Copertina
Autore Roberto Bolaņo
Titolo 2666
SottotitoloLa parte dei critici - La parte di Amalfitano - La parte di Fate
EdizioneAdelphi, Milano, 2007, Fabula 188 , pag. 436, cop.fle., dim. 14x22x2,3 cm , Isbn 978-88-459-2208-4
Originale2666 [2004]
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe narrativa cilena
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    1. La parte dei critici                  13

    2. La parte di Amalfitano               205

    3. La parte di Fate                     289


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

La parte dei critici



La prima volta che Jean-Claude Pelletier lesse Benno von Arcimboldi fu all'età di diciannove anni, durante le feste di Natale del 1980, a Parigi, dove studiava letteratura tedesca all'università. Il libro in questione era D'Arsonval. Il giovane Pelletier allora non sapeva che il romanzo faceva parte di una trilogia (costituita dal Giardino, di ambientazione inglese, La maschera di cuoio, di ambientazione polacca, così come D'Arsonval, evidentemente, era di ambientazione francese), ma tale ignoranza o lacuna o negligenza bibliografica, che poteva essere addebitata soltanto alla sua estrema giovinezza, non sminuì di una virgola lo stupore e l'ammirazione che il libro suscitò in lui.

A partire da quel giorno (o dalla notte fonda in cui diede per conclusa quella lettura inaugurale) divenne un arcimboldiano entusiasta e diede inizio al suo pellegrinaggio in cerca di altre opere del suddetto autore. Non fu compito facile. Pur essendo a Parigi, trovare dei libri di Benno von Arcimboldi negli anni Ottanta del Novecento non era affatto un'impresa priva di ostacoli. Nella biblioteca del dipartimento di letteratura tedesca della sua università non si trovava quasi nessun riferimento ad Arcimboldi. I suoi professori non ne avevano mai sentito parlare. Uno di loro disse che il nome gli ricordava qualcosa. Dopo dieci minuti Pelletier scopri con furia (con sgomento) che il professore pensava al pittore italiano, sul quale, peraltro, si mostrò olimpicamente non meno ignorante.

Scrisse alla casa editrice di Amburgo che aveva pubblicato D'Arsonval, ma non ebbe risposta. Perlustrò, inoltre, le poche librerie specializzate che riuscì a trovare a Parigi. Il nome di Arcimboldi compariva in un dizionario enciclopedico di letteratura tedesca e in una rivista belga dedicata, non capì mai se per scherzo o sul serio, alla letteratura prussiana. Nel 1981 fece un viaggio in Baviera insieme a tre amici della facoltà, e lì, in una piccola libreria di Monaco, in Voralmstrasse, trovò altre due opere, l'esile volumetto di cento pagine scarse dal titolo Il tesoro di Mitzi e il già citato romanzo inglese Il giardino.

La lettura di questi due nuovi libri contribuì a rafforzare l'opinione che Pelletier già aveva di Arcimboldi. Nel 1983, a ventidue anni, si assunse il compito di tradurre D'Arsonval. Nessuno gli aveva chiesto di farlo. Non c'era allora alcun editore francese interessato a pubblicare quel tedesco dal nome strano. Pelletier iniziò a tradurlo fondamentalmente perché gli piaceva, perché era felice di farlo; certo, immaginò anche di presentare quella traduzione, preceduta da uno studio dell'opera arcimboldiana, come tesi e, chissà, come prima pietra del suo futuro dottorato.

Terminò la versione definitiva nel 1984 e una casa editrice parigina, dopo alcune letture titubanti e contraddittorie, accettò di pubblicarla. Il romanzo di Arcimboldi, destinato a priori a non vendere più di mille copie, dopo un paio di recensioni contraddittorie, positive, persino eccessive, esaurì le tremila copie della prima tiratura aprendo le porte a una seconda e a una terza e a una quarta edizione.

A quel punto Pelletier aveva già letto quindici libri dell'autore tedesco, ne aveva tradotti altri due ed era considerato, quasi unanimemente, il maggior specialista di Benno von Arcimboldi che ci fosse in tutta quanta la Francia.


Allora Pelletier poté ricordare il giorno in cui aveva letto per la prima volta Arcimboldi e si rivide, giovane e povero, in una chambre de bonne, dove divideva il lavabo, in cui si lavava la faccia e i denti, con altre quindici persone che abitavano l'oscura mansarda, e dove cacava in un bagno orribile e ben poco igienico che non sembrava neppure un bagno ma una latrina o un pozzo nero, anche quello condiviso con gli altri quindici residenti, alcuni dei quali erano ormai tornati in provincia, provvisti del loro titolo universitario, oppure si erano trasferiti in posti un po' più confortevoli nella stessa Parigi, oppure, in pochi, erano ancora lì a vegetare o a morire lentamente di schifo.

Si rivide, dicevamo, ascetico e chino sui dizionari di tedesco, illuminato da una fioca lampadina, magro e ostinato, come se tutto in lui fosse volontà fatta carne, ossa e muscoli, niente grasso, fanatico e deciso a farcela, insomma un'immagine abbastanza consueta di studente nella capitale, che in lui tuttavia agì come una droga, una droga che lo fece piangere, una droga che aprì, come scriveva un lezioso poeta olandese dell'Ottocento, le dighe della commozione e di qualcosa che a prima vista sembrava autocommiserazione ma non lo era affatto (cos'era allora, rabbia?, è assai probabile), e che lo portò a pensare e a ripensare, non con parole ma con immagini dolenti, al suo periodo di apprendistato giovanile, e dopo una lunga notte forse inutile lo costrinse a trarre due conclusioni. La prima, che la vita così come l'aveva vissuta fino allora era finita; la seconda, che gli si apriva davanti una brillante carriera: per mantenerla tale doveva preservare, unico ricordo di quella mansarda, la sua volontà. Il compito non gli parve difficile.


Jean-Claude Pelletier era nato nel 1961 e nel 1986 era già professore ordinario di letteratura tedesca a Parigi. Piero Morini era nato nel 1956, in un paese vicino a Napoli, e per quanto avesse letto Benno von Arcimboldi nel 1976, cioè quattro anni prima di Pelletier, solo nel 1988 sarebbe arrivato a tradurre il suo primo romanzo dell'autore tedesco, Bifurcaria bifurcata, passato nelle librerie italiane con più infamia che lode.

La situazione di Arcimboldi in Italia, bisogna dirlo, era ben diversa da quella francese. In realtà, Morini non era stato il suo primo traduttore. Anzi, il primo romanzo di Arcimboldi capitato nelle mani di Morini fu La maschera di cuoio nella traduzione di un certo Colosimo per Einaudi, nel 1969. Dopo La maschera di cuoio in Italia erano stati pubblicati Fiumi d'Europa nel 1971,

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 33

E quando questo scrittore scialbo, che era svevo, iniziò a parlare (o dialogare) ricordando il suo percorso come giornalista, come redattore di pagine culturali, come intervistatore di ogni tipo di creativi restii alle interviste, e poi si mise a rimembrare l'epoca in cui aveva lavorato come organizzatore culturale in municipi periferici o, detto chiaro e tondo, dimenticati, ma con un certo interesse per la cultura, all'improvviso, del tutto a sproposito, saltò fuori il nome di Arcimboldi (forse per influsso della conferenza precedente tenuta da Espinoza e Pelletier) che lui aveva conosciuto proprio mentre lavorava come organizzatore culturale in un municipio frisone, a nord di Wilhelmshaven, davanti al Mare del Nord e alle isole Frisie Orientali, un posto dove faceva freddo, molto freddo, e più che freddo c'era umido, un'umidità salmastra che ti entrava nelle ossa, e avevi solo due modi per passare l'inverno, uno, bevendo fino a farti venire la cirrosi, e due, ascoltando musica nella sala del municipio (di regola quartetti da camera di dilettanti) o parlando con scrittori che venivano da altri posti ed erano pagati ben poco, una stanza nell'unica pensione del paese e qualche marco a coprire il biglietto di andata e ritorno in treno, quei treni così diversi dagli attuali treni tedeschi, ma dove la gente, forse, era più loquace, più educata, più interessata al prossimo, insomma, dopo il pagamento, tolte le spese di viaggio, lo scrittore se ne andava e tornava a casa sua (che a volte era solo una camera d'albergo a Francoforte o a Colonia) con un po' di soldi e magari dei libri venduti, nel caso di quegli scrittori o poeti, soprattutto poeti, che dopo aver letto qualche pagina e aver risposto alle domande della gente del posto montavano, per così dire, la loro bancarella e ne ricavavano qualche marco in più, un'attività abbastanza apprezzata all'epoca, perché se alla gente piaceva quello che veniva letto dallo scrittore, o se la lettura riusciva a emozionarli o a divertirli o a farli pensare, allora compravano anche uno dei suoi libri, a volte per tenerlo come ricordo di quella piacevole serata, mentre fuori il vento fischiava per le viuzze del paesello frisone e tagliava le orecchie talmente era freddo, a volte per leggere o rileggere una poesia o un racconto, di nuovo nelle loro abitazioni, settimane dopo l'evento, magari alla luce di una lampada a petrolio perché non sempre c'era la corrente, si sa, la guerra era finita da poco e le ferite sociali ed economiche erano ancora aperte, insomma, più o meno come si organizza una presentazione oggi, a parte il fatto che i libri esposti sulla bancarella erano libri pubblicati in proprio mentre ora sono le case editrici a montare la bancarella, e uno di quegli scrittori arrivati un giorno nel paese dove lo svevo faceva l'organizzatore culturale era stato Benno von Arcimboldi, un autore della statura di Gustav Heller o Rainer Kuhl o Wilhelm Frayn (scrittori che Morini avrebbe poi cercato nella sua enciclopedia di autori tedeschi, del tutto invano), ma lui non portò libri, e lesse due capitoli del romanzo che stava scrivendo, il secondo romanzo, spiegò lo svevo, il primo l'aveva pubblicato quell'anno ad Amburgo, e anche se Arcimboldi non ne lesse una riga quel primo romanzo esisteva, disse lo svevo, e l'autore, quasi prevenendo i sospetti, ne aveva portato con sé un esemplare, un romanzetto sulle cento pagine, forse di più, centoventi, centoventicinque, e lo teneva nella tasca del giaccone e, cosa strana, lo svevo ricordava con maggiore chiarezza il giaccone di Arcimboldi che non il romanzo ficcato nella tasca del giaccone, un romanzetto con la copertina sporca, spiegazzata, che era stata di un avorio intenso, o di un giallo grano pallido, o di un oro ormai in fase d'invisibilità, ma che adesso non aveva più colori né sfumature, solo il titolo e il nome dell'autore e il marchio della casa editrice, il giaccone, invece, era indimenticabile, un giaccone di cuoio nero, con il colletto alto, capace di offrire una protezione efficace contro neve e pioggia e freddo, ampio, da indossare con maglioni pesanti o con due maglioni senza che si notasse, e tasche orizzontali su ogni lato, e una fila di quattro bottoni cuciti come con filo da pesca, né troppo grandi né troppo piccoli, un giaccone che evocava, non so perché, quelli che usavano certi poliziotti della Gestapo, anche se all'epoca i giacconi di cuoio nero erano di moda e chiunque avesse i soldi per comprarseli o ne avesse ereditato uno se lo metteva senza stare a pensare cosa evocava, e quello scrittore che era giunto nel paese frisone era Benno von Arcimboldi, il giovane Benno von Arcimboldi, all'età di ventinove o trent'anni, ed era stato lui, lo svevo, ad andare a prenderlo al treno e a portarlo alla pensione, parlando del clima, così brutto, e poi lo aveva accompagnato in municipio dove Arcimboldi non aveva messo su alcuna bancarella e aveva letto due capitoli di un romanzo non ancora finito, e poi aveva cenato con lui nella taverna del paese, insieme alla maestra e a una signora vedova che preferiva la pittura e la musica alla letteratura, ma che trovandosi in circostanze che non offrivano né pittura né musica non disdegnava affatto una serata letteraria, e fu proprio questa signora a sostenere in qualche modo il peso della conversazione durante la cena (salsicce e patate, annaffiate di birra; l'epoca, ricordò lo svevo, e i fondi del municipio non consentivano maggiori dispendi), anche se forse parlare di peso della conversazione era improprio, diciamo che dava il la, che teneva il timone, e gli uomini che sedevano a tavola, il segretario del sindaco, un signore che si dedicava alla vendita di pesce sotto sale, un vecchio maestro che si assopiva continuamente, persino con la forchetta in mano, e un impiegato del comune, un ragazzo molto simpatico di nome Fritz, grande amico dello svevo, annuivano o si guardavano dal contraddire la temibile vedova che vantava conoscenze artistiche superiori a quelle di tutti, compreso lo svevo, e che aveva visitato l'Italia e la Francia e in uno dei suoi viaggi, una crociera indimenticabile, era addirittura arrivata fino a Buenos Aires, nel 1927 o 1928, quando la città era un emporio della carne e le navi frigorifere uscivano dal porto stracariche, uno spettacolo degno di essere contemplato, centinaia di navi che arrivavano vuote e ripartivano con le stive piene di tonnellate di carne destinate a tutto il mondo, e quando lei, la signora, compariva in coperta, di notte per esempio, addormentata o con la nausea o sofferente, le bastava appoggiarsi al parapetto e lasciare che gli occhi si abituassero, e subito la visione del porto era sconvolgente e cancellava di colpo le tracce di sonno o le tracce di nausea o le tracce di sofferenza, nel sistema nervoso c'era spazio solo per arrendersi senza condizioni a quell'immagine, la lunga fila di immigrati che come formiche trasportava nelle stive delle navi la carne di migliaia di vacche morte, gli spostamenti dei bancali carichi della carne di migliaia di vitelli sacrificati, e il colore vaporoso che pian piano tingeva ogni angolo del porto, da quando albeggiava all'imbrunire e persino durante i turni di notte, un colore rosso da bistecca poco cotta, da braciola, da filetto, da costata appena scottata sulla griglia, che orrore, meno male che questo la signora, all'epoca non ancora vedova, lo visse solo la prima notte, poi sbarcarono e presero alloggio in uno degli alberghi più costosi di Buenos Aires, e andarono all'opera e poi in una tenuta dove il marito, esperto cavallerizzo, accettò di fare una corsa con il figlio del padrone della tenuta, che perse, e poi con un peón della tenuta, uomo di fiducia del figlio, un gaucho, che perse anche lui, e poi con il figlio del gaucho, un giovane gaucho di sedici anni, magro come uno stecco e con gli occhi vivaci, così vivaci che quando la signora lo guardò il giovane gaucho chinò il capo e poi lo rialzò un pochino e la fissò con una malizia che offese la signora, ma che moccioso insolente, mentre il marito rideva e le diceva in tedesco: sei riuscita a far colpo sul ragazzino, una battuta che la signora non trovò minimamente divertente, e poi il giovane gaucho salì a cavallo e partirono al galoppo, come era bravo il giovane gaucho, con quanta passione si teneva, si sarebbe detto si attaccava al collo del cavallo, e sudava e lo frustava, ma alla fine la corsa la vinse il marito, non per nulla era stato capitano di un reggimento di cavalleria, e il padrone della tenuta e il figlio del padrone della tenuta si alzarono in piedi e applaudirono, sapevano perdere, e applaudì anche il resto degli invitati, ottimo cavallerizzo il tedesco, straordinario cavallerizzo, anche se quando il giovane gaucho arrivò al traguardo, cioè accanto al portico della tenuta, l'espressione del suo viso non rivelò un buon perdente, al contrario, era arrabbiato, offeso, stava a testa bassa, e mentre gli uomini si sparpagliarono nel portico, conversando in francese, in cerca di una coppa di champagne ghiacciato, la signora si avvicinò al giovane gaucho, che era rimasto solo e teneva il cavallo con la sinistra – il padre si allontanava in fondo al lungo cortile con il cavallo che aveva montato il tedesco – e gli disse, in una lingua incomprensibile, di non rattristarsi, aveva fatto un'ottima corsa ma anche suo marito era bravissimo e aveva più esperienza, parole che al giovane gaucho suonarono come la luna, come il passaggio delle nuvole sopra la luna, come un lentissimo temporale, e allora il ragazzino guardò la signora dal basso con uno sguardo rapace, pronto a piantarle un coltello all'altezza dell'ombelico per poi salire fino ai seni, sventrandola, mentre il suo sguardo di piccolo macellaio inesperto brillava di una luce strana, ricordava la signora, cosa che non le impedì di seguirlo senza protestare quando lui la prese per mano e la condusse dall'altra parte della casa, in un posto con una pergola di ferro battuto e aiuole di fiori e alberi che la signora non aveva mai visto in vita sua o che in quell'istante credette di non aver mai visto in vita sua, e anche una fontana nel parco, vide una fontana di pietra al cui centro, ritto su una sola gambetta, danzava un cherubino criollo dai tratti ilari, metà europeo e metà cannibale, perennemente bagnato dai tre getti di acqua che sgorgavano ai suoi piedi, e scolpito in un solo pezzo di marmo nero, che la signora e il giovane gaucho ammirarono a lungo, finché non sopraggiunse una lontana cugina del padrone della tenuta (o una concubina che il padrone della tenuta aveva smarrito in una delle tante pieghe della sua memoria), e in un inglese perentorio e indifferente le disse che suo marito la stava cercando da un pezzo, e allora la signora si accinse ad abbandonare il parco incantato a braccetto della lontana cugina, e il giovane gaucho la chiamò, o così le parve, e quando si voltò lui le disse poche parole sibilanti, e la signora gli accarezzò la testa e quindi chiese alla cugina cosa avesse detto il gaucho mentre le sue dita si perdevano fra i grossi crini dei suoi capelli, e la cugina sembrò esitare un istante ma la signora, che non tollerava bugie né mezze verità, pretese una traduzione immediata e fedele, e la cugina rispose: il piccolo gaucho ha detto... il piccolo gaucho ha detto... che il padrone... aveva organizzato tutto perché suo marito vincesse le ultime due corse, e poi la cugina tacque e il giovane gaucho si allontanò verso l'altro capo del parco trascinando il cavallo per le redini, e la signora fece ritorno alla festa ma non poté smettere di pensare a quello che le aveva confessato all'ultimo momento il giovane gaucho, anima candida, e per quanto ci pensasse quelle parole restavano un enigma, un enigma che durò per tutto il resto della festa, e che la tormentò mentre si rigirava nel letto senza riuscire a dormire, che la frastornò il giorno dopo durante una lunga passeggiata a cavallo e durante una grigliata, e che l'accompagnò sulla via del ritorno a Buenos Aires, e per tutti i giorni che rimase in albergo o andò ai ricevimenti mondani dell'ambasciata tedesca o dell'ambasciata inglese o dell'ambasciata ecuadoriana, e che si sciolse solo sulla nave, quando navigavano da giorni alla volta dell'Europa, una notte, alle quattro del mattino, la signora uscì a fare una passeggiata in coperta, senza sapere né pensare a quale grado di latitudine o longitudine si trovassero, circondata o semicircondata da 106.200.000 chilometri quadrati di acqua salata e, proprio allora, mentre la signora dal primo ponte di coperta dei passeggeri di prima classe accendeva una sigaretta, con lo sguardo inchiodato a quella distesa marina che non vedeva ma sentiva, l'enigma, miracolosamente, si risolse, e in quell'istante, a quel punto della storia, disse lo svevo, la signora, quella signora frisona un tempo ricca e potente e intelligente (a modo suo almeno) tacque, e un silenzio religioso, o peggio ancora superstizioso, s'impadronì di quella triste taverna tedesca del dopoguerra, dove a poco a poco tutti cominciarono a sentirsi sempre più a disagio, e si affrettarono a ingoiare i resti di patate e salsicce e a scolarsi le ultime gocce dei loro boccali di birra, come se temessero che da un momento all'altro la signora potesse mettersi a urlare come un'erinni e stimassero più prudente essere pronti a uscire in strada affrontando il freddo con lo stomaco pieno fino a casa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 149

La prima impressione che i critici ebbero di Amalfitano fu piuttosto brutta, perfettamente in sintonia con la mediocrità del posto, sennonché il posto, la vasta città nel deserto, poteva esser visto come qualcosa di tipico, qualcosa pieno di colore locale, una riprova della ricchezza spesso atroce del paesaggio umano, mentre Amalfitano poteva esser visto soltanto come un naufrago, un tipo vestito in modo trascurato, un professore inesistente di un'università inesistente, il soldato semplice di una battaglia perduta in anticipo contro la barbarie o, in termini meno melodrammatici, come quello che alla fin fine era, un malinconico professore di filosofia al pascolo nel suo campo, il dorso di una bestia capricciosa e infantiloide che si sarebbe brucata Heidegger in un solo boccone, se mai Heidegger avesse avuto la iella di nascere sulla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Espinoza e Pelletier videro in lui un uomo fallito, fallito soprattutto perché aveva vissuto e insegnato in Europa, che cercava di proteggersi sotto una scorza dura, ma era tradito dalla sua intrinseca delicatezza. L'impressione della Norton, al contrario, fu quella di un tipo molto triste, che si spegneva a passi da gigante e non aveva la minima voglia di far loro da guida in città.


Quella sera i tre critici andarono a letto relativamente presto. Pelletier sognò la tazza del water. Veniva svegliato da un rumore attutito e si alzava nudo e vedeva da sotto la porta che qualcuno aveva acceso la luce nel bagno. All'inizio pensava fosse la Norton, o addirittura Espinoza, ma mentre si avvicinava sapeva già che non poteva essere nessuno dei due. Quando apriva la porta, il bagno era vuoto. Per terra scorgeva grandi macchie di sangue. La vasca e la tenda della vasca esibivano croste non del tutto indurite di una sostanza che lì per lì a Pelletier sembrava fango o vomito, ma che ben presto si rivelava merda. Il senso di schifo provocato dalla merda era molto più forte della paura provocata dal sangue. Al primo conato si svegliò.

Espinoza sognò il quadro con il deserto. Nel sogno Espinoza si tirava su nel letto fino a sedersi e da lì, come se guardasse la televisione su uno schermo di oltre un metro e mezzo per un metro e mezzo, si metteva a contemplare il deserto statico e luminoso, di un giallo solare che faceva male agli occhi, e le figure a cavallo, e i loro movimenti, dei cavalieri e dei cavalli, che erano appena percettibili, come se abitassero un mondo differente dal nostro, dove la velocità era diversa, una velocità che per Espinoza era lentezza, anche se sapeva che grazie a quella lentezza l'osservatore del quadro, chiunque fosse, non impazziva. E poi c'erano le voci. Espinoza le ascoltò. Voci appena udibili, all'inizio solo fonemi, brevi gemiti lanciati come meteoriti sul deserto e sullo spazio costruito della stanza d'albergo e del sogno. Fu però capace di riconoscere alcune parole isolate. Rapidità, premura, velocità, leggerezza. Le parole si facevano strada nell'aria rarefatta del quadro come radici virali in mezzo a carne morta. La nostra cultura, diceva una voce. La nostra libertà. La parola libertà suonava a Espinoza come un colpo di frusta in un'aula vuota. Quando si svegliò, stava sudando.

Nel suo sogno, la Norton si vedeva riflessa in entrambi gli specchi. In uno davanti e nell'altro di spalle. Il suo corpo era leggermente obliquo. Era impossibile dire con certezza se volesse avanzare o retrocedere. La luce nella stanza era tenue ed evanescente, come quella di un tramonto inglese. Non c'era alcuna lampada accesa. La sua immagine negli specchi appariva vestita come per uscire, con un tailleur grigio e, cosa strana, perché la Norton usava di rado quell'accessorio, con un cappellino grigio che ricordava le riviste di moda degli anni Cinquanta. Probabilmente portava scarpe col tacco, nere, anche se non riusciva a scorgerle. L'immobilità, qualcosa nel suo corpo che induceva a pensare a roba inerte e anche inerme, la portava però a chiedersi cosa stava aspettando per andarsene, quale notizia attendeva per uscire dal campo degli specchi e aprire la porta e sparire. Aveva forse sentito un rumore nel corridoio? Qualcuno passando aveva forse tentato di aprire la sua porta? Un ospite distratto dell'albergo? Un dipendente, qualcuno mandato dalla reception, una donna delle pulizie? Il silenzio, nonostante tutto, era totale e racchiudeva anche una sorta di calma, qualcosa dei lunghi silenzi che precedono la notte. All'improvviso la Norton si rese conto che la donna riflessa nello specchio non era lei. Provò paura e curiosità e rimase immobile a osservare, con maggior attenzione se possibile, la figura nello specchio. Oggettivamente, si disse, è uguale a me e non ho alcuna ragione per pensare il contrario. Sono io. Ma poi notò il collo: una vena gonfia, come fosse sul punto di scoppiare, scendeva dall'orecchio fino alla clavicola. Una vena che sembrava più disegnata che reale. Allora la Norton pensò: devo andarmene da qui. E percorse la stanza con gli occhi cercando di scoprire il punto esatto in cui si trovava la donna, ma non riuscì a vederla. Per riflettersi in entrambi gli specchi, si disse, doveva stare esattamente fra il piccolo corridoio d'ingresso e la camera. Ma non la vide. Quando la guardò negli specchi, notò un cambiamento. Il collo della donna si muoveva in modo quasi impercettibile. Anch'io sono riflessa negli specchi, si disse la Norton. E se lei continua a muoversi, alla fine ci guarderemo tutte e due. Vedremo i nostri visi. La Norton strinse i pugni e aspettò. Anche la donna dello specchio strinse i pugni, come se facesse uno sforzo sovrumano. La luce che entrava nella stanza prese una tonalità cinerea. La Norton ebbe l'impressione che fuori, nelle strade, si fosse scatenato un incendio. Cominciò a sudare. Chinò la testa e chiuse gli occhi. Quando guardò di nuovo gli specchi, la vena gonfia della donna era cresciuta di volume e il profilo cominciava a delinearsi. Devo fuggire, pensò. E ancora: dove sono Jean-Claude e Manuel? Pensò anche a Morini. Vide soltanto una sedia a rotelle vuota e dietro un bosco enorme, impenetrabile, di un verde quasi nero, che tardò a riconoscere come Hyde Park. Quando aprì gli occhi, lo sguardo della donna nello specchio e il suo s'incrociarono in un punto imprecisato della stanza. Gli occhi di lei erano uguali ai suoi. Gli zigomi, le labbra, la fronte, il naso. La Norton si mise a piangere e pensò che piangeva dal dolore o dalla paura. Č uguale a me, si disse, ma lei è morta. La donna provò a sorridere e poi, quasi di colpo, una smorfia di paura le sfigurò il volto. Allarmata, la Norton guardò indietro, ma dietro non c'era nessuno, solo il muro della stanza. La donna tornò a sorriderle. Stavolta il sorriso non fu preceduto da una smorfia, ma da un'espressione di profondo abbattimento. E poi la donna sorrise ancora e il suo volto si fece ansioso e poi inespressivo e poi nervoso e poi rassegnato e poi passò attraverso tutte le espressioni della follia e ogni volta le sorrideva di nuovo, mentre la Norton, ritrovato il sangue freddo, aveva tirato fuori un taccuino e prendeva appunti velocissimi su ogni cosa che accadeva, come se vi fosse cifrato il suo destino o la sua parte di felicità sulla terra, e continuò così finché non si svegliò.


Quando Amalfitano disse che nel 1974 aveva tradotto La rosa infinita per una casa editrice argentina, l'opinione dei critici cambiò. Vollero sapere dove aveva imparato il tedesco, come aveva conosciuto l'opera di Arcimboldi, quali libri suoi aveva letto, quale opinione se n'era fatto. Amalfitano disse che il tedesco lo aveva imparato in Cile, alla scuola tedesca che aveva frequentato da piccolo, anche se a quindici anni si era trasferito, per motivi suoi, in un liceo pubblico. Da quanto poteva ricordare, era entrato in contatto con l'opera di Arcimboldi all'età di vent'anni, quando aveva letto, in tedesco, prendendo i libri a prestito in una biblioteca di Santiago, La rosa infinita, La maschera di cuoio e Fiumi d'Europa. La biblioteca aveva solo quei tre libri e Bifurcaria bifurcata, ma quest'ultimo non era riuscito a finirlo. Era una biblioteca pubblica arricchita dal fondo di un signore tedesco che aveva raccolto moltissimi libri nella sua lingua e prima di morire li aveva donati alla circoscrizione, nel quartiere di Nunoa, a Santiago.

Naturalmente l'opinione che Amalfitano aveva di Arcimboldi era buona, e tuttavia molto lontana dall'adorazione nutrita dai critici per l'autore tedesco. Ad Amalfitano, per esempio, sembravano altrettanto bravi Günter Grass o Arno Schmidt. Quando i critici vollero sapere se la traduzione della Rosa infinita era stata un'idea sua o gli era stata affidata da un editore, Amalfitano rispose che per quanto poteva ricordare erano stati i redattori della casa editrice argentina ad avere l'idea. All'epoca, disse, traducevo tutto quello che potevo, e lavoravo anche come correttore di bozze. L'edizione, da quanto ne sapeva, era stata un'edizione pirata, anche se questo l'aveva pensato molto tempo dopo e non poteva esserne sicuro.

Quando i critici, già molto più benevoli nei suoi confronti, gli chiesero cosa ci faceva in Argentina nel 1974, Amalfitano li guardò e poi guardò il suo margarita e disse, come se lo avesse ripetuto molte volte, che nel 1974 era in Argentina per via del colpo di stato in Cile, che lo aveva obbligato a prendere la via dell'esilio. E poi chiese scusa per quel modo un po' magniloquente di esprimersi. Chi va con lo zoppo, concluse, ma nessuno dei critici diede grande importanza a quell'ultima frase.

«L'esilio deve essere qualcosa di terribile » disse la Norton, comprensiva.

«In realtà,» ribatté Amalfitano «ora lo vedo come un movimento naturale, qualcosa che, a suo modo, contribuisce ad abolire il destino o quello che comunemente è considerato il destino».

«Ma l'esilio» disse Pelletier «è pieno di inconvenienti, di salti e rotture che più o meno si ripetono e che rendono difficile realizzare qualunque cosa di importante ci si proponga».

«Č proprio lì che sta l'abolizione del destino» disse Amalfitano. «E scusatemi ancora».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 205

La parte di Amalfitano



Non so cosa sono venuto a fare a Santa Teresa, si disse Amalfitano dopo una settimana che viveva in quella città. Non lo sai? Davvero non lo sai?, si chiese. Proprio non lo so, si disse, e non avrebbe potuto essere più eloquente.


Aveva una casetta a un solo piano, tre stanze, un bagno con la vasca più uno di servizio, cucina all'americana, una sala da pranzo con finestre che davano a ponente, una piccola veranda di mattoni dove c'era una panchina di legno sciupata dal vento che tirava dalle montagne e dal mare, sciupata dal vento del nord, il vento delle vallate, e dal vento che odorava di fumo e veniva da sud. Aveva libri che conservava da più di venticinque anni. Non erano molti. Tutti vecchi. Aveva libri comprati da meno di dieci anni che non gli dispiaceva prestare o perdere o vedersi rubare. Aveva libri che gli capitava di ricevere perfettamente impacchettati da mittenti sconosciuti e non apriva neppure. Aveva un cortile ideale per seminarvi un prato e piantarvi dei fiori, anche se non sapeva quali fossero i fiori più indicati da piantare, non cactus o cactacee ma fiori. Aveva tempo (così credeva) da dedicare alla cura di un giardino. Aveva una recinzione in legno che aveva bisogno di una mano di vernice. Aveva uno stipendio mensile.


Aveva una figlia che si chiamava Rosa e che era sempre vissuta con lui. Sembrava difficile, ma era così.


A volte, durante la notte, ricordava la madre di Rosa e a volte rideva e a volte gli veniva da piangere. La ricordava quando era chiuso nel suo studio e Rosa dormiva nella sua camera. Il salotto era vuoto e tranquillo e con la luce spenta. Nella veranda, se uno si fosse messo ad ascoltare con attenzione, avrebbe sentito il ronzio di qualche rara zanzara. Ma nessuno stava in ascolto. Le case vicine erano silenziose e buie.


Rosa aveva diciassette anni ed era spagnola. Amalfitano ne aveva cinquanta ed era cileno. Rosa aveva il passaporto da quando aveva dieci anni. Durante alcuni dei loro viaggi, ricordava Amalfitano, si erano trovati in situazioni strane, perché Rosa passava la dogana dall'uscita riservata ai cittadini comunitari e Amalfitano dall'uscita riservata a quelli non comunitari. La prima volta Rosa aveva fatto una scenata e si era messa a piangere perché non voleva separarsi dal padre. In un'altra occasione, visto che le code avanzavano con ritmi molto diversi, rapida quella dei cittadini comunitari, più lenta e soggetta a maggiore zelo l'altra, Rosa si era persa e Amalfitano ci aveva messo mezz'ora a ritrovarla. A volte la polizia di frontiera vedeva Rosa, così piccolina, e le chiedeva se viaggiava da sola o se qualcuno l'aspettava all'uscita. Rosa rispondeva che viaggiava con suo padre, che era sudamericano, e che doveva aspettarlo lì. Una volta le avevano perquisito la valigia perché sospettavano che il padre volesse far passare droga o armi riparandosi dietro l'innocenza e la nazionalità della figlia. Ma Amalfitano non si era mai dedicato al traffico di droga e neppure di armi.


Quella che invece viaggiava sempre armata, ricordava Amalfitano mentre fumava una sigaretta messicana seduto nel suo studio o in piedi nella veranda al buio, era Lola, la madre di Rosa, che non si separava mai da un coltello a serramanico di acciaio inossidabile con l'apertura a scatto. Una volta, prima che nascesse Rosa, li avevano fermati in aeroporto, e le avevano chiesto cosa ci faceva lì quel coltello. Č per sbucciare la frutta, aveva detto Lola. Arance, mele, pere, kiwi, quel genere di frutta. Il poliziotto l'aveva fissata a lungo e poi l'aveva lasciata passare. Un anno e alcuni mesi dopo questo incidente era nata Rosa. Due anni dopo Lola se n'era andata di casa, portando con sé il coltello.


Il pretesto a cui ricorse Lola per andarsene fu di far visita al suo poeta preferito, che viveva nel manicomio di Mondragón, vicino a San Sebastián. Amalfitano ascoltò le sue ragioni per tutta una serata mentre Lola preparava lo zaino e gli assicurava che presto sarebbe tornata a casa da lui e dalla bambina. Lola, soprattutto negli ultimi tempi, sosteneva di aver conosciuto il poeta nel corso di una festa a Barcellona, prima che Amalfitano entrasse nella sua vita. A questa festa, che Lola definiva una festa selvaggia, una festa tardiva spuntata all'improvviso in mezzo al caldo dell'estate e a una carovana di automobili con le luci rosse accese, era andata a letto con lui e avevano fatto l'amore tutta la notte, anche se Amalfitano sapeva che non era vero, non solo perché il poeta era omosessuale, ma anche perché Lola aveva avuto notizia della sua esistenza grazie a lui, che gli aveva regalato uno dei suoi libri. Poi Lola aveva provveduto a comprare il resto dell'opera del poeta e a scegliere i suoi amici fra le persone che ritenevano il poeta un illuminato, un extraterrestre, un inviato di Dio, amici che a loro volta erano appena usciti dal manicomio di Sant Boi o che erano diventati pazzi dopo ripetute cure di disintossicazione. In realtà, Amalfitano sapeva che presto o tardi sua moglie si sarebbe messa sulla strada di San Sebastián, così aveva preferito evitare discussioni, offrirle parte dei suoi risparmi, pregarla di tornare entro qualche mese e assicurarle che si sarebbe preso ogni cura della bambina. Lola sembrava non sentire nulla. Quando il suo zaino fu pronto, andò in cucina, preparò due caffè e rimase lì ferma ad aspettare l'alba, benché Amalfitano si sforzasse di trovare argomenti di conversazione che potessero interessarla o, quanto meno, renderle più lieve l'attesa. Alle sei e mezzo del mattino suonò il citofono e Lola fece un salto. Sono venuti a prendermi, disse, e vista la sua immobilità Amalfitano dovette alzarsi e chiedere chi era. Sentì una voce molto fragile rispondere sono io. Chi è?, ripeté Amalfitano. Aprimi, sono io, disse la voce. Chi?, insisté Amalfitano. La voce, senza perdere quel tono di fragilità assoluta, parve irritarsi per l'interrogatorio. Io io io io, disse. Amalfitano chiuse gli occhi e aprì il portone del palazzo. Sentì il rumore delle carrucole dell'ascensore e tornò in cucina. Lola era ancora seduta e beveva a piccoli sorsi le ultime gocce di caffè. Credo sia per te, disse Amalfitano. Lola non diede il minimo segno di averlo sentito. Vuoi salutare la bambina?, chiese Amalfitano. Lola alzò lo sguardo e gli rispose che era meglio non svegliarla. Aveva gli occhi azzurri cerchiati da due profonde occhiaie. Poi squillò due volte il campanello e Amalfitano andò ad aprire. Una donna molto piccola, non più di un metro e cinquanta di altezza, gli passò accanto dopo averlo a stento guardato, mormorando un saluto incomprensibile, e si diresse subito in cucina, come se conoscesse le abitudini di Lola meglio di lui. Quando Amalfitano le raggiunse notò lo zaino della donna, che aveva posato per terra accanto al frigorifero, più piccolo di quello di Lola, quasi uno zaino in miniatura. Il nome della donna era Inmaculada ma Lola la chiamava Imma. Un paio di volte, al rientro dal lavoro, Amalfitano l'aveva trovata in casa e allora la donna gli aveva detto il suo nome e il modo in cui doveva chiamarla. Imma era il diminutivo di Immaculada, in catalano, ma l'amica di Lola non era catalana e non si chiamava Immaculada, con due emme, ma Inmaculada, e Amalfitano, per una questione fonetica, preferiva chiamarla Inma, anche se ogni volta che lo faceva veniva ripreso da sua moglie, finché decise di non chiamarla affatto. Le osservò dalla porta della cucina. Si sentiva molto più sereno di quanto avesse supposto. Lola e la sua amica avevano lo sguardo inchiodato al tavolo di formica, anche se ad Amalfitano non sfuggì che di tanto in tanto alzavano gli occhi e si scambiavano sguardi di un'intensità a lui ignota. Lola domandò se qualcuno voleva altro caffè. Si sta rivolgendo a me, pensò Amalfitano. Inmaculada scosse la testa e poi disse che non avevano tempo, era meglio mettersi in viaggio perché di lì a poco le vie d'uscita da Barcellona sarebbero state bloccate. Parla come se Barcellona fosse una città medioevale, pensò Amalfitano. Lola e la sua amica si alzarono in piedi. Amalfitano fece due passi e aprì lo sportello del frigorifero per prendere una birra, spinto da una sete repentina. Per farlo dovette scostare lo zaino di Imma. Pesava come se dentro ci fossero solo due camicette e un altro paio di pantaloni neri. Sembra un feto, pensò Amalfitano, e lasciò cadere lo zaino di lato. Poi Lola lo baciò sulle guance e lei e la sua amica se ne andarono.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 217

Per il terzo tentativo fissarono un appuntamento per telefono. Imma si fece passare per una giornalista di una rivista di letteratura di Barcellona e Lola per una poetessa. Stavolta riuscirono a vederlo. Lola lo trovò invecchiato, con gli occhi infossati, con meno capelli di un tempo. All'inizio le accompagnò un medico o un prete e percorsero con lui corridoi interminabili, dipinti di azzurro e bianco, fino ad arrivare in una stanza anonima dove li aspettava il poeta. L'impressione di Lola fu che il personale del manicomio fosse orgoglioso di averlo come paziente. Tutti lo conoscevano, tutti gli rivolgevano la parola quando il poeta si incamminava verso i giardini o andava a ricevere la dose quotidiana di calmanti. Appena rimasero soli, gli disse che sentiva la sua mancanza, che per qualche tempo aveva sorvegliato ogni giorno la casa del filosofo nell'Ensanche, ma nonostante la sua costanza non era più riuscita a vederlo. Non è colpa mia, gli disse, io ho fatto tutto il possibile. Il poeta la guardò negli occhi e le chiese una sigaretta. Imma, in piedi davanti alla panca dove erano seduti gli altri due, gli porse, in silenzio, una sigaretta. Il poeta disse grazie e poi disse costanza. L'ho avuta, davvero, l'ho avuta, ribadì Lola al suo fianco, senza smettere di guardarlo, anche se con la coda dell'occhio vide che Imma, dopo aver fatto scattare il suo accendino, tirava fuori un libro dalla borsa e si metteva a leggere, in piedi, come un'amazzone minuscola e infinitamente paziente, l'accendino che spuntava dalle mani sotto il libro. Poi Lola si mise a parlare del viaggio che avevano fatto. Nominò strade nazionali e strade vicinali, problemi con camionisti maschilisti, città e paesi, boschi senza nome dove avevano deciso di dormire in tenda, fiumi e bagni di stazioni di servizio dove si erano lavate. Il poeta, nel frattempo, soffiava il fumo fuori dalla bocca e dal naso creando cerchi perfetti, nimbi azzurrini, cumuli grigi che la brezza disfaceva o portava sul limitare del parco, là dove si innalzava un bosco scuro con i rami inargentati dalla luce che scendeva dalle colline. Come per prendere fiato, Lola parlò delle due visite precedenti, infruttuose ma interessanti. E poi gli disse quello che davvero voleva dirgli: lei sapeva che lui non era omosessuale, lei sapeva che era prigioniero e voleva fuggire, lei sapeva che l'amore maltrattato, mutilato, lascia sempre aperto uno spiraglio alla speranza, e la speranza era il suo piano (o il contrario), e la sua realizzazione, la sua attuazione, consisteva nel fuggire dal manicomio con lei e mettersi sulla via della Francia. E questa?, domandò il poeta che prendeva sedici pasticche al giorno e scriveva delle sue visioni, indicando Imma che leggeva imperterrita in piedi uno dei suoi libri, come se le sue sottovesti e sottane fossero di cemento armato e le impedissero di sedersi. Lei ci aiuterà, disse Lola. A onor del vero il piano è stato ideato proprio da lei. Passeremo in Francia dalle montagne, come pellegrini, andremo a Saint Jean-de-Luz e prenderemo il treno. Il treno ci porterà attraverso la campagna, che in questo periodo dell'anno è la più bella del mondo, fino a Parigi. Vivremo negli ostelli. Č questo il piano di Imma. Lei e io lavoreremo facendo le pulizie o le baby-sitter nei quartieri ricchi di Parigi mentre tu scrivi poesie. La sera ci leggerai i tuoi versi e farai l'amore con me. Č questo il piano di Imma, studiato in tutti i dettagli. Dopo tre o quattro mesi resterò incinta e sarà la prova più attendibile che non sei un fine razza. Cos'altro potrebbero chiedere le famiglie nemiche? Lavorerò ancora qualche mese, ma giunto il momento sarà Imma a lavorare il doppio. Vivremo come profeti mendicanti o come profeti bambini mentre gli occhi di Parigi saranno concentrati su altri obiettivi, la moda, il cinema, il gioco d'azzardo, la letteratura francese e statunitense, la gastronomia, il prodotto interno lordo, l'esportazione di armi, la produzione di massicci quantitativi di anestesia, tutto quello che alla fin fine sarà solo la scenografia dei primi mesi del nostro feto. Poi, al sesto mese di gravidanza, torneremo in Spagna, stavolta però non passeremo la frontiera a Irún ma a La Jonquera o a Port Bou, in terra catalana. Il poeta la guardò con interesse (e guardò con interesse anche Imma, che non staccava gli occhi dalle sue poesie, poesie che aveva scritto più o meno cinque anni prima, da quanto ricordava) e tornò a soffiare fuori il fumo nelle forme più capricciose, come se durante il suo lungo soggiorno a Mondragón si fosse dedicato a perfezionare quell'arte così singolare. Come fai?, domandò Lola. Con la lingua, mettendo le labbra in un determinato modo, rispose lui. A volte come se le avessi screpolate. A volte come se me le fossi bruciate da solo. A volte come se stessi succhiando un cazzo di dimensioni mediopiccole. A volte come se sparassi una freccia zen con un arco zen in un padiglione zen. Ah, capisco, disse Lola. Senti, tu, recita una poesia, disse il poeta. Imma lo guardò e alzò un po' di più il libro, come se volesse nascondercisi dietro. Quale poesia? Quella che preferisci, disse il poeta. Mi piacciono tutte, disse Imma. E allora forza, recitane una, disse il poeta. Quando Imma ebbe finito di leggere una poesia che parlava del labirinto e di Arianna persa nel labirinto e di un giovane spagnolo che viveva sui tetti di Parigi, il poeta chiese se avevano del cioccolato. No, disse Lola. Non fumiamo più, confermò Imma, tutte le nostre energie sono riservate a tirarti fuori da qui. Il poeta sorrise. Non mi riferivo a quel genere di cioccolato, spiegò, ma all'altro, quello che si fa con il cacao e il latte e lo zucchero. Ah, capisco, disse Lola, ed entrambe dovettero ammettere che non avevano portato nemmeno quel tipo di ghiottonerie. Si ricordarono che in tasca, avvolti in tovaglioli e alluminio, avevano due panini al formaggio e glieli offrirono, ma il poeta parve non sentire. Prima che iniziasse a cadere la notte, uno stormo di grandi uccelli neri sorvolò il parco per poi sparire verso nord. Sul sentiero di ghiaia comparve un medico, con il camice bianco, bighellonando nella brezza vespertina. Quando arrivò accanto a loro chiese al poeta, chiamandolo per nome quasi fossero amici fin dall'adolescenza, come si sentiva. Il poeta lo guardò con espressione vacua e, dandogli anche lui del tu, disse di essere un po' stanco. Il medico, che si chiamava Gorka e non doveva avere più di trent'anni, gli si sedette accanto e gli mise una mano sulla fronte e poi gli tastò il polso. Ma se stai alla grande, sentenziò. E le signorine come stanno?, aggiunse con un sorriso sano e ottimista. Imma non rispose. Lola pensò che Imma si sentisse morire nascosta dietro il libro. Benissimo, disse allora, non ci vedevamo da un po' ed è stato un incontro meraviglioso. Così vi conoscevate già?, volle sapere il medico. Io no, disse Imma, e voltò pagina. Io sì, disse Lola, qualche anno fa eravamo amici, a Barcellona, quando lui viveva a Barcellona. In realtà, dichiarò alzando gli occhi e contemplando gli ultimi uccelli neri, i ritardatari, levarsi in volo proprio quando qualcuno accendeva le luci del parco da una centralina nascosta nel manicomio, eravamo più che amici. Interessante, disse Gorka seguendo con lo sguardo il volo degli uccelli che l'ora e la luce artificiale tingevano di un fulgore dorato. Che anno era? Il 1979 o il 1978, non me lo ricordo più, rispose Lola con un filo di voce. Non pensi che io sia una persona indiscreta, disse il medico, il fatto è che sto scrivendo una biografia sul nostro amico e più informazioni raccolgo sulla sua vita, meglio è, come il cacio sui maccheroni, no? Un giorno lui uscirà da qui, disse Gorka lisciandosi le sopracciglia, un giorno il pubblico spagnolo dovrà riconoscerlo come uno dei grandi, non dico che gli daranno qualche premio, figuriamoci, al Principe de Asturias non ci arriva di certo e nemmeno al Cervantes, né tanto meno si potrà stravaccare su una poltrona dell'Accademia, la carriera letteraria in Spagna è fatta per gli arrivisti, gli opportunisti e i leccaculo, scusate il termine. Ma un giorno uscirà di qui. Č un fatto. Č poco ma sicuro. Un giorno anch'io uscirò di qui. E tutti i miei pazienti e i pazienti dei miei colleghi. Un giorno tutti, alla fine, usciremo da Mondragón e questo nobile e pio istituto di origine ecclesiastica resterà deserto. Allora la mia biografia acquisterà un qualche interesse e potrò pubblicarla, ma nel frattempo, come potete capire, devo raccogliere informazioni, nomi, date, confrontare aneddoti, alcuni di dubbio gusto o addirittura offensivi, altri invece di carattere pittoresco, storie che adesso ruotano intorno a un centro di attrazione caotico, che è il nostro amico qui presente, o quello che lui ci fa vedere, il suo ordine apparente, un ordine di tipo verbale che nasconde, con una strategia che credo di capire senza però coglierne il fine, un disordine verbale tale che se noi lo provassimo, anche solo come spettatori di una messa in scena teatrale, ci sconvolgerebbe a un livello difficilmente sopportabile. Lei è un tesoro, dottore, disse Lola. Imma digrignò i denti. Poi Lola si dispose a raccontare a Gorka la sua esperienza eterosessuale con il poeta, ma l'amica glielo impedì avvicinandosi e affibbiandole un calcio alla caviglia con la punta della scarpa. In quel momento il poeta, che si era messo a fare di nuovo le volute di fumo in aria, ricordò la casa nell'Ensanche di Barcellona e ricordò il filosofo e anche se i suoi occhi non s'illuminarono, s'illuminò parte della sua espressione ossea: le mascelle, il mento, le guance macerate, come se si fosse perso nel Rio delle Amazzoni e fosse stato salvato da tre frati sivigliani, o da un frate mostruoso con tre capocce, fenomeno che pure non lo spaventava. Così rivolgendosi a Lola le chiese del filosofo, disse il suo nome, rievocò la sua permanenza in quella casa, i mesi che aveva passato a Barcellona senza lavorare, facendo scherzi pesanti, gettando libri che non aveva comprato fuori dalla finestra (mentre il filosofo scendeva di corsa le scale per recuperarli, cosa che non sempre gli riusciva), mettendo la musica a tutto volume, dormendo poco e ridendo molto, sbrigando lavori occasionali come traduttore e recensore di lusso, una stella liquida d'acqua bollente. E Lola allora ebbe paura e si coprì il viso con le mani. E Imma, che finalmente mise il libro di poesie nella borsa, fece lo stesso, si coprì il viso con le piccole mani nodose. E Gorka guardò le due donne e poi guardò il poeta e dentro di sé scoppiò in una risata. Ma prima che la risata si spegnesse nel suo cuore tranquillo, Lola disse che il filosofo era morto poco tempo prima di Aids. Però, però, però, disse il poeta. Piedi caldi e pieno il ventre, me ne infischio della gente, disse il poeta. Il destino non ha giorno, disse il poeta. Ti amo, disse Lola. Il poeta si alzò e chiese a Imma un'altra sigaretta. Per domani, disse. Il medico e il poeta si avviarono su un sentiero verso il manicomio. Lola e Imma si avviarono su un altro verso l'uscita, dove trovarono la sorella di un altro pazzo e il figlio di un operaio pazzo e una signora dall'aria compunta il cui cugino carnale si trovava rinchiuso nel manicomio di Mondragón.

| << |  <  |