata da una legge eteronoma (o accettata per forza)». In via di fatto l'indipendenza e l'autonomia camminano quasi sempre insieme: la persona che vive in condizione di indipendenza giuridica (non è schiava o serva), politica (non è suddita di un sovrano assoluto o di un despota), sociale (non deve il suo sostentamento o il suo benessere ad altri), è spesso una persona autonoma. Ciononostante credo sia possibile distinguere tre concezioni della libertà. La prima, liberale, afferma che essere liberi significa non essere sottoposto a interferenza; la seconda, repubblicana, afferma che essere liberi significa (in primo luogo) non essere dipendenti dalla volontà arbitraria di altri individui; la terza, democratica, afferma che essere liberi significa in primo luogo poter decidere le norme che regolano la vita sociale.

B. Il punto vero che ci divide è la mia antiretorica che in realtà, poi, io stesso contraddico nella mia vita.

V. Ti ho sempre detto che tu, diversamente dai più, predichi male e razzoli bene.

B. Ma io non l'ho mai saputo.

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V. Ma tu stesso hai spiegato che le buone leggi hanno bisogno dei buoni costumi. Nel senso che la legge non può da sola realizzare il fine di conservare una buona comunità democratica e liberale; ha bisogno dell'aiuto di quel sentimento interiore che è il senso del dovere. Poiché il sentimento del dovere civile è un sentimento interiore, in che modo può essere rafforzato? È vero che le leggi, costringendo i cittadini a osservare determinate regole di comportamento, modellano il costume. Mi sembra però che il senso del dovere, proprio per la sua natura interiore, ha bisogno di qualcosa di diverso dalle leggi. Come si fa a far nascere il senso del dovere civile dove esso manca?

B. Con l'educazione. Perché si parte dal presupposto che l'animale uomo sia da addomesticare. L'educazione è principalmente l'imposizione di doveri, non sollecitazione di diritti.

V. Credo che l'educazione civile abbia bisogno di parole, di memorie, di esempi. Il vero educatore è solo chi ha autorità morale. È solo la persona che suscita rispetto, autorevolezza. Dove sono oggi, le autorità morali capaci di dare un insegnamento basato sull'autorevolezza? Una volta, la prima e più importante autorità morale erano i genitori; oggi i genitori capaci di esercitare sui figli un'autorità morale sono rari. C'era la scuola; oggi non mi pare che ci siano molti insegnanti che sappiano, o vogliano, essere degli educatori capaci di stimolare il senso del dovere. C'erano i partiti politici; con tutti i loro difetti i vecchi partiti politici erano scuole di educazione civile; oggi i partiti insegnano piuttosto a obbedire a dei capi. Non ti sembra che ci sia una carenza di autorità morali laiche in grado di svolgere una funzione di educazione civile?

B. C'è indubbiamente un vuoto di autorevolezza morale fra i laici. Questo vuoto è riempito in misura crescente dalla religione. Il fatto che i giovani siano spesso troppo cinici, arroganti, consumisti, dipende da un senso della nullità della vita. Poiché la vita non ha un senso ci si può autodistruggere.

Sono tutti fenomeni che rivelano la mancanza di un'autorità morale. Non c'è dubbio che l'assenza di un'autorità morale è dovuta anche al declino dei vecchi partiti politici. Pensa cos'è stato, per un partito come il Partito comunista, il senso dell'educazione all'adempimento dei doveri. Lo stesso discorso vale anche per il Partito socialista, per la Democrazia cristiana, per il Partito repubblicano. Che autorevolezza morale hanno partiti come quello di D'Antoni o quello di Mastella?

Ma il fatto più grave è che oggi non ci si vergogna più di nulla, mentre tieni presente che il senso della vergogna è sempre stato il segno dell'esistenza del sentimento morale.

V. Una volta, lo ricordo bene, si sentiva spesso la frase: «ma lei non si vergogna?». Oggi non si sente più. Probabilmente perché la risposta sarebbe «ma è ovvio che non mi vergogno. Perché mai dovrei vergognarmi?». «Vergogna» è una parola scomparsa.

B. Sì, meriterebbe riflettere sul concetto di vergogna. La vergogna è il sentimento che si prova quando si sa di aver compiuto un atto che la coscienza morale condanna.

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V. Proprio per questo non riesco a intendere perché in Italia ci sia tanta resistenza a capire la necessità di punire secondo la legge. Forse è perché vivo in un paese che spesso punisce in misura eccessiva, soprattutto quando infligge la pena di morte, ma a me pare ci sia in Italia una diffidenza verso la legalità in quanto tale. Mi viene in mente un noto passo di Tocqueville: «negli Stati Uniti ognuno trova un certo interesse personale a che tutti obbediscano alle leggi; perché colui che oggi non fa parte della maggioranza potrà forse essere domani nelle sue file e il rispetto che oggi egli professa per le volontà del legislatore avrà presto occasione di esigerlo per le sue. Per quanto la legge possa essere spiacevole, l'abitante degli Stati Uniti vi si sottomette di buon grado, non solo come all'opera della maggioranza, ma anche come alla sua propria; egli insomma la considera sotto il punto di vista di un contratto al quale avrebbe voluto partecípare». Nella mentalità degli italiani, per contrasto, colui che punisce secondo la legge, il giudice inflessibile o il politico integerrimo, non sono figure che suscitano sincera ammirazione. L'eroe è piuttosto l'astuto che sfugge la legge, o il potente che si pone al di sopra di essa.

B. I personaggi comici che interpretano il carattere dell'italiano sono infatti personaggi che sfuggono la legge, che riescono a farla franca. Pensa al celebre film Il sorpasso. La violazione della legge è considerata come una manifestazione di virilità e quindi come un comportamento degno di lode. Non voglio riportare il discorso sul fascismo, ma credo che l'origine prossima di questa mentalità che elogia la violazione della legge sia tipica della mentafità fascista.

V. Lo credo anch'io. Non era forse la violazione del limite uno degli aspetti caratteristici della cultura del fascismo? Del resto, il loro motto non era forse «Me ne frego»?

B. Abbiamo addirittura avuto un partito fondato su questo motto, un partito che poi ha conquistato il potere. Credo che sia l'unico esempio al mondo.

V. Mi fai venire in mente che in inglese esiste ed è di uso corrente l'espressione contraria, ovvero «I care», riscoperta e rilanciata or non è molto da Veltroni. Potresti scrivere un'appendice a Destra e sinistra per mettere in evidenza che l'opposizione fra fascismo e antifascismo emerge in maniera assai netta nel contrasto fra «Me ne frego» e «I care».

Quella fascista è una mentalità opposta a quella che apprezza invece il principio che è nostro dovere prenderci cura della nostra comunità e dei nostri concittadini. A proposito di prendersi cura, ho scritto recentemente un articolo in cui mi interrogavo sul fatto che noi laici abbiamo forse aperto la porta a questo ritorno così massiccio della religiosità, in quanto non abbiamo dato delle risposte convincenti al problema della solidarietà, come si dice oggi.

I cattolici parlano di solidarietà, di carità e di compassione, e oltre a parlarne la praticano. E noi laici? Abbiamo una concezione della carità, della compassione e della solidarietà diversa da quella dei cattolici? Credo che ci sia una differenza importante fra la carità laica e la carità cristiana. La carità cristiana è Cristo che condivide la tua sofferenza; è la condivisione della sofferenza. La carità laica è anch'essa condivisione della sofferenza, ma è anche sdegno contro coloro che sono responsabili della sofferenza. È lo sdegno che dà la forza interiore per lottare contro le cause della sofferenza. Proprio perché chi non ha una fede religiosa non vede alcun valore nella sofferenza che gli uomini patiscono a causa di altri uomini e non crede nella possibilità o nel valore di un premio nell'altra vita, la carità laica cerca, se può, il rimedio alla sofferenza, oltre a lenire la sofferenza dell'oppresso. Spinge gli oppressi a combattere la causa dell'oppressione.

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Pagina 65

B. Quello che tu dici riguarda parte dell'Ottocento e del Novecento. È poco rispetto a quella che è stata la carità esercitata in nome di Cristo. I laici non possono vantare le benemerenze che vantano i cattolici per quanto riguarda le opere di carità. E la ragione di questa debolezza dei laici dipende anche dal fatto, come osservavo poc'anzi, che i laici non possono promettere niente, se non la soddisfazione della coscienza. Il fatto che esista ancor oggi la pratica, possiamo dire lo scandalo, delle indulgenze dimostra che la gente crede nel premio nell'aldilà. È un inganno? Per noi è un inganno, ma la gente ci crede ugualmente.

V. Ma non credi che sia meglio avere dei diritti sociali garantiti dalle leggi che non affidare l'assistenza ai malati, agli anziani, ai deboli e ai piccoli alla pratica della solidarietà, al senso di carità di individui e di associazioni? Da un punto di vista repubblicano, i diritti sociali non possono essere tuttavia confusi con l'assistenzialismo che crea dei clienti a vita dello Stato, sanziona dei privilegi e non incoraggia gli individui ad aiutarsi da soli. Non devono neppure essere confusi con la carità pubblica (o peggio ancora privata) che offre l'assistenza come atto di buona volontà dello Stato. La carità pubblica (e privata), per quanto lodevole, è incompatibile con la vita civile perché offende la dignità di chi la riceve. Se ho bisogno di aiuto perché sono povero, o malato, o anziano, o solo, preferisco che l'aiuto sia il risultato di un riconoscimento di un mio diritto in quanto cittadino, piuttosto che il risultato della scelta di un individuo in nome dell'amore di Cristo. Essere malati, o anziani, non è una colpa; e la repubblica, anche se molti non lo sanno, non è una società per azioni, ma una forma del vivere comune che ha per fine la dignità dei cittadini. Per questa ragione la repubblica ha il dovere di garantire assistenza non come atto di compassione ma come riconoscimento di un diritto che deriva dall'essere cittadini. Deve dunque assumersi l'onere di assistere i suoi cittadini senza fare pesare l'aiuto che essa offre e senza affidare a privati l'onere che è suo. In merito alla carità pubblica e privata sono ancora valide queste parole di Mazzini: «La carità cristiana fu piuttosto mezzo di miglioramento della propria anima che coscienza d'un fine comune da raggiungersi, per volere di Dio, quaggiù: non varcò i limiti della beneficenza; nutrì, dove gli uomini della nuova religione s'abbattevano in essi, gli affamati, vestì i laceri, circondò di cure gli infermi; non pensò al come potessero togliersi le cagioni della miseria e della nudità». Non ti sembra che sia più bello ricevere aiuto in nome di diritti che non per benevolenza?

B. Sara anche più bello, ma di fatto le cose non stanno così. Di fatto esistono le dame di San Vincenzo che vanno nel piccolo alloggio del vecchio malato. Questo che tu dici è un'utopia.

V. Non sempre. Esistono forme di assistenza a domicilio ai malati e agli anziani promosse e sostenute dai comuni. Sono assistenti sociali che portano medicine e cibi, si fermano a chiacchierare, tengono un po' di compagnia. Non saranno perfette, ma so per esperienza diretta che arrecano gran beneficio, soprattutto perché permettono all'anziano e al malato di rimanere a casa sua.

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Pagina 82

B. Forza Italia è una reazione allo stato di cose esistente. Anche il fascismo fu un movimento nuovo, dichiaratamente nuovo, che nasceva come reazione nei confronti della realtà politica e sociale che si era creata negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Il partito che Berlusconi ha fondato è un partito nato per liquidare la prima Repubblica. Una delle ragioni della forza (e per me anche della pericolosità) di Berlusconi consiste nell'aver segnato una tappa nuova nella storia del paese: nell'essere e nel presentarsi come fondatore di un partito nuovo in contrapposizione ai vecchi partiti considerati decadenti, come i fascisti si presentavano nei confronti dei vecchi partiti dell'Italia liberale.

V. Mussolini si proclamava infatti nemico della democrazia decadente.

B. Mussolini considerava gli altri partiti dei partiti finiti, dei partiti che avevano esaurito il loro compito. Proclamava la necessità di un rinnovamento generale. La nascita di Forza Italia è in questo senso molto simile alla nascita del Partito fascista, nel senso, come ho spiegato, di partito nuovo. Anche se si definisce il partito della libertà, anzi, il centro di un Polo delle libertà, Forza Italia non si riallaccia affatto alla tradizione liberale italiana. Non ha nulla di simile al liberalismo di Einaudi, per citare il nome più significativo. Non ha neppure i caratteri del classico partito conservatore. Forza Italia è dunque un partito eversivo, e Berlusconi se ne rende perfettamente conto.

V. A mio parere il carattere eversivo di Forza Italia consiste nel fatto che si tratta di un partito fondato sulla lealtà incondizionata nei confronti del capo, non nei confronti di un'idea o di un progetto, o di un'utopia che trascende il capo. Ho l'impressione che il dirigente locale, il raccoglitore di voti, il sostenitore di Forza Italia si senta leale a Silvio, non a un'idea. I dirigenti e i militanti del vecchio Partito comunista, o del Partito socialista o del Partito repubblicano erano impegnati primariamente a difendere idee e interessi, non a sostenere Berlinguer, o Nenni, o La Malfa.

Anche nei partiti della prima Repubblica c'erano ovviamente fenomeni di lealtà clientelare, soprattutto nella Democrazia cristiana. Si parlava infatti, nel linguaggio politico corrente e nel linguaggio politico più colto, di «fanfaniani», «forlaniani», «demitiani», «andreottiani» e così via. Ma a parte il fatto che si trattava di più capi e non di uno solo, il carattere clientelare (nel senso classico: un potente che distribuisce favori ai clientes che si prostrano e offrono la loro lealtà) e personalistico della Democrazia cristiana (e in misura più o meno accentuata anche di altri partiti) era additato come un elemento di corruzione della vita politica italiana. Oggi, al contrario, l'opinione pubblica accetta senza sussulti l'esistenza di un grande partito personale che si fonda sulla lealtà nei confronti di un capo. Accetta come un dato normale un fenomeno politico che ogni persona che abbia un minimo di coscienza civile dovrebbe guardare con la massima preoccupazione.

B. Berlusconí non solo ha fondato un partito personale; fa anche di tutto per accentuare il carattere personale di Forza Italia. Prova ne sia che esibisce ovunque la sua faccia. La sua faccia sempre sorridente, sempre sicuro di sé, l'uomo benedetto da Dio, anzi, addirittura l'«unto del Signore», come egli stesso si è proclamato.

V. C'è un altro aspetto del partito di Berlusconi che presenta un'analogia significativa con i movimenti totalitari. Mi riferisco al fatto che la parola di Silvio è creduta come se fosse la parola profetica. Può proclamare le menzogne più ridicole ed essere creduto. Ha proclamato, e continua a proclamare che dal 1945 a quando egli è diventato presidente del Consiglio, l'Italia è stata governata dai comunisti; e ci sono milioni di italiani che gli credono e che hanno fiducia in lui.

B. La personalizzazione è tipica del capo carismatico. Mussolini è stato indubbiamente un capo carismatico. Quando si affacciava al balcone strappava l'applauso, dialogava con la folla. Teneva discorsi brevi, molto incisivi; e poi faceva domande alla folla, domande alle quali la folla doveva rispondere o si o no, secondo quello che era già previsto. Mussolini sapeva quello che la folla avrebbe risposto. Dialogava con la folla, cosa che Hitler faceva in misura molto minore perché stava molto più lontano, molto in alto rispetto alla folla. Era una potenza più celeste. Anche Stalin non ha mai avuto un rapporto diretto con il suo popolo; lo abbiamo sempre visto mentre assiste alla parata militare, o nel grande balcone del palazzo di Stato, quasi sempre in divisa militare, insieme ai suoi capi. Stalin non ha mai fatto un discorso al popolo.

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V. Se volessimo riassumere i caratteri del pericolo Berlusconi potremmo dunque dire che siamo di fronte ad un fenomeno politico che compendia elementi quasi mai riuniti nella medesima persona: la concentrazione di mezzi di persuasione di massa, una struttura radicata nel territorio, un movimento sorretto dalla lealtà al capo visto quale capo carismatico.

B. Si tratta indubbiamente di un fenomeno nuovo che segnala un malessere profondo della nostra democrazia.

V. A me pare che la nascita e la proliferazione dei partiti personali che tu hai discusso ci faccia toccare con mano una delle promesse non mantenute della democrazia, ovvero la promessa che i cittadini, una volta ammessi a partecipare alla vita pubblica sarebbero diventati più consapevoli, più saggi, più responsabili, meno vulnerabili alle lusinghe dei demagoghi, insomma migliori, sia dal punto di vista intellettuale, sia dal punto di vista morale.

Dopo cínquant'anni di vita democratica dobbiamo a malincuore constatare che c'è stato non un progresso civico e morale, ma un declino. Tale declino è anche legato, ritengo, alla fine dei vecchi partiti. Con tutti i loro difetti, i vecchi partiti stimolavano un gran numero di uomini e di donne a uscire di casa e a prendere parte a riunioni. Abituavano ad assolvere alcuni doveri semplici ma significativi: prendere la tessera, pagare la quota, partecipare al congresso, svolgere attività di propaganda, comprare il giornale (o abbonarsi), stare informati. Venuto a mancare questo tipo di scuola, ci troviamo di fronte a una situazione a mio giudizio pericolosissima, in quanto abbiamo il demagogo oligarchico e la piazza vuota.

Un'altra minaccia seria alla democrazia, oltre al demagogo, è il ruolo sempre più decisivo del denaro nella politica. Il denaro è infatti diventato uno dei fattori essenziali per vincere le elezioni e, più in generale, per ottenere consensi.

B. I voti, come qualsiasi altra merce, si possono comprare. Questa è la ragione fondamentale per cui il denaro può corrompere la repubblica. Chi ha più soldi ha più voti. C'è un parallelo continuo fra il mercato vero e proprio e il mercato dei voti. Anche le ideologie svolgono un ruolo importante, sopratutto quando si tratta di ideologie forti, come era quella del vecchio Partito comunista. Tuttavia non c'è dubbio che il denaro conta. Pensa agli Stati Uniti, dove i candidati alle elezioni vanno prima di tutto a cercare finanziamenti.

V. A proposito degli Stati Uniti gli studiosi parlano di due campagne elettorali. La prima è la campagna elettorale che i candidati svolgono per trovare sostegni finanziari; la seconda è la campagna elettorale per conquistare i voti. Delle due campagne la prima è più importante della seconda. Chi vince la prima vince, quasi sempre, anche la seconda. Questo significa che nelle democrazie dominano i plutocrati e dunque diventano oligarchie. In un articolo che «La Stampa» ha intitolato efficacemente .cor Bush de' Medici, facevo notare che nella grande e consolidata democrazia americana una famiglia di magnati texani era riuscita, nel pieno rispetto della legalità costituzionale, a eleggere due presidenti della Repubblica nel breve volgere di dodici anni. Imprese simili, osservavo, riuscivano alle potenti famiglie italiane nell'età dei principati, quando i Medici fecero sedere, dal 1513 al 1523, due membri della famiglia sul soglio pontificio. L'oligarca, e per oligarca si intende un uomo convinto che «coloro che posseggono le ricchezze sono anche bravissimi a governare ottimamente» ed è posseduto da una «bramosia di dominio che tende insieme a potenza e profitto» è di per sé pericoloso. Ma più pericoloso ancora è l'oligarca che è anche demagogo, che sa conquistare il favore del popolo con promesse di grandi beni presentate con parole «ben cucinate».

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