Copertina
Autore Roberto Bolaņo
Titolo 2666
SottotitoloLa parte dei delitti - La parte di Arcimboldi
EdizioneAdelphi, Milano, 2008, Fabula 202 , pag. 676, cop.fle., dim. 14x22x3,6 cm , Isbn 978-88-459-2313-5
Originale2666 - La parte de los crímenes — La parte de Archimboldi [2004]
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe narrativa cilena
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    1. La parte dei delitti                  13

    2. La parte di Arcimboldi               361


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

La parte dei delitti



La morta fu ritrovata in un piccolo appezzamento di terreno abbandonato nel quartiere Las Flores. Indossava una maglietta bianca a maniche lunghe e una gonna gialla al ginocchio, di una taglia più grande. La scoprirono dei bambini giocando, e avvisarono i genitori. La madre di uno di loro telefonò alla polizia, che giunse sul posto nel giro di mezz'ora. Il terreno dava su calle Peláez e calle Hermanos Chacón e poi finiva in un fosso oltre il quale si alzava il muro di una latteria chiusa, ormai in rovina. Non c'era nessuno per strada e in un primo momento i poliziotti pensarono che si trattasse di uno scherzo, ma fermarono lo stesso l'auto di pattuglia in calle Peláez e uno di loro scese e avanzò sul terreno. Ben presto scorse due donne che pregavano, col capo coperto, inginocchiate fra le erbacce. Le donne, viste da lontano, sembravano vecchie, ma non lo erano. Davanti a loro giaceva il cadavere. Il poliziotto tornò sui suoi passi senza interromperle e a gesti chiamò il collega che lo aspettava in macchina fumando. Poi andarono insieme dalle donne (uno, quello che non era sceso, con la pistola in pugno) e rimasero in piedi lì accanto a osservare il cadavere. Quello con la pistola in pugno domandò se la conoscevano. Nossignore, disse una delle donne. Non l'avevamo mai vista. La bambina non è di qui.


Questo accadde nel 1993. Nel gennaio del 1993. Fu a partire da quella vittima che si cominciarono a contare le donne assassinate. Ma è probabile che ce ne fossero state altre. La prima fu Esperanza Gómez Saldaņa e aveva tredici anni. Ma è probabile che non fosse la prima. Forse era in cima alla lista per comodità, perché fu la prima a essere assassinata nel 1993. Ma nel 1992 ne erano sicuramente morte altre. Altre che erano rimaste fuori dalla lista o che nessuno aveva mai ritrovato, sepolte in fosse comuni in mezzo al deserto o bruciate e le loro ceneri disperse nel cuore della notte, quando neppure chi le disperde sa bene dove, in che posto si trova.


L'identificazione di Esperanza Gómez Saldaņa fu relativamente facile. Prima il corpo fu trasferito in uno dei tre commissariati di Santa Teresa, dove fu visto da un giudice ed esaminato da altri poliziotti e dove gli furono scattate delle fotografie. Dopo un po', mentre un'ambulanza restava in attesa fuori dal commissariato, giunse il capo della polizia, Pedro Negrete, seguito da un paio di collaboratori, e procedette a esaminarlo a sua volta. Quando ebbe terminato, si riunì con il giudice e altri tre poliziotti in un ufficio e chiese a quali conclusioni fossero arrivati. L'hanno strangolata, disse il giudice, è chiaro come il sole. I poliziotti si limitarono ad annuire. Si sa chi è?, domandò il capo della polizia. Tutti risposero di no. Be', lo scopriremo, disse Pedro Negrete, e se ne andò via con il giudice. Uno dei suoi collaboratori rimase al commissariato e chiese di vedere i poliziotti che avevano rinvenuto il cadavere. Sono tornati di pattuglia, gli fu detto. E voi me li richiamate qua, coglioni, disse lui. Poi il corpo fu portato all'obitorio dell'ospedale cittadino, dove il medico legale effettuò l'autopsia, dalla quale risultò che Esperanza Gómez Saldaņa era morta strangolata. Presentava ematomi al mento e all'occhio sinistro. Estesi ematomi alle gambe e al torace. Era stata violentata per via vaginale e anale, probabilmente più di una volta, perché entrambi gli orifizi presentavano lesioni ed escoriazioni da cui aveva perso sangue in abbondanza. Alle due del mattino il medico legale dichiarò chiusa l'autopsia e se ne andò. Un infermiere nero, emigrato anni prima nel Nord da Veracruz, prese il cadavere e lo mise in una cella frigorifera.


Cinque giorni dopo, prima che finisse il mese di gennaio, fu strangolata Luisa Celina Vàzquez. Aveva sedici anni, la pelle chiara, una costituzione robusta, ed era incinta di cinque mesi. L'uomo con cui viveva era dedito a piccoli furti che compiva, insieme a un amico, in negozi e magazzini di elettrodomestici. La polizia, allertata dai vicini, accorse sul posto, un edificio di avenida Rubén Dario, nel quartiere Mancera. Dopo aver forzato la porta, trovarono Luisa Celina strangolata con il cavo del televisore. Quella sera stessa si procedette all'arresto del suo convivente, Marcos Sepúlveda, e del socio, Ezequiel Romero. Furono entrambi rinchiusi nei locali del commissariato n° 2 e sottoposti a un interrogatorio, che durò tutta la notte, condotto con ottimi risultati dall'agente Epifanio Galindo, collaboratore del capo della polizia di Santa Teresa, perché prima dell'alba il fermato Romero confessò di aver avuto, all'insaputa dell'amico e socio, una relazione con la morta. Quando Luisa Celina si era resa conto di essere incinta, aveva deciso di rompere la relazione, cosa che Romero non aveva accettato, perché convinto di essere lui il padre del bambino che stava per nascere. Dopo qualche mese, quando la scelta di Luisa Celina si era mostrata irrevocabile, Romero, in un attacco di follia, aveva deciso di ucciderla, cosa che alla fine aveva fatto approfittando di un'assenza del Sepúlveda. Due giorni dopo quest'ultimo fu rimesso in libertà mentre Romero, invece di essere tradotto in carcere, fu lasciato nelle celle del commissariato n° 2. Stavolta gli interrogatori non furono diretti a chiarire gli ultimi particolari dell'assassinio di Luisa Celina ma a cercare di incriminare Romero per l'assassinio di Esperanza Gòmez Saldaņa, il cui cadavere era ormai stato identificato. Contrariamente a quanto credeva la polizia, indotta in errore dalla rapidità con cui aveva ottenuto la prima confessione, Romero si rivelò più duro di quanto sembrasse e non si lasciò implicare nell'altro crimine.


A metà febbraio, in un vicolo nel centro di Santa Teresa, alcuni spazzini trovarono un'altra donna morta. Aveva circa trent'anni e indossava una gonna nera e una camicetta bianca, scollata. Era stata uccisa a coltellate, anche se sul volto e sull'addome si osservavano contusioni provocate da ripetute percosse. Nella borsetta fu rinvenuto un biglietto della corriera per Tucson, che partiva quella mattina alle nove e che la donna non avrebbe più preso. Furono ritrovati anche rossetto, cipria, mascara, fazzolettini di carta, mezzo pacchetto di sigarette e una confezione di preservativi. Non aveva passaporto né agenda né altro che potesse identificarla. Non aveva nemmeno l'accendino.


A marzo, la conduttrice della radio El Heraldo del Norte, azienda sorella del giornale «El Heraldo del Norte», uscì dagli studi alle dieci di sera in compagnia di un altro conduttore e del tecnico del suono. Si diressero al ristorante Piazza Navona, specializzato in cucina italiana, dove presero tre porzioni di pizza e tre bottigliette di vino californiano. Il conduttore fu il primo a congedarsi. La conduttrice, Isabel Urrea, e il tecnico del suono, Francisco Santamaría, decisero di fermarsi a chiacchierare un altro po'. Parlarono di cose di lavoro, orari e programmi, e poi si misero a parlare di una collega che non lavorava più lì, che si era sposata ed era andata a vivere con il marito in un paese vicino a Hermosillo di cui non ricordavano il nome, ma che era sul mare e per sei mesi all'anno sembrava, secondo la collega, un vero paradiso. I due uscirono dal ristorante insieme. Il tecnico del suono non aveva l'automobile, per cui Isabel Urrea si offrì di accompagnarlo a casa. Non è necessario, disse il tecnico, casa sua era vicina e preferiva fare quattro passi. Mentre il tecnico spariva in fondo alla strada, Isabel si diresse verso la macchina. Quando tirò fuori le chiavi per aprirla, un'ombra attraversò il marciapiede e le sparò tre volte. Le caddero le chiavi. Un passante che era a circa cinque metri di distanza si buttò a terra. Isabel tentò di alzarsi ma riuscì solo ad appoggiare la testa su una delle ruote anteriori. Non sentiva dolore. L'ombra si avvicinò e le sparò un colpo in fronte.


L'assassinio di Isabel Urrea, strombazzato per tre giorni dalla sua emittente radio e dal giornale, fu ricondotto a un tentativo di furto da parte di un pazzo o di un drogato che sicuramente voleva appropriarsi dell'automobile. Girò anche la voce che fosse un centroamericano, un guatemalteco o un salvadoregno, veterano delle guerre di quei paesi, che cercava con ogni mezzo di trovare i soldi per trasferirsi negli Stati Uniti. Non ci fu autopsia, per riguardo verso la famiglia, e l'esame balistico non fu mai reso noto e andò definitivamente smarrito nei vari andirivieni fra il tribunale di Santa Teresa e quello di Hermosillo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

Ci sono cose più strane dell'agiofobia, disse Elvira Campos, soprattutto considerando che siamo in Messico e che qui la religione è sempre stata un problema, di fatto, direi che tutti noi messicani, in fondo, soffriamo di agiofobia. Pensa, per esempio, a una paura classica, la gefirofobia. Ne soffrono molte persone. Cos'è la gefirofobia?, disse Juan de Dios Martínez. Č la paura di attraversare i ponti. Č vero, ho conosciuto un tipo, be', in realtà era un bambino, che ogni volta che attraversava un ponte aveva paura che crollasse, e allora li attraversava di corsa, cosa molto più pericolosa. Č un classico, disse Elvira Campos. Un altro classico: la claustrofobia. Paura degli spazi chiusi. E un altro ancora: l'agorafobia. Paura degli spazi aperti. Queste le conosco. Un altro classico: la necrofobia. Paura dei morti, disse Juan de Dios Martinez, ho conosciuto gente così. Se fai il poliziotto è un problema. C'è anche l'ematofobia, la paura del sangue. Verissimo, disse Juan de Dios Martínez. E la amartofobia, paura di commettere peccati. Ma ci sono anche altre paure più rare. Per esempio, la clinofobia. Sai cos'è? Non ne ho idea, disse Juan de Dios Martínez. La paura di andare a letto. Si può provare paura o avversione per un letto? Ebbene sì, c'è gente che la prova. Ma il problema si può aggirare dormendo per terra e non entrando mai in una camera. E poi c'è la tricofobia, che è la paura dei capelli. Un po' più difficile, no? Difficilissimo. Ci sono casi di tricofobia che sfociano nel suicidio. E c'è anche la logofobia, che è la paura delle parole. In questo caso la cosa migliore è starsene zitti, disse Juan de Dios Martínez. Be', è un po' più difficile, perché le parole sono dappertutto, persino nel silenzio, che non è mai un silenzio totale, no? E poi abbiamo la vestifobia, che è la paura dei vestiti. Sembra strano ma è molto più diffusa di quanto sembri. E una relativamente comune: la iatrofobia, che è la paura dei medici. E la ginofobia, che è la paura delle donne e affligge, naturalmente, solo gli uomini. Diffusissima in Messico, anche se mascherata nelle maniere più diverse. Non è un po' esagerato? Niente affatto: quasi tutti i messicani hanno paura delle donne. Non saprei che dirle, disse Juan de Dios Martínez. Poi ci sono due paure che in fondo sono molto romantiche: la pluviofobia e la talassofobia, che sono, rispettivamente, la paura della pioggia e la paura del mare. E anche altre due che hanno qualcosa di romantico: la anthofobia, che è la paura dei fiori, e la dendrofobia, che è la paura degli alberi. Alcuni messicani soffrono di ginofobia, disse Juan de Dios Martínez, ma non tutti, non sia allarmista. Cosa crede che sia la optofobia?, disse la direttrice. Opto, opto, qualcosa legato agli occhi, accidenti, paura degli occhi? Ancora peggio: paura di aprire gli occhi. In senso figurato, è la risposta a quanto mi ha appena detto sulla ginofobia. In senso letterale, provoca violenti disturbi, perdita di conoscenza, allucinazioni visive e uditive e un comportamento, in linea di massima, aggressivo. Conosco, non di persona, è chiaro, due casi in cui il paziente è arrivato a mutilarsi. Si è cavato gli occhi? Con le dita, con le unghie, disse la direttrice. Cavolo, disse Juan de Dios Martínez. Poi abbiamo, naturalmente, la pedofobia, che è la paura dei bambini, e la ballistofobia, che è la paura delle pallottole. Questa è la mia fobia, disse Juan de Dios Martínez. Sì, suppongo che sia un fatto di buonsenso, disse la direttrice. E un'altra fobia, in aumento, è la tropofobia, che è la paura di cambiare luogo o situazione. E si può aggravare se la tropofobia si muta in agorafobia, che è la paura delle strade o di attraversare una strada. E non dimentichiamo la cromofobia, che è la paura di certi colori, o la noctifobia, che è la paura della notte, o la ergofobia, che è la paura di lavorare. Una paura molto diffusa è le decidofobia, che è la paura di prendere decisioni. E una paura che ha appena iniziato a diffondersi è l'antropofobia, che è la paura della gente. Alcuni indios soffrono di una forma molto acuta di brontofobia, che è la paura dei fenomeni meteorologici, come tuoni, fulmini e saette. Ma le fobie peggiori, a mio parere, sono la panofobia, che è la paura di tutto, e la fobofobia, che è la paura delle proprie paure. Se lei dovesse soffrire di una delle due, quale sceglierebbe? La fobofobia, disse Juan de Dios Martínez. Ha i suoi inconvenienti, ci pensi bene, disse la direttrice. Fra avere paura di tutto e avere paura della mia paura, scelgo la seconda, non dimentichi che sono un poliziotto e che se avessi paura di tutto non potrei lavorare. Ma se ha paura delle sue paure la sua vita potrebbe diventare una continua osservazione della paura, e se queste paure si attivano, si crea un sistema che alimenta sé stesso, una spirale a cui le sarebbe difficile sfuggire, disse la direttrice.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 105

Sempre in quei giorni si vide alla televisione del Sonora una veggente di nome Fiorita Almada, che i suoi seguaci, non molti, avevano soprannominato la Santa. Fiorita Almada aveva settant'anni e aveva raggiunto l'illuminazione da relativamente poco tempo, dieci anni. Vedeva cose che non nessun altro vedeva. Sentiva cose che nessun altro sentiva. E sapeva trovare un'interpretazione coerente a tutto quello che le succedeva. Prima di diventare una veggente guariva la gente con le erbe, che era il suo vero mestiere, diceva, perché veggente significa uno che vede e lei a volte non vedeva nulla, le immagini erano sfocate, il suono difettoso, come se l'antenna che le era cresciuta nel cervello fosse stata messa male o l'avessero bucata in una sparatoria o fosse un foglio di alluminio e il vento ne facesse quel che voleva. Così, pur riconoscendosi veggente o lasciando che i suoi seguaci la riconoscessero come tale, aveva più fede nelle erbe e nei fiori, nel cibo sano e nella preghiera. A chi aveva la pressione alta raccomandava di smettere di mangiare uova e formaggio e pane bianco, per esempio, perché erano alimenti con molto sodio e il sodio attrae l'acqua, il che fa aumentare il volume del sangue e di conseguenza la pressione arteriosa. Č chiaro come il sole, diceva Fiorita Almada. Per quanto a uno piaccia far colazione con uova alla ranchera o alla messicana, se soffre di ipertensione è meglio che smetta di mangiare uova. E se uno ha smesso di mangiare le uova, può anche smettere di mangiare la carne e il pesce, e mangiare solo riso e frutta. Fanno benissimo alla salute, il riso e la frutta, soprattutto quando uno ha già passato i quaranta. Criticava anche il consumo eccessivo di grassi. La quantità di grassi, diceva, non deve mai superare il venticinque per cento dell'apporto energetico totale dell'alimentazione. L'ideale è che si stabilizzi fra il quindici e il venti per cento. Ma la gente che ha un lavoro può consumare fino all'ottanta o novanta per cento di grassi, e se il lavoro è più o meno stabile, il consumo di grassi sale fino al cento per cento, il che è disgustoso, diceva. Al contrario, il consumo di grassi fra quelli che erano senza lavoro andava dal trenta al cinquanta per cento, il che a pensarci bene era comunque una disgrazia, perché quella povera gente non solo era sottoalimentata ma per di più era sottoalimentata male, non so se mi spiego, diceva Fiorita Almada, essere sottoalimentati è già una disgrazia in sé, ed essere sottoalimentati male in realtà cambia poco o nulla nella disgrazia, ma forse non mi sono espressa bene, quello che voglio dire è che è più sana una tortilla con chili dei chicharrones di cane o di gatto o forse di topo, diceva come chiedendo scusa. E poi era contro le sette e i curanderos e tutta quella gente infame che truffava il popolo. La botanomanzia o arte di indovinare il futuro per mezzo dei vegetali le sembrava una presa in giro. Tuttavia sapeva il fatto suo e una volta aveva spiegato a un curandero da strapazzo i diversi rami in cui si divideva quell'arte divinatoria, e cioè la botanoscopia, che si basa sulle forme, sui movimenti e sulle reazioni delle piante, ed è suddivisa a sua volta nella crommiomanzia, che si basa sulle cipolle che germoglieranno, nella dendromanzia, legata all'interpretazione degli alberi, nella filomanzia, o studio delle foglie, e nella xilomanzia, che fa sempre parte della botanoscopia ed è la divinazione basata sul legno e sui rami degli alberi, cosa bella, poetica, diceva, non per predire il futuro, ma per riportare la pace in certi episodi del passato e per rafforzare e rasserenare il presente. Poi veniva la botanomanzia cleromantica, suddivisa nella chiambolia, che si pratica con varie fave bianche e una nera, e nelle discipline della rabdomanzia e della palomanzia, nelle quali si impiegano bastoncini di legno e contro le quali lei non aveva nulla e delle quali, pertanto, non poteva dire nulla. Poi veniva la farmacologia vegetale, cioè l'uso di piante allucinogene e di alcaloidi, contro le quali di nuovo non aveva nulla da dire. Ognuno poteva fare di testa sua. C'è gente a cui fa bene e c'è gente, soprattutto giovani fannulloni assai viziosi, a cui non fa bene. Lei preferiva non dire nulla, né sì né no. Poi veniva la botanomanzia meteorologica – quella sì che era interessante ma erano in pochissimi a conoscerla, si potevano contare sulle dita di una mano – che si basava sull'osservazione delle reazioni delle piante. Per esempio, se il papavero alza le foglie farà bel tempo. Per esempio, se un pioppo si mette a tremare sta per accadere qualcosa di inaspettato. Per esempio, se quel fiorellino con le foglioline chiare e la minuscola corolla gialla, detto pijulí, china il capo, vuol dire che farà caldo. Oppure, se quell'altro fiore – quello che ha i petali giallastri e a volte rosati e nel Sonora viene chiamato, non so come mai, canfora, e nel Sinaloa becco di corvo perché, visto da lontano, sembra un succiacapre – chiude i petali, come fosse vivo, vuol dire che pioverà. E infine viene la radiestesia, nella quale un tempo si usava un bastone di nocciolo che è stato sostituito da un pendolo, disciplina su cui Florita Almada non aveva nulla da dire. Quando uno sa, sa, e quando non sa la cosa migliore è imparare. E nel frattempo, non bisogna dire nulla, a meno che quanto si dice non miri a chiarire l'apprendistato. La sua vita, spiegava, era stata un continuo apprendistato. Aveva imparato a leggere e a scrivere a vent'anni, tanto per fare cifra tonda. Era nata a Nácori Grande e non era potuta andare a scuola come una bambina normale perché sua madre era cieca ed era toccato a lei averne cura. Dei suoi fratelli, di cui conservava un ricordo vago e affettuoso, non sapeva nulla. L'uragano della vita se li eri portati via ai quattro capi del Messico e forse erano già sottoterra. La sua infanzia, malgrado le ristrettezze e le disgrazie proprie di una famiglia contadina, era stata felice. Mi piaceva da morire la campagna, diceva, anche se ora mi dà un po' fastidio perché non sono più abituata agli insetti. Molti faranno fatica a crederlo, ma a volte la vita a Nácori Grande poteva essere molto intensa. Prendersi cura della madre cieca poteva essere divertente. Prendersi cura delle galline poteva essere divertente. Lavare i panni poteva essere divertente. Far da mangiare poteva essere divertente. L'unica cosa che rimpiangeva era di non essere andata a scuola. Poi si erano trasferiti, per motivi che ora non c'entravano nulla, a Villa Pesqueira, dove era morta sua madre e dove lei, otto mesi dopo il decesso, si era sposata con un uomo che quasi non conosceva, un gran lavoratore, una persona onesta che rispettava tutti, un uomo un bel po' più grande di lei, per inciso, un uomo che al momento di andare all'altare aveva trentott'anni mentre lei ne aveva solo diciassette, in altre parole un uomo di ventun anni più vecchio!, che si occupava di compravendita di animali, soprattutto capre e pecore ma di tanto in tanto anche bovini e persino suini, e che per la natura del suo lavoro doveva viaggiare di continuo fra i paesi della zona, come San José de Batuc, San Pedro de la Cueva, Huépari, Tepache, Lampazos, Divisaderos, Nácori Chico, El Chorro e Napopa, su strade sterrate o sentieri di animali e su scorciatoie in costa a quelle montagne intricate. Gli affari non gli andavano male. A volte lei lo accompagnava in qualche viaggio, non molti, perché non era visto di buon occhio che un commerciante di bestiame viaggiasse con una donna, soprattutto se era sua moglie, ma qualche volta lo aveva accompagnato. Era un'opportunità unica per vedere il mondo. Per conoscere altri paesaggi, che potevano sembrare lo stesso ma, a guardarli bene, con gli occhi bene aperti, alla fine apparivano molto diversi dai paesaggi di Villa Pesqueira. Ogni cento metri il mondo cambia, diceva Fiorita Almada. Questa storia che ci sono posti uguali ad altri è una bugia. Il mondo è come un terremoto. Ovviamente, le sarebbe piaciuto avere figli, ma la natura (la natura in generale o la natura di suo marito, diceva ridendo) l'aveva privata di quella responsabilità. Il tempo che avrebbe dedicato al suo piccolo lo aveva usato per studiare. Chi le aveva insegnato a leggere? Mi insegnarono i bambini, affermava Fiorita Almada, non ci sono maestri migliori di loro. I bambini, con i loro sillabari, che andavano a casa sua per farsi dare il pinole. La vita è fatta così, proprio quando pensava che svanisse per sempre la possibilità di studiare o di riprendere gli studi (vana speranza, a Villa Pesqueira credevano che Escuela Nocturna fosse il nome di un bordello nei dintorni di San José de Pimas), imparò, senza grandi sforzi, a leggere e a scrivere. Da quel momento in poi lesse tutto quello che le capitava a tiro. Annotò in un quaderno impressioni e pensieri di quelle letture. Lesse riviste e giornali vecchi, lesse programmi politici che ogni tanto dei giovani coi baffi lanciavano dai loro camioncini nel villaggio e giornali nuovi, lesse i pochi libri che riuscì a trovare e suo marito, al rientro dai suoi traffici nei paesi vicini, si abituò a portarle libri che a volte comprava non a uno a uno ma a peso. Cinque chili di libri. Dieci chili. Una volta arrivò con venti chili. E lei li lesse tutti dal primo all'ultimo e da tutti, senza eccezione, ricavò qualche insegnamento. A volte leggeva riviste che arrivavano da città del Messico, a volte leggeva libri di storia, a volte leggeva libri di religione, a volte leggeva libri indecenti che la facevano arrossire, da sola, seduta al tavolo, le pagine illuminate da una lampada a petrolio la cui luce sembrava ballare o adottare forme demoniache, a volte leggeva manuali sulla coltivazione dei vigneti o sulla costruzione di case prefabbricate, a volte leggeva romanzi del terrore e di fantasmi, qualunque tipo di lettura che la divina provvidenza le mettesse a portata di mano, e da tutti imparò qualcosa, a volte molto poco, ma qualcosa restava, una pepita d'oro in una montagna di immondizia, o affinando la metafora, diceva Florita, una bambola persa e ritrovata in una montagna di immondizia sconosciuta. Insomma, lei non era una persona istruita, o almeno non aveva quello che si dice una istruzione classica, per cui chiedeva scusa, ma nemmeno si vergognava di essere quello che era, perché ciò che Dio toglie da una parte la Madonna lo rende dall'altra, e quando succede così bisogna essere in pace col mondo. Passarono gli anni. Suo marito, per quelle cose misteriose che alcuni chiamano simmetria, un giorno rimase cieco. Per fortuna lei aveva già esperienza nella cura dei non vedenti e gli ultimi anni del commerciante di animali furono sereni, perché sua moglie lo assisté con efficienza e affetto. Poi rimase sola e all'epoca aveva ormai compiuto quarantaquattro anni. Non si sposò più, non perché le mancassero pretendenti ma perché scopri il gusto della solitudine. Si limitò a comprare un revolver calibro trentotto, perché il fucile che il marito le aveva lasciato in eredità le parve poco maneggevole, e a portare avanti, almeno per il momento, l'attività di compravendita di animali. Ma il problema, spiegava, è che per comprare e soprattutto per vendere animali era necessaria una certa sensibilità, una certa educazione, una certa propensione alla cecità che lei non aveva assolutamente. Viaggiare con gli animali sui sentieri di montagna era molto bello, metterli all'asta al mercato o al macello era un orrore. Così in breve abbandonò l'attività e continuò a viaggiare, in compagnia del cane del defunto marito e del suo revolver e a volte dei suoi animali, che iniziarono a invecchiare con lei, ma stavolta lo faceva come curandera transumante, una delle tante che ci sono nel benedetto Stato del Sonora, e durante i viaggi cercava erbe o scriveva pensieri mentre gli animali pascolavano, come faceva Benito Juàrez da bambino quando era un pastorello, ah, Benito Juàrez, che grand'uomo, così onesto, così serio, ma anche un bambino incantevole, di quella parte della sua vita non si parlava molto, un po' perché se ne sapeva poco, un po' perché i messicani sanno che quando parlano di bambini dicono sciocchezze o pacchianate. Lei, nel caso non lo sapessero, aveva qualcosa da dire in proposito. Delle migliaia di libri che aveva letto, fra cui libri sulla storia del Messico, sulla storia della Spagna, sulla storia della Colombia, sulla storia delle religioni, sulla storia dei papi a Roma, sui progressi della NASA, aveva trovato solo poche pagine che ritraessero con totale fedeltà, con assoluta fedeltà, quello che aveva dovuto sentire, più che pensare, il piccolo Benito Juàrez quando a volte, com'è normale, se ne andava per vari giorni e altrettante notti a cercare pascoli per il gregge. Nelle pagine di un libro con la copertina gialla si diceva tutto con tale chiarezza che a volte Fiorita Almada pensava che l'autore fosse stato amico di Benito Juàrez e che lui gli avesse confidato all'orecchio le esperienze della sua infanzia. Sempre che ciò sia possibile. Sempre che sia possibile trasmettere ciò che si sente quando cade la notte e spuntano le stelle e uno è solo nell'immensità, e le verità della vita (la vita notturna) iniziano a sfilare a una a una, come svanite o come se chi è li sotto le stelle stesse per svanire o come se una malattia sconosciuta circolasse nel sangue e noi non ce ne rendessimo conto. Che fai tu, luna, in ciel?, si domanda il pastorello nella poesia. Dimmi, che fai, silenziosa luna? Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo. Poi stanco si riposa in su la sera. Altro mai non ispera. A che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? Dimmi, si dice il pastore, diceva Fiorita Almada con voce piena di trasporto, ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Nasce l'uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento, diceva la poesia. E ancora: Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? E ancora: Se la vita è sventura, perché da noi si dura? E ancora: Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale. E ancora, in maniera contraddittoria: Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir della terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E ancora: Che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono? E ancora: Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri. E ancora: A me la vita è male. E ancora: Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l'ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s'affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov'ei precipitando, il tutto obblia. E ancora: vergine luna, tale è la vita mortale. E ancora: O greggia mia che posi, oh te beata che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno quasi libera vai; ch'ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. E ancora: Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, tu se' queta e contenta; e gran parte dell'anno senza noia consumi in quello stato. E ancora: Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, e un fastidio m'ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge. E ancora: E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. E giunta a questo punto, dopo un profondo sospiro, Fiorita Almada diceva che si potevano trarre varie conclusioni. Uno, un pastore può facilmente perdere il controllo dei pensieri che lo attanagliano perché questo rientra nella natura umana. Due, guardare in faccia la noia era un gesto che richiedeva coraggio e Benito Juàrez l'aveva fatto e anche lei lo aveva fatto ed entrambi avevano visto sul volto della noia cose orribili che preferiva non riferire. Tre, la poesia, ora si ricordava, non parlava di un pastore messicano ma di un pastore dell'Asia, ma in realtà era lo stesso, perché i pastori sono uguali da tutte le parti. Quattro, pur essendo vero che al termine di tutti gli affanni si apre un abisso immenso, lei raccomandava, innanzitutto, due cose, la prima di non ingannare la gente, e la seconda di trattarla in modo corretto. A partire da questo, si poteva continuare a parlare. Ed era ciò che aveva fatto lei, ascoltare e parlare, fino al giorno in cui Reinaldo era andato a casa sua per consultarla riguardo a un amore che lo aveva abbandonato, e ne era uscito con una dieta dimagrante e delle erbe per infusi che gli avevano calmato i nervi e con altre erbe aromatiche che nascoste negli angoli del suo appartamento gli avevano dato un odore di chiesa e insieme di navicella spaziale, come diceva Reinaldo agli amici che lo andavano a trovare, un odore divino, un odore che rilassava e rallegrava il cuore, faceva persino venir voglia di ascoltare musica classica, non vi pare?, e gli amici di Reinaldo iniziarono a insistere per conoscere Fiorita, ah, Reinaldo, ho bisogno di Fiorita Almada, prima uno e poi un altro e un altro ancora, come una serie di penitenti con i loro cappucci viola o di un vermiglio stupendo o a scacchi, e Reinaldo rimuginava sui benefici e i danni che potevano venirgli, va bene, ragazzi, mi avete convinto, vi farò conoscere Fiorita, e quando Fiorita li vide, un sabato sera, nell'appartamento di Reinaldo decorato per l'occasione persino con una pentolaccia che non c'entrava nulla sulla terrazza, non reagì male né si dispiacque, disse invece com'è che vi siete dati tanta pena per me, ottime le tartine, chi le ha preparate che voglio fargli i complimenti?, deliziosa la torta, non ne avevo mai mangiata una così buona, era di ananas, vero?, le bibite naturali freschissime, la tavola apparecchiata in modo impeccabile, che ragazzi fantastici, che ragazzi gentili, mi avete persino portato dei regali, nemmeno fosse il mio compleanno, e poi andò nella camera di Reinaldo e i ragazzi entrarono a uno a uno, a raccontarle le loro angosce, e quelli che entrarono angosciati uscirono speranzosi, questa donna è un tesoro, Reinaldo, questa donna è una santa, io mi sono messo a piangere e lei ha pianto con me, io non trovavo le parole e lei ha intuito le mie pene, a me ha raccomandato di assumere glucosidi solforati, pare che stimolino l'epitelio renale e siano diuretici, a me ha raccomandato un'idroterapia del colon, io l'ho vista sudare sangue, le ho visto la fronte coperta di rubini, me mi ha cullato sul suo petto e mi ha cantato una ninnananna e quando mi sono svegliato era come se fossi uscito da una sauna, la Santa capisce meglio di chiunque altro gli sventurati di Hermosillo, la Santa ha feeling con i feriti, con i bambini sensibili e maltrattati, con chi ha subìto violenze e umiliazioni, con chi è oggetto di scherzi e di risate, per tutti ha una parola gentile, un consiglio pratico, gli zimbelli si sentono divi quando lei ci parla, i mentecatti si sentono assennati, i grassi dimagriscono, i malati di AIDS sorridono. Così Fiorita Almada, amatissima, non ci mise molti anni a finire in televisione. La prima volta che Reinaldo la invitò, tuttavia, disse di no, non le interessava, non aveva tempo, a qualcuno per disgrazia poteva venire in mente di chiederle dove prendeva i soldi, e lei non era disposta a pagare le tasse, fossi matta!, meglio rimandare a un'altra volta, lei non era nessuno. Ma mesi dopo, quando Reinaldo non insisteva più sulla cosa, fu Fiorita a telefonargli e a dirgli che voleva partecipare al suo programma perché voleva rendere pubblico un messaggio. Reinaldo volle sapere che tipo di messaggio e lei disse qualcosa su certe visioni, sulla luna, su disegni sopra la sabbia, su letture che faceva a casa, in cucina, seduta al tavolo di cucina, quando i visitatori se n'erano andati, sul giornale, sui giornali, sulle cose che leggeva, sulle ombre che la osservavano da dietro la finestra, che non sono ombre, e perciò non osservano, ma è la notte, la notte che a volte sembra pazza, in un modo tale che Reinaldo non capì nulla, ma siccome la voleva davvero, le trovò un buco nella puntata successiva. Gli studi televisivi erano a Hermosillo e il segnale a volte arrivava nitido a Santa Teresa, ma altre volte arrivava pieno di fantasmi e nebbia e rumori di fondo. Quando Florita Almada andò in onda la prima volta arrivava malissimo e quasi nessuno in città la vide, anche se il programma a cui era invitata, Un'ora con Reinaldo, era uno dei più popolari della televisione del Sonora. Il suo turno era dopo un ventriloquo di Guaymas, un autodidatta che aveva fatto furore a Città del Messico, Acapulco, Tijuana e San Diego, e che credeva che il suo pupazzo fosse vivo. Lo pensava e lo diceva. Questo stronzo di pupazzo è vivo. A volte ha cercato di svignarsela. A volte ha cercato di uccidermi. Ma le sue manine sono troppo deboli per reggere una pistola o un coltello. Figuriamoci per strangolarmi. Quando Reinaldo gli disse, guardando direttamente nella telecamera e sorridendo con quella malizia così sua, che in molti film sui ventriloqui succedeva lo stesso, cioè che il pupazzo si ribellava contro l'artista, il ventriloquo di Guaymas, con la voce spezzata dell'essere infinitamente incompreso, rispose che lo sapeva, che aveva visto quei film, e probabilmente molti altri che né Reinaldo né il pubblico che seguiva il programma in diretta avevano mai visto, e l'unica conclusione a cui era giunto era che se c'erano tanti film era perché la ribellione dei pupazzi dei ventriloqui era molto più generalizzata, e ormai diffusa in tutto il mondo, di quanto lui non credesse all'inizio. In fondo tutti noi ventriloqui, in un modo o nell'altro, sappiamo che questi stronzi di pupazzi, raggiunto un certo punto di ebollizione, prendono vita. La estraggono dagli spettacoli. La estraggono dai vasi capillari dei ventriloqui. La estraggono dagli applausi. E soprattutto dalla credulità del pubblico! Vero, Andresito? Proprio così. E tu, Andresito, sei buono oppure a volte ti comporti come un ragazzaccio? Buono, buonissimo, strabuono. E non hai mai cercato di uccidermi, Andresito? Mai, mai e poi mai. In effetti Florita Almada rimase molto impressionata dall'espressione di innocenza del pupazzo di legno e dalla testimonianza del ventriloquo, per il quale sentì immediatamente una grande simpatia, e quando venne il suo turno la prima cosa che fece fu rivolgere qualche parola di incoraggiamento al ventriloquo, malgrado i velati ammonimenti di Reinaldo, che le sorrise e le strizzò un occhio come per dire che il ventriloquo era mezzo matto e che lei non doveva fargli caso. Ma Florita gli fece caso e gli chiese della sua salute, gli chiese quante ore dormiva, quanti pasti faceva al giorno e dove, e benché le risposte del ventriloquo fossero piuttosto ironiche, fatte guardando il pubblico, in cerca dell'applauso o di una fugace simpatia, per la Santa furono più che sufficienti per raccomandargli (con una certa veemenza, per di più) una visita da qualche agopuntore che si intendesse un po' di craniopuntura, ottima tecnica per trattare le neuropatie legate al sistema nervoso centrale. Poi guardò Reinaldo, che si agitava inquieto sulla sedia, e si mise a parlare della sua ultima visione. Disse che aveva visto donne morte e bambine morte. Un deserto. Un'oasi. Come nei film con la legione straniera francese e gli arabi. Una città. Disse che nella città ammazzavano bambine. Mentre parlava cercò di ricordare con la maggiore esattezza possibile la visione, si rese conto che stava per entrare in trance e provò una grande vergogna, perché a volte, non troppo spesso, le trance erano esagerate e finivano con la medium che si dimenava per terra, e lei non voleva che succedesse perché era la prima volta che andava in televisione. Ma la trance, la possessione, avanzava, la sentiva nel petto e nelle pulsazioni, e non c'era modo di fermarla per quanto tentasse di resistere e sudasse e sorridesse alle domande di Reinaldo, che le chiedeva se stava bene, Fiorita, se non voleva che le vallette le portassero un bicchier d'acqua, se la luce e i riflettori e il caldo non le davano fastidio. Lei aveva paura di parlare, perché la possessione, a volte, la prima cosa che prendeva era la lingua. E pur volendolo, perché avrebbe significato un gran riposo, aveva paura di chiudere gli occhi, perché era proprio quando si chiudevano gli occhi che uno vedeva quello che vedeva la possessione, perciò Fiorita tenne gli occhi aperti e la bocca chiusa (anche se incurvata in un sorriso molto gradevole ed enigmatico), contemplando il ventriloquo che ora guardava lei, ora il proprio pupazzo, come se non capisse nulla ma, in compenso, fiutasse il pericolo, il momento della rivelazione non richiesta e poi neppure compresa, quel genere di rivelazione che ci passa davanti lasciandoci solo la certezza di un vuoto, un vuoto che ben presto sfugge persino alla parola che lo racchiude. E il ventriloquo sapeva che era molto pericoloso. Pericoloso soprattutto per le persone come lui, ipersensibili, con uno spirito artistico e con ferite non ancora ben cicatrizzate. E anche Florita, quando si stancava di guardare il ventriloquo, guardava Reinaldo, che le diceva: Fiorita, non si imbarazzi, non mi diventi timida, faccia come se in questo programma fosse a casa sua. E guardava anche, sia pure meno, il pubblico, dove erano sedute varie amiche sue, in attesa di ascoltarla. Poverette, pensò, come devono sentirsi in pena. E poi non ce la fece più ed entrò in trance. Chiuse gli occhi. Aprì la bocca. La lingua iniziò a lavorare. Ripeté quello che aveva già detto: un deserto molto grande, una città molto grande, nel nord dello Stato, bambine assassinate, donne assassinate. Che città è?, si domandò. Vediamo, che città è? Voglio sapere come si chiama quella città del demonio. Meditò per qualche secondo. Ce l'ho sulla punta della lingua. Io non mi censuro, signore mie, tanto meno trattandosi di un caso del genere. Č Santa Teresa! Č Santa Teresa! Lo vedo bello chiaro. Là ammazzano le donne. Ammazzano le mie figlie. Le mie figlie! Le mie figlie!, gridò tirandosi al tempo stesso sopra la testa uno scialle immaginario e Reinaldo sentì che un brivido gli scendeva come un ascensore lungo la colonna vertebrale, o gli saliva, o entrambe le cose insieme. La polizia non fa nulla, disse dopo qualche secondo, con un altro tono di voce, molto più grave e maschile, quei poliziotti di merda non fanno nulla, stanno a guardare, ma cosa guardano?, cosa guardano? E in quel momento Reinaldo cercò di riportarla all'ordine e di farla smettere di parlare, ma non ci riuscì. Si tolga di mezzo, non mi stia addosso, disse Fiorita. Bisogna avvisare il governatore dello Stato, disse con la voce rauca. Questo non è uno scherzo. Il dottor José Andrés Briceņo deve saperlo, deve essere informato di cosa fanno alle donne e alle bambine nella bella città di Santa Teresa. Una città che non è solo bella ma anche intraprendente e operosa. Bisogna rompere il silenzio, amiche mie. Il dottor José Andrés Briceņo è un uomo buono e onesto e non lascerà impuniti tanti omicidi. Tanta inerzia e tanta oscurità. Poi fece una voce da bambina e disse: certe se ne vanno su una macchina nera, ma le ammazzano ovunque. Poi disse, con voce chiara: potrebbero almeno rispettare le vergini. Subito dopo fece un salto, perfettamente ripreso dalle telecamere dello studio uno della televisione del Sonora, e cadde a terra come colpita da una pallottola. Reinaldo e il ventriloquo corsero subito a soccorrerla ma quando cercarono di sollevarla, ciascuno per un braccio, Fiorita ringhiò (Reinaldo non l'aveva mai vista così in vita sua, una vera Erinni): non mi toccate, stronzi, siete insensibili?! Non preoccupatevi per me! Ma non capite di cosa sto parlando? Poi si rialzò, guardò il pubblico, si avvicinò a Reinaldo e gli chiese cos'era successo, e subito chiese scusa guardando direttamente nella telecamera.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 361

La parte di Arcimboldi



Sua madre era guercia. Aveva i capelli biondissimi ed era guercia. L'occhio buono era celeste e mite, come se non fosse una donna molto intelligente, ma in compenso fosse buona, tanto. Suo padre era zoppo. Aveva perso una gamba in guerra e aveva passato un mese in un ospedale militare vicino a Düren, pensando che non ce l'avrebbe fatta e guardando i feriti che si potevano muovere (lui no!) mentre rubavano le sigarette ai feriti che non si potevano muovere. Quando avevano cercato di rubare a lui le sigarette, aveva preso il ladro per il collo, un tipo lentigginoso e con gli zigomi larghi, le spalle larghe, i fianchi larghi, e gli aveva detto: alt!, non si scherza con le sigarette di un soldato! Allora il lentigginoso se n'era andato, era scesa la sera e suo padre aveva avuto l'impressione che qualcuno lo guardasse.

Nel letto accanto c'era una mummia. Aveva gli occhi neri come due pozzi profondi.

«Vuoi fumare?» gli domandò.

La mummia non rispose.

«Fumare fa bene» disse lui, e si accese una sigaretta e cercò la bocca della mummia fra le bende.

La mummia fu scossa da un tremito. Forse non fuma, pensò lui, e gli tolse la sigaretta. La luna illuminò la punta della sigaretta, che era macchiata da una specie di muffa bianca. Poi gliela infilò di nuovo tra le labbra, dicendogli: fuma, fuma, dimentica tutto. Gli occhi della mummia non lo lasciavano, forse, pensò, è un camerata del battaglione e mi ha riconosciuto. Ma perché non dice nulla? Forse non può parlare, pensò. Il fumo, all'improvviso, cominciò a venir fuori tra le bende. Bolle, pensò, bolle, bolle.

Alla mummia il fumo usciva dalle orecchie, dalla gola, dalla fronte, dagli occhi, che però nemmeno adesso smettevano di guardarlo, finché lui non attaccò a soffiargli sulla testa bendata e gli tolse la sigaretta dalle labbra e continuò a soffiare un altro po' finché il fumo non scomparve del tutto. Poi spense la sigaretta per terra e si assopì.

Al suo risveglio la mummia non c'era più. Dov'è la mummia?, chiese. Č morta stamattina, disse qualcuno da un letto. Allora si accese una sigaretta e si mise ad aspettare la colazione. Quando lo dimisero se ne andò zoppicando fino a Düren. Là prese un treno che lo lasciò in un'altra città.

In quella città aspettò ventiquattr'ore alla stazione, mangiando la zuppa dell'esercito. A distribuire la zuppa era un sergente zoppo come lui. Parlarono un po', mentre il sergente vuotava mestolate di zuppa nei piatti di alluminio dei soldati e lui mangiava, seduto su un banco di legno, un banco come da falegname, lì accanto. Secondo il sergente stava per cambiare tutto. La guerra era alla fine e sarebbe iniziata una nuova epoca. Lui gli rispose, mentre mangiava, che non sarebbe mai cambiato nulla. Neppure loro, che avevano perso una gamba a testa, erano cambiati.

Ogni volta che replicava, il sergente rideva. Se il sergente diceva bianco, lui diceva nero. Se il sergente diceva giorno, lui diceva notte. E alle sue risposte il sergente rideva e gli domandava se alla zuppa mancava il sale, se era troppo insipida. Poi si stufò di aspettare un treno che, a suo avviso, non sarebbe mai arrivato e riprese la marcia a piedi.

Vagò per tre settimane nella campagna, mangiando pane duro e rubando frutta e galline nelle fattorie. Durante quel viaggio la Germania si arrese. Quando glielo dissero, lui disse: tanto meglio. Una sera arrivò al paese e bussò alla porta di casa sua. Aprì la madre e vedendolo così malconcio non lo riconobbe. Poi lo abbracciarono e gli diedero da mangiare. Lui chiese se la guercia si era sposata. Gli dissero di no. Quella sera andò a trovarla, senza cambiarsi i vestiti né farsi il bagno, nonostante le preghiere di sua madre perché almeno si radesse. Quando la guercia lo vide davanti alla porta di casa lo riconobbe subito. Anche lo zoppo la vide, affacciata alla finestra, e alzò una mano e la salutò formalmente, con una certa rigidità persino, ma anche quel saluto si sarebbe potuto interpretare come un gesto che voleva dire: la vita è fatta così. Da allora in poi ripeté a chiunque voleva ascoltarlo che al suo paese erano tutti ciechi e che la guercia era una regina.


Hans Reiter nacque nel 1920. Non sembrava un bambino ma un'alga. Canetti e anche Borges, credo, due uomini così diversi, hanno detto che come il mare era simbolo e specchio degli inglesi, il bosco era la metafora in cui vivevano i tedeschi. Hans Reiter fece eccezione a questa regola fin dal momento della sua nascita. Non gli piaceva la terra né tanto meno il bosco. Non gli piaceva nemmeno il mare o quello che la maggior parte dei mortali chiama mare e che in realtà è solo la superficie del mare, le onde mosse dal vento che a poco a poco sono diventate la metafora della sconfitta e della follia. Quello che gli piaceva era il fondo del mare, quell'altra terra, piena di pianure che non erano pianure e di valli che non erano valli e di precipizi che non erano precipizi.


Quando la guercia gli faceva il bagno in una tinozza, il piccolo Hans Reiter le scivolava sempre via dalle mani saponose e scendeva sul fondo, con gli occhi aperti, e se le mani di sua madre non lo avessero riportato in superficie sarebbe rimasto lì, a contemplare il legno nero e l'acqua nera in cui fluttuavano particelle del suo stesso sporco, pezzettini minuscoli di pelle che viaggiavano come sottomarini in qualche direzione, una rada delle dimensioni di un occhio, una baia scura e serena, anche se la serenità non esisteva, esisteva solo il movimento che è la maschera di molte cose, compresa la serenità.


Un giorno lo zoppo, che a volte guardava la guercia che gli faceva il bagno, le disse di non tirarlo su, per vedere cosa faceva. Dal fondo della tinozza Hans Reiter contemplò coi suoi occhi grigi l'occhio celeste della madre e poi si girò di fianco e si dedicò a contemplare, immobile, i frammenti del suo corpo che si allontanavano in tutte le direzioni, come sonde spaziali lanciate alla cieca nell'universo. Quando finì l'aria smise di contemplare quelle particelle minime che scomparivano e cominciò a seguirle. Divenne paonazzo e si rese conto di attraversare una zona molto simile all'inferno. Ma non aprì bocca né accennò minimamente a risalire, anche se la sua testa era a soli dieci centimetri dalla superficie e da mari di ossigeno. Alla fine le braccia della madre lo sollevarono in aria e lui si mise a piangere. Lo zoppo, imbacuccato nel suo vecchio cappotto militare, guardò per terra e sputò nel caminetto.


A tre anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini di tre anni del suo paese e anche più alto di qualunque bambino di quattro anni e non tutti i bambini di cinque anni erano più alti di lui. All'inizio camminava con passi incerti e il medico del villaggio disse che era dovuto alla sua altezza e consigliò di dargli più latte per rinforzare le ossa con il calcio. Ma il medico sbagliava. Hans Reiter camminava con passi incerti perché si muoveva sulla superficie terrestre come un sommozzatore alle prime armi sul fondo del mare. In realtà, viveva e mangiava e dormiva e giocava sul fondo del mare. Per il latte non ci furono problemi, sua madre aveva tre mucche e varie galline e il bambino era ben nutrito.

Lo zoppo a volte lo guardava camminare nei campi e si metteva a pensare se nella sua famiglia c'era mai stato qualcuno così alto. Il fratello di un trisavolo o di un bisnonno, si diceva, aveva combattuto agli ordini di Federico il Grande, in un reggimento composto solo da uomini che superavano il metro e ottanta o il metro e ottantacinque. Quel reggimento o battaglione di lusso aveva avuto molte perdite, perché era estremamente facile prendere la mira e colpirli.

Una volta, pensava lo zoppo guardando suo figlio muoversi goffo sul confine degli orti vicini, il reggimento prussiano si era imbattuto in un reggimento russo con le stesse caratteristiche, contadini di un metro e ottanta o un metro e ottantacinque vestiti con le giubbe verdi della Guardia Imperiale russa, e si erano scontrati e c'era stata una terribile carneficina, e anche quando i reggimenti di entrambi gli eserciti erano retrocessi, questi due reggimenti di giganti avevano continuato a combattere impegnati in una lotta corpo a corpo che era cessata solo quando i generali in capo avevano inviato l'ordine perentorio di battere in ritirata verso le nuove postazioni.

Prima di andare in guerra il padre di Hans Reiter era alto un metro e sessantotto. Quando era tornato, forse perché gli mancava una gamba, era alto solo un metro e sessantacinque. Un reggimento di giganti è una cosa da matti, pensava. La guercia era alta un metro e sessanta e pensava che gli uomini, più erano alti, meglio era.


A sei anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini di sei, più alto di tutti i bambini di sette, più alto di tutti i bambini di otto, più alto di tutti i bambini di nove e anche della metà dei bambini di dieci. Inoltre, a sei anni aveva rubato per la prima volta un libro. Il libro si intitolava Animali e piante del litorale europeo. Lo aveva nascosto sotto il letto benché a scuola nessuno avesse notato la mancanza del libro. In quello stesso periodo iniziò le sue immersioni. Era il 1926. Nuotava da quando aveva quattro anni e infilava la testa sott'acqua e apriva gli occhi e poi sua madre lo rimproverava perché aveva tutto il giorno gli occhi rossi e temeva che la gente, vedendolo, pensasse che il bambino passava le giornate a piangere. Ma non imparò a fare immersioni finché non ebbe compiuto sei anni. Metteva la testa sotto, scendeva giù di un metro, apriva gli occhi e guardava. Questo sì. Ma le immersioni no. A sei anni decise che un metro era troppo poco e si lanciò testa a picco verso il fondo del mare.

Il libro Animali e piante del litorale europeo ce l'aveva nella testa, come si suol dire, e durante le immersioni girava lentamente le pagine. Scoprì in questo modo la Laminaria digitata, che è un'alga di grandi dimensioni, composta da uno stelo robusto e da un'unica foglia ampia, come diceva il libro, a forma di ventaglio, divisa in numerose strisce che sembravano, in realtà, delle dita. La Laminaria digitata è un'alga dei mari freddi come il Baltico, il Mare del Nord e l'Atlantico. S'incontra in grandi gruppi, sul livello della bassa marea e sotto le coste rocciose. La bassa marea lascia allo scoperto boschi di queste alghe. Quando Hans Reiter vide per la prima volta sott'acqua un bosco di alghe si emozionò a tal punto che si mise a piangere. Sembra difficile che un essere umano pianga mentre fa un'immersione con gli occhi aperti, ma non dimentichiamo che Hans allora aveva solo sei anni e che in un certo senso era un bambino singolare.

La Laminaria digitata è di colore marrone chiaro e assomiglia alla Laminaria hyperborea, che possiede un tallo più ruvido, e alla Saccorhiza polyschides, che ha un tallo con base bulbosa. Queste due alghe, però, vivono in acque profonde e benché a volte, in certi mezzogiorni estivi, Hans Reiter si spingesse a nuoto lontano dalla spiaggia o dagli scogli dove lasciava i vestiti per poi immergersi, non riuscì mai a vederle, se non in una specie di allucinazione, là sul fondo, in un bosco immobile e silenzioso.


In quel periodo cominciò a disegnare su un quaderno ogni genere di alga. Disegnò la Chorda filum, che è un'alga composta da lunghi cordoni sottili che però possono raggiungere gli otto metri di lunghezza. Privi di rami e dall'apparenza fragile, sono in realtà molto robusti. Crescono sotto il confine della bassa marea. Disegnò anche la Leathesia difformis, un'alga composta da bulbi arrotondati di un marrone olivastro che cresce sugli scogli e su altre alghe. Ha uno strano aspetto. Non ne vide mai nemmeno una, ma la sognò spesso. Disegnò l' Ascophyllum nodosum, che è un'alga grigiastra dalle linee disordinate con delle ampolle ovoidali lungo i rami. Esistono, fra gli Ascophyllum nodosum, alghe differenziate maschio e femmina che producono strutture fruttifere simili a uva passa. Nel maschio sono gialle. Nella femmina verde scuro. Disegnò la Laminaria saccharina, che è un'alga composta da un'unica foglia lunga e stretta, simile a un nastro. Quando è secca, sulla superficie si scorgono i cristalli di una sostanza dolce che è il mannitolo. Cresce sulle coste rocciose attaccandosi a vari tipi di supporto, anche se spesso è trascinata via dal mare. Disegnò la Padina pavonia, che è un'alga poco frequente, di piccole dimensioni, a forma di ventaglio. Č una specie tipica delle acque calde che si può trovare dalle coste meridionali della Gran Bretagna fino al Mediterraneo. Non esistono specie affini. Disegnò il Sargassum vulgare, un'alga che vive sulle spiagge rocciose e sassose del Mediterraneo e che, tra le fronde, possiede piccoli organi riproduttivi peduncolati. Si può trovare sia nelle acque basse sia a grandi profondità. Disegnò la Porphyra umbilicalis, che è un'alga particolarmente bella, lunga fino a venti centimetri e di un rosso purpureo. Cresce nel Mediterraneo, nell'Atlantico, nel Canale della Manica e nel Mare del Nord. Esistono varie specie di Porphyra e sono tutte commestibili. Sono soprattutto i gallesi a mangiarla.


«I gallesi sono dei maiali» disse lo zoppo a una domanda del figlio. «Dei grandissimi maiali. Anche gli inglesi sono dei maiali, ma un po' meno dei gallesi. Anche se a dire la verità sono altrettanto maiali, cercano solo di sembrarlo un po' meno, e siccome sanno fingere bene alla fine ci riescono. Gli scozzesi sono più maiali degli inglesi e solo un po' meno maiali dei gallesi. I francesi sono maiali come gli scozzesi. Gli italiani sono dei lattonzoli. Lattonzoli pronti a mangiarsi la loro madre maiala. Degli austriaci si può dire lo stesso: maiali, maiali, maiali. Non ti fidare mai di un ungherese. Non ti fidare mai di un boemo. Ti leccano la mano e ti divorano il mignolo. Non ti fidare mai di un ebreo: quello ti mangia il pollice e per di più ti sbava la mano. Anche i bavaresi sono dei maiali. Quando parli con un bavarese, figliolo, cerca di tenere la cintura ben allacciata. Con i renani nemmeno a parlarne: in un batter d'occhio ti vorranno tagliare una gamba. I polacchi sembrano galline, ma se gli strappi quattro penne vedrai che sotto hanno la pelle del maiale. Lo stesso succede coi russi. Sembrano cani famelici ma in realtà sono maiali famelici, maiali pronti a mangiarsi chiunque, senza pensarci due volte, senza il minimo rimorso. I serbi sono uguali ai russi, ma in piccolo. Sono come maiali mascherati da chihuahua. I chihuahua sono dei cani nanerottoli, grossi come un passero, che vivono nel Messico del Nord e si vedono in certi film americani. Gli americani sono dei maiali, naturalmente. E anche i canadesi, dei grandi maiali spietati, anche se i peggiori maiali del Canada sono i maiali franco-canadesi, così come i peggiori maiali d'America sono i maiali irlandesi. Non si salvano neppure i turchi. Sono maiali sodomiti, come quelli della Sassonia e della Westfalia. Dei greci posso dirti soltanto che sono uguali ai turchi: maiali pelosi e sodomiti. Si salvano solo i prussiani. Ma la Prussia non esiste più. Dov'è la Prussia? Tu la vedi? Io non la vedo. A volte ho l'impressione che siano tutti morti in guerra. A volte, invece, ho l'impressione che mentre io ero in ospedale, quell'immondo ospedale di maiali, i prussiani siano emigrati in massa, lontano da qui. A volte vado alla scogliera e guardo il Baltico e cerco di indovinare dove sono andate le navi dei prussiani. In Svezia? In Norvegia? In Finlandia? Impossibile: quelle sono terre di maiali. Dove allora? In Islanda, in Groenlandia? Cerco di indovinare ma non ci riesco. Dove sono allora i prussiani? Mi avvicino alla scogliera e li cerco sull'orizzonte grigio. Un grigio torbido come pus. E non una volta l'anno. Una volta al mese! Una volta ogni quindici giorni! Ma non li vedo mai, non capisco mai verso quale punto dell'orizzonte si sono lanciati. Vedo solo te, la tua testa che appare e scompare fra le onde e allora mi siedo su uno scoglio e rimango lì fermo a guardarti, a lungo, trasformato anch'io in uno scoglio, e se a volte i miei occhi ti perdono di vista o la tua testa ricompare a grande distanza da dove ti eri tuffato, non ho paura per te, perché so che tornerai a galla, che l'acqua non può farti nulla. A volte, addirittura, mi addormento, seduto su uno scoglio, e quando mi sveglio ho così freddo che non do neanche un'occhiata al mare per vedere se sei ancora lì. Cosa faccio allora? Be', mi alzo e torno in paese battendo i denti. E quando arrivo fra le prime case mi metto a cantare perché i vicini si facciano l'idea sbagliata che sono andato a ubriacarmi nella taverna di Krebs».


Anche al giovane Hans Reiter piaceva camminare, come un sommozzatore, ma non gli piaceva cantare perché i sommozzatori, a dire il vero, non cantano mai. A volte usciva dal paese e andava verso est, su una strada sterrata in mezzo ai boschi, e arrivava al Villaggio degli Uomini Rossi, che vendevano torba. Se proseguiva ancora verso est, c'era il Villaggio delle Donne Azzurre, circondato da un lago che in estate si prosciugava. Entrambi i villaggi gli sembravano villaggi fantasma, abitati da morti. Oltre il Villaggio delle Donne Azzurre c'era il Paese dei Grassi. Là si sentiva cattivo odore, di sangue e carne in decomposizione, un odore forte e pesante molto diverso dall'odore del suo paese che sapeva di vestiti sporchi, di sudore incollato alla pelle, di terra bagnata di urina, che è un odore sottile, un odore simile a quello della Chorda filum.

Nel Paese dei Grassi, non poteva essere altrimenti, c'erano molti animali e svariate macellerie. A volte, mentre tornava indietro, camminando come un sommozzatore, vedeva abitanti del Paese dei Grassi che vagavano senza nulla da fare nelle strade del Villaggio delle Donne Azzurre o nel Villaggio degli Uomini Rossi e pensava che forse la gente di quei due villaggi, quelli che ora erano villaggi fantasma, era morta per mano degli abitanti arrivati dal Paese dei Grassi, che nell'arte di uccidere dovevano essere temibili e implacabili, anche se con lui non attaccavano mai briga, fra gli altri motivi perché era un sommozzatore, cioè perché non apparteneva a questo mondo, dove veniva solo in esplorazione o in visita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 473

Nel 1937 arrestarono Ivanov.

Lo interrogarono di nuovo a lungo e poi lo chiusero in una cella senza luce e si dimenticarono di lui. Il funzionario che lo interrogava non aveva la minima idea di cosa fosse la letteratura e gli interessava soltanto sapere se Ivanov aveva partecipato a riunioni con membri dell'opposizione trockista.

Nel periodo in cui rimase in cella Ivanov fece amicizia con un ratto a cui mise nome Nikita. La sera, quando arrivava il ratto, Ivanov aveva con lui lunghe conversazioni. Non parlavano, come si poteva supporre, di letteratura né tanto meno di politica ma della loro infanzia. Ivanov raccontava al ratto cose di sua madre, a cui pensava spesso, e cose dei suoi fratelli, ma evitava di parlare del padre. Il ratto, in un russo appena sussurrato, gli parlava invece delle fognature di Mosca, del soffitto delle fognature dove, per il fiorire di certe muffe o per un inspiegabile processo di fosforescenza, ci sono sempre stelle. Gli parlava anche del tepore di sua madre, delle assurde birichinate delle sue sorelle e delle grandi risate che queste marachelle provocavano in lui e che ancora oggi, nel ricordo, disegnavano un sorriso sul suo emaciato muso di ratto. A volte Ivanov si lasciava prendere dall'abbattimento, appoggiava la guancia sul palmo della mano e chiedeva a Nikita cosa sarebbe stato di loro.

Il ratto allora lo guardava con due occhi tristi e perplessi in egual misura e quello sguardo faceva capire a Ivanov che il povero ratto era ancora più innocente di lui. Una settimana dopo averlo chiuso in cella (anche se per Ivanov più che una settimana era passato un anno) lo interrogarono di nuovo e senza bisogno di picchiarlo gli fecero firmare svariate carte e documenti. Non tornò più in cella. Lo portarono direttamente in un cortile, qualcuno gli sparò un colpo alla nuca e poi caricarono il cadavere su un camion.


A partire dalla morte di Ivanov il quaderno di Ansky diventa caotico, apparentemente sconnesso, anche se in mezzo al caos Reiter trova una struttura e un certo ordine. Parla degli scrittori. Dice che gli unici scrittori vitali (ma non spiega cosa intende con l'aggettivo vitale) sono quelli che provengono dal Lumpen e dall'aristocrazia. Lo scrittore proletario e lo scrittore borghese, dice, sono solo figure decorative. Parla del sesso. Ricorda de Sade e un misterioso personaggio russo, il monaco Lapishin, che è vissuto nel Seicento e ha lasciato vari scritti (accompagnati dai relativi disegni) su pratiche sessuali di gruppo nella regione compresa tra i fiumi Dvina e Pecora.

Solo il sesso?, solo il sesso?, si domanda ripetutamente Ansky negli appunti scritti in margine. Parla dei suoi genitori. Parla di Döblin. Parla dell'omosessualità e dell'impotenza. Il continente americano del sesso, dice. Scherza sulla sessualità di Lenin. Parla dei drogati di Mosca. Dei malati. Degli assassini di bambini. Parla di Flavio Giuseppe. Le sue parole sullo storiografo sono venate di malinconia, ma può darsi che quella malinconia sia finta. E nondimeno, davanti a chi finge Ansky se sa che nessuno leggerà il suo quaderno? (Se è davanti a Dio, allora Ansky tratta Dio con una certa condiscendenza, forse perché Dio non si è mai smarrito nella penisola della Kamcatka, a soffrire il freddo e la fame, e lui sì). Parla dei giovani ebrei russi che hanno fatto la rivoluzione e che ora (questo probabilmente viene scritto nel 1939) stanno morendo come mosche. Parla di Pjatakov, assassinato nel 1937, dopo il secondo processo di Mosca. Fa nomi che Reiter legge per la prima volta in vita sua. Poi, qualche pagina più avanti, torna a menzionarli. Come se anche lui avesse paura di dimenticarsene. Nomi, nomi, nomi. Quelli che hanno fatto la rivoluzione, quelli che sarebbero caduti divorati dalla stessa rivoluzione, che non era la stessa ma un'altra, non il sogno ma l'incubo che si nasconde dietro le palpebre del sogno.

Parla di Lev Kamenev. Lo rammenta insieme a molti altri nomi che Reiter di nuovo non conosce. E parla delle proprie peripezie in diverse case di Mosca, gente amica che presumibilmente lo aiuta e che Ansky, per precauzione, nomina attraverso dei numeri, per esempio: oggi sono stato a casa di 5, abbiamo preso il tè e parlato fin dopo mezzanotte, poi me ne sono andato a piedi, i marciapiedi erano pieni di neve. Oppure: oggi ho visto 9, mi ha parlato di 7 e poi si è messo a divagare sulle malattie, sull'opportunità o meno di trovare una cura per il cancro. Oppure: oggi pomeriggio, in metropolitana, ho visto 13, senza che lui si sia accorto della mia presenza, io dormicchiavo, seduto, e lasciavo passare i treni, e 13 leggeva un libro sulla panchina accanto, un libro su uomini invisibili, finché non è arrivato il suo treno e allora si è alzato, è salito, senza chiudere il libro, benché il treno fosse pieno. E dice anche: i nostri occhi si sono incontrati. Scopare con un serpente.

E non sente nessuna pietà per sé stesso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 540

In quel periodo Reiter finì di scrivere il suo primo romanzo. Lo intitolò Lüdicke e dovette girare vicoli sperduti di Colonia in cerca di qualcuno che gli desse a nolo una macchina da scrivere, perché decise che non l'avrebbe chiesta in prestito o a noleggio a nessun conoscente, cioè a nessuno che sapesse che si chiamava Hans Reiter. Alla fine trovò un vecchio che possedeva una vecchia macchina da scrivere francese e che, pur non essendo sua abitudine darla a nolo, faceva un'eccezione con gli scrittori.

La cifra che gli chiese il vecchio era alta e all'inizio Reiter pensò che era meglio continuare a cercare, ma quando vide la macchina, perfettamente conservata, senza un granello di polvere, con tutte le lettere pronte a lasciare il loro segno sulla carta, decise che poteva concedersi questo lusso. Il vecchio voleva i soldi in anticipo e quella sera stessa, al bar, Reiter chiese e ottenne vari prestiti dalle ragazze. E il giorno dopo tornò e gli mostrò i soldi, ma il vecchio tirò fuori un quaderno da una scrivania e volle sapere il suo nome. Reiter disse la prima cosa che gli passò per la testa.

«Mi chiamo Benno von Arcimboldi».

Il vecchio allora lo guardò negli occhi e gli disse che non facesse il furbo, che voleva sapere il suo vero nome.

«Il mio nome è Benno von Arcimboldi, signore,» disse Reiter «e se lei crede che stia scherzando è meglio che me ne vada».

Per qualche istante rimasero entrambi in silenzio. Gli occhi del vecchio erano marrone scuro, anche se alla luce fioca del suo studio sembravano neri. Gli occhi di Arcimboldi erano azzurri e al vecchio parvero gli occhi di un giovane poeta, due occhi stanchi, maltrattati, rossi, ma giovani e in un certo senso puri, anche se il vecchio aveva smesso da un pezzo di credere alla purezza.

«Questo paese» disse a Reiter, che quel pomeriggio si trasformò, forse, in Arcimboldi «ha cercato di gettare nell'abisso vari altri paesi nel nome della purezza e della volontà. Per me, come può capire, la purezza e la volontà sono solo stronzate. Grazie alla purezza e alla volontà siamo diventati tutti, m'intenda bene, tutti, dal primo all'ultimo, un paese di vigliacchi e attaccabrighe, che in fin dei conti sono la stessa cosa. Ora piagnucoliamo e ci affliggiamo e diciamo noi non lo sapevamo!, eravamo all'oscuro di tutto!, sono stati i nazisti, noi avremmo agito diversamente! Sappiamo lamentarci. Sappiamo risvegliare la compassione e la pena. Non ci importa che si prendano gioco di noi, purché ci compatiscano e ci perdonino. Ci sarà poi tempo per inaugurare un lungo ponte di amnesia. Capisce cosa intendo?».

«Capisco» disse Arcimboldi.

«Io ero uno scrittore» disse il vecchio.

«Ma ho smesso. Questa macchina da scrivere me l'ha regalata mio padre. Un padre affettuoso e colto che è arrivato fino all'età di novantatré anni. Un uomo fondamentalmente buono. Un uomo che credeva, inutile dirlo, nel progresso. Povero padre mio. Credeva nel progresso e, come è naturale, credeva nella bontà intrinseca dell'essere umano. Anch'io credo nella bontà intrinseca dell'essere umano, ma questo non significa nulla. Un assassino, in fondo, è buono. Noi tedeschi lo sappiamo bene. E allora? Posso passare una serata a bere con un assassino e forse, mentre contempliamo insieme l'aurora, ci potremmo mettere a cantare o a canticchiare un pezzo di Beethoven. E allora? L'assassino può piangere sulla mia spalla. Č normale. Essere un assassino non è facile. Lei e io lo sappiamo bene. Non è per niente facile. Esige purezza e volontà, volontà e purezza. La purezza del cristallo e una volontà di ferro. E io posso addirittura mettermi a piangere sulla spalla dell'assassino e sussurrargli parole dolci come "fratello", "camerata", "compagno di sventura". In quel momento l'assassino è buono, visto che è intrinsecamente buono, e io sono un idiota, visto che sono intrinsecamente un idiota, e siamo entrambi sentimentali, perché la nostra cultura tende in maniera irrefrenabile alla sentimentalità. Ma quando il brano finirà e io sarò da solo, l'assassino aprirà la finestra della mia stanza ed entrerà con i suoi passettini da infermiere e mi sgozzerà lasciandomi senza neppure una goccia di sangue.

«Povero padre mio. Ero uno scrittore, uno scrittore, ma il mio indolente cervello vorace mi mangiava le viscere. Avvoltoio del mio stesso Prometeo o Prometeo del mio stesso avvoltoio, un giorno mi resi conto che potevo pubblicare eccellenti articoli su riviste e giornali, e addirittura libri che non sprecavano la carta su cui erano stampati. Ma capii anche che non sarei mai riuscito ad avvicinarmi o ad addentrarmi in quello che chiamiamo un capolavoro. Lei mi dirà che la letteratura non è fatta unicamente di capolavori ma è piena di opere cosiddette minori. Anch'io lo credevo. La letteratura è un grande bosco e i capolavori sono i laghi, gli alberi immensi o stranissimi, gli splendidi fiori eloquenti o le grotte nascoste, ma un bosco è fatto anche di alberi normalissimi, di ciuffi d'erba, di pozze d'acqua, di piante parassite, di funghi e fiorellini selvatici. Ebbene, sbagliavo. Le opere minori, in realtà, non esistono. Voglio dire: l'autore di un'opera minore non si chiama Tizio o Caio. Tizio o Caio esistono, non c'è dubbio, e soffrono e lavorano e pubblicano su giornali e riviste e di tanto in tanto pubblicano addirittura un libro che non spreca la carta su cui è stampato, ma quei libri e quegli articoli, se lei fa bene attenzione, non sono scritti da loro.

«Ogni opera minore ha un autore segreto e ogni autore segreto è, per definizione, uno scrittore di capolavori. Chi ha scritto quell'opera minore? Apparentemente uno scrittore minore. La moglie del povero scrittore lo può testimoniare, l'ha visto seduto, chino sulle pagine in bianco, che si contorceva passando la penna sulla carta. Sembra una testimonianza inoppugnabile. Ma quello che ha visto è solo l'esterno. Il guscio della letteratura. Un'apparenza» disse il vecchio ex scrittore ad Arcimboldi e Arcimboldi ripensò ad Ansky. «In realtà a scrivere quell'opera minore è uno scrittore segreto che accetta soltanto i dettami di un capolavoro.

«Il nostro buon artigiano scrive. Č assorto in quello che va plasmando bene o male sulla carta. La moglie, senza che lui lo sappia, lo osserva. In effetti, è lui che scrive. Se però la moglie avesse una vista a raggi X si renderebbe conto che non assiste propriamente a un esercizio di creazione letteraria ma piuttosto a una seduta di ipnotismo. Dentro l'uomo seduto a scrivere non c'è nulla. Nulla che sia lui, voglio dire. Quanto farebbe meglio quel pover'uomo a dedicarsi alla lettura. La lettura è piacere e gioia di essere vivo o tristezza di essere vivo e soprattutto è conoscenza e domande. La scrittura, invece, di solito è vuoto. Nelle viscere dell'uomo che scrive non c'è nulla. Nulla, voglio dire, che sua moglie, in un momento dato, possa riconoscere. Scrive sotto dettatura. Il suo romanzo o la sua raccolta di poesie, decenti, più o meno decenti, nascono non per un esercizio di stile o di volontà, come pensa quel povero disgraziato, ma grazie a un esercizio di occultamento. Č necessario che ci siano molti libri, molti bei pini, per schermare agli sguardi torvi il libro che è davvero importante, la maledetta grotta della nostra disgrazia, il fiore magico dell'inverno!

«Scusi le metafore. A volte mi esalto e divento romantico. Ma ascolti. Ogni opera che non sia un capolavoro è, come dire, un pezzo di un vasto camuffamento. Lei è stato soldato, immagino, e sa a cosa mi riferisco. Ogni libro che non sia un capolavoro è carne da cannone, valorosa fanteria, un pezzo sacrificabile dato che ripete, in vari modi, lo schema del capolavoro. Quando compresi questa verità smisi di scrivere. La mia mente, però, non smise di funzionare. Al contrario, non scrivendo funzionava meglio. Mi domandai: perché un capolavoro ha bisogno di essere nascosto?, quali strane forze lo trascinano verso il segreto e il mistero?

«Sapevo già che scrivere era inutile. O che ne valeva la pena solo se uno era deciso a scrivere un capolavoro. La maggior parte degli scrittori sbagliano o giocano. Forse sbagliarsi e giocare sono la stessa cosa, le due facce della stessa medaglia. In realtà non smettiamo mai di essere bambini, bambini mostruosi pieni di herpes e di varici e di tumori e di macchie sulla pelle, ma in fin dei conti sempre bambini, cioè non smettiamo mai di aggrapparci alla vita dato che siamo vita. Si potrebbe anche dire: siamo teatro, siamo musica. Allo stesso modo, sono pochi gli scrittori che rinunciano. Giochiamo a crederci immortali. Sbagliamo nel giudizio sulle nostre opere e nel giudizio sempre approssimativo sulle opere altrui. Ci vediamo al Nobel, dicono gli scrittori, come chi dice: ci vediamo all'inferno.

«Una volta ho visto un film americano di gangster. In una scena un detective uccide un delinquente e prima di sparare il colpo fatale gli dice: ci vediamo all'inferno. Sta giocando. Il detective sta giocando e sbagliando. Anche il delinquente, che lo guarda e lo insulta poco prima di morire, sta giocando e sbagliando, benché il suo campo di gioco e il suo campo di errore siano ridotti quasi allo zero assoluto, visto che nell'inquadratura successiva morirà. Gioca anche il regista. Così come lo sceneggiatore. Ci vediamo al Nobel. Abbiamo fatto storia. Il popolo tedesco ce ne è grato. Una battaglia eroica che sarà ricordata dalle generazioni future. Un amore immortale. Un nome scritto sul marmo. L'ora delle muse. Persino un'espressione apparentemente innocente come "echi di una prosa greca" non contiene altro che gioco ed errore.

«Il gioco e l'errore sono la benda e sono la molla degli scrittori minori. Sono anche la promessa della loro felicità futura. Un bosco che cresce a una velocità vertiginosa, un bosco a cui nessuno mette freno, neppure le Accademie, al contrario, le Accademie si adoperano perché cresca senza problemi, e anche gli impresari e le università (allevamenti di fannulloni) e gli uffici statali e i mecenati e le associazioni culturali e chi declama di poesia, tutti contribuiscono perché il bosco cresca e occulti quello che deve occultare e replichi e riproduca quello che deve riprodurre, perché è inevitabile che sia così, ma senza mai rivelare cos'è che riproduce, che mitemente riflette.

«Un plagio, dirà lei? Sì, un plagio, nel senso in cui ogni opera minore, ogni opera uscita dalla penna di uno scrittore minore, non può che essere un plagio di qualche capolavoro. La piccola differenza è che qui parliamo di un plagio consentito. Un plagio che è un camuffamento che è una pièce sullo scenario eterogeneo che è una sciarada che probabilmente ci condurrà nel vuoto.

«In una parola: la cosa migliore è l'esperienza. Non le dirò che l'esperienza non si ottenga con la frequentazione assidua di una biblioteca, ma al di là della biblioteca prevale l'esperienza. L'esperienza è la madre della scienza, come si usa dire. Quando ero giovane e pensavo ancora di far carriera nel mondo delle lettere, conobbi un grande scrittore. Un grande scrittore che probabilmente aveva scritto un capolavoro, anche se a mio avviso tutta la sua produzione era un capolavoro.

«Non le dirò il suo nome. Per lei è meglio se non glielo dico e per capire la storia non è indispensabile saperlo. Si accontenti di sapere che era tedesco e che un giorno venne a Colonia a fare delle conferenze. Naturalmente, non mi persi neppure una delle tre conferenze che tenne all'università. All'ultima riuscii a trovare un posto in prima fila e mi misi, più che ad ascoltarlo (in realtà ripeteva cose che aveva già detto al primo e al secondo incontro), a osservarlo nei dettagli, le mani, per esempio, due mani energiche e ossute, il collo da vecchio simile al collo di un tacchino o di un gallo spennato, gli zigomi leggermente slavi, le labbra esangui, labbra che uno potrebbe tagliare con un coltello nell'assoluta certezza che non ne uscirebbe neppure una goccia di sangue, le tempie grigie come un mare agitato, e soprattutto gli occhi, due occhi profondi che, a seconda dei lievi movimenti della testa, somigliavano a volte a due tunnel senza fondo, due tunnel abbandonati e sul punto di crollare.

«Naturalmente, terminata la conferenza, i notabili della città si accaparrarono lo scrittore e non ebbi modo neppure di stringergli la mano e dirgli quanto lo ammiravo. Passò del tempo. Lo scrittore morì e io, come è logico, continuai a leggerlo e a rileggerlo. Giunse il giorno in cui decisi di lasciare la letteratura. La lasciai. Non c'è un trauma in questo passo ma una liberazione. Detto fra noi le confesso che è come smettere di essere vergine. Un sollievo, lasciare la letteratura, cioè smettere di scrivere e limitarsi a leggere!

«Ma questo è un altro discorso. Ne parleremo quando mi restituirà la macchina da scrivere. Il ricordo della visita di questo grande scrittore nella mia città, però, non mi abbandonava. Nel frattempo cominciai a lavorare in una fabbrica di strumenti ottici. Guadagnavo bene. Ero scapolo, avevo soldi, andavo ogni settimana al cinema, a teatro, alle mostre, studiavo anche l'inglese e il francese, e frequentavo librerie dove compravo tutti i libri che volevo.

«Una vita comoda. Ma il ricordo della visita del grande scrittore non mi abbandonava e, quel che è peggio, all'improvviso mi resi conto che ricordavo solo la terza conferenza, e che i miei ricordi erano circoscritti al suo viso, come se quel viso avesse voluto dirmi qualcosa che alla fine non mi aveva detto. Ma cosa? Un giorno, per motivi che adesso non c'entrano, accompagnai un amico medico al deposito di cadaveri dell'università. Non credo che lei ci sia mai stato. Il deposito è nel seminterrato e ha un lungo corridoio con i muri coperti da piastrelle bianche e il soffitto in legno. A metà c'è un anfiteatro dove si effettuano autopsie, dissezioni e altre mostruosità scientifiche. Poi ci sono due piccoli uffici, quello del preside della facoltà di Medicina legale e quello di un altro professore. In fondo si trovano le sale refrigerate dove vengono conservati i cadaveri, corpi di indigenti o di persone senza documenti a cui la morte ha fatto visita in alberghi di passaggio.

«In quel periodo nutrivo un interesse senza dubbio morboso per questi luoghi e il mio amico medico si offrì gentilmente di mostrarmeli con lusso di spiegazioni. Assistemmo persino all'ultima autopsia del giorno. Poi il mio amico si chiuse con il preside nel suo ufficio e io rimasi solo nel corridoio, ad attenderlo, mentre gli studenti se ne andavano e una specie di letargo crepuscolare filtrava sotto le porte come gas velenoso. Dopo dieci minuti che aspettavo sentii provenire, da una delle sale refrigerate, un rumore che mi fece sussultare. Le assicuro che questo all'epoca sarebbe stato sufficiente a impaurire chiunque, ma io non sono mai stato troppo vigliacco e mi avviai in quella direzione.

«Quando aprii la porta un soffio di aria fredda mi colpì in piena faccia. In fondo alla stanza, vicino a una barella, un uomo cercava di aprire una delle celle per depositarvi un cadavere, ma per quanto spingesse la celletta in questione non cedeva. Senza muovermi dalla soglia della porta gli domandai se aveva bisogno di aiuto. L'uomo si raddrizzò, era molto alto, e mi guardò in un modo che a me, allora, parve sconfortato. Forse quell'impressione di sconforto nello sguardo mi spinse ad avvicinarmi. Avanzai, circondato dai cadaveri, accesi una sigaretta per calmarmi i nervi e, una volta al suo fianco, la prima cosa che feci fu offrirgli da fumare, forse forzando un cameratismo che non esisteva.

«Solo allora il dipendente dell'obitorio mi guardò e mi parve di tornare indietro nel tempo. I suoi occhi erano esattamente uguali a quelli del grande scrittore alle cui conferenze ero accorso a Colonia come un pellegrino. Le confesso che per qualche secondo pensai addirittura di essere ammattito in quel preciso istante. Mi tolse dai pasticci la voce, per nulla simile all'amata voce del grande scrittore. Il dipendente dell'obitorio disse: qui è proibito fumare.

«Non seppi ribattere. Aggiunse: il fumo fa male ai morti. Risi. Diede una spiegazione: il fumo danneggia la loro conservazione. Feci una smorfia poco impegnativa. Lui ci provò un'ultima volta: parlò di certi filtri, parlò dell'umidità, pronunciò la parola purezza. Gli offrii di nuovo una sigaretta e lui rassegnato annunciò che non fumava. Gli domandai se lavorava lì da tanto tempo. Con un tono impersonale e una voce leggermente stridula, disse che lavorava all'università da molto prima della guerra del 1914.

«"Sempre all'obitorio?" gli domandai.

«"Mai stato in altri posti" rispose.

«"Č strano," gli dissi "perché il suo volto, soprattutto i suoi occhi, mi ricordano gli occhi di un grande scrittore tedesco". Poi dissi il nome dello scrittore.

«"Non l'ho mai sentito nominare" fu la sua risposta.

«In un altro periodo quella risposta mi avrebbe inquietato, ma grazie a Dio vivevo una nuova vita. Commentai che lavorare all'obitorio doveva senza dubbio portarlo a riflessioni sagge o almeno originali sul destino umano. Mi guardò come se lo stessi prendendo in giro oppure parlassi francese. Volli insistere. Quella cornice, dissi allargando le braccia a comprendere tutto il deposito, era in un certo senso il posto ideale per pensare alla brevità della vita, a quanto è insondabile il destino degli uomini, alla vanità dei disegni mondani.

«Con un brivido di orrore, mi resi conto all'improvviso che gli stavo parlando come se fosse stato il grande scrittore tedesco e quello il colloquio che non avevamo mai avuto. Non ho molto tempo, mi disse. Lo guardai di nuovo negli occhi. Non ebbi il minimo dubbio: erano gli occhi del mio idolo. E la sua risposta: non ho molto tempo. Quante porte apriva quella risposta! Quante strade erano di colpo libere, visibili, dopo quella risposta!

«Non ho molto tempo, devo spostare cadaveri su e giù. Non ho molto tempo, devo respirare, mangiare, bere, dormire. Non ho molto tempo, devo muovermi al ritmo dell'ingranaggio. Non ho molto tempo, sto vivendo. Non ho molto tempo, sto morendo. Come lei può capire, non ci furono altre domande. Lo aiutai ad aprire la cella. Volevo aiutarlo anche a infilare dentro il corpo ma il mio impaccio fece scivolare il lenzuolo che lo copriva e vidi il volto del cadavere e chiusi gli occhi e chinai la testa e lo lasciai lavorare in pace.

«Quando uscii il mio amico mi osservava in silenzio davanti alla soglia del deposito. Tutto bene?, mi domandò. Non potei o non seppi rispondergli. Forse dissi: tutto male. Ma non era quello che volevo dire».

| << |  <  |