Autore Alessandro Boffa
Titolo Sei una bestia, Viskovitz
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2021, Compagnia Extra 95 , pag. 168, cop.fle., dim. 12x19x1,5 cm , Isbn 978-88-229-0578-9
LettoreGiorgio Crepe, 2021
Classe narrativa italiana , umorismo , favole , natura












 

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Indice


  9 Prologo

 11 Come va la vita, Viskovitz?

 21 Ma non ci pensi mai al sesso, Viskovitz?

 31 Stai perdendo la testa, Viskovitz

 33 Non per cercare il pelo nell'uovo, Viskovitz...

 43 Hai le corna, Viskovitz

 51 Non è tutto oro quel che luccica, Viskovitz

 61 Belle porcherie, Viskovitz

 69 Hai fatto strada, Viskovitz

 77 E lei che disse, Viskovitz?

 79 Meno parli e meglio è, Viskovitz

 85 Sei da prendere con le pinze, Viskovitz

 95 Ti sei fatto un brutto nome, Viskovitz

103 Chi ti credi di essere, Viskovitz?

107 Ti sei messo il cuore in pace, Viskovitz

125 Come ti sei ridotto, Viskovitz

127 Buon sangue non mente, Viskovitz

133 Che brutta cera, Viskovitz

143 Bevici sopra, Viskovitz

147 Sono cose che fanno inferocire, Viskovitz

157 Sei una bestia, Viskovitz


 

 

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Pagina 9

Prologo


Eravamo rimasti soli su quella crosta di ghiaccio alla deriva nella notte polare. Viskovitz si girò e mi disse:

«Vorrei che tu mettessi nero su bianco la nostra conversazione.»

«Non è possibile», risposi. «Non sono né tipografo né scrittore. Sono un pinguino. E per me "mettere nero su bianco" significa tutt'al più fare altri pinguini.»

E invece, un mese dopo, eccomi qui, immobile, con un uovo sotto la pancia, a ricordare.

Ero stato io ad attaccare discorso...

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Pagina 11

Come va la vita, Viskovitz?


Non c'è nulla di più noioso della vita, nulla di più deprimente della luce del sole, nulla di più fasullo della realtà. Per me ogni risveglio era un decesso, vivere era morire.

«Sveglia, Visko, è maggio!», squittì Jana. «Finiranno per cuccarsi tutte le ghiande migliori.»

Mi stiracchiai con immensa pena e mio malgrado dischiusi un occhio. Perché nonostante tutto vivere era necessario.

«Un momento», rantolai, «il tempo di decongelarmi.»

Era la fine di un letargo di otto mesi. Mi svegliavo nel grigio aldilà, nell'oltretomba dei ghiri.

Nell'oscurità della tana intravedevo ombre topiformi incedere malferme tra i corpi accatastati dei dormienti verso l'uscita di quel sepolcro, anime di trapassati che come me trasmigravano nella veglia.

Caracollai su un fianco e tutta la mia salma ossuta ne scricchiolò. Cominciai a riconoscere le sagome familiari dei membri della mia stirpe, nipoti e bisnipoti, nonni e bisnonni, figli, genitori e suoceri. Alcuni acquattati sotto la lunga coda pelosa erano ancora appisolati e, grugnendo, si abbandonavano a quel devastante piacere.

Man mano che il metabolismo ingranava, si facevano sentire i dolori alle giunture, la disidratazione, la pena di ogni singola cellula. Era l'agonia del risveglio, di un tormento che sarebbe durato altri quattro mesi, fino al nuovo letargo. In quei momenti è solo la fame che ti dà la forza di rimetterti in piedi, sapere che se non ingrassi non potrai dormire. «Forza, Visko», mi dissi, «alla tua età puoi ancora ragionevolmente aspettarti altri tre letarghi e quelli, vecchio ghiro, sarebbe un peccato perderseli.»

Come uno zombie mi sollevai sul corpo esangue e legnoso, privo di grassi e di anima, lo spinsi maldestramente in direzione della luce e a quel bagliore lacrimai.

«Sei magro come uno spillo, Visko. Vieni a sghiandare!», mi urlò Jana. Da anni era la compagna cui ero stato fedele, non per un'inclinazione monogama che noi ghiri francamente non abbiamo, ma per pigrizia e desiderio di noia. Era la femmina più brutta e deprimente dell'intera comunità, la più tediosa e sciocca. L'avevo scelta proprio per questo. Perché solo una vita fatta di noia e frustrazioni predispone a sogni appaganti e grandiosi. E sono quelli i momenti che contano. Se l'aldilà, cioè la veglia, è inferno, la vita, cioè il sogno, sarà paradiso. Non viceversa.

[...]

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Pagina 31

Stai perdendo la testa, Viskovitz


«Com'era papà?», chiesi a mia madre.

«Croccante, un po' salato, ricco di fibre.»

«Prima di mangiartelo, voglio dire.»

«Era un tipino insicuro, ansioso, nevrotico, un po' come tutti voi maschietti, Visko.»

Mi sentivo più che mai vicino a quel genitore che non avevo mai conosciuto, che si era disciolto nello stomaco di mamma mentre venivo concepito. Da cui non avevo ricevuto calore, ma calorie. Grazie papà, pensai. So cosa significhi, per un mantide, sacrificarsi per la famiglia.

Mi fermai un attimo in raccoglimento davanti alla sua tomba, cioè a mia madre, e recitai un Miserere.

Dopo un po', poiché pensare alla morte non mancava mai di procurarmi un'erezione, giudicai che fosse arrivato il momento di raggiungere Ljuba, l'insetto che amavo. L'avevo conosciuta circa un mese prima, al matrimonio di mia sorella, che era poi anche il funerale di mio cognato, ed ero rimasto prigioniero della sua crudele bellezza. Da allora avevamo continuato a vederci. Come era stato possibile? Dio mi aveva benedetto col dono più caro a noi mantidi: l'eiaculazione precoce, condizione necessaria di ogni non effimera storia d'amore. Nella prima settimana avevo perso solo un paio di zampe, le raptatorie, nella seconda il prototorace con gli annessi per il volo, nella terza...

«Non farlo, Visko, per l'amor del cielo!», cominciarono a urlarmi i miei amici Zucotic, Petrovic e Lopez, appollaiati sui rami più alti. Per loro la femmina era il demonio, la misoginia una missione. Erano sessualmente deviati o disfunzionali fin dalla metamorfosi, avevano preso i voti del sacerdozio e passavano tutto il santo giorno masticando petali e recitando salmi. Erano molto religiosi.

Ma non c'era preghiera che potesse fermarmi, non ora che sentivo il sospiro gelido della mia bella, il cupo fruscio delle sue membrane, il suo funebre sogghigno. Mossi freneticamente in direzione di quei suoni, con l'unica zampa che mi era rimasta, puntellandomi sulla mia erezione, sforzandomi di visualizzare la gloria delle sue forme, ora che non potevo vederle perché non avevo più ocelli, ora che non potevo odorarle perché non avevo più antenne, ora che non potevo baciarle perché non avevo più palpi.

Per lei avevo ormai perso la testa.

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Pagina 79

Meno parli e meglio è, Viskovitz


Il nostro capobanco, che era anche nostro insegnante, ci diceva sempre: «Un pesce perbene si riconosce dal linguaggio. Non è mai volgare, ti guarda in almeno un occhio quando parla, e soprattutto dice sempre la verità...»

Ce lo diceva nuotando lungo complicati tracciati, alternando i ritmi di battuta della coda e della pinna dorsale, perché la danza è l'unico modo in cui gran parte di noi pesci può comunicare. Un linguaggio inadatto agli impazienti e ai corti di fiato. Poi cercava il mio occhio e inevitabilmente aggiungeva: «Viskovitz, ripeti quello che ho detto».

A quella domanda rispondevo tacendo.

La vita mi aveva già insegnato che l'unico modo per un pesce di dire la verità e dirla educatamente è tacere. E io ero un pesce per bene. Cercherò di spiegarmi meglio.

Se per dir la parola «idroelettrico» devi far sei volte su e giù nell'acqua e toccarti la pinna anale con una branchia, è itticamente impossibile che tu possa mantenere il tuo sguardo sull'interlocutore ed è anche poco probabile che il significato dei tuoi movimenti sia da lui compreso. Magari capisce «anguilla» e si offende. Non è colpa di nessuno, è colpa della lingua, è da lì che nascono tutti i problemi di noi pesci. Prendi il mio nome, Viskovitz. Ci vogliono circa dieci minuti per pronunciarlo correttamente e io lo usavo ormai soltanto come esercizio per dimagrire, anche perché poteva esser facilmente frainteso con: «Certo, se anche tua cugina è d'accordo», oppure: «Percorrimi di baci, ninfa», o anche qualcosa come: «Una serie matematica è perfetta quando ogni termine è il limite di una progressione o di una regressione e ogni progressione e regressione contenuta nella serie ha nella serie stessa un limite».

La confusione è accresciuta dal fatto che ci sono tanti linguaggi quanti sono i banchi e tanti dialetti quanti sono i pesci. Ciò non solo rende difficile parlare, ma altrettanto difficile tacere. Anche un'azione semplice come ingoiare una seppia può essere fraintesa, qualcuno potrebbe vederci una metafora: in alcune culture il nero di seppia rappresenta il «male», l'«inganno», l'«illusorietà della vita»; l'osso invece l'«anima», la «purezza». Ecco perché mangio solo aringhe e preferisco masticarle lontano dai banchi.

Alla radice di tutta la frammentazione che caratterizza gli oceani è la difficoltà di insegnare una lingua a un pesce. Mi spiego meglio. Se tu gli indichi con la bocca una sogliola e poi col tuo corpo disegni una S nell'acqua, lui di solito capisce che quella S vuol dire sogliola. Lo stesso puoi fare con un'aringa, un ghiozzo, un uranoscopo scabro. Ma prova a usare lo stesso sistema per spiegare a quel pesce il concetto di «incommensurabilità» o «classicità» o anche semplicemente «verità». Il pesce giurerà d'esserci arrivato, ma tu puoi star sicuro che avrà capito qualcos'altro, come «bassa marea», «palombaro», «bollicine».

[...]

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Pagina 143

Bevici sopra, Viskovitz


«Papà, voglio smettere di bere.»

«Non dire sciocchezze, Visko, sei una spugna.»

«Che significa? Che dovrei stare tutta la vita appeso a questo scoglio a filtrare e vorticare acqua, come un vegetale?»

«Tu sei un vegetale, Visko, o comunque uno zoofita. Che discorsi...»


Ero disperato. Tutti i miei tentativi di costruirmi una vita natante e perseguire degli ideali fallivano. Ah, se avessi avuto dei muscoli per spingermi fino alla calcispongia che amavo e fondermi con lei in un unico sycon! Ah, se avessi avuto degli occhi per guardarla, una bocca per dirle che l'amavo!

Della mia bella conoscevo solo il profumo azotato che mi era portato dalla corrente. A quelle particelle in sospensione avevo dato una forma, dei pori e un nome: Ljuba.

L'unico modo per coronare la nostra storia d'amore sarebbe stato quello di raggiungerla con qualche spermatozoo, ma la corrente continuava a portarseli dalla parte opposta, verso mia mamma, le mie sorelle, le mie nonne, creando ogni genere di imbarazzo familiare e di complicazione genealogica. La situazione era resa ancora più equivoca dai periodici cambiamenti di sesso che noi spugne ermafrodite ci dovevamo sorbire. Non era facile per me accettare il fatto che mio padre fosse la moglie di sua madre, che sua figlia, cioè mia sorella, fosse suo nonno e sua nonna fosse anche suo fratello, cioè mio zio. Quei rapporti diventavano ancora più morbosi per l'ammassamento dei corpi, era difficile capire dove finivi tu e cominciavano i parenti stretti. E non era facile sviluppare una sana personalità quando i diverticoli delle tue camere flagellate erano in comproprietà con una madre invaginante, delle sorelle incestuose e un padre bisessuale. Quando gli unici tratti anatomici su cui potevi costruire un'identità erano la cavità gastrale e il buco dell'osculo.

Il dramma di essere un vegetale era l'impossibilità di suicidarsi. Il vantaggio di essere una spugna era la possibilità di berci sopra.

Pregavo che accadesse qualcosa. Un moto tellurico, un trauma ecologico, che una seppia mi aiutasse, qualcosa. E finalmente qualcosa cambiò. La corrente. Invertì direzione e mi mise finalmente in condizione di fecondare la spugna che amavo! Ah! Ero esilarato, commosso. Pensai subito di confezionare i miei spermi in gemmule e cominciare il tiro a segno.

Ma non ne trovai.

«Papà», strillai, «sono sterile!»

«Non sei sterile, Visko, sei femmina, come sono io.»

Mi sentii mancare. Come si poteva avere tanta sfortuna? Femmina. E intanto Ljuba era diventata maschio e le sue eiaculazioni non potevano raggiungermi perché ero io a trovarmi controcorrente!

Al danno si unì la beffa e cominciarono a piovermi addosso gli spermi della mamma, delle sorelle, delle nonne...

«Dannazione», imprecai, «dannazione!»

Anche mia figlia mi aveva messa incinta.

Ero la suocera di me stessa, maledizione, la suocera di me stessa!!!

Ma forse è un bene, sospirai. Chissà che così non cominci a odiare la nuora che è in me. Chissà che così la mia infelicità non mi renda finalmente felice.

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Pagina 157

Sei una bestia, Viskovitz


Io, Viskovitz, ero un microbo.

«Non sono le misure che contano, Viskovitz», sentivo dire. «L'importante è esser se stessi.»

Come se fosse facile. Non avevo fatto in tempo ad affezionarmi al mio nome che già ero diventato due microbi, VISKO e VITZ. Figuratevi quando ne diventai quattro: VI, SKO, VI e TZ. Ero a pezzi.

Lo eravamo un po' tutti allora, nel precambriano. «Che ci vuoi fare», sí diceva, «è la vita.» «Metabolismo» mi sembrava un termine più appropriato. La nostra idea di divertimento era sedimentare in compagnia di coacervati e proteinoidi, metano e ammoniaca erano considerati una «bella atmosfera».

Quando cominciarono a chiamarmi V, I, S, KO, V, I, T, Z, capii che era ora di fare qualcosa. Ma cosa? Chi poi? Ero in minoranza anche dentro me stesso, la gente mi dava del «loro».

Fu allora che sentii quella Voce: «V, I, S, KO», mi disse, «è ora di diventare una bestia».

«Bestia?» A quel punto ogni suggerimento andava considerato: quello che per uno era degenerazione per un altro poteva essere evoluzione.

«Non saprei da che parte cominciare», confessammo.

«Dall'essere egoisti, pieni di sé. Ci si aggrappa con tutte le forze al nostro piccolo io, non ti dovrebbe esser difficile...»

Ci provammo. Quel che di mio era rimasto nei miei otto microbi ebbe un sussulto d'orgoglio, un incremento di viscosità, e con un eroico sforzo li fece aggregare in un unico plasmodio. Fu quello il primo organismo pluricellulare, credo, e fu quello il primo vero io. Per l'appunto io, Viskovitz.

«E adesso?», domandai.

«Uhm... Adesso devi imparare a uccidere e divorare il tuo prossimo. Grosso come sei diventato non ti dovrebbe esser difficile.»

«Altri esseri viventi?»

«Solo finché non li hai ammazzati, Visko. Non c'è niente di male: si chiama vita eterotrofa.»

Pericoloso non sembrava, i vicini erano piuttosto mingherlini. Mi guardai attorno e trovai subito quel che faceva al caso mio: Zucotic il bacillo, Petrovic il vibrione e Lopez lo spirillo. Tre paleogermi settici e virulenti che mi avevano ammorbato con le loro tossine per tutto l'archeozoico. Andai lì, li presi a sganassoni e li divorai. Fu il primo esempio di «sopravvivenza del più adatto», un concetto che avrebbe fatto molta strada.

«E adesso?»

«Adesso devi imparare a... far quella cosa... Sì, insomma... congiungerti a un altro organismo e ricombinare. Trovati qualcuno che ti piace e scambiaci un po' di DNA.»

«Ma...»

«Non c'è niente di sconcio, Visko, segui il tuo cuore.»

Pensai che si riferisse a VITZ, le quattro cellule che si agitavano al centro della mia sarcina, con un po' di fantasia le potevi considerare un cuore. Eiettai V e mi misi a guardare dove andava. Subito cominciò a squagliarsela, a prendere il largo con torsioni e flessioni del plasma. Lo inseguii pagaiando con i flagelli finché non lo vidi raggiungere una gelatina albuminoide di micoplasmi argentati, cinta da lunghe cilia filamentose e fimbrie purpuree. Fu lì che ne persi le tracce.

«Ehi, tu, gel!», gridai. «Sbaglio o ti sei presa il mio cuore?»

«Qui i cuori vanno e vengono», sogghignò la rubacuori. «Com'era il tuo?»

«Un micoplasma sferico, piuttosto elastico e cedevole, l'ultima volta che l'ho sentito palpitare.»

«Beh, puoi riaverlo se vuoi. Ma dovrai venire a riprendertelo, plasmodio.»

«Plasmodio è il morfotipo, il nome è Viskovitz.»

«E gel sarà tua zia, il nome è Ljuba.»

Con cautela l'accostai ed aderii alla sua massa collosa, dopodiché estroflessi I, lo irrigidii e lo affondai nel corpo della tipa perché ci trovasse il compare fuggiasco. Dài e dài, finii per perdere anche I, che sgusciò fuori e si tuffò, plasma e periplasma, nell'U di lei.

Fu così che inventai il sesso. Ero stato un po' goffo, ma ci avevo messo il cuore. Chiesi alla gelatina cosa ne pensava.

«Sesso questo?», sbottò a ridere, tremolando tutta. «Questo tu lo chiami sesso?» Continuando a sbellicarsi contrasse il sifone e prese il largo, senza lasciar traccia, lasciandomi lì, col cuore a pezzi.

Era quel vuoto che doleva, quella voragine al centro dell'essere. Non che VISKOTZ fosse un brutto nome, intendiamoci, ma era il nome di un plasmodio ferito, di una bestia menomata nel suo io. Decisi di costruire una gabbia di mureina attorno ai resti di quel cuore.

«Non farlo, Visko», ammonì la voce.

«Ancora tu!», sbottai. «Si può sapere una buona volta chi accidenti sei?»

«Io sono... la voce del tuo plasma più antico. Il Microbo Primordiale, la Protocellula da cui tutti voi siete nati, l'Io che vi comprende tutti. Puoi chiamarmi VI.»

«VI?»

«Sì, il VI. Il VI di VIsko, la tua mente, il VI di VItz, il tuo cuore, il VI del seme che hai sparso, il VI di tutta la vita, figlio mio.»

«Senti senti...» Una sua logica quel discorso l'aveva, qualcosa del primo microbo poteva esser rimasto dentro di me. E negli altri.

«Sicché il tuo plasma sarebbe dentro a tutti quanti, anche in quella Ljuba, per dire un nome.»

«Proprio così. E ti prometto una cosa: la ritroverai, Visko, la ritroverai. E forse le cose ti andranno un po' meglio. Forse.»

«E magari eri anche dentro Zucotic, Petrovic e Lopez?»

«Sì, e lo sono ancora. Anche loro ti toccherà riincontrare, Visko, la mia fantasia è quello che è...»

«Vorresti far evolvere anche loro?»

«Non "evolvere", è una parola che non mi piace, quello che è divertente è "cambiare", Viskovitz.»

«Un momento. Mi hai chiamato Viskovitz, ma sai bene che quel nome non ha più senso.»

«So quel che dico. Guarda nel tuo cuore e vedrai che ho ragione. Su, non aver paura, non è un esercizio spirituale...»

Mi piegai su me stesso, idrolizzai i polisaccaridi e sbirciai. Naturalmente ci vidi solo T e Z. Senonché a quel contatto ravvicinato V e I di Visko cominciarono a ravvivarsi. A duplicare, bilobare, settare e scindersi. Pochi minuti dopo la rigenerazione era completa e mi trovavo davanti a lui, VITZ.

«Che io sia...», strillai. Ero di nuovo io, la vecchia bestia, più in forma che mai. Bene, mi dissi, benone, qui non mi ferma più nessuno, è arrivato il momento di dare una bella lezione a tutti quanti, ecosistema ladro! Scoppiai a piangere e a ridere, come un ragazzino. Ero certo che dalle mie lacrime salate avrebbe avuto inizio il mare, sissignore, il mare, e da lì sarebbe cominciata la vita, la vera vita...

«Bravo, ora sei una bestia», si complimentò la voce, «ma ti rimane ancora una cosa da imparare...»

«Sentiamo. La meiosi? La fermentazione? L'ontogenesi?»

«La morte, Visko.»

«Stai scherzando.»

«Non sei più un microbo, Visko. Le bestie muoiono.»

«Un momento, amico, un momento... Rinunciare a tutto?»

«Tutto.»

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