Copertina
Autore Giorgio Bocca
Titolo le mie montagne
Sottotitologli anni della neve e del fuoco
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2006, Serie Bianca , pag. 152, cop.fle., dim. 14,2x22x1,3 cm , Isbn 978-88-07-17125-3
LettoreLuca Vita, 2007
Classe storia contemporanea d'Italia , biografie
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Indice

  7 Introduzione

    LA GUERRA COME AZZARDO

 11 Non è più tempo di cirioleggiare
 13 "Dateci i paletti!"
 18 Fermati dal tenente Bulle
 23 Il penoso armistizio

    NOTABILI E MAESTRI

 29 Il figlio del ministro
 36 Bona parin
 40 Quelli di Livio
 44 Il cappello del Presidente
 4  Bartolo e le barriques
 50 Gobetti l'asceta
 54 Metano e pasticcini

    STORIE PARTIGIANE

 61 Il tesoro della IV armata
 65 L'imboscata
 68 A lume di candela
 72 I cannoni della Littorio
 75 Il cibo e la vita
 77 Ho rivisto Kesselring

    NOI DEL MONTE BIANCO

 83 Il Mont Maudit
 90 Un botanico sul Bianco
 93 I marrons del Moncenisio
 95 I tre miracoli

    ELOGIO DELLA PROVINCIA

101 Il grande giro
106 Beivumne una
109 La battaglia dell'arneis

    GLI ANNI DEGLI SCI VELOCI

115 Sciare sull'Etna

    L'OCCITANIA

123 Uno della langue d'oc
126 I valdesi

    IL GRANDE FIUME

131 La grande strada lucente
136 Il fiume nero

    L'ITALIA A MISURA D'UOMO

143 Pozzo, Meazza e Piola

 

 

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Pagina 50

Gobetti l'asceta



Piero Gobetti è stato nel nostro approdo all'antifascismo, alla Resistenza, all'incontro fra Giustizia e libertà e i comunisti, il primo della classe, l'esempio di una superiorità intellettuale e democratica, il nostro campione di tutte le arcane virtù della cultura e dell'intelligenza. E anche un motivo di autentico stupore per la sua castità, virtù sconosciuta a noi che arriviamo dal maschilismo fascista, dal "donne e motori" di Italo Balbo, dal grande seduttore D'Annunzio e dalle irresistibili conquiste del Duce, nel vano di una finestra a Palazzo Venezia. Noi arrivavamo da un mondo popolato di prosperose massaie rurali, di giovani italiane cresciute nei saggi ginnici, di crocerossine di guerra, di staffette partigiane, e ci trovammo in un gruppo di intellettuali laici ma cresciuti nelle minoranze protestanti piemontesi, valdesi, ebraiche o gianseniste, in personaggi casti come Bobbio e Gobetti: "C'è anche altro nel nostro modo di essere, c'è che volenti o nolenti dobbiamo costruirci una famiglia. Ora la moralità della famiglia e dell'amore, la conformazione e concreazione di due spiriti hanno come condizione, per me assoluta, la verginità spirituale e fisica degli individui e naturalmente senza l'oscena condivisione di molti, di quasi tutti, fra la verginità femminile, voluta assolutamente, e quella dell'uomo che sarebbe invece ingenuo conservare rinunciando agli ambiti piaceri. Tutto questo viene a concludere che per la nostra verginità spirituale bisogna amare una volta sola e fare eterno il primo amore sicché le nozze siano davvero celebrazione, creazione entusiastica e fatta pura".

Erano casti anche i fondatori del comunismo, i compagni torinesi che denunciavano al partito Longo e La Noce sorpresi a baciarsi nel giardino della Cittadella.

Una vena di castità e d'impegno religioso che si trovava nei dirigenti del Partito d'azione che circondavano e veneravano Ferruccio Parri non solo come loro capo militare ma anche come maestro di vita. Noi giovani peccatori e maschilisti, noi fatti per la guerra e per le sue volgarità, ci fermavamo ammirati e stupiti di fronte a questi maestri così diversi da noi, non capivamo bene se la loro castità fosse religiosa o semplicemente rifiuto della volgarità e dei compromessi, o ricerca dell'assoluto. Di fatto la presenza della morte nei mesi della lotta armata di Giustizia e libertà non si è tradotta mai nel postribolo squadrista, ma in una ricerca d'integrità assoluta. Per questo probabilmente il Partito d'azione era un po' fuori dal mondo. Comunque quella castità o mancanza di volgarità nelle formazioni di Giustizia e libertà c'erano, le relazioni amorose mai ostentate, i capi chiamati all'esempio, l'onestà indiscutibile.

Il secondo modo di pensare a Gobetti di noi arrivati alla democrazia con il lungo viaggio dentro il fascismo, era di stupore e ammirazione per quel nostro primo della classe. Uno che ricordava di sé nel 1920: "Interruppi a diciassette anni la pubblicazione di 'Energie Nove' perché sentivo bisogno di maggior raccoglimento e pensavo a un'elaborazione politica assolutamente nuova le cui linee mi apparvero di fatto al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Devo da un lato la mia rinnovazione all'esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi (vivi di un concreto spirito marxista) e dall'altro agli studi sul Risorgimento e sulla Rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo".

Alle prime letture di Gobetti durante la guerra partigiana ci stupiva ed esaltava la tumultuosa ricchezza d'interessi di un giovane che identificava la sua giovinezza con la cultura storica e politica: "Ho peccato di amore quasi infantile per la cultura, per la filosofia, bisognava bene che amassi qualcosa con tutta l'oscura violenza nascosta nella mia originaria volontà di vivere", scrive in un diario del 1919. E così descrive la sua giornata: "Che cosa ho fatto questa mattina? Non ho perso tempo ma, ahimè, che disordine! Ho letto Paradossi educativi di Prezzolini, ho tradotto una pagina di russo, ho letto un altro capitolo di Gentile, La filosofia di Marx, poi ho dovuto scrivere a editori e amici. Mio Dio! Non riesco a studiare sempre lo stesso argomento. Ho bisogno di riposarmi mutando". Un'intelligenza eclettica, una passione intellettuale bruciante, c'è davvero da chiedersi che cosa avrebbe fatto come editore europeo se non fosse morto a venticinque anni.

Ammirati con stupore per la sua rapida ardente vita, alla sua età conoscevamo la dura esperienza della lotta armata che ci aveva fatto interrompere ogni studio. Eravamo passati dai diciotto di guerra, regalatici dal fascismo morente, a quelli della nuova repubblica e per noi la sua travolgente attività letteraria, la sua onnivora cultura non erano un esempio impossibile, inimitabile, ma un mito di cui eravamo orgogliosi: anche nella nostra famiglia politica e combattente c'era stato un uomo eccezionale che aveva scritto Risorgimento senza eroi, Scritti sulla letteratura russa, sul Risorgimento, saggi di critica letteraria, di critica d'arte, di critica filosofica e centinaia di lettere di polemiche, di commenti su tutto: letteratura giapponese, Futurismo, letteratura straniera, Illuminismo, rivoluzioni in Venezuela, la pittura di Casorati, la pittura veneta del Quattrocento, i pittori inglesi Hogarth, Blake, Reynolds, Romney e poi Tintoretto, Mantegna, Bellini, Carpaccio.

"Prima di dicembre," scrive sul suo diario nel 1919, "leggerò Treitschke, Aristotele, Machiavelli, Pareto, avvierò lo studio sul marxismo, sul bolscevismo minutamente e Sorel, Labriola, Gentile, Croce. Poi prenderò gli economisti liberali e nel frattempo continuerò i socialisti."

Paolo Spriano ha difeso Gobetti dall'accusa di giornalismo ingordo: "La robustezza d'impianto della sua opera si è confermata alla prova del tempo. Il che non significa che Gobetti non fosse anche uno straordinario giornalista. In molte delle cronache gobettiane si specchia la vivacità della stagione migliore della cultura torinese. Gobetti era il rappresentante di una provincia che sa superare i limiti provinciali, carica di utopia e di severità. Affacciata senza impacci a una problematica europea". Chi ha fatto parte di quella esperienza e di quel gruppo ne è, credo, giustamente orgoglioso.

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Pagina 61

Il tesoro della IV armata



La partita politica decisiva della guerra partigiana non fu tra noi e i tedeschi, partita già risolta a nostro favore, era solo questione di resistere fino al crollo certo del Terzo Reich. La partita decisiva per quella guerra civile che in parte era la Resistenza era fra noi, gli interventisti, gli azionisti, e loro, gli attesisti che volevano rimettere in piedi lo stato borghese di sempre, fra noi che volevamo conquistarci la libertà e la democrazia combattendo e loro che volevano, come il maquis francese, attendere il crollo dei tedeschi per inscenare un'insurrezione opportunistica. Diciamo fra quelli che volevano pagare il riscatto dal fascismo e quelli che lo volevano come un regalo della storia. Avevamo ragione noi, gli interventisti, gli azionisti, non solo per una questione morale e politica, perché una democrazia regalata dagli alleati angloamericani, avallata dalla monarchia e dai conservatori sarebbe stata una mediocre riedizione di quella liberale arrivata al fascismo, ma perché s'imponeva un cambiamento decisivo, un nuovo rapporto fra le classi sociali. C'era poi un dato di fatto schiettamente militare: l'esercito di carriera aveva perso la guerra ancor prima di combatterla, l'esercito che si diceva regolare si era dissanguato nella Prima guerra mondiale, una resistenza armata poteva essere sostenuta solo da un esercito di volontari, un esercito politico. Ecco la ragione per cui in questi ricordi legati alle montagne e alla guerra partigiana non può mancare quello del tesoro della IV armata, cioè del nostro decisivo confronto con l'attesismo.

Già a fine settembre del 1943 nelle bande di Giustizia e libertà appena formate in Valle Stura e in Valgrana s'incominciò a parlare del tesoro della IV armata, l'armata che aveva occupato la Francia del Sud ed era rientrata in Italia nei giorni dell'armistizio. Dov'è questo tesoro che può risolvere i nostri problemi di sopravvivenza? Deve essere da qualche parte fra Alba e Savigliano. Perché? Ma perché è lì che circolano i franchi francesi e si commerciano delle monete d'oro, è lì che abbiamo fermato un ufficiale della IV armata con dieci milioni di franchi. Ai primi di novembre, la notizia è certa, le formazioni di partigiani di Cuneo sud mandano una relazione al Comitato di liberazione nazionale piemontese a Torino: il tesoro c'è, lo ha nascosto il generale Operti, intendente dell'armata. "Se noi andiamo a parlargli," dice il comunista Negarville, "quello si spaventa. Andate avanti voi di Giustizia e libertà." Partono per Bene Vagienna, dove il generale ha una villa: un magistrato, Giorgio Agosti, un medico, Fausto Penati e il professore Mario Rollier. A Bene Vagienna il generale non c'è, non è neppure a Bra, da Alli due buoi rossi dove si era sistemato il comando durante la guerra con la Francia. Finalmente arriva la soffiata giusta: Operti è a Cherasco. Ha scelto bene Operti, Cherasco è la sua città: sabauda, nobiliare, morta. Agli ingressi degli archi sabaudi, dentro palazzi nobiliari vuoti, freddi, abitati da famiglie aristocratiche impoverite, la Stura e il Tanaro che confluiscono sotto le ripe. Operti studia gli inviati del Cln, il Comitato di liberazione nazionale. "Che assurdità!" pensa Operti. "Che senso ha chiamare comitato un comando militare?" Il confronto è generico, allusivo. Operti non fa delle richieste precise, ma si capisce che non gli dispiacerebbe essere nominato comandante dell'esercito partigiano. Tornati a Torino per discutere la cosa, i comunisti s'infuriano, protestano, ma Giorgio Agosti che nel comitato chiamano "il piccolo padre", abile onnipresente, taglia corto: "Insomma li volete o non li volete questi milioni?". Li vogliono anche i comunisti. Parte una nuova delegazione che invita ufficialmente Operti a Torino. L'affare è fatto: il generale ha il suo titolo di comandante militare piemontese, in cambio consegna centocinquanta dei quattrocento milioni che tiene nascosti in una sua cascina. La prima cosa che fa il generale è di arruolare, con regolare stipendio, una ventina di ufficiali effettivi, poi divide il Piemonte in nove centri, ognuno dei quali dovrebbe dotarsi dei seguenti servizi: informazioni, vettovagliamenti, operazioni. Il C1n lo invita a restare a Torino, ma non può, dice che lui non è uno sconosciuto come i Galimberti, i Giambone, i Braccini. È un generale famoso, deve nascondersi da amici fidati nei piccoli centri di provincia: Casalgrasso, Carmagnola, Levaldigi. Non lo trovano i tedeschi, ma non lo trovano neanche i partigiani quando hanno bisogno di lui, e i suoi aiutanti sono cosa da ridere. Viene a trovarci a Valgrana Duccio Galimberti e racconta: "Ho incontrato ieri il colonnello Landi, l'aiutante di Operti che comanda il centro di Cuneo. 'Colonnello,' gli dico, 'hanno arrestato sei dei nostri, li tengono nella caserma della Milizia, bisogna fare qualcosa o ce li fucilano.' 'Ma è semplice,' dice lui, 'arrivate di notte con una cinquantina di uomini, non di più, all'alba quando cambiano la sentinella fate irruzione.' 'Ma lo sa colonnello che c'è una mitragliatrice davanti a ogni porta?' Lui non lo sa ma fa finta di saperlo. 'Sicuro che lo so,' dice. 'Bene,' gli dico io, 'lei è pronto a guidarci?' Fa un sorriso di superiorità: 'Avvocato', dice, 'ma dove la mette la clandestinità? Se vengo con voi mi scopro'.". Noi dicevamo a Duccio: "Che cosa aspettate a toglierveli dai piedi?". "Fate come se non ci fossero," diceva lui. Ma c'erano, ci mandavano le loro circolari che leggevamo la sera attorno al fuoco. "Sentite questa: 'Si raccomanda di ricercare, censire, occultare i materiali militari dell'esercito e di interrare i fusti di carburante'. Ma da dove piove questo Operti? Senti quest'altra: 'Riunirei mezzi di collegamento, cordoncino telefonico, apparecchi radio, apparecchi ottici eccetera'." "Già," diceva Detto, "questo Operti è un vero drago, ci consiglia anche di 'mandare persone esperte della lingua tedesca a frequentare il nemico e a riferire'."

Ma il generale non è soltanto un buono a nulla, è anche uno che vorrebbe una tregua "con i fascisti onesti", con i patrioti di Nuovo risorgimento, un gruppo di ufficiali dell'esercito che ha aderito alla repubblica di Salò per avere degli stipendi, ma che si prepara all'insurrezione. L'esperimento Operti è finito. Il Cln lo caccia rinunciando ad altri milioni. Su "Il Garibaldino piemontese" è apparsa una poesiola: "Non fa nulla/ quando è l'ora della marcia trionfale/ lo dirà il generale/ ma di tali generali/ ne abbiam pieni gli stivali". Ritornato a Cherasco, Operti si consola criticando la Resistenza: "Il rastrellamento tedesco in Valle Stura e la facilità con cui il nemico ha risalito la valle dimostrano l'incompetenza militare dei partigiani". Non si è accorto che il bollettino di guerra della Wehrmacht ha parlato di "duri accaniti combattimenti".

Del tesoro si continua a parlare per mesi. Ogni tanto da una delle bande di pianura ci arriva un sacchetto pesante da inoltrare al Cln di Torino. Inoltriamo ma diamo un'occhiata al contenuto: sono marenghi e sterline d'oro trovati in casa di un ufficiale della IV armata. È con i marenghi, con le sterline che si liberano i compagni e si ottengono le informazioni, le persone "esperte della lingua tedesca" non bastano. Ci siamo sempre chiesti alla fine della guerra a chi sia toccato ciò che restava del tesoro.

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A lume di candela



L'aiuto dato dagli alleati alle formazioni partigiane fu insignificante finché se ne occuparono gli inglesi della VIII armata. Churchill aveva scarsa simpatia per noi e puntava sulla carta monarchica. I lanci fatti dagli inglesi erano rari e di materiali scadenti. Quasi una provocazione! Ci buttavano i fuciloni adoperati ad Adua e nelle guerre coloniali. La grande svolta avviene quando cominciano a occuparsene gli americani e il loro servizio Oss nei primi mesi del 1945, quando cioè si pensa che i partigiani potranno partecipare all'offensiva finale di primavera. Ricordo che eravamo a Monforte da Felicin quando arrivò Paolo con gli occhi fuori dalla testa: "Hanno trasmesso il messaggio", gridava, "lo ha sentito Nino, giura che lo ha sentito". Gli chiedo: "Quand'è la prossima trasmissione di Radio Londra?". "Stasera alle sei." "Va bene, ma prepariamo tutto: le fascine, la lampada per le segnalazioni. Molte fascine disposte come una elle, cinquanta metri sul lato lungo, dieci su quello corto. La lampada per le segnalazioni ce l'ha Lorenzino. Avvisatelo. Ordine ai comandanti di banda di venire subito al campo di lancio. Abbiamo scelto una conca a tre chilometri da Monforte, dove una vigna è stata spiantata e si può manovrare con i buoi della cascina vicina. I comandanti di banda arrivano. "Tu Andrea," dico, "piazza qui tre mitragliatrici. Chiunque si faccia avanti sparagli." "Anche ai garibaldini?" "Beh, qualche raffica in alto per spaventarli." Arriva Lorenzino, il contadino della cascina vicina: "Basteranno i tuoi quattro buoi?", gli chiedo. "Ma sì," dice lui, "al massimo butteranno una decina di bidoni." Torniamo a Monforte da Felicin per sentire la radio. Le notizie sulla guerra non finiscono più e finalmente i messaggi speciali: "Il sole sorge ancora", "Luigi va in campagna", "L'albero è fiorito". Cacciamo un urlo tutti assieme: "L'albero è fiorito", il nostro. Era l'ora. È da un mese che la Franchi ha trasmesso agli alleati le nostre coordinate. Ultime disposizioni: "Nessuno si muova prima di notte. Se i garibaldini ci vedono nella conca capiscono e si fanno sotto". "Ma le fascine e la lampada quando le portiamo?" "Tenetele pronte sotto il portico di Lorenzino." Andai come al solito al Caffè Commercio di Monchiero dove c'era il comando garibaldino. Sì, era meglio andarci, non dovevano insospettirsi. Non hanno mica torto i garibaldini, poveri cristi, a loro di lanci ne fanno pochissimi. Stavolta qualche arma gliela passiamo, ma deve essere nostra la prima scelta. Parliamo come al solito del petrolio agricolo e di come raffinarlo per poterlo usare nelle auto e nelle moto. Studiavamo i filtri per togliere l'unto della nafta. Nanni si era fissato sull'acetone: "Voglio provare l'acetone", ripeteva. "Alla Ferrania ne troviamo quanto ne vogliamo." Lo salutai che annottava. Mi ero portato da Lorenzino la squadra comando; uomini fidati per il recupero del bidone con la striscia rossa, il famoso bidone dei lanci con le sigarette e i soldi. Forse la voce era arrivata anche ai contadini. Venne la mezzanotte ed era di gelo e di stelle. "Non arrivano più," dicevo io e Lorenzino si arrabbiava: "Vengono, devono venire", diceva e mi passava la bottiglia, "bevine un po' che ti calma". Così si fecero le due, ed eravamo un po' più di là che di qua a forza di calmarci con il vino quando si udì un ronzio lontano, guai a farcelo scappare e io scattai fuori urlando, il fuoco, il fuoco alle fascine, e nel buio si vedevano passare correndo per il prato coperto da una crosta di neve ghiacciata i nostri partigiani mentre Lorenzino gridava: "Il petrolio, spargete il petrolio". Le fiamme si alzavano a elle mentre il ronzio diventava sempre più forte, sempre più vicino e finalmente si videro nel cielo sopra le loro lampade palpitanti i grandi aerei bassissimi. Erano otto, otto Liberator e quando si misero a girare sopra il nostro segnale li vedevamo a occhio nudo nella luce della luna; otto grandi bestioni d'argento uno così basso che portò via con il carrello la croce del santuario sopra Monchiero. E già nel cielo si vedevano ondeggiare otto, dieci paracadute con i sigari dei bidoni sotto di loro. I buoi di Lorenzino non bastavano, si fecero arrivare i buoi di altre cascine, quando finirono anche le fascine e Lorenzino me lo disse gli urlai come un invasato: "Le candele. Fate il segnale con le candele, una linea e tre punti". E funzionavano anche le candele, i fiori bianchi, gialli, azzurri dei paracadute continuavano a scendere. "Siamo già a settanta," diceva Lorenzino. Alle tre passate, le mitragliatrici di Andrea attorno alla conca avvisarono che i garibaldini erano arrivati ma non c'erano solo loro: c'erano anche i langaroli, o langhetti, delle cascine circostanti, anche loro a rischiare la pelle per il bidone con la striscia rossa dei soldi e delle Lucky Strike. E continuavano a lanciare, eravamo già sopra i cento bidoni. Arrivò Mario della squadra comando. "Lo abbiamo trovato," disse a proposito del bidone con il cerchio rosso, "i soldi ci sono ma le sigarette no." "Fa niente," dicevo, "le troveremo, cercheranno di venderle." I bestioni del cielo se ne andarono a lavoro finito. I bidoni erano centottanta e non si poteva certo nasconderli. Lavorammo fino al mattino per aprirli e per distribuire subito le armi alle bande, un centinaio di Sten, venti mitragliatori leggeri, un cannoncino anticarro subito montato nell'aia, trenta mitragliatrici americane e dodici Bren inglesi. Arrivò Piero gridando che c'era anche la benzina. Erano quattro colli di una materia trasparente, la plastica che allora in Italia non c'era. A Nanni dissi che avevano lanciato una montagna di esplosivo ma poche armi. Fece finta di crederci e ringraziò quando gli regalai una delle sacche di plastica. Solo esplosivo in centottanta bidoni? Delle armi che ci avevano lanciato volli tenere di riserva i dodici Bren. Li feci nascondere nella cappella del Belvedere dove c'era un soppalco proprio dietro l'altare. Non so come Nanni lo abbia saputo, ma cinque giorni dopo il soppalco era vuoto.

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Pagina 143

Pozzo, Meazza e Piola



L'estate rovente dei mondiali di calcio arriva per ogni generazione di italiani, riempie le piazze di bandiere e di follia, di occhi dilatati e di urla, di democrazia totale, capi dello stato e poveracci con il cappello di carta dei muratori, ambulanti, mendicanti. Tutti insieme, travolti da quell'irresistibile rialzo del tono della vita delle notti "magiche", dei cortei cittadini, nel rimbombo dei clacson. La marea dei simpatizzanti e le minoranze maniacali degli antipatizzanti, i gruppetti che tifano contro.

Ai miei tempi gli amici di Cancogni e di Fusco, gli anarchici della Versilia, oggi quelli della Lega riuniti nei dopolavoro di Lecco o di Garbagnate a tifare Germania federale contro gli azzurri. Qualcosa comunque da non prendere sul serio perché la nazionale di calcio è davvero nazionale, è la nostra storia, la nostra potenza. Quattro volte campione del mondo, sei volte finalista dei campionati mondiali, o candidata alla vittoria o impegnata nelle ricostruzioni dopo le batoste. Ci fu un commissario tecnico, il romano Bernardini che, per rimetterla in piedi, convocò un centinaio di giocatori, come i consoli che battevano il piede nelle terre del Bruzio o del Piceno e facevano rinascere gli eserciti.

Il mio rapporto magico e isterico, indissolubile e irragionevole, meraviglioso con la nazionale di calcio dura dai tempi in cui si recitava come un rosario la formazione sacra: Combi Rosetta Caligaris, una litania dei santi, Pietro, Paolo, Giovanni. Ed è passato attraverso tutti gli eroi delle rivincite, i Meazza e i Piola degli anni trenta. Il Baggio divin codino, il Riva rombo di tuono, gli abatini Rivera e Mazzola su fino all'apoteosi del 1982, con il più italiano degli azzurri, il Paolo Rossi che inchioda gli avversari con i suoi gol fulminei come stilettate e alla vittoria inattesa del 2006.

Ma la nazionale di calcio della mia vita è stata quella bicampione del mondo degli anni trenta, una combinazione di potenza e di povertà, di mondialismo e di provincialismo, di orgoglio e di modestia. Se ripenso ai raduni di quella nazionale nella mia città, a Cuneo, faccio fatica a credere in tanta modestia. La imponeva Vittorio Pozzo, un tipo di alpino e salesiano arrivato chissà come alla guida degli azzurri senza essere né un allenatore di professione né un burocrate dello sport, ma semplicemente un piemontese risorgimentale ciecamente convinto delle virtù piemontesi. Uno di quelli per cui la parola sacra è "el travail". Già allora i campioni del calcio avevano degli stipendi altissimi rispetto a quelli normali e lussi e piaceri da ricchi. Ma Pozzo li considerava dei soldati e li trattava come degli operai.

L'albergo che aveva scelto per loro era di quelli che oggi sono a una o due stelle: senza garage, senza ascensore, senza sala per i convegni, con i lettini che cigolano nelle stanze a due letti, ed era lui a decidere chi doveva dividerle con chi. Era un alberghetto nuovo dalle parti della stazione nuova, quella con il faro, un tubo di cemento alto una cinquantina di metri che faceva pensare ai lampioni della aneddotica cuneese accesi di giorno per le visite del re, lo stesso che se chiedeva una pianta della città gli mostravano un pino. E penso che avesse ordinato ai giocatori di arrivare a Cuneo in ferrovia perché davanti all'albergo non si vedevano le auto di lusso che già allora piacevano ai campioni.

L'albergo aveva un piccolo dehors cintato da siepi di mirto attorno a cui stavano i tifosi e i curiosi ma senza disturbare, secondo le raccomandazioni che Vittorio Pozzo aveva impartito. Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti.

Ricordo il mattino che stavo in piazza Vittorio e d'improvviso dai portici dove passa la tramvia per Borgo San Dalmazzo e la Valle Stura esce in formazione di ordine chiuso il plotone degli azzurri, tutti nell'uniforme blu con cravatta reggimentale. In testa Pozzo seguito da Meazza e Piola con la corona di fiori. Nella grande piazza rettangolare il plotone prende la diagonale che porta all'uscita del ristorante Tre Citroni e del Caffè Alfieri.

Inquadrati e al passo verso il monumento all'alpino che sta nei giardini pubblici, il micromonumento con l'alpino ignoto di piccola statura che sta in tutti i giardini pubblici delle città piemontesi, per non parlare di quelle liguri e toscane che sono anche più avare nelle misure. La posa della corona, tutti sugli attenti e dietrofront si torna al campo sportivo Monviso per le due ore di ginnastica del mattino. La partitella di allenamento, dato il caldo, si svolgeva nel tardo pomeriggio ma noi ragazzi eravamo già davanti l'albergo da ore, ciascuno con il suo campione prenotato per portargli la valigetta con mutandine e scarpe bullonate. E sembrava naturale, molto piemontese, molto alpino che gli azzurri non avessero un pulmino per fare il chilometro fra l'albergo e il campo sportivo, e che non ci fosse un servizio di lavanderia negli spogliatoi e che ognuno badasse a se stesso facendo portare la valigetta dai tifosi. Ma quella modestia era naturale in una città dove il legno era ancora dominante, di legno i banchi del mercato e delle scuole su cui generazioni di alunni avevano scavato canyon meravigliosi con i colori della valle di Giosafat e del Mar Morto, blu scuro, argentei, violacei.

I pennini rotti e piantati per ricavarne musiche meravigliose che invano i professori cercavano di far tacere. Se ci penso ho una misura della mia lunghissima vita: sono uno che ha fatto in tempo ad andare in vacanza in montagna su una diligenza a cavalli affittata con il vetturino dal carrettiere Cuniberti, di origine burgunda immagino. Notti magiche, ma anche giorni di dissociazioni di massa, di irrazionalità dominanti, di pulsioni folli, di ipocrisie gigantesche. Nello stesso giorno milioni di concittadini seguono in crescente delirio la vittoria degli azzurri sulla Germania. Nell'occasione da entrambe le parti si è ricorsi alle inimicizie e alle accuse più infantili e banali: ipocriti, mangiatori di pizze, ubriaconi di birra, mandolinisti. Come se il ritorno alle faziosità infantili delle masse sportive preferisse alla ferocia reale e recente della storia le risse da fiera e da baraccone.

Popoli come il tedesco e l'italiano che si sono scannati nei venti mesi dell'occupazione nazista, della Resistenza, del collaborazionismo, divisi dal calcio non trovano di meglio che accapigliarsi sul folclore, sui luoghi comuni, sui cibi e bevande. E sullo sfondo una fuga dalla realtà, un ricorso a giustizialismi assurdi, una caccia alle streghe, una comparsa di stregoni ed esorcisti: quelli che scoprono l'inferno del calcio, quelli che vogliono guarirne il marcio in modo chirurgico, quelli che invocano la purificazione fingendo di ignorare che il calcio come tutto il resto del nostro modo di essere, di vivere è dominato dalla ricerca ossessiva del denaro, dall'uso asfissiante della pubblicità pansessuale, con il ricorso alle retoriche più viete. Abbiamo partecipato in questi giorni ardenti e irruenti dietro una palla di cuoio che va dove vuole, a recite dell'assurdo incredibili.

Un'operazione colossale di immagini, notizie, riti e miti è riuscita a dividere, a separare come incomunicabili due mondi, in realtà permeati l'uno dell'altro. Il mondo dei campioni che si disputano il primato sportivo e quello dei burocrati e affaristi che gravita sul calcio come affare. Il primo popolato da atleti giovani, belli e innocenti da adorare, da imitare, da celebrare, il secondo da parassiti, da ladri, da delinquenti. Ma siccome la ragione queste semplificazioni non le consente, finisce che la separazione fra gli atleti innocenti e i dirigenti mascalzoni si risolve in un macello generale. Gli atleti eroi della Juventus e del Milan che hanno ottenuto sul campo la vittoria sportiva vengono retrocessi, multati, penalizzati, accusatori impietosi e presuntuosi falciano tutti i fiori del campo pur sapendo benissimo che immaginare un calcio onesto e disinteressato in una società avida e marcia è una pura illusione. Ma come effetto palingenetico questa assurdità, queste contraddizioni fanno il loro effetto, il loro grande rumore. Sono uno degli aspetti di una transizione in cui non si sa in cosa credere, come e in che cosa identificarsi. Quale lingua parlare, quale scienza usare.

Notti magiche, notti roventi. La riscoperta di un nazionalismo senza nazione, di un patriottismo senza patria, di un'etica senza morale. Un caos appassionante dietro una palla che va dove vuole.

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