Copertina
Autore Ferdinando Boero
Titolo Economia senza natura. La grande truffa
EdizioneCodice, Torino, 2012 , pag. 242, cop.fle., dim. 14x21,5x1,5 cm , Isbn 978-88-7578-291-7
LettoreLuca Vita, 2013
Classe economia , ecologia , evoluzione , sociologia , paesi: Italia: 2010 , universita'
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Indice


VII     Premessa

  3  1  Nella natura o fuori dalla natura?

 33  2  I1 sesso

 41  3  L'uomo inventa l'economia

 57  4  I modelli economici

 65  5  La decrescita

 79  6  Scenari futuri

 97  7  Generazioni bruciate

109  8  La valutazione della ricerca

123  9  La laurea in Italia

135 10  Violenza e astuzia

143 11  La burocrazia al potere

137 12  L'era dell'elettricità e delle comunicazioni

169 13  Ecologia ed economia

187 14  La storia insegna: merci e geni

199 15  A lezione dalla natura

221 16  Intanto... in Giappone

241     Epilogo


 

 

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Pagina VII

Premessa


Nel 1859 è stata pubblicata l' Origine delle specie , il libro più importante che sia mai stato scritto. Il libro che ha cambiato radicalmente il nostro modo di vedere il mondo.

La parola ecologia all'epoca non esisteva ancora, l'avrebbe coniata poco tempo dopo Ernst Haeckel. Non esisteva la parola, ma esisteva il concetto. E Darwin, quando parlava della disciplina che oggi chiamiamo ecologia, usava l'espressione economia della natura.

L'economia si riferisce alle nostre attività, a come produciamo e consumiamo acquisendo crediti e contraendo debiti. L'economia della natura ha a che fare con attività simili, perché anche in natura ci sono produttori e consumatori, e i sistemi naturali funzionano in modo simile a quelli economici. O sarà il contrario? Chi c'era prima? Noi o il resto della natura? La risposta è ovvia: il resto della natura. Quindi queste regole, quelle che normano produzione e consumo, sono regole naturali che nel corso del tempo abbiamo adattato al nostro vivere da uomini.

Prima abbiamo guardato dentro di noi (e abbiamo concepito l'economia) poi abbiamo guardato fuori (sviluppando l'economia della natura). Poi abbiamo cambiato parola, e l'economia della natura è diventata ecologia. Forse è stato un male. Se il termine fosse rimasto lo stesso (economia) forse sarebbe rimasto sempre evidente lo stretto legame dell'economia dell'uomo con quella della natura. Ma non si può tornare indietro. Le cose cambiano continuamente. Evolvono. Nulla rimane per sempre uguale. La natura cambia in continuazione, e così anche l'economia.

Ora il titolo di questo libro dovrebbe essere trasparente e chiaro. L'ecologia studia fenomeni naturali, l'economia fenomeni artificiali. Ma l'artificiale può permettersi di coniare leggi e regole differenti da quelle naturali?

Conoscere l'economia della natura (e quindi l'ecologia) potrebbe essere utile per capire l'economia? Io penso di sì. Tuttavia non è previsto l'insegnamento dell'ecologia (l'economia della natura) nei corsi di laurea in economia (dell'uomo), e gli economisti pensano che l'ecologia sia qualcosa di alieno alle loro necessità formative.

Questo libro argomenta un'unica tesi: l'uomo fa parte della natura e le regole che inventa sono alla fine soggette alle regole della natura. Tutto qui. Non sembra così ovvio? Eppure tutti i guai in cui ci siamo cacciati, e quelli in cui continuiamo a cacciarci, derivano dal non aver capito questo semplicissimo concetto.

Basta poco per convincere persino un economista che l'economia della natura prevale sull'economia dell'uomo. Qualche mese fa ero sul Leonardo Express, per andare da Fiumicino a Roma, e ho iniziato una discussione "da treno" con un amico incontrato lì per caso. Con lui c'era un signore molto serio che, per un po', è stato a sentire le mie elucubrazioni sull'ambiente e sull'uomo. Ma a un certo punto il mare di castronerie che (secondo lui) stavo dicendo ha superato il limite ed è sbottato: «Tutto questo va contro le leggi dell'economia, e non si può scherzare su queste cose! Si devono valutare i costi e i benefici, e su questo si decide! Il resto sono chiacchiere!». Io, ovviamente, chiedevo che nei costi fossero inclusi anche i costi ambientali, che gli economisti furbamente esternalizzano (una bella parola per dire che non li considerano: tanto li pagano gli altri) nelle loro analisi. In quel momento però non volevo rispondere con sottili ragionamenti, e mi è venuta in mente un'obiezione che ha annichilito il mio interlocutore: se le leggi dell'economia e quelle della natura entrano in conflitto, quali prevarranno? Fine della storia. Non possiamo essere così arroganti da pensare che siano quelle dell'economia a prevalere. Se infrangiamo le leggi della natura a favore di quelle dell'economia, la natura ce la farà pagare cara, carissima. Anche in termini economici. Vuoi costruire una città vicino a un vulcano? Poi non ti lamentare se ti ritrovi una colata di lava nel soggiorno (questa battuta l'ho copiata da George Carlin). Costruisci una ferrovia su un terreno franoso? Poi non lamentarti se viene portata via.

Siamo parte della natura, e non possiamo essere così arroganti da credere che sia lì al nostro servizio e che possiamo fare tutto quello che ci pare. Mi spiace, il mondo non funziona così. Dobbiamo conoscere la natura, dobbiamo rispettarla e adattarci ai suoi ritmi e alle sue leggi. Dobbiamo imparare tali leggi e dobbiamo costruire le nostre nel rispetto delle sue. Perché vengono prima.

Pensiamo di essere importanti e di poter dominare la natura, di poterla soggiogare ai nostri voleri, e se non si vuole assoggettare diciamo che è cattiva. Mi è rimasto in mente il concetto leopardiano di natura matrigna. Concetto profondo e più complesso di quanto io lo possa adesso banalizzare, ma è questo che rimane in mente: la natura è cattiva, perché non fa quel che ci attendiamo da lei. E se le cose non vanno come ci attendiamo (ci ritroviamo una gobba tra le spalle, non abbiamo successo nel corteggiamento o le due cose insieme), attribuiamo un volere malvagio alla natura.

Ma se vado in Africa e mi avvicino a un branco di leoni che mangiano una zebra, e quelli mi attaccano e mi mangiano, sono loro ad essere cattivi o sono io che sono scemo? Lo devo sapere che i leoni non si disturbano. Lo devo sapere che le case non si costruiscono sulle dune a dieci metri dal mare, o vicino a un vulcano, o sopra una frana. Di chi è la colpa se il vulcano, il mare, o la frana mi portano via la casa? Della natura?

Il mondo non è stato messo lì per soddisfare i nostri bisogni. Siamo di passaggio, e dobbiamo obbedire alle regole del gioco. Regole che purtroppo non sono insegnate a scuola né all'università. Economisti, ingegneri e tanti altri non conoscono le leggi della natura, perché non fanno parte dei loro programmi formativi. Se le conoscessero non ci avrebbero messo nei pasticci in cui ci troviamo ora. Intendiamoci, non sto dicendo di essere io a conoscerle. Ne conosco qualcuna, so che ci sono, che sono importanti, ma molte cose ancora ci sono ignote. Ci siamo concentrati troppo su noi stessi, e abbiamo perso il contatto con la realtà.

Non sono uno storico dell'economia, e neppure un economista. Sono uno zoologo e un ecologo-evoluzionista, un naturalista; e forse è un vantaggio. Cerco di capire regole naturali alle quali, volenti o nolenti, dobbiamo sottostare. Se qualche economista leggerà questo libro, sono convinto che lo troverà ingenuo nelle parti di sua competenza, e troverà di sicuro delle incongruenze, almeno rispetto a quanto ha studiato. Tuttavia, considerata la serie infinita di problemi che la sua categoria professionale ci sta facendo patire, visto che abbiamo seguito alla lettera i consigli dei suoi colleghi, forse potrebbe fargli sorgere qualche dubbio. Voglia perdonare i miei errori e cerchi di concentrarsi sulle parti che non sono di sua competenza (e sulle quali invece un pochino sono ferrato) e forse, partendo da nuovi dubbi, potrà trovare nuove strade. In modo da far sì che la nostra economia sia comunque un corollario di quella della natura, così che l'economia comprenda l'ecologia (che la capisca) e vi si faccia comprendere: nel senso che l'economia è tale solo se diventa "della natura". Se vi ho già convinti potete anche fare a meno di leggere il resto. Temo che il libro sarà letto per lo più da persone già convinte, quindi ho cercato di scriverlo in modo da non annoiarle troppo. Però l'ho scritto in modo che anche chi ha una cultura simile a quella di un economista possa capirlo. Non voglio offendere gli economisti, intendiamoci: voglio solo dire che tra i loro saperi l'ecologia, la scienza che studia la natura, non c'è. E non perché siano ignoranti e ne ignorino l'esistenza: non c'è perché l'hanno scientemente eliminata. Ecco, questo libro è stato scritto per loro. E per quanti, di loro, si fidano, cioè praticamente tutti.

Sui giornali di tutto il mondo, gli articoli di fondo sono spesso scritti da economisti. Quante volte ne avete letto uno scritto da un ecologo? Quasi mai. Questo libro, con molta presunzione, è stato scritto come un lunghissimo articolo di fondo.

Ovviamente l'ho scritto per cambiare il mondo, e ovviamente sono cosciente che non lo cambierà. Potrebbe però far venire qualche dubbio (l'ho già detto, ma voglio ripeterlo). E magari potrebbe persino far cambiare qualche idea.

Tutto quello che leggerete, a parte le cose che mi sono inventato per scopi retorici, è noto da tempo, almeno per alcuni. Ho solo cercato di mettere assieme cose risapute in modo che, dall'assemblaggio, venisse fuori qualcosa di leggermente differente dal risaputo. È tutto molto semplice, almeno così mi pare. Ho cercato di usare termini semplici e una prosa diretta. Avrei potuto scrivere questo libro in modo tecnico e forbito, per impressionare i miei colleghi con la mia padronanza della materia e renderlo incomprensibile agli altri che, per non palesare la propria ignoranza, lo avrebbero elogiato senza capirne gran che. Avrei potuto riempirlo di note in calce, magari raccolte tutte assieme alla fine del libro, scritte piccolissime, come le clausole dei contratti. Avrei potuto rimpinguarlo con riferimenti bibliografici dottissimi, farlo diventare un ponderoso e serissimo trattato. Ne scrivo anche io di queste cose, lo so fare. Ma non è questo l'intento e chiedo scusa a quanti si aspettano una supercazzola!

C'è qualcuno, tra i "normali", che legge tutte quelle noticine? Secondo me la maggior parte delle volte sono più criptiche del libro stesso, e non aiutano. Anzi, confondono ulteriormente le idee. Ho quindi deciso di eliminarle, insieme alla bibliografia e a tutti i supporti con cui di solito noi "studiosi" puntelliamo il nostro scrivere. Ho corso molti rischi nel farlo, ma non mi importa. Se ci sono cose che non si capiscono, vi prego, scrivetemi e comunicatemele. Se avete problemi di comprensione non sentitevi ignoranti, la responsabilità è mia perché non sono riuscito a spiegarmi in modo efficace. Se troverete ripetizioni, non irritatevi troppo. Preferisco non dare per scontato un concetto solo perché l'ho menzionato cinquanta pagine prima. Non pretendo che il lettore ricordi con precisione tutto quello che ho scritto.

C'è molta università in questo libro. Sarà perché insegno all'università? Penso che l'università sia lo strumento attraverso il quale una società istruisce chi dovrà avere mansioni di un certo livello e, visto che viviamo nell'era della conoscenza, sia il luogo per eccellenza dove si acquisisce nuova conoscenza (con la ricerca) e la si trasmette (con la didattica). È dall'università di un paese che si capisce quanto questo paese investe nel proprio futuro. Se la cosa non vi interessa, potete saltare a piè pari il capitolo dove ne parlo in modo più approfondito.

Di mestiere studio le meduse, e non sarò certo giudicato dai miei colleghi medusologi per questo scritto. So già a cosa penseranno alcuni: avresti potuto continuare con le tue meduse, di economia non ne sai nulla. Ma, ogni giorno, gente che non sa nulla di ambiente prende decisioni importanti proprio su questioni che riguardano l'ambiente, direttamente o indirettamente. Gli economisti, senza sapere alcunché di ecologia, influenzano drasticamente l'ambiente, la natura, che altro non è che l'oggetto di studio degli ecologi. E allora lasciate che, almeno una volta, un ecologo faccia altrettanto, in senso inverso.

Dopotutto le mie sono solo parole, la forza per i fatti non l'abbiamo. Ce l'hanno gli economisti e la responsabilità di quello che avviene è loro. Noi non facciamo che lanciare allarmi e siamo accusati di essere ostili al progresso. Cosa deve succedere ancora per far capire alla maggioranza di noi che il progresso fuori dall'ambiente non è progresso e che un'economia senza natura è solo una truffa?

E ora, buona lettura!

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Pagina 22

Evoluzione significa miglioramento?

Il concetto di evoluzione è molto utilizzato, ma siamo sicuri di sapere di che parliamo? Le meduse sono la mia passione. Sui libri c'è scritto che sono gli animali più primitivi, ma io penso che siano i più evoluti. Gli animali di oggi, o meglio gli antenati degli animali di oggi, quelli che hanno iniziato la storia della vita animale, si ritrovano nei resti fossili a partire da cinquecento milioni di anni fa. Le meduse fanno eccezione: loro erano presenti già in epoche antecedenti. La loro organizzazione regge alla selezione naturale più di quella di qualunque altro animale.

Quando chiedo ai miei studenti quale sia l'automobile più "evoluta" tutti mi rispondono citando la Ferrari; io allora continuo domandando quale sia il modello di automobile che dura da più di quarant'anni, con esemplari funzionanti che ancora sono adoperati tutti i giorni; gli studenti a quel punto ci pensano un po' e poi mi rispondono: la Cinquecento. Cos'è più evoluto, un animale che "dura" da più di cinquecento milioni di anni, semplice e non modificato, o uno che necessita sempre di ulteriori aggiustamenti evolutivi e che si complica sempre di più? Siamo più evoluti noi (sulla scena da pochissimo tempo, in termini evolutivi), o le meduse? Noi siamo molto complicati, le meduse sono molto semplici. La semplicità vince, ed è altamente probabile che le meduse saranno ancora in giro, così come sono ora, quando noi o non ci saremo più o saremo molto diversi da come siamo oggi.

È opinione comune che le cose complesse siano più evolute di quelle semplici, e io aggiungo: se funzionano meglio, a lungo termine. Di solito le organizzazioni molto complicate raggiungono un grande successo, ma poi crollano sotto il peso della loro complessità. Vi vengono i mente i dinosauri? Avete pensato bene! Potrebbero venirvi in mente anche le multinazionali.


La selezione naturale

La selezione naturale è l'intuizione chiave di Charles Robert Darwin, che deve dividere la gloria con Alfred Russell Wallace, che arrivò alle stesse conclusioni indipendentemente. La selezione naturale è talmente intuitiva e semplice che molti, dopo aver letto l' Origine delle specie si sono dati una botta sulla fronte e hanno detto: "Perché non ci ho pensato io? È così ovvio!". Ma a volte l'ovvio è così ovvio che ci sfugge. Vediamo cosa ha escogitato Darwin.

Guardandosi attorno, dopo aver fatto il giro del mondo, ha notato una cosa banale: gli organismi non sono tutti uguali, anche quelli che attribuiamo alla stessa specie, noi compresi. Esiste quindi una variabilità interna alle specie. La genetica, fondata da Mendel, era nell'aria, ma il valore di quelle scoperte non era ancora stato riconosciuto. Darwin non sapeva bene cosa determinasse le variazioni, ma era certo della loro esistenza. Ogni organismo è diverso dall'altro. Fu chiaro a questo punto il concetto di discendenza comune. Gli organismi si possono dividere in gruppi, con diversi legami di parentela; i più imparentati condividono un antenato comune che non è condiviso da altri organismi, più lontani tra loro dal punto di vista della discendenza. Tutto molto ovvio.

Poi Darwin, guardando quello che facevano gli allevatori, capì che la natura era essa stessa un allevatore. Gli allevatori identificavano caratteristiche a loro "convenienti" e facevano quindi riprodurre tra loro gli organismi che le possedevano. In questo modo le caratteristiche si trasmettevano alla discendenza. Darwin pensò che la natura facesse lo stesso e, alla selezione artificiale, contrappose quella naturale. Cosa provocava la selezione naturale? Presto detto: la selezione naturale avvantaggia chi è in grado di risolvere in modo migliore, rispetto agli altri individui della stessa specie, i problemi che la vita di tutti i giorni pone alla sopravvivenza. Chi meglio di altri riesce a procurarsi il cibo e a sfuggire ai predatori ha maggiori probabilità di sopravvivere (e quindi di essere "scelto" dalla selezione naturale). Chi è meno efficiente ha meno successo, ed è selezionato negativamente: modo gentile per dire che muore di fame o vittima di malattie o predatori.

La natura premia chi sa affrontare adeguatamente i problemi che essa pone, e punisce chi non è in grado di farlo. Si tratta di una cosa talmente ovvia che tutti quelli che volevano capire, capirono. L'origine delle specie diventò un best seller e la prima edizione andò esaurita in una settimana. L'idea di Darwin, però, era molto pericolosa perché minava le convinzioni religiose in voga all'epoca, e tuttora seguite da moltissime persone. Darwin lo sapeva e per anni aveva evitato di pubblicare il suo libro, ma alla fine cedette perché altri erano arrivati alla sua stessa convinzione e non voleva perdere l'occasione di diventare lo scienziato più influente della storia dell'umanità.


Competizione

Riuscire a risolvere i problemi posti dall'ambiente e sopravvivere in un mondo ostile significa fare le cose meglio degli altri individui della propria specie e, ovviamente, anche meglio delle specie che attingono, bene o male, alle nostre stesse risorse. Come vedete il linguaggio della biologia evoluzionistica non è molto differente da quello economico, almeno per le questioni di base. Esiste un mercato, la natura, in cui i vari agenti (le specie, come "imprese") operano, che decide il successo dei migliori. Certo nel mondo economico si può barare più che nel mondo naturale, ma alla fine i bluff sono scoperti anche in economia. In questo scenario tutti competono con tutti. Per molto tempo la competizione, assieme alla predazione, è stata vista come il principale motore dell'evoluzione perché è attraverso essa che la selezione naturale agisce. Competere, quindi, mette tutti contro tutti. Ovviamente competono maggiormente gli attori che hanno esigenze simili.

Mi spiego: quale sarà il più temibile competitore per un'azienda che produce frigoriferi? La risposta è: un'altra azienda che produce frigoriferi. Meno competitrice, nei confronti di questa ipotetica azienda, sarà un'azienda che produce cucine a gas, per non parlare di un'azienda che produce automobili. La concessionaria di frigoriferi X di certo non compete con un'altra concessionaria di frigoriferi X, perché la casa madre X sta bene attenta a non sprecare risorse con una concorrenza al proprio interno. Le specie, assimilabili ad aziende, hanno tante concessionarie (gli individui) e queste competono tra loro proprio perché hanno esigenze identiche e attingono alle stesse risorse. Alcuni individui ce la fanno, altri no e la selezione naturale porta a situazioni in cui il modello Y dell'azienda X è sostituito dal modello Z della stessa azienda; quando qualcosa migliora, il modello precedente esce di produzione e si passa a quello nuovo. La competizione intraspecifica, tra individui della stessa specie, è molto dura e di solito si cerca di evitarla, proprio come la competizione tra concessionarie della stessa azienda. Come si evita? Dividendosi il territorio! E cercando quindi di non sprecare energie inutilmente.

La competizione interspecifica è meno forte di quella intraspecifica, perché individui di specie differenti avranno requisiti differenti da quelli di individui della stessa specie. Quanto più le specie sono diverse da un punto di vista evolutivo, tanto più sarà evitata la competizione, mentre la somiglianza derivante dalla discendenza da un antenato comune porta proprio a un'intensa competizione. Darwin espresse questo concetto affermando che difficilmente specie appartenenti allo stesso genere coesistono. Il motivo è che sono troppo simili nelle loro esigenze; e se la coesistenza si verifica, prima o poi una ha il sopravvento sull'altra. Noi e i Neanderthal eravamo due specie appartenenti allo stesso genere. In certi periodi i reperti fossili delle due specie si trovano assieme, poi i Neanderthal scompaiono. E restiamo solo noi.


Ragionamenti circolari

Qualcuno di cui non farò il nome ha criticato il concetto di selezione naturale dicendo che il fenomeno descritto non può essere falsificato e si basa su un ragionamento circolare. Il genio che ha fatto questa pensata si è detto: "Come faccio a identificare gli individui più adatti? La teoria mi dice che gli individui più adatti sono quelli che superano la selezione naturale. E come faccio a identificare gli individui che superano la selezione naturale? Ma è semplice: superano la selezione naturale quelli che sopravvivono". Semplificando i termini si arriva a dire che sopravvivono gli individui che sopravvivono. Una tautologia.

Il tipo che ha fatto questa critica alla teoria della selezione naturale insegnava in un'università e si presume che facesse esami. Come faceva a capire quali erano gli studenti meritevoli di proseguire gli studi? Semplice: poneva loro domande e problemi e controllava che le risposte fossero adeguate. E come faceva a capire chi superava gli esami? Certamente controllando l'esattezza delle risposte. Semplificando, superavano gli esami quelli che superavano gli esami.

La falsificazione della bontà della selezione si ottiene poi, nel futuro. Se la selezione è superata con artifici (magari copiando il compito o comunque barando) può poi accadere che chi non ha davvero imparato sia punito dalla vita. Oppure la sua furbizia lo avvantaggerà comunque. È ovvio che la scienza può andare avanti in molti modi, e non ne esiste uno solo. La competizione, comunque, è il motore dell'evoluzione, e non a caso si parla di lotta per l'esistenza.

La cooperazione

Se ci guardiamo bene attorno, notiamo anche altre cose. Darwin, per esempio, studiò le orchidee e i loro sistemi di impollinazione. Descrivendo una specie con fiori molto particolari, arrivò persino a prevedere l'esistenza di una specie impollinatrice che ancora non era stata scoperta. Gli insetti impollinatori cooperano con le piante e rendono possibile la loro riproduzione sessuale. Le piante, a loro volta, forniscono ricompense agli insetti per questo servizio: i fiori sono cartelloni pubblicitari per attirare i clienti, e la reciproca soddisfazione è alla base del successo del sodalizio; lo stesso accade con i frutti, come abbiamo già visto.

La cooperazione paga moltissimo. Cooperazione e competizione coesistono e si può arrivare ad affermare che esista una competizione per contendersi i migliori cooperatori.


Le specie sociali

La forma più sofisticata di cooperazione intraspecifica è la socialità. La competizione intraspecifica, lo abbiamo appena visto, si riduce evitando che individui della stessa specie entrino in contatto e si contendano le risorse, e il contatto si evita con la territorialità (la divisione del territorio). I cani marcano il territorio, comunicando agli altri cani che quella porzione di spazio è loro e non deve essere invasa. Se c'è sconfinamento si scatena la lotta. In molte specie il possesso del territorio è individuale, in altre sono gruppi di individui a possedere porzioni di spazio. Vi vengono in mente i leoni o i licaoni? Avete indovinato. Ma potete pensare anche alle api e alle termiti. Le specie sociali possono essere vicine a noi, come appunto i vertebrati citati, o molto lontane da noi, come gli insetti. La socialità implica che gli individui trovino convenienza nello stare assieme: i singoli hanno scarsa probabilità di sopravvivere, mentre il gruppo conferisce forza reciproca. Ovviamente, in questi casi, si instaurano gerarchie, ci sono regine, capi branco e altri ruoli dirigenziali che implicano che il gruppo segua un capo. Spesso questi ruoli sono ben definiti per i vari individui, con la definizione di caste, come avviene tra le api, le formiche, o tra gli indiani. Il lavoro è suddiviso, c'è chi si riproduce, chi accudisce i piccoli, chi procura il cibo, chi protegge la colonia dai nemici. E a volte può succedere che questi ruoli si svolgano in diversi momenti della vita.


Sociali per natura

Le specie sociali portano nel loro patrimonio genetico le istruzioni su come ci si debba comportare in gruppo. Non hanno scelta. Alcune cose si imparano durante la vita, come alcune forme di linguaggio con cui gli uccelli comunicano tra loro, ma molti tratti della socialità si attuano "per forza" e questi comportamenti sono ereditati tanto quanto si ereditano le ali o le pinne. Potremmo dire che il vivere sociale fa parte della natura di queste specie. Ci sono pochissime regole da seguire, e si fa molto presto a impararle. Certo c'è chi bara anche in questi casi, ci sono gli opportunisti che si avvantaggiano della maggiore socialità degli altri. Ma nel complesso la socialità deve funzionare, altrimenti la specie si estingue.


Sociali per cultura

Noi, ovviamente, siamo dotati dei geni per il comportamento sociale. Anche in questo Darwin è stato un precursore: descrivendo l'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali vide come molti dei nostri comportamenti siano riconducibili a quelli di nostri antenati, e vide anche che popoli lontanissimi da un punto di vista culturale hanno modalità simili o identiche per esprimere sorpresa, rabbia, affetto, allegria, tristezza. Abbiamo un linguaggio corporeo che ci fa comportare in un modo ben definito, indipendentemente dalle etnie.

La socialità di noi occidentali, tuttavia, è molto complicata. Nei popoli che vivono in piccoli gruppi quasi monofamiliari i rapporti sono molto chiari e semplici. Essendo tutti imparentati geneticamente, gli individui di questi gruppi si sentono "fratelli" e cooperano in modo naturale, seguendo regole non scritte. Difficilmente si cerca di imbrogliare, e chi lo fa è messo al bando (oppure diventa il capo...).

Quando i gruppi diventano più complessi, la tendenza a imbrogliare diventa più probabile. Imbrogliare significa avvantaggiarsi della tendenza naturale degli altri a cooperare, competendo con loro mentre si finge di cooperare. L'imbrogliato, in altre parole, crede di avere a che fare con un cooperatore e invece ha di fronte un competitore mascherato. I vari proverbi intrafamiliari ("Fratelli coltelli") o intragruppo ("Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io") si riferiscono proprio a queste modalità di competizione. Nei proverbi possiamo trovare istruzioni per l'uso molto contraddittorie: si pensi al fatto che l'unione farebbe la forza ma che al tempo stesso chi fa da sé fa per tre. È ovvio che non esiste una ricetta magica per la socializzazione.

L'uomo, dopo un po', cominciò a capire che la socialità può portare a problemi di convivenza e iniziò a darsi regole "artificiali", da aggiungere a quelle naturali, trasmesse geneticamente. Lo fece con la religione (si pensi ai comandamenti scritti sulla pietra), elaborando leggi attribuite a varie divinità, e poi lo fece con le leggi che compongono il diritto. Le leggi divine sono oggetto delle attività dei sacerdoti; quelle umane, invece, riguardano gli avvocati e i giudici.

Vale la pena di ripeterlo: le leggi genetiche rendono tutti amici e fratelli, e la cooperazione avviene in modo naturale; quelle elaborate dall'uomo servono per i nemici potenziali, servono per difendere gli onesti dai disonesti. Se siete onesti e siete tanto fortunati da aver sempre a che fare con individui onesti, non avrete mai a che fare con avvocati e giudici. Se invece siete disonesti o avete avuto la disavventura di avere a che fare con disonesti prepotenti, allora avrete molta dimestichezza con queste categorie professionali.

Più i rapporti sociali si fanno intricati, più le regole diventano dettagliate e specifiche. Ci sono regole generali molto ampie, "non ammazzare", ad esempio, ma queste poi possono essere aggirate (legittima difesa, guerra per difendere la patria ecc.). Ho usato "non ammazzare" come esempio perché, in una specie sociale come la nostra, dovrebbe essere la regola più importante, mentre è quella più spesso infranta; la nostra storia è segnata da guerre e conflitti, tutti più o meno derivanti dalla competizione per le risorse. Ora qualcuno mi dirà che ci sono le guerre di religione, ma io penso che i motivi religiosi siano stati escogitati da furboni competitori per buggerare gli ingenui cooperatori: uccidere o morire in nome di Dio è molto più accettabile che farlo in nome di cose come il petrolio.


Individui e società

Il nostro vivere sociale è un continuo compromesso tra i vantaggi dei singoli e quelli dei gruppi cui appartengono. Decidere che cosa sia vantaggioso significa attribuire un valore alle cose. Lo so che c'è una grossissima differenza tra valore e prezzo, ma facciamo finta per il momento che i due concetti siano identici. L'economia, in effetti, si riferisce al patrimonio di una nazione o di un gruppo in termini di beni e servizi. Beni e servizi devono essere valutati, bisogna approntare una scala di valori e decidere quali contino di più. Il prezzo è una misura del valore: tanto più è alto il prezzo, tanto maggiore è il valore di una cosa. In un mondo normale. Il valore può dipendere da molte cose e può essere anche arbitrario. Vale di più l'oro o l'acqua? Un chilo d'oro vale tantissimo, un chilo d'acqua pochissimo. Ora cercate di immaginarvi in un deserto, allo stremo; avete con voi una borraccia con un litro d'acqua e una sacca con un chilo d'oro, e non ce la fate a trasportarle entrambe. Cosa buttate via? Se buttate l'acqua dopo poco sarete morti di sete. Ricchi, ma morti.

Nel vivere sociale gli individui devono rinunciare a parte dei loro vantaggi per condividerli con il gruppo cui appartengono. Cosa hanno inventato, i nostri progenitori, per raggiungere la spartizione dei beni? Hanno inventato le tasse, che dovrebbero prendere ai ricchi per dare ai poveri. Ma forse, a pensarci bene, sono state inventate esattamente per lo scopo contrario. Re e imperatori erano ricchi perché imponevano tasse ai loro sudditi, accumulando risorse e godendo di beni e servizi prodotti da altri. Certo alla fine un vantaggio c'era per tutti: questi signori potenti usavano i soldi non solo per il lusso ma anche per costituire eserciti e per costruire fortezze; con questi strumenti difendevano i loro sudditi dagli invasori e dai predoni, oppure diventavano essi stessi invasori di altri popoli, predando le loro ricchezze. Far parte di un gruppo conviene, quale che sia il ruolo che si ricopre al suo interno.

A prima vista, se si guarda solo al proprio tornaconto, pagare le tasse è sconveniente. Ma non occorre spremersi troppo le meningi per capire che, se la cosa pubblica è ben gestita e organizzata, i soldi delle tasse ci tornano sotto forma di servizi che, da individui isolati, non potremmo mai permetterci. Le strade, i ponti, gli edifici pubblici e la ricerca da sempre sono finanziati con i soldi pubblici. Senza tasse non c'è società.


I furbi

Che cosa distingue i furbi dai fessi? I furbi sfruttano i fessi, che lavorano, producono, faticano e si sacrificano, mentre quelli godono dei frutti del loro impegno, senza preoccuparsi di nulla. Se fossimo tutti furbi, chi lavorerebbe? Chi produrrebbe le ricchezze? E quanto può durare un paese di furbi? Sicuramente poco.

Se vi capita di andare in paesi come il Giappone o gli Stati Uniti vi accorgerete di una cosa sconcertante: le persone hanno fiducia. Si dà per scontato che ci sia una piccola porzione di furbi e che la maggioranza sia di fessi? No, non è questo il concetto, forse si dà per scontato che la maggioranza sia di brave persone. I furbi sono stigmatizzati, perseguitati, emarginati.

Pensiamo a Cesare Previti, condannato in via definitiva per aver corrotto dei giudici, e che era stato proposto come ministro della Giustizia. A un certo punto, di fronte alla montagna di accuse che lo sovrastava, ammise che tutto quello che gli si sarebbe potuto imputare sarebbe stato solo di aver frodato il fisco. Quando ho sentito questa dichiarazione sono saltato sulla sedia: Al Capone è stato condannato per lo stesso motivo. Per il nostro ministro della Giustizia in pectore (poi lo fecero ministro della Difesa) frodare il fisco non era un peccato grave. Alla fin fine non era neppure un peccato. Era una cosa da ammirare: chi può non le paga, le tasse. Qui nessuno è fesso...

Quando un ministro dell'Economia cercò di elaborare un concetto alternativo a "meno tasse per tutti", coniò il famigerato "le tasse sono una cosa bellissima", ma nessuno lo capì. "E diventato scemo?", devono aver pensato i suoi compagni di partito. Il giorno successivo i giornali riportarono l'incauta dichiarazione e lo coprirono di ridicolo. Come si fa a fare affermazioni del genere? Ecco, uno stato in cui le tasse sono viste come il male assoluto è uno stato di individui che non sanno vivere in gruppo: ognuno pensa a sé e guarda al proprio vantaggio immediato; i politici fanno a gara a chi dichiara che toglierà più tasse, per poi accorgersi (perché non ci avevano pensato) che se gli introiti delle tasse vengono a mancare non è più possibile erogare servizi. Un piccolissimo dettaglio a cui non si pensa mai.

Torniamo ai paesi in cui la gente si fida del prossimo: lì può essere più facile buggerare qualche individuo; però se perdi la loro fiducia, se ti identificano come un furbo, ti fanno terra bruciata attorno, e con loro hai chiuso. E gli italiani sono visti così, all'estero. Ad esempio abbiamo un politico che nel 2008 è stato eletto senatore, e poco tempo dopo ha affermato che un altro signore di sua conoscenza, condannato per mafia, era un eroe per non averlo denunciato durante un interrogatorio. Subito dopo ha aggiunto che la magistratura è il cancro dell'Italia. In che paese viviamo? I mafiosi sono eroi e i magistrati sono il cancro? E chi fa queste dichiarazioni può sedere in parlamento? Qualcuno ha proposto di intitolare una strada di Milano a Bettino Craxi, e qualcun altro ha fatto notare che Bettino Craxi è stato condannato in via definitiva a otto anni di carcere per corruzione, e che è fuggito all'estero per non essere incarcerato; e queste non sono opinioni, sono fatti. Ma l'incauta dichiarazione è stata definita con termini poco lusinghieri, come si trattasse di diffamazione, di una calunnia nei confronti di un uomo rettissimo.

Forse però ho capito male io, lo spero proprio; ditemi che non siamo tutti così! Lo so che non siamo tutti così, ma all'estero così ci vedono. È vero, sono molti gli stereotipi, si dice anche che siamo simpatici, che facciamo bene da mangiare, che abbiamo buon gusto: vino buono, belle città, un passato glorioso e tanti grandi architetti. Allora forse come individui siamo tra i migliori, ma come popolo non valiamo molto?

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Cooperare o competere?

Il capitalismo si basa sulla competizione, il comunismo sulla cooperazione. Le religioni aiutano la socialità (ma c'è anche chi ne approfitta) e in teoria, come il comunismo, dovrebbero essere a favore della cooperazione. Se siamo una specie sociale, come mai non siamo socialisti?

È evidente che siamo combattuti tra un istinto a cooperare e uno a competere. Sappiamo che è giusto aiutarci a vicenda, e sappiamo che così si rafforza il vivere sociale. Le religioni ci impongono questo e forse una simile affermazione di cooperazione e socialità ci salva la faccia, eppure ci si potrebbe domandare come sia possibile che capitalismo e cristianesimo coesistano: i loro principi dovrebbero essere diametralmente opposti.

La competizione, peraltro, è insita nel cristianesimo come nel comunismo: competizione per fare meglio degli altri nel collaborare alla crescita del vivere sociale, competizione nell'essere buoni come fratelli. Tutti sono d'accordo su questi principi, in linea teorica, ma poi nessuno o quasi è disposto a pagare di persona per sostenerli. E chi lo fa per davvero in molti casi è considerato un fesso, o un individuo votato al martirio.


Pubblico è male

Negli ultimi vent'anni si è diffusa più che mai la credenza che pubblico sia invariabilmente sinonimo di inefficienza, e quindi di male. In Italia il settore pubblico è spesso visto come un sistema parassitario che drena risorse dal settore più produttivo del paese, il privato; il semplice fatto di lavorare alla gestione della cosa pubblica è considerato di per sé una sorta di latrocinio. Che i fannulloni infestino il settore pubblico non è purtroppo un'affermazione del tutto sbagliata, perché questo settore in molte occasioni è servito per dare lavoro in cambio di voti a un certo partito o uomo politico: solo nel pubblico il politico corrotto può "sistemare" il suo cliente. E così le ferrovie, le poste, l'amministrazione pubblica in generale, sono diventati i luoghi ideali per crearsi imperi di consenso: chi ha ricevuto in questo modo un posto di lavoro è molto grato nei confronti di chi lo ha beneficiato: gran parte di questi posti sono stati istituiti con l'unico scopo di favorire qualcuno in cambio di voti.

Chi ha un lavoro fittizio, concesso come favore e con uno stipendio assistenziale, non si sente in dovere di lavorare davvero: "Per quello che mi danno, faccio fin troppo!" è l'affermazione standard. Talvolta, addirittura, ci si vanta delle proprie conoscenze per giustificare il fatto di non dover davvero lavorare; poi ci sono le pensioni finte, di invalidità, o quelle concesse a chi non ha mai versato contributi; assunzioni che non pescano dalle graduatorie; insegnanti di religione che sono chiamati dal vescovo e accumulano punti di cui si avvarranno quando entreranno in competizione con altri insegnanti privi di amicizie tra i prelati. Il nostro paese è infestato da lavoratori fittizi.

Dar loro un sussidio di disoccupazione costerebbe molto meno di quanto non costi dar loro uno stipendio, creando al contempo un pesante apparato dove fanno finta di lavorare. Non ha proprio senso! Il salario di disoccupazione sarebbe un diritto, e non ci sarebbero favori da scambiare; nessuno però lo istituisce, perché tutti i decisori si avvantaggiano della situazione e il consenso dei fannulloni porta a carriere politiche fulminee, per esempio nei partiti e nei sindacati.


Privato è bene

Quando il sistema ha cominciato a non reggere più, qualcuno si è vantato di voler fermare questa tendenza, a caccia di consensi non ottenibili in altri modi. Basta con i fannulloni! Deregulation, innanzitutto: mettiamo tutto nelle mani dei privati. Vendiamo le cose dello stato, come le poste, le ferrovie e tante altre aziende pubbliche, vedrete come funzioneranno bene. I privati li fanno lavorare, quei fannulloni!

Il risultato è che le aziende di stato sono state svendute a privati amici dei politici e i fannulloni sono stati licenziati, facendone però pagare allo stato i costi sociali, magari mettendo i licenziati in pensione anticipatamente. Inoltre, invece di fornire servizi dignitosi per tutti, si è fatto in modo di erogarli solo in base alla loro convenienza, mentre il resto è stato messo nella categoria "rami secchi". Per esempio pensiamo a un treno che arriva in un paesino isolato, ma sono in pochi a prenderlo: la linea si chiude; prima si trattava di un servizio che lo stato erogava ai cittadini perché non restassero isolati, ora quei cittadini lo sono a tutti gli effetti. E se poi le cose nel privato non vanno bene, è sempre e comunque il pubblico a intervenire.

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Capitolo 9

La laurea in Italia


L'università italiana è stata riformata, non molto tempo fa, per motivi eminentemente economici: gli studenti ci mettevano troppo tempo a laurearsi e c'era un alto tasso di abbandono. Ricordiamo che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, l'università italiana è diventata "di massa": in precedenza accedevano all'università i figli di persone già laureate, e dei ricchi in generale, e i figli studiosi e meritevoli di persone meno abbienti che miravano al riscatto sociale; in seguito fu concesso a tutti i detentori di un qualunque titolo di istruzione superiore di iscriversi a qualunque corso di studi universitario.

Gli iscritti erano moltissimi, ma spesso non erano maturi abbastanza per gestire il proprio tempo e i propri studi senza un controllo severo da parte dei professori; un controllo peraltro non previsto, perché all'università si può fare "tutto quello che si vuole": si può non frequentare, si possono sostenere gli esami quando fa più comodo, non esistono scadenze; la tendenza (molto italiana) a rimandare le cose fa slittare gli appelli, le frequenze, lo studio, le esercitazioni, e gli anni passano veloci; basta non prendere subito il ritmo e si è perduti. In molti, poi, non erano (e non sono) all'altezza degli studi intrapresi: l'esame diga, l'incubo degli allievi del primo anno, ha cambiato il corso della vita di tanti, impedendo loro di continuare gli studi e, quindi, di avere una vita impostata in un certo modo. In molte facoltà, in media, al passaggio tra il primo e il secondo anno si registrava l'abbandono di circa la metà degli allievi, tra il secondo e il terzo un altro venti per cento e così via, fino a esigue percentuali di laureati in tempo, perché la maggior parte dei superstiti era fuori corso.


Che spreco!

Qualcuno disse, con grande fervore economicistico, che la nostra università era come una fabbrica in cui il settanta-ottanta per cento dei pezzi prodotti risulti difettoso e da scartare, e in cui il tempo necessario a fare un pezzo è molto più lungo di quello programmato, uno spreco intollerabile. Negli altri paesi, si diceva, questo non succede: i ragazzi si iscrivono e, dopo il tempo stabilito, si laureano.

Così ci siamo adeguati e abbiamo fatto come in tutti gli altri paesi, dividendo il corso degli studi in due tronconi: una laurea triennale e una biennale, il "tre più due" sancito dal Processo di Bologna. Non si è trattato di un processo penale: a Bologna i ministri dell'Istruzione di tutta Europa hanno deciso di uniformare i corsi di studio, in modo che i titoli fossero equiparabili in tutto il continente, secondo un processo che ha preso il nome della città dove si è tenuta la riunione. Ma un conto è stabilire di fare il "tre più due", e un conto è farlo, applicare il dettato del Processo.

La riforma è stata attuata seguendo le regole vigenti, la filosofia più in voga allora: eravamo ai tempi del liberismo sfrenato, della deregolamentazione, e per gli italiani (ma, abbiamo visto poi, anche per tutti gli altri) questo significava "libertà assoluta". Ogni università italiana ha espresso corsi di laurea molto eterogenei, spesso miranti alla parcellizzazione degli insegnamenti, misurati in base al sistema dei crediti, con la speranza che una disciplina fosse ritenuta importante in base al numero di crediti che le erano assegnati. L'importanza delle discipline, in effetti, si misura con l'influenza di chi le rappresenta e si basa sulla capacità di stringere alleanze seguendo la stessa strategia delle cellule metastatiche: occupare tutti i tessuti e tutti gli organi.

Si tratta di un suicidio in piena regola, per l'università, ma anche le cellule tumorali alla fine si suicidano, visto che portano alla morte dell'organismo di cui fanno parte.


E il dottorato?

Il dottorato è stato introdotto nel sistema universitario italiano nel 1980; all'estero invece c'è sempre stato. Si tratta del massimo titolo di studio fornito dal sistema educativo di qualunque paese civile; le classi dirigenti dovrebbero essere formate proprio grazie a questo strumento. Laureatomi nel 1976, io non ho preso il dottorato: ho avuto un posto di ruolo per motivi fortunosi, e quando il titolo è stato introdotto non avevo più la possibilità di prenderlo, mentre ero chiamato a partecipare alle attività previste per conferirlo; talvolta provo una sorta di dispiacere a non essermi addottorato. Certo è sempre così quando si comincia una cosa: i primi professori universitari non erano laureati (prima di loro le università non esistevano), ma conferivano lo stesso le lauree.

A distanza di anni dal mio ingresso nell'università mi è capitato di fare da tutor a una dottoranda del MIT, arrivata a Lecce per un periodo di studio. Annette, questo il suo nome, esordì dicendomi di voler fare il suo dottorato in cinque anni e non in dieci; le chiesi di ripetermi il concetto: da noi il dottorato dura tre anni e tutti, alla fine di questo periodo, ottengono il titolo. (Per non prenderlo bisogna proprio combinare qualche grosso guaio.) Negli Stati Uniti il dottorato dura cinque anni, se si è bravi: i primi due sono dedicati a frequentare corsi e lezioni di alto livello, i tre successivi si lavora alla ricerca che porterà alla scrittura della tesi; se non si superano gli esami e se la tesi non risulta valida, i tempi si allungano e i cinque anni possono diventare dieci.

Prima non riuscivo a capacitarmi di come il sistema universitario statunitense riuscisse a far laureare tutti in tempo, mentre da noi si assisteva impotenti a un così alto tasso di ritardi e abbandoni. In America sono tutti promossi indipendentemente dai risultati, ma la laurea non ha valore legale; è il dottorato la vera laurea, e per prenderlo si seguono due anni di corsi intensissimi e avanzati, con fortissima selezione, poi ci sono tre anni per fare la tesi, ma non è scritto da nessuna parte che in cinque anni si finisca, anzi di solito ci si mette di più.

A quel punto tutto mi fu chiaro: da noi la filosofia del dottorato americano era applicata alle lauree del vecchio ordinamento, i corsi erano selettivi e non era scontato che ci si dovesse laureare nel tempo previsto (ci si riusciva solo studiando senza sosta); mentre da loro si laureavano tutti. Da noi, però, chi accede al dottorato sa che in tre anni finirà, non c'è mortalità studentesca né ci sono fuori corso.

Noi avevamo un'ottima laurea, molto selettiva, e un pessimo dottorato; loro hanno una pessima laurea e un ottimo dottorato. Non esiste un sistema perfetto in cui tutto funziona a meraviglia e tutti ottengono esaltanti risultati senza alcuno sforzo, senza selezione, senza differenze nel risultato dovute al diverso impegno o alle diverse capacità. La cosa migliore, ai tempi delle lauree selettive, era di prendere una laurea in Italia e di fare un dottorato all'estero; ora abbiamo copiato il sistema di tutti gli altri paesi, con il "tre più due", ma non abbiamo copiato il dottorato.

Se la bontà di un sistema educativo si valutasse dal successo degli studenti nel conseguire il titolo di studio, il nostro dottorato sarebbe il migliore al mondo; mentre i dottorati statunitensi, quelli del MIT ad esempio, sarebbero un fallimento: fabbriche che prendono tanti pezzi e non riescono quasi mai ad avere il prodotto finito per tempo. Il problema è che non si può pensare di riformare l'università seguendo un ragionamento simile.

La verità è che ora, con la riforma, siamo arrivati ad avere lauree di scarso valore cui seguono dottorati di pari livello. E tutto questo ha molto a che vedere con l'economia, perché noi spendiamo ingenti risorse economiche per formare persone con alto livello di istruzione, e i risultati che otteniamo sono scoraggianti; inoltre, dato che viviamo nell'era della conoscenza, se una società non produce buona conoscenza non può avere una buona economia. E l'università è la fabbrica della conoscenza, è da lì che tutto parte.


Inutili a casa, utili all'estero

In molti nel nostro paese esprimono un certo disagio per il dilagante fenomeno della fuga dei cervelli: i nostri giovani migliori devono spostarsi all'estero per vedere apprezzate le loro potenzialità, mentre qui da noi non trovano sbocchi. Questo, secondo me, succederà sempre meno perché, grazie alla riforma, i nostri laureati saranno di livello sempre più scarso, e quindi non li vorrà più nessuno; mentre fino a ieri (ancora oggi, invero) i nostri laureati trovavano (e trovano) facile collocazione all'estero. I nostri laureati di solito emigravano per fare un dottorato e lì, forti della preparazione ricevuta all'università, eccellevano; i locali, nei loro confronti, dovevano recuperare una certa carenza di preparazione. Quelli bravi riuscivano a mantenere quel vantaggio. E in effetti erano tutti bravi, perché solo i più bravi hanno il coraggio di prendere e partire, affrontare un sistema nuovo, fuori dalla bambagia della famiglia, dalla non competizione italiana, basata sulla speranza di successo in base a raccomandazioni e spinte familiari.

I laureati italiani sono ben preparati e trovano sbocco in altri paesi, ma non ne trovano da noi; eppure, se i nostri laureati sono di alto livello, questo è dovuto al sistema che li forma, e il fatto che all'estero siano richiesti significa che il nostro "prodotto" è buono. Per trovare una spiegazione al non impiego in Italia delle stesse risorse che così bene le università italiane formano, dobbiamo considerare una variabile importante: il costo degli studi. Negli Stati Uniti mandare un figlio all'università costituisce un investimento impegnativo e le famiglie non di rado accendono mutui per pagare le rette, i giovani studenti devono contribuire lavorando, e si tratta in entrambi i casi di grossi sacrifici; da noi l'istruzione è quasi gratuita (se si evade il fisco è completamente gratuita). Negli Stati Uniti lo stato investe moltissimo nell'istruzione, ma chiede un forte impegno economico anche a chi ne fruisce; da noi lo stato investe meno, ma i costi sono quasi completamente sostenuti dalla collettività. (Nell'università in cui lavoro io mi è capitato di sentire il rettore che diceva che solo il venti per cento degli studenti paga completamente le tasse, mentre la restante parte o non le paga proprio, o le paga con forti riduzioni dovute al reddito dichiarato.)

Torniamo all'economia: noi investiamo molti soldi per produrre "beni" (i laureati) di cui apparentemente non abbiamo bisogno, e li "regaliamo" ad altri che, invece, li usano in maniera molto intensa; si avvalgono delle loro competenze per fare ricerca, per innovare, per migliorare i propri sistemi di produzione basati sulla conoscenza, o semplicemente per aumentare le proprie conoscenze di base. Noi, a quanto pare, non sappiamo che farcene e vedendoli andare via siamo quasi sollevati, perché almeno registreremo meno disoccupati nelle nostre statistiche.

Negli altri paesi è normale che le persone si spostino per lavorare; la stessa comunità scientifica è viva proprio perché si muove, perché avvengono scambi. La cosa grave non è che laureati e studiosi italiani emigrino, bensì che non venga nessuno da noi "in cambio": un sistema sano vede i propri giovani spostarsi in altri paesi, ma si prende i giovani migliori degli altri paesi, e c'è una sana competizione per accaparrarsi i migliori. Da noi invece rimangono quelli che hanno deciso di rimanere nel proprio paese, nonostante la situazione frustrante, magari spinti dall'ideale donchisciottesco del cambiare le cose; e, soprattutto, rimangono i peggiori: quelli che non hanno il coraggio di andarsene o quelli che non hanno le qualità per essere reclutati in un sistema non italiano.

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Darwinismo sociale

Un ragionamento del genere lo hanno fatto alcuni "pensatori" che hanno applicato in modo letterale la teoria della selezione naturale ai rapporti sociali tra individui e popolazioni della nostra specie. Questi signori hanno formulato un ragionamento apparentemente logico: se un popolo prevale su altri popoli, se un ceto prevale sugli altri ceti, significa che questo popolo o questo ceto hanno caratteristiche migliori, visto che sono riusciti a raggiungere posizioni privilegiate; la lotta per l'esistenza è dura e non c'è posto per la pietà, i forti vincono e i deboli soccombono, che ci piaccia o no. In un certo senso il ragionamento è logico, e in natura funziona così; e la stessa cosa avviene anche in democrazia, dove la maggioranza vince grazie alla forza del numero: il fatto che la maggioranza vinca, tuttavia, non garantisce che sia nel giusto. Anche nella società umana si procede per prove ed errori; qualcuno prevale per un po', poi perde la supremazia.

I nazisti hanno ritenuto che la razza ariana fosse la migliore espressione della nostra specie, al contempo pensavano che gli ebrei e altri gruppi fossero inferiori e impuri, e che meritassero lo sterminio: decisero di mettere in atto una selezione artificiale volta a "migliorare" la nostra specie, rimuovendo gli individui considerati difettosi. Anche i giapponesi la pensavano in modo simile. La storia ha mostrato che non esisteva alcun valido motivo per considerare gli ariani superiori agli altri.

Se avesse senso applicare le regole del darwinismo sociale, la sconfitta dei nazisti dimostrerebbe la loro inferiorità nei confronti dei vincitori; e ad alcuni il ragionamento potrebbe sembrare convincente. Avevano quindi ragione? Assolutamente no! Nel mondo della natura pietà e giustizia non esistono, siamo noi ad aver creato un mondo di regole superiori, guidate dalla socialità e dall'intelligenza, e la nostra vera forza consiste proprio nell'attitudine alla socialità e al buon uso dell'intelligenza: la forza bruta non basta e non serve. È nella nostra indole il non abbandonarci alle leggi della natura: noi proviamo pietà e possediamo il senso della giustizia, non siamo indifferenti; l'Olocausto ha rappresentato la suprema negazione della nostra natura, riducendoci a belve.


Darwinismo comunque

Ci si può domandare se sia corretto affermare che saremmo fuori dalla natura, e la risposta è ovviamente no, perché anche noi siamo condizionati dalle leggi della natura e ne siamo parte. La nostra natura ci vede sociali e intelligenti, e se perseguiamo questo aspetto ci avvantaggiamo; se invece prevalgono violenza e sopraffazione, se alcuni gruppi pensano di poter prevalere sugli altri asservendoli, allora rinneghiamo i nostri caratteri distintivi e ci affidiamo alle leggi della giungla.

È sotto gli occhi di tutti che siamo sociali e ben disposti alla cooperazione con gli appartenenti ai nostri stessi gruppi, ma che con gli altri, da sempre, ingaggiamo scontri e guerre; e che nelle guerre vincono i più forti, quelli che riescono a sopraffare gli altri. Questo non implica però che i vincitori siano i migliori: grandi vittorie possono preludere a disfatte e sconfitte; la storia ci insegna che i vincitori, prima o poi, cedono il passo ad altri.

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La malavita organizzata

L'economia ha sempre basato la sua forza sul crimine: con la parola crimine intendo qui l'uso della forza per ottenere quello che si vuole e a cui non si avrebbe diritto. Il crimine può essere compiuto a livello personale, da singoli individui, ma può essere di livello superiore ed essere commesso dagli stati: una guerra contro un paese che possiede risorse di cui abbiamo bisogno implica l'uso della forza per ottenerle indebitamente; è sufficiente crearsi un buon pretesto, come ad esempio le armi di distruzione di massa, ma la vera causa dell'attacco è il petrolio. Gli stati, da sempre, hanno compiuto azioni criminali in nome di principi di alto valore morale (violazione della libertà e dei diritti civili, violenza sulle donne ecc.).

Tra il livello individuale e quello statale ne esistono altri, intermedi, composti da raggruppamenti di vario genere: ci sono le famiglie, cardine delle attività mafiose, famiglie di famiglie, cartelli, onorate società. L'uso della forza, inoltre, può essere sottile e in questo caso si tratta di astuzia, e a farne abbondante uso sono organizzazioni come la Massoneria, l'Opus Dei e altre consorterie più o meno segrete, impegnate a garantire privilegi ai propri membri.

In un primo tempo si accumulano ricchezze con atti criminosi "vecchio stile", pensiamo alla pirateria (ma il meccanismo ricorre da tempo): il pirata diventa ricco, investe i suoi soldi e diventa "rispettabile", finendo la sua carriera magari come lord. Sono molti i mafiosi che mandano i loro figli a studiare economia in prestigiose università; i loro soldi insanguinati o imbiancati dalla cocaina sono lavati in rispettabilissime banche, che in molti casi sono specializzate proprio nel riciclare il denaro, denaro che è poi investito in attività lecite. Qualcuno potrebbe parlare, a questo proposito, di "compromessi".

Pensiamo a Guido Bertolaso, l'eroe della Protezione civile italiana, quando è stato incaricato per la prima volta, nel 2006 dal governo Prodi, di risolvere il problema dei rifiuti in Campania: partì alla ricerca di siti dove poter smaltire le tonnellate di spazzatura accumulatesi e scoppiò una rivolta popolare; fu sfiorato il linciaggio, il commissario non riuscì nemmeno a scendere dall'automobile e dovette andarsene coperto dalle ingiurie. E ora chiediamoci quale messaggio fosse sotteso a quella famosa dichiarazione, a ridosso delle elezioni, che i mafiosi sarebbero degli eroi e i magistrati un cancro per il paese? Sarà stata forse una battuta di spirito, però l'eroe Bertolaso fu riconfermato dal nuovo governo e in men che non si dica l'emergenza era risolta. Nessuno si è ribellato e la cosa potrebbe sembrare strana, ma è facile immaginare che, cambiato chi ha dato l'ordine e chiaramente esplicitata la posizione scelta nei confronti della mafia, la soluzione del problema ha potuto prendere un'altra piega. O forse ragiono accecato dal pregiudizio ed è stato il carisma del nuovo capo del governo a far sì che Bertolaso riuscisse dove prima era fallito: la camorra, il sistema, non c'entrano nulla.


I fondi europei e la reputazione italiana

In Italia, ma non solo, i fondi comunitari sono spesso spesi per arricchire chi riesce ad accaparrarseli e raramente le opere sono portate a termine, oppure sono portate a termine in tempi lunghissimi e con costi esorbitanti. Il più delle volte rimane solo un capannone abbandonato: si fa la frode e si fallisce. Si tratta di un'attività redditizia e, se ci si affida agli specialisti giusti, il gioco riesce quasi sempre. La mentalità mafiosa e la tendenza alla frode sono diventate modi di vivere diffusi anche tra persone rispettabili e molti reati sono stati depenalizzati (ad esempio il falso in bilancio).

La domanda che sorge spontanea è: chi avrà interesse a investire in un paese dove le società possono falsificare i bilanci? Dove oltretutto si propone di far cadere in prescrizione i reati e interrompere i processi se questi non sono conclusi in tempi brevi e, contemporaneamente, non si fa nulla per renderli più veloci. Vediamo bene che ormai i furbi sono premiati per legge, e i fessi restano fessi.

La reputazione di un individuo, come di uno stato, è formata da quello che gli altri ne dicono e pensano. Per lavoro ho viaggiato molto e in molte parti del mondo, ma con internet non c'è neanche bisogno di viaggiare, si possono leggere i giornali degli altri paesi restando a casa propria. Ebbene, da ormai molti anni la nostra reputazione è in caduta libera, e se devo individuare il momento "iniziale", mi viene in mente l'approvazione della legge che depenalizza il falso in bilancio.

Erano i tempi dello scandalo Enron negli Stati Uniti e, per salvare la reputazione del suo paese, Bush emanò leggi draconiane proprio contro la falsificazione dei bilanci; e lo fece perché sapeva che gli investitori di tutto il inondo non avrebbero immesso un centesimo in un'economia in cui i falsi in bilancio erano tollerati: bisognava rassicurare gli investitori e così Bush ha inasprito le pene sul falso in bilancio. Noi invece lo abbiamo depenalizzato. E quale segnale abbiamo mandato al mondo? Non è possibile che ci percepiscano come un paese serio. Oltre a quel segnale ne abbiamo inviati tantissimi altri, e la nostra reputazione è andata calando sempre di più.

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