Copertina
Autore Remo Bodei
Titolo Paesaggi sublimi
SottotitoloGli uomini davanti alla natura selvaggia
EdizioneBompiani, Milano, 2008, Grandi pasSaggi , pag. 246, cop.ril.sov., dim. 14,5x20,5x2,3 cm , Isbn 978-88-452-6138-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe natura , storia letteraria , montagna , mare
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                  7

PARTE I - SFIDA ALLA NATURA                  11

I - Crescere su se stessi                    13
    Luoghi orridi e luoghi ameni             13
    Dal bello al sublime                     18
    Orgoglio e sgomento                      24
    Natura sublime                           29
    Dare consistenza a se stessi             34
    Et in Arcadia                            38
    La morte e l'autoconservazione           41
    Lo specchio della nostra grandezza       47

II - Il buio oltre la siepe                  55
    Il piacere e i limiti                    55
    Le situazioni romantiche                 59
    Bellezza vaga                            64
    La fine di una parabola                  69

PARTE II - I LUOGHI DEL SUBLIME              73

I - Montagne                                 75
    Dalla paura alla scoperta                75
    Mont Blanc                               79
    Il fiore azzurro                         84

II - Oceani                                  89
    L'elemento infido                        89
    Non c'è ritorno                          96

III - Foreste                               101
    Ingens sylva                            101
    L'erba e il cielo                       104

IV - Vulcani                                113
    La neve e il fuoco                      113
    Sterminator Vesevo                      118

V - Deserti                                 127
    Pericoli e fascino dei deserti          127
    Dove incontrare se stessi               130
    Terra di eternità                       137

PARTE III - MIGRAZIONI DEL SUBLIME          143

I - Dalla natura alla storia                145
    È finito lo slancio verso l'alto?       145
    Il sublime intramondano                 153
    Speranze e frustrazioni                 158
    Il sublime politico moderno             161
    Banalità sublimi                        163
    Reagenti                                169
    Plus ultra                              178

NOTE                                        183

INDICE DEI NOMI                             231


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

CAPITOLO I
Crescere su se stessi



Luoghi orridi e luoghi ameni

Nella primavera del 53 a.C., il generale romano Crasso, che sta conducendo una spedizione contro i Parti, è indotto da un traditore a spingere le sue sette legioni in una zona desertica. Questo il racconto di Plutarco: "Abgaro convinse Crasso a lasciare il fiume e lo guidava attraverso le pianure, per una via comoda e facile all'inizio, poi però faticosa, quando succedettero sabbie profonde, e pianure senz'alberi né acqua, di cui non si poteva percepire da nessuna parte la fine. Quindi non solo la sete e la difficoltà della marcia fiaccavano le truppe, ma le scoraggiava anche l'aspetto desolato del paesaggio, dove non si vedeva una pianta, non un ruscello, non la prominenza di un monte declive, non un filo d'erba germogliante; invece, come un mare ondeggiante di dune desertiche e nient'altro avvolgeva l'esercito." Questo deserto, illimitato e indistinto, disorientante e minaccioso, spaventa i soldati, che vengono, per giunta, così scherniti dalla falsa guida: "Ma voi pensate di viaggiare per la Campania! Ne cercate l'ininterrotto susseguirsi delle sorgenti, dei boschetti ombrosi, dei lavacri; e le locande! Non ricordate di attraversare quelli che sono i confini fra gli Arabi e gli Assiri?"

Il testo di Plutarco inserisce in un evento storico la contrapposizione — ben nota al mondo romano — tra loci horridi e loci amoeni, i primi esemplarmente rappresentati dal deserto, i secondi dalla Campania felix. I loci horridi sono sterili, pericolosi, vasti e desolati. Evocano la morte e provocano paura e sgomento. Oltre ai deserti, includono gli oceani, l'alta montagna, le selve inviolate e i vulcani. Sono percepiti come privi di proporzione e di armonia e, di conseguenza, lontani dagli ideali dominanti di bellezza in quanto, appunto, armonia, proporzione, simmetria, calcolabilità e presenza di limiti precisamente individuabili. Colpisce il loro carattere informe, l'incommensurabilità, la vastità. Queste zone che sfuggono al dominio dell'uomo, non sono certo visitate per piacere, ma percorse per ragioni di forza maggiore: di natura militare (per scovare un passaggio attraverso cui irrompere inaspettati sui nemici), commerciale (per conseguire rischiosi guadagni) o, più raramente, religiosa (per andare in pellegrinaggio ad ascoltare l'oracolo in un'oasi o in una foresta).

Il locus amoenus, con i suoi boschetti ombrosi, l'abbondanza d'acqua (lavacri, sorgenti cristalline, mormorio di ruscelli, ninfei), i prati fioriti come in un'eterna primavera, le erbe rare e gli alberi carichi di frutti, è invece propizio all' otium, alla serenità, all'amore e alla saggezza. È ospitale, tranquillo e adatto tanto alla dolce solitudine che all'incontro tra amici e amanti. È su questo sfondo che Socrate, disteso all'ombra di un maestoso platano, discute nel Fedro con Lisia. È qui che i ricchi romani si ritirano per sfuggire al caos delle metropoli e a un'esistenza divenuta complessa e burocratizzata. Per chi resta in città, essi costituiscono un' enclave entro le mura urbane o nelle immediate periferie, dove offrono un sollievo reale in forma di giardini pubblici e un piacere immaginario nelle passeggiate coperte (ambulacra), le cui pareti dipinte mostrano "porti, promontori, spiagge, fiumi, sorgenti, stretti di mare, santuari, boschi sacri, montagne, greggi, pastori".

Per gli antichi — e per i Romani in particolare — gradevoli e belli sono unicamente i luoghi della fecondità, dell'assenza di pericoli, della tranquillità e della presenza umana: la terra fertile — che produce tutto con dovizia nei campi coltivati, nei frutteti, nelle vigne, nei giardini, nei boschetti —, le strade, i ponti, i porti. Tutto è posto sotto la volta di un cielo limpido e di un clima mite, ben diversi da quelli delle regioni desolate, dove la natura è invitta e la sopravvivenza degli uomini civilizzati continuamente minacciata. Le vaste distese incolte, le solitudines, abitate dalle fiere, dai selvaggi, dai barbari o dai briganti, costituiscono, al contrario, un ostacolo all'espansione della civiltà e non sono affatto degne di apprezzamento estetico, ma esclusivamente di repulsione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

Dal bello al sublime

Ma quando e per quali ragioni è avvenuto il capovolgimento di gusti che ha trasformato i luoghi orridi in luoghi "sublimi", dotati di una bellezza intensa, ambigua e inquietante, che nello stesso tempo attrae e allontana da sé, che seduce e ripugna, che esalta e incute rispetto con la sua tremenda maestà? Un simile cambiamento presuppone una radicale trasformazione dei modi di sentire e di immaginare, tale da non riguardare soltanto l'estetica. Quest'ultima ne è anzi il reagente che segnala una svolta nella civiltà occidentale: il tentativo dell'uomo di costruire se stesso mettendosi a confronto non più direttamente con Dio, attraverso la preghiera e l'ascesi, ma agonisticamente con la natura indomita e selvaggia, allo scopo di rispecchiarsi in essa e vedersi intellettualmente e moralmente superiore. È questo un processo che ha implicato una metamorfosi, oltre che delle idee, anche della percezione. Nella loro fisiologia i sensi umani — in special modo la vista — non sono certo cambiati nel corso degli oltre due millenni trascorsi dall'antichità classica agli inizi del Settecento, quando tale mutamento si produce. Lo sguardo però non è mai innocente: noi non vediamo solo con gli occhi, sia perché — come sosteneva Wittgenstein — "in ogni percezione echeggia un pensiero", sia perché l'occhio "è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni vecchie e nuove, che gli vengono dall'orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello", ossia dai bisogni e aspettative dell'individuo e dai parametri culturali trasmessigli dalla società in cui vive. Il paesaggio non è natura: è cultura proiettata su montagne, oceani, foreste, vulcani e deserti.

Il sublime deforma le armonie e le proporzioni del bello stabilite dall'estetica classica; rimette in gioco il rapporto con l'incommensurabile, lo smisurato, l'assenza di limiti e di strutture; rifiuta di cristallizzare la sensazione e l'immaginazione in forme rigide e compiute; implica una progressiva derubricazione del bello a qualcosa di gradevole, che non coinvolge intense emozioni (si torna così all'originario significato etimologico di bellus, contrazione di *bonulus: carino, grazioso, ma non eccelso). La conseguenza è quella di degradare e respingere ai bordi della cultura dominante l'idea di bellezza come divina proporzione (che si conserva solo nella musica, dove il massimo di rigore matematico si accompagna con il massimo di pathos e il massimo di esattezza con il massimo di vaghezza, mentre si offusca nelle altre arti). Abituati come siamo a immaginarci l'artista soggetto unicamente al proprio genio e in preda al tormento e all'estasi della creazione, può oggi sembrare strano che per lunghissimo tempo il bello sia stato considerato calcolabile e misurabile secondo criteri razionali. Eppure, con il vero e il buono, il bello formava quella trinità basata sulla misura e sul giusto mezzo che è stata definitivamente disarticolata, alla metà del Settecento, quando Baumgarten con la sua Aesthetica ha fissato la differenza tra la chiarezza e distinzione delle categorie logiche e la chiarezza indistinta delle espressioni artistiche e quando, alla fine dell'Ottocento, si è insistito sull'autonomia dell'arte, sottraendola alla funzione di philosophia inferior o di adescamento emotivo volto a propagandare messaggi morali, religiosi o politici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 89

CAPITOLO II
Oceani



L'elemento infido

Il mare è stato spesso considerato nella nostra tradizione un elemento ostile, un confine naturale, che l'uomo, animale terrestre dotato di gambe come mezzi di locomozione e di polmoni per respirare l'aria, può infrangere solo a costo di commettere un atto di hybris. In un mondo perfetto, quello della creazione prima del Diluvio, il mare non c'era e, secondo gli Ebrei, non ci sarà neppure dopo l'avvento del Messia. Già nell'età dell'oro e nei Saturnia regna della mitologia pagana esso era, del resto, assente, perché la terra offriva spontaneamente tutti i suoi prodotti e non era necessario che le navi solcassero le acque per scambiare le merci.

Il mare aperto, e soprattutto l'Oceano, sconfinato e a lungo inesplorato, continua per molto tempo a incutere spavento, e non solo a chi è abituato alla terra ferma. Jules Michelet apre il suo classico libro Il mare con l'affermazione di un vecchio marinaio olandese, secondo il quale "la prima impressione che se ne riceve è la paura. L'acqua, per ogni essere terrestre, è l'elemento ostile e non respirabile, l'elemento dell'asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa irrimediabilmente i due mondi. Non ci meravigliamo se l'enorme massa d'acqua che si chiama mare, sconosciuta e tenebrosa nel suo profondo spessore, sia apparsa sempre temibile all'immaginazione umane. Questo abisso liquido di acque amare, questa sterile distesa, contrapposta al suolo coltivabile, questa superficie agitata e senza strade tracciate si associa intimamente all'idea del rischio e dell'ignoto. Paura e avventura costituiscono grandi sorgenti di miti, perché entrano nella struttura stessa della vita umana, sempre esposta al fallimento e al naufragio, sempre in viaggio dal noto all'ignoto, dal passato all'avvenire attraverso la traballante passerella del presente. Occorre coraggio per affrontare pericoli sconosciuti, ma anche fedeltà a se stessi e al proprio passato, capacità di ritornare a sé dopo ogni proiezione verso l'esterno.

L'esperienza umana si presenta fin dalle origini della nostra civiltà scritta, anzi della sua primitiva tradizione orale, legata al viaggio per mare che il singolo compie, alla navigatio vitae come metafora stessa della precarietà dell'esistenza individuale e collettiva. E la caratteristica del viaggio è di essere un movimento sia nel tempo che nello spazio, così come la vita individuale è una vita nel tempo che si colloca nello spazio. Ciascuno nasce casualmente in un certo luogo e in una certa epoca. Di ogni bambino si sa già che sarà esposto, se vive abbastanza a lungo, a tutta una serie di peripezie e di pericoli ignoti lungo rotte non tracciate. Tra la casuale partenza e l'arrivo del viaggio della vita si pongono una serie di tappe da superare. L'uomo, animale di terra ferma, si rappresenta fin dalle epoche più antiche l'esistenza del singolo come una navigazione su quell'elemento infido che è l'acqua, esposto a rischi opposti, come le tempeste o le bonacce.

Per questo gli uomini erano contenti della loro porzione di terra e non conoscevano niente al di là delle loro coste: nullaque mortales praeter sua litora norant. L'idea dell'inimicizia tra il mare e l'uomo costituiva non solo un topos letterario, ma anche un normale tema di disputa nelle scuole di retorica. Sin dall'Esiodo de Le opere e i giorni, il mare rappresentava, simultaneamente, un fattore di pericolo e l'espressione della cupidigia di mercanti e marinai che anteponevano il guadagno alla lontananza da casa e alla sicurezza della loro vita. Come dice efficacemente Boezio, la bollente cupidigia di possesso arde [nell'animo umano] più crudele, selvaggia del fuoco dell'Etna, saevior ignibus Aetnae / fervens amor ardet habendi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 99

[...] Per alcune figure mitiche – come l'Ebreo Errante o l'Olandese Volante, condannate ad un viaggio senza fine – vige un esilio perpetuo, un vagare o un navigare che nega loro ogni ritorno a casa o in porto, una condizione che si ritrova anche in un personaggio di Kafka, che compie un viaggio che prosegue oltre la morte.

Il nuovo compito consiste non nel giungere in un porto sicuro (perché non vi sono più punti di approdo, in quanto ogni vita individuale è costitutivamente inconclusa e ogni civiltà essenzialmente incompiuta), ma nel navigare all'infinito. Non dobbiamo desiderare il rientro nelle acque calme di un porto, ma continuare ad andare avanti, anche non conoscendo la meta e anche se le tempeste precedenti hanno rovinato la nave. Bisogna abituarsi a questa condizione, considerarla normale, così come suggerisce Bergson: "Dinanzi allo spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di noi saranno presi da vertigini. Il fatto è che sono abituati alla terra ferma; non possono avvezzarsi al rollio e al beccheggio. Hanno bisogno di punti 'fissi' ai quali appendere il pensiero e l'esistenza. Essi credono che se tutto passa, niente esista; e che, se il reale è mobilità, esso non è già più nel momento in cui lo si pensa, è sfuggito al pensiero. Il mondo materiale, dicono, viene a dissolversi e lo spirito ad annegare nel flusso torrentizio delle cose. Si tranquillizzino! Se consentiranno a guardarlo direttamente, senza veli interposti, il cambiamento apparirà loro ben presto come ciò che può esservi al mondo di più sostanziale e di più durevole." Ma questa assuefazione non contribuisce forse all'ottundersi del sentimento del sublime, sottraendogli quegli ingredienti essenziali che sono l'incertezza e la paura?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 134

Il deserto, con la sua minaccia alla sopravvivenza e con l'incombere dell'ignoto, che spinge gli audaci all'avventura — letteralmente alle cose future (ad ventura), sia come anticipazione del futuro eterno del paradiso, sia del futuro temporale —, è anch'esso luogo di ascesi, di privazioni che purificano ed elevano l'animo, di incontro con la parte migliore di se stessi, di risveglio del sentimento dell'infinito. La solitudine (come accade, del resto, in altri luoghi sublimi, quali la montagna e l'oceano) favorisce la concentrazione, la contemplazione e la preghiera. "Leviga l'anima", le permette di distinguere esattamente l'essenziale dall'inessenziale, la pone a contatto con gli elementi non addomesticati dall'uomo, con il corpo scarnificato della terra, con la "crosta terrestre". È un arido nulla, il nudo ed essenziale zoccolo minerale che precede la comparsa degli organismi vegetali e animali o segna la loro scomparsa nel fondo di evaporati mari primordiali. Nella sua impassibile semplicità, rimette in questione la vita e il suo senso, rivelandone l'accidentalità e la fragilità.

Per chi contempla e ama "queste montagne a brandelli, queste sabbie e fiumi morti, queste pietre e questo duro sole", il paesaggio esteriore viene annesso allo "spazio del dentro". Si crea così un deserto nel deserto. Per uno scambio di tipo kantiano, il deserto ci fa conoscere meglio il sublime che è in noi, ci rivela immediatamente a noi stessi. Ciò vale soprattutto di notte, quando nel suo clima estremamente secco le stelle brillano più luminose e distinte che in qualsiasi altra parte del globo, dando maggior spessore alle domande insolubili che riguardano il significato del nostro vivere. Il silenzio, il vuoto, la solitudine aprono l'animo a spazi muti e illimitati, dove l'immaginazione si perde. Allora, pur avvertendo come povera e insignificante l'esistenza umana rispetto al cosmo nella sua grandezza e potenza, nasce in chi contempla un confuso sentimento di gratitudine per aver avuto in sorte la possibilità di godere di questo spettacolo, sperduti nell'altro firmamento terrestre costituito da infiniti, scintillanti granelli di sabbia. O, abbandonato il principio di individuazione, di scoprire, alla maniera di Schopenhauer, da un lato, la nostra dipendenza dalle potenze della natura e la minaccia alla nostra sopravvivenza, dall'altro, il nostro distacco dal mondo come esseri razionali che lo contemplano dall'esterno: "Cerchiamo di immaginarci ora una tale contrada, spoglia di ogni vegetazione, tale che non vi si vedano che nude rocce: la volontà proverà ben presto un senso d'inquietudine dall'assenza assoluta di tutta la natura organica necessaria alla nostra sussistenza. Il deserto ha un aspetto terribile, e in esso il nostro stato d'animo diviene più tragico, sicché ci sarà impossibile elevarci ad uno stato di pura conoscenza senza un violento distacco dagli interessi della volontà; e per tutto il tempo in cui permarremo in tale stato, il sentimento del sublime dominerà nettamente in noi."

Antoine de Saint-Exupéry ha per anni "scelto il deserto» come paesaggio dell'anima, sorvolando il Sahara con un aereo postale da Tolosa a Dakar (esperienza descritta in Courier du Sud, del 1929, da cui nel 1936 è stato tratto il film Courier Sud di Pierre Billon, con sceneggiatura di Robert Bresson), ma trovandovisi anche involontariamente confinato assieme al suo meccanico quando il suo velivolo precipitò a quattrocento chilometri da ogni sorgente d'acqua, fra "vento, sabbia e stelle". Ha però dichiarato, in Terre des hommes (1939), che nel deserto, "scorza nuda" della Terra, non si è realmente mai soli, perché i sensi si acuiscono, la vita interiore diventa più intensa e, proprio quando si urta contro gli ostacoli alla sopravvivenza, si riconoscono i propri limiti all'interno del pianeta errante che abitiamo, nostro solo "ancoraggio" all'universo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 138

Il deserto rende incerte le percezioni più comuni e interroga la mente su quanto i sensi colgono. In questo ambiente, con l'abbaglio della luce diurna, il sentimento di eternità si intreccia talvolta a quello del déjà vu: "Il paesaggio desertico si presenta sempre al meglio nella mezza luce dell'alba o del crepuscolo. Il senso della distanza viene a mancare: una vicina altura può essere una lontana catena di monti, ogni piccolo particolare può assumere l'importanza di una variante significativa nel ripetitivo tema della regione. L'avvento del giorno promette un mutamento: soltanto quando la giornata è arrivata del tutto, chi osserva sospetta che sia la medesima, ritornata ancora una volta: quella stessa che ha vissuto per lungo tempo, più e più volte, sempre accecantemente vivida e non offuscata dal tempo."

Nell'aria tremula del deserto, il calore, la sete, il sudore che macera la pelle, la stanchezza e il variare della densità degli strati d'aria riproducono nei miraggi quei loci amoeni cui la logica del desiderio è capace di dar consistenza: oasi verdeggianti che galleggiano come arcipelaghi in un mare di sabbia, giardini incantati, fiumi maestosi, città piene di uomini, alberi e case. La vita, insomma. Pierre Loti ha sperimentato questa impressione, nel deserto, la cui "immensità sovrasta tutto": "Le dieci, l'ora in cui cominciano i miraggi. E dapprima appare un piccolo fresco ruscello, che sembra chiamarci, misterioso, tentatore, con i riflessi degli alberi nelle sue acque leggere. Poi, vicino o lontano, cominciano ad apparire gentili laghi ingannatori."

Il deserto si presenta spesso come un luogo magico, una specie di caleidoscopio di visioni e di emozioni. Lo stesso Pierre Loti, allora ufficiale di marina, pregusta l'attraversamento del Sahara sin dal suo arrivo al porto di Dakar ("gli occhi rivolti verso l'interno del paese, interrogavano l'immenso orizzonte delle sabbie"). Più tardi, mentre nel deserto imperversa un raro acquazzone e si trova sotto la protezione di una tenda, così racconta le proprie impressioni: "Tutto solo, ad un tratto, in mezzo ad un profondo silenzio, tranquillissimo dopo le agitazioni della giornata e deliziosamente riposato sopra il mio letto da campo, mi compiaccio nel rendermi consapevole delle grandi distese oscure che ci stanno intorno, che sono senza strade, senza case, senza ripari e senza abitanti. La pioggia sferza i teli stesi che costituiscono le mie muraglie ed il mio tetto, e sento il vento gemere."

La scoperta del sublime in luoghi lontani (oceani, foreste e deserti in particolare) costituisce per certi aspetti una ricaduta dell'espansione coloniale europea, amplificata dalla letteratura di viaggio e dai romanzieri (da Fromentin a Kipling, da Conrad a Loti, da Gide a Bénoit, da Saint-Exupéry a Malraux), che creano l'epica degli esploratori, dei navigatori, dei Tuareg o della Legione straniera. L'esotismo che ne scaturisce dipende anche dal fatto che l'avventura in questi luoghi e la vita nelle colonie permettevano ai bianchi di dare sfogo a quegli istinti e a quelle fantasie che in patria erano represse, di uscire da una routine deprimente, di aprire una porta sull'ignoto nel tentativo di annullare o ridurre la distanza tra la realtà e il desiderio. In molti vi era inoltre la confusa sensazione che "l'edificio della civiltà occidentale, quella struttura così pazientemente costruita, apparentemente tanto solida, e così suntuosamente ornata, si sarebbe liquefatta da un giorno all'altro, non lasciando di sé che una pozzanghera fangosa [...] noi partivamo per le nostre varie mete selvagge: io, diretto ai tropici e al circolo polare artico, con la convinzione che la barbarie fosse una specie di uccello da poter catturare con un pizzico di sale sulla coda».

Con la diffusione del turismo di massa, la virtuale scomparsa dei "viaggiatori" (quelli che, nel senso di Paul Bowles, si spostano lentamente da una parte all'altra del pianeta perché non appartengono a nessun posto e non accettano la propria civiltà come ovvia), la saturazione dei luoghi inesplorati e i telefoni satellitari, il deserto – in quanto solitudine, distanza dagli altri per incontrare se stessi – sembra essere mentalmente finito, diventato un surrogato di se stesso. Lo aveva già intuito Camus: "Non ci sono più deserti. Non ci sono più isole. Se ne sente tuttavia il bisogno. Per comprendere il mondo, bisogna talvolta distogliersene; per servire meglio gli uomini, tenersene a distanza. Ma dove trovare la solitudine necessaria alla forza, la respirazione lunga dove lo spirito si raccoglie e il coraggio si misura? Restano le grandi città."

Anche "gli spiriti liberi" dello Zarathustra di Nietzsche, che hanno abitato da sempre il deserto, "come signori del deserto", forse oggi non saprebbero più dove andare e come giungere a quell'"addomesticamento artistico dell'orribile" (künstliche Bändigung des Entsetzlichen) che è il sublime."

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 179

Può, dunque, la natura suscitare ancora un intenso sentimento sublime? Oltre alla contemplazione silenziosa, a occhio nudo, dei luoghi della Terra e del cielo stellato, resta sicuramente un ulteriore spazio aperto al potenziamento del sublime della natura: quello siderale, con i suoi corpi celesti già visitati dall'uomo e dalle sonde da lui inviate o con quei pianeti intravisti da potenti telescopi che possono diventare mete di futuri viaggi interplanetari e di una eventuale remota colonizzazione. Di questi temi è testimone e veicolo non solo la scienza, ma la fantascienza. Si pensi – per prendere solo due esempi significativi – a City di Clifford D. Simak, del 1952 (tradotto in italiano l'anno dopo con il titolo Anni senza fine) o ad alcuni racconti di Ray Bradbury contenuti in The Martian Chronicles, del 1950 (trad. it., Cronache marziane, 1954 e 1993).

Il romanzo di Simak narra la storia di un remoto futuro in cui gli uomini, costretti a emigrare dal loro pianeta, lasciano che la Terra sia successivamente dominata da canidi. Questi, discutendo attorno al fuoco, si chiedono se gli uomini siano davvero esistiti o rappresentino degli esseri leggendari. Solo un robot, ultimo residuo della presenza umana sulla Terra, sa cosa è veramente accaduto. Nell' Epilogo del 1972, un milione di anni dopo, la Terra – dove nel frattempo le formiche erano succedute ai canidi – si è trasformata in un cumulo di rovine, con l'estinzione di ogni vivente.

Sebbene non si tratti di un'opera di altissima qualità letteraria, la percezione del sublime nasce qui da un salto di scala, da un'approssimazione asintotica all'infinito del tempo e dello spazio, dalla loro estrema dilatazione – nell'ordine dei milioni di anni e di chilometri – e dal costringerci a riflettere sulla sorte della nostra specie, che, scaturita senza volerlo da oscuri meccanismi evolutivi, espatria e si perde nell'universo, mentre altri organismi ne prendono il posto per poi scomparire anch'essi in una buia voragine. Si ripropone qui un altro tema classico del sublime: quello delle rovine, del trionfo della caducità sulla civiltà, della natura impassibile che ricopre i manufatti umani di terra e vegetazione, trasformando gli edifici abbandonati in fori muscosi e antri cadenti. Ritornano alla mente le stampe di Piranesi e i versi leopardiani del finale de La sera del dì di festa: "Or dov'è il suono / Di que' popoli antichi? / Or dov'è il grido / De' nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio / Che n'andò per la terra e l'oceano? / Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / Il mondo, e più di lor non si ragiona".

Nel racconto La terza spedizione di Cronache marziane è invece l'illusione di ritrovare a Marte l'esatta riproduzione di una cittadina dell'Illinois degli anni venti del Novecento e di sperimentare l'ineffabile gioia dell'incontro degli astronauti con i propri cari, lì apparentemente vivi ma in realtà defunti da molti decenni, a porre il problema sublime della reversibilità del tempo e del nostro possibile ricongiungimento, al di là della morte, con le persone scomparse che abbiamo amato. In tale prospettiva la Terra non è più l'Itaca dell'agognato ritorno, perché il luogo del desiderio, sebbene in forma di miraggio, sta altrove e potrebbe essere dovunque. Il sublime consiste, in questo caso, nel decretare l'impossibilità del ritorno, nella peregrinazione infinita degli umani in un universo senza centro e senza periferia. A sua volta, l'avventura interplanetaria (che permetterebbe all'uomo di conoscere l'unicità del suo pianeta e forse della vita nell'intero cosmo) apre l'immaginazione all'esistenza, per quanto fantasmatica, di tanti altri mondi simili al nostro, come quelli ipotizzati nel 1871 da Auguste Blanqui in un suo libro bizzarro e visionario: "Esiste una terra in cui ogni uomo segue la strada che il suo sosia ha disprezzato nell'altra. La sua esistenza si sdoppia in due globi diversi, e poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Possiede così dei sosia identici e incalcolabili varianti di sosia, che sono la stessa persona moltiplicata, ma che condividono solo dei frammenti dello stesso destino. Tutto ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù, lo si è altrove, da qualche altra parte."

Il sublime naturale non è dunque scomparso, ma, per potenziarsi, resta in attesa di una ulteriore, eventuale ondata di proiezione degli uomini fuori dal loro habitat, possibile se e quando il loro sguardo verrà in parte distolto dai ben più assillanti problemi della Terra. Subendo un'ulteriore metamorfosi, i luoghi del sublime tenderanno allora a spostarsi sempre più in avanti, verso gli immensi spazi siderali e i "tempi profondi" del cosmo. Il passo fondamentale è stato compiuto nel momento in cui — lacerata quella placenta protettiva della biosfera che aveva tenuto gli uomini racchiusi nel loro pianeta — il primo rappresentante della loro specie è sbarcato sulla Luna, inaugurando così un'epopea analoga a quella della prima conquista del globo terraqueo.

Il sublime sembra quindi avere la capacità di risorgere in vesti sempre diverse. Per parafrasare il pittore e poeta inglese William Blake, più che a un pozzo che contiene una limitata quantità d'acqua, è paragonabile a una fontana che "tracima" continuamente di acqua sempre nuova. Il suo getto può variare, ma rappresenta pur sempre un viatico al nostro bisogno di non arrenderci alla piattezza del sentire, del desiderare e del pensare. Da questo punto di vista, il sublime non è altro che quell'eccedenza di senso, quell'invisibile ultravioletto verso cui ci spostiamo ogni volta che cerchiamo di sporgerci, trasformandoci, verso gli estremi e inesplorati confini della nostra esperienza.

| << |  <  |