Copertina
Autore Roberto Bolaño
Titolo Chiamate telefoniche
EdizioneAdelphi, Milano, 2012, Piccola Biblioteca 628 , pag. 272, cop.fle., dim. 10,5x17,7x2 cm , Isbn 978-88-459-2683-9
OriginaleLlamadas telefónicas [1997]
TraduttoreBarbara Bertoni
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe narrativa cilena
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Indice


1. CHIAMATE TELEFONICHE                     13

Sensini                                     15
Henri Simon Leprince                        37
Enrique Martin                              47
Un'avventura letteraria                     67
Chiamate telefoniche                        83


2. I DETECTIVE                              91

Il Verme                                    93
La neve                                    111
Un altro racconto russo                    135
William Burns                              141
I detective                                153


3. VITA DI ANNE MOORE                      179

Compagni di cella                          181
Clara                                      197
Joanna Silvestri                           211
Vita di Anne Moore                         233


 

 

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Pagina 47

ENRIQUE MARTÍN



                                                A Enrique Vila-Matas



Un poeta può sopportare di tutto. Il che equivale a dire che un uomo può sopportare di tutto. Ma non è vero: sono poche le cose che un uomo può sopportare. Sopportare veramente. Un poeta, invece, può sopportare di tutto. Siamo cresciuti con questa convinzione. Il primo enunciato è vero, ma conduce alla rovina, alla follia, alla morte.

Conobbi Enrique Martín pochi mesi dopo essere arrivato a Barcellona. Aveva la mia età, era nato nel 1953 ed era poeta. Scriveva in spagnolo e in catalano con risultati essenzialmente identici anche se disuguali formalmente. La sua poesia in spagnolo era capricciosa e affettata e non di rado maldestra, priva di qualsiasi sprazzo di originalità. Il suo poeta preferito (in questa lingua) era Miguel Hernández, un bravo poeta che ignoro per quale ragione piaccia tanto ai cattivi poeti (azzardo una risposta che temo incompleta: Hernández parla del e dal dolore, e i cattivi poeti generalmente soffrono come animali da laboratorio, soprattutto durante la loro prolungata gioventù). In catalano, invece, la sua poesia parlava di cose reali e quotidiane, e la conoscevamo soltanto noi amici (cosa che in realtà è un eufemismo: anche la sua poesia in spagnolo probabilmente la leggevamo solo noi amici, l'unica differenza, almeno per quanto riguarda i lettori, era che la poesia in spagnolo la pubblicava su riviste dalle tirature minime che sospetto soltanto noi prendessimo in considerazione e a volte nemmeno noi, e quelle scritte in catalano ce le leggeva nei bar o quando veniva a trovarci a casa). Ma il catalano di Enrique era cattivo – come potevano essere belle quelle poesie se il poeta non dominava la lingua nella quale le scriveva?; immagino che tutto ciò rientri nel capitolo dei misteri della gioventù. Fatto sta che Enrique non aveva idea dei rudimenti della grammatica catalana ed è vero che scriveva male, sia in spagnolo che in catalano, ma io ricordo ancora alcune sue poesie con una certa emozione alla quale non è estraneo il ricordo della mia stessa gioventù. Enrique voleva essere poeta e a tale obiettivo dedicava tutta l'energia e tutta la volontà di cui era capace. La sua tenacia (una tenacia cieca e acritica, come quella dei cattivi pistoleri dei film, quelli che muoiono come mosche sotto le pallottole dell'eroe e che ciò nonostante perseverano in modo suicida nel loro intento) tutto sommato lo rendeva simpatico, aureolato da una certa santità letteraria che solo i poeti giovani e le vecchie puttane sanno apprezzare.

A quell'epoca avevo venticinque anni e pensavo di aver già fatto tutto. Enrique, invece, voleva fare tutto e si preparava a modo suo a mangiarsi il mondo. Il primo passo fu dare vita a una rivista o meglio a un fanzina di letteratura che finanziò con i suoi risparmi, dato che aveva dei soldi da parte e un lavoro fin dall'età di quindici anni in non so quale oscuro ufficio vicino al porto. All'ultimo momento gli amici di Enrique (e persino qualche mio amico) decisero di non includere le mie poesie nel primo numero e questo, anche se mi pesa riconoscerlo, appannò per qualche tempo la nostra amicizia. Secondo Enrique, la colpa era stata di un altro cileno, un tipo che conosceva da molto, che gli aveva fatto notare che due cileni erano troppi cileni per il primo numero di una fanzina di letteratura spagnola. In quei giorni io ero in Portogallo e quando tornai decisi di lavarmene le mani. La rivista non aveva niente a che vedere con me né io avevo niente a che vedere con la rivista. Non accettai le spiegazioni di Enrique, in parte per comodo, in parte per compiacere il mio orgoglio ferito, e mi disinteressai dell'impresa.

Per un po' non ci vedemmo più. Tramite persone che entrambi conoscevamo e che incontravo nei bar del centro storico, non smisi mai di essere informato, in modo succinto e casuale, delle sue ultime vicissitudini. Così seppi che della rivista (si chiamava «Soga Blanca», un titolo profetico, anche se a quanto mi consta non fu a lui che venne in mente) era uscito solo un numero, che aveva cercato di mettere in scena un'opera teatrale in un circolo culturale di Nou Barris e che lo avevano cacciato con le brutte dopo la prima rappresentazione, che aveva in programma di dar vita a un'altra rivista.

Una sera si presentò a casa mia. Teneva sottobraccio una cartellina piena di poesie e voleva che le leggessi. Andammo a cena in un ristorante di calle Costa e poi, mentre bevevo il caffè, ne lessi alcune. Enrique aspettava la mia opinione con un misto di autocompiacimento e paura. Capii che se gli dicevo che erano brutte non lo avrei mai più rivisto, oltre a impegolarmi in una discussione che si poteva prolungare fino alle ore piccole. Dissi che mi sembravano ben scritte. Non mostrai troppo entusiasmo, ma feci bene attenzione a non lasciarmi sfuggire la minima critica. Gli dissi persino che ce n'era una che mi sembrava molto bella, una alla León Felipe, una poesia in cui parlava con nostalgia delle terre dell'Estremadura dove non aveva mai vissuto. Non so se mi credette. Sapeva che a quell'epoca io leggevo Sanguineti e che seguivo (seppure ecletticamente) gli insegnamenti di quel poeta italiano sulla poesia moderna e perciò non mi potevano piacere i suoi versi sull'Estremadura. Ma fece finta di credermi, fece finta di essere contento di avermeli letti e dopo, sintomaticamente, si mise a parlare della sua rivista morta al numero 1 e fu lì che mi resi conto che non mi credeva ma se lo teneva per sé.

Questo fu tutto. Parlammo ancora per un po', di Sanguineti e di Frank O'Hara (Frank O'Hara mi piace ancora, Sanguineti è da molto che non lo leggo), della nuova rivista a cui pensava di dare vita e per la quale non mi chiese delle poesie e poi ci salutammo in strada, vicino a casa mia. Passarono uno o due anni prima che lo rivedessi.

A quell'epoca vivevo con una messicana e la nostra relazione minacciava di distruggere lei, me, i vicini, a volte persino gli amici che osavano venirci a trovare. Questi ultimi, avvisati, smisero di venire a casa nostra e in quel periodo non vedevamo quasi nessuno; eravamo poveri (la messicana, nonostante appartenesse a una famiglia agiata di città del Messico, si rifiutava categoricamente di ricevere da loro qualsiasi aiuto economico), le nostre liti erano omeriche, una nube minacciosa sembrava incombere perennemente sulle nostre teste.

Così andavano le cose quando riapparve Enrique Martín. Quando me lo trovai sulla porta con una bottiglia di vino e un pâté francese ebbi l'impressione che non volesse perdersi l'ultimo atto di una delle peggiori crisi della mia vita (anche se io in realtà mi sentivo bene, quella che si sentiva male era la mia amica), ma poi, quando ci invitò per la prima volta a cena a casa sua, quando volle farci conoscere la sua compagna, mi resi conto che nel peggiore dei casi Enrique non era venuto a guardare ma a farsi guardare, e che nel migliore dei casi forse nutriva ancora una certa stima nei miei confronti. E so che non apprezzai il gesto per quel che valeva, so che all'inizio guardai la sua irruzione con fastidio, e che il mio modo di riceverlo era stato o voleva essere ironico, cinico, probabilmente solo annoiato. A dire il vero in quei tempi io non ero una buona compagnia per nessuno. Questo lo sapevano tutti e tutti mi evitavano o mi fuggivano. Lui invece voleva vedermi, e alla messicana, chissà per quali oscuri motivi, Enrique e la sua compagna erano simpatici e le visite, le cene si susseguirono fino a un totale di cinque, non di più.

Naturalmente, all'epoca in cui riannodammo l'amicizia, anche se la parola è eccessiva, erano poche le cose su cui non dissentivamo. La mia prima sorpresa fu vedere casa sua (quando avevo smesso di frequentarlo viveva ancora con i genitori e poi ero venuto a sapere che condivideva un appartamento con altri tre, un appartamento dove, per un motivo o per l'altro, io non ero mai stato). Adesso viveva in un attico del quartiere di Gràcia, pieno di libri, di dischi, di quadri, un alloggio spazioso, forse un po' buio, che la sua compagna aveva arredato con gusto camaleontico, ma nel quale non mancavano certi particolari curiosi, oggetti portati dai loro ultimi viaggi (Bulgaria, Turchia, Israele, Egitto) che a volte trascendevano il ricordo da turisti, l'imitazione. La mia seconda sorpresa fu quando mi disse che non scriveva più poesie. Lo disse dopo cena, davanti alla messicana e alla sua compagna, anche se in realtà la confessione era rivolta a me (io giocherellavo con una daga araba, enorme, con la lama lavorata da entrambe le facce, immagino di difficile uso pratico), e quando lo guardai il suo volto sfoggiava un sorriso che voleva dire sono adulto, ho capito che per godere l'arte non c'è bisogno di fare figure da scemi, non c'è bisogno di scrivere né di strisciare.

La messicana (che era pura dinamite) si rammaricò per la sua rinuncia, lo costrinse a raccontare la storia della rivista dove non io non ero stato pubblicato, alla fine trovò plausibili e sensate le ragioni addotte da Enrique in difesa della sua rinuncia e gli predisse un imminente ritorno alla letteratura con forze rinnovate. La compagna di Enrique fu d'accordo al novantanove per cento. Le due donne (anche se per ovvie ragioni soprattutto la compagna di Enrique) sembravano trovare decisamente più poetico che questi si dedicasse al suo lavoro – aveva ottenuto una promozione, che a volte comportava dei viaggi fino a Cartagena e a Màlaga per ragioni che preferii non indagare –, alla sua collezione di dischi, alla casa e alla macchina, invece di perdere tempo a imitare León Felipe o nel migliore dei casi (si fa per dire) Sanguineti. Io non espressi nessuna opinione e quando Enrique mi domandò esplicitamente cosa ne pensassi (Dio mio, come fosse una perdita irreparabile per la lirica spagnola o catalana), gli risposi che qualsiasi cosa lui facesse andava bene. Non mi credette.

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CHIAMATE TELEFONICHE



B è innamorato di X. Naturalmente, si tratta di un amore infelice. B, in un'epoca della sua vita, era disposto a fare di tutto per X, più o meno lo stesso che pensano e dicono tutti gli innamorati. X rompe con lui. X rompe con lui per telefono. All'inizio, naturalmente, B soffre, ma alla lunga, come succede di solito, si riprende. La vita, come si dice nelle telenovele, continua. Passano gli anni.

Una sera in cui non ha niente da fare, B riesce, dopo due chiamate telefoniche, a mettersi in contatto con X. Nessuno dei due è giovane e questo si nota dalle loro voci che attraversano la Spagna da un capo all'altro. Rinasce l'amicizia e dopo qualche giorno decidono di rincontrarsi. Tutti e due si trascinano dietro divorzi, nuove malattie, frustrazioni. Quando B prende il treno per andare nella città di X, non è ancora innamorato. Il primo giorno lo passano chiusi in casa di X, a parlare delle loro vite (in realtà chi parla è X, B ascolta e fa qualche domanda); la notte X lo invita a dividere il suo letto. B in fondo non ha voglia di andare a letto con X, ma accetta. Al mattino, quando si sveglia, B è di nuovo innamorato. Ma è innamorato di X o è innamorato dell'idea di essere innamorato? La relazione è problematica e intensa: X ogni giorno rasenta il suicidio, è in cura psichiatrica (pastiglie, molte pastiglie che però non la aiutano affatto), piange spesso e senza motivo apparente. Così B si prende cura di X. Le sue cure sono affettuose, diligenti, ma anche maldestre. Le sue cure imitano quelle di un vero innamorato. B non ci mette molto a rendersene conto. Cerca di fare uscire X dalla depressione, ma riesce solo a portarla in un vicolo cieco o che X reputa cieco. A volte, quando è solo o guarda dormire X, anche B pensa che il vicolo sia cieco. Cerca di ricordare a mo' di antidoto i suoi amori perduti, cerca di convincersi di poter vivere senza X, di potersi salvare da solo. Una sera X gli chiede di andarsene e B prende il treno e lascia la città. X lo accompagna alla stazione. L'addio è affettuoso e disperato. B viaggia in cuccetta ma non riesce a prendere sonno se non molto tardi. Quando finalmente si addormenta sogna un pupazzo di neve che cammina nel deserto. Il percorso del pupazzo è al limite, probabilmente votato all'insuccesso. Ma il pupazzo preferisce non saperlo e la sua astuzia si trasforma in volontà: cammina di notte, quando le stelle gelide spazzano il deserto. Quando si sveglia (ormai alla stazione di Santz, a Barcellona) B crede di capire il significato del sogno (se mai ne abbia uno) ed è in grado di avviarsi a casa con una minima consolazione. Quella sera telefona a X e le racconta il sogno. X non dice niente. Il giorno dopo telefona di nuovo a X. E anche quello dopo ancora. L'atteggiamento di X è sempre più freddo, come se a ogni telefonata B si stesse allontanando nel tempo. Sto scomparendo, pensa B. Mi sta cancellando e sa cosa fa e perché lo fa. Una sera B minaccia X di prendere un treno e di presentarsi a casa sua il giorno dopo. Che non ti passi nemmeno per la testa, dice X. Vengo, dice B, non sopporto più queste chiamate telefoniche, voglio guardarti in faccia quando ti parlo. Non ti aprirò, dice X e poi riattacca. B non capisce più niente. Per molto tempo pensa come è possibile che un essere umano passi da un estremo all'altro nei suoi sentimenti, nei suoi desideri. Poi si ubriaca o cerca conforto in un libro. Passano i giorni.

Una sera, sei mesi dopo, B telefona a X. X ci mette un po' a riconoscere la sua voce. Ah, sei tu, dice. La freddezza di X è da far rizzare i capelli. B percepisce, però, che X vuole dirgli qualcosa. Mi ascolta come se il tempo non fosse passato, pensa, come se ci fossimo parlati ieri. Come stai? dice B. Raccontami qualcosa, dice B. X risponde a monosillabi e dopo un po' riattacca. Perplesso, B rifà il numero di X. Alla risposta, tuttavia, B preferisce rimanere in silenzio. All'altro capo della linea la voce di X dice: pronto, chi parla? Silenzio. Poi dice: chi è? e tace. Il tempo – il tempo che separava B da X e che B non riusciva a capire – passa lungo la linea telefonica, si comprime, si allunga, lascia intravvedere una parte della propria natura. B, senza rendersene conto, si è messo a piangere. Sa che X sa che è lui a chiamare. Poi, in silenzio, riattacca.

Fino a questo punto la storia è banale; penosa, ma banale. B capisce che non deve telefonare mai più a X. Un giorno suonano alla porta e compaiono A e Z. Sono poliziotti e sono venuti a interrogarlo. B vuole sapere il motivo. A è reticente; Z, dopo un maldestro giro di parole, glielo dice. Tre giorni fa, all'altro capo della Spagna, hanno assassinato X. All'inizio B crolla, poi capisce di essere tra i sospetti e il suo istinto di sopravvivenza lo spinge a mettersi sulla difensiva. I poliziotti fanno domande su due giorni in particolare. B non ricorda che cos'ha fatto, chi ha visto in quei giorni. Sa, come potrebbe non saperlo, che non si è mosso da Barcellona, che non si è mosso proprio dal quartiere e da casa sua, ma non può dimostrarlo. I poliziotti lo portano via. B passa la notte al commissariato. A un certo punto dell'interrogatorio crede che lo porteranno nella città di X e quella possibilità, stranamente, sembra allettarlo, ma alla fine questo non succede. Prendono le sue impronte digitali e gli chiedono il consenso per fargli un'analisi del sangue. B accetta. Il mattino dopo lo lasciano tornare a casa. Ufficialmente, B non è stato arrestato, si è soltanto prestato a collaborare con la polizia per far luce su un omicidio. Una volta a casa B si butta sul letto e si addormenta subito. Sogna un deserto, sogna il volto di X, poco prima di svegliarsi capisce che queste due cose sono la stessa persona. Non gli è difficile dedurre che si trova perduto nel deserto.

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Pagina 153

I DETECTIVE



«Che armi ti piacciono?».

«Tutte, ma non le armi bianche».

«Vuoi dire coltelli, navaja, daghe, corvos, pugnali, temperini, cose di questo tipo?».

«Più o meno».

«Cosa più o meno?».

«È un modo di dire, coglione. Sì, nessuna di queste».

«Sei sicuro?».

«Sì, sono sicuro».

«E com'è che non ti piacciono i corvos?».

«Non mi piacciono e basta».

«Ma se sono l'arma del Cile!».

«I corvos sono l'arma del Cile?».

«Le armi bianche in generale».

«Non dire cazzate, amico».

«Te lo giuro su quanto ci sia di più sacro, l'altro giorno ho letto un articolo che diceva proprio così. A noi cileni non piacciono le armi da fuoco, dev'essere per il rumore, abbiamo un'indole piuttosto silenziosa».

«Sarà per il mare».

«In che senso per il mare? Di che mare stai parlando?».

«Del Pacifico, naturalmente».

«Ah, l'oceano, naturalmente. E che c'entra l'oceano Pacifico con il silenzio?».

«Dicono che attutisca i rumori, i rumori inutili, ovvio. Ma chissà se sarà vero».

«E gli argentini, allora?».

«Che c'entrano gli argentini col Pacifico?».

«Loro hanno l'oceano Atlantico e sono piuttosto rumorosi».

«Ma che paragone è?».

«Hai ragione, non c'è paragone, ma pure agli argentini piacciono le armi bianche».

«Proprio per questo non mi piacciono. Anche se è l'arma nazionale. I coltellini possono ancora passare, non dico di no, soprattutto quelli milleusi, ma il resto sono una maledizione».

«Dài, amico, spiegati».

«Non mi so spiegare, mi dispiace. È così e basta, cosa vuoi che ci faccia».

«Ho capito dove vuoi andare a parare».

«Be', allora dimmelo, io non lo so».

«L'ho capito, ma non so spiegartelo».

«Anche se la cosa ha i suoi vantaggi».

«Che vantaggi può avere?».

«Immagina una banda di ladri armata di fucili automatici. È solo un esempio. O dei papponi con i mitra Uzi».

«Ho capito dove vuoi andare a parare».

«È o non è un vantaggio?».

«Per noi al cento per cento. Ma la patria ci perde comunque».

«Che cosa vuoi che ci perda la patria!».

«Il carattere dei cileni, l'indole dei cileni, i sogni collettivi, quelli sì che ci perdono. E come se ci dicessero che non siamo capaci di far niente, solo di soffrire, non so se mi segui, ma per me è lampante».

«Ti seguo, ma non è questo».

«Cosa non è questo?».

«Non è questo che volevo dire. A me non piacciono le armi bianche e basta. Meno filosofia, dico».

«Però ti piacerebbe che in Cile piacessero le armi da fuoco. Che non è lo stesso che dire che ti piacerebbe un Cile pieno di armi da fuoco».

«Non posso dirti né sì né no».

«E poi, a chi non piacciono le armi da fuoco?».

«Questo è vero, piacciono a tutti».

«Vuoi che ti spieghi meglio la cosa del silenzio?».

«Va bene, basta che non mi fai addormentare».

«Non ti addormenterai, e se ti addormenti ci fermiamo e ci scambiamo al volante».

«Allora dimmi del silenzio».

«L'ho letto in un articolo sul "Mercurio"...».

«Da quando in qua leggi il "Mercurio"?».

«A volte lo dimenticano al commissariato e i turni di guardia sono lunghi. Insomma: l'articolo diceva che siamo un popolo latino e che i latini avevano la fissa delle armi bianche. Gli anglosassoni, invece, vanno pazzi per le armi da fuoco».

«Dipende dalla circostanza».

«È lo stesso che ho pensato anch'io».

«Al momento buono vedremo cosa succede».

«È lo stesso che ho pensato anch'io».

«Noi siamo più lenti, bisogna ammetterlo».

«Come siamo più lenti?».

«Più lenti in tutti i sensi. È come essere antichi».

«E questa sarebbe lentezza?».

«Siamo rimasti ai pugnali, che è come dire all'età del bronzo, mentre i gringos sono già all'età del ferro».

«A me non è mai piaciuta la storia».

«Ti ricordi quando abbiamo preso Loayza?».

«Come no».

«Vedi, quel ciccione si è arreso subito».

«Già, e aveva un arsenale in casa».

«Appunto».

«Cioè avrebbe dovuto opporre resistenza?».

«Noi eravamo in quattro e il ciccione e i suoi erano in cinque. Noi avevamo solo le armi d'ordinanza e il ciccione aveva persino un bazooka».

«Non era un bazooka, bello».

«Era un Franchi SPAS-15! E aveva anche un paio di fucili a canne mozze. Ma quel ciccione di Loayza si è arreso senza sparare un colpo».

«Avresti preferito che fosse scoppiata una sparatoria?».

«Neanche per sogno. Ma se il ciccione invece di chiamarsi Loayza si fosse chiamato Mac Curly, ci avrebbe ricevuto a fucilate e forse adesso non sarebbe in prigione».

«Forse adesso sarebbe morto...».

«O libero, non so se mi spiego».

«Mac Curly, sembra il nome di un cowboy, mi ricorda un film».

«Anche a me, credo che l'abbiamo visto assieme».

«Allora è stato più o meno a quell'epoca».

«Che arsenale aveva quel ciccione di Loayza! Ti ricordi come ci ha ricevuto?».

«Ridendo a crepapelle».

«Credo che fosse per i nervi. Uno della banda si è messo a piangere. Non avrà avuto nemmeno sedici anni».

«Ma il ciccione ne aveva più di quaranta e si dava arie da duro. Renditi conto: in questo paese non esistono i duri».

«Come non esistono i duri? Io ne ho visti, di veri duri».

«Di pazzi ne avrai visti a bizzeffe, ma di duri pochissimi, o nessuno!».

«E cosa mi dici di Raulito Sánchez? Ti ricordi di Raulito Sànchez, quello che aveva una Manurhin?».

«Come no».

«E cosa mi dici di lui?».

«Che avrebbe dovuto disfarsi subito del revolver. È stata la sua rovina. Non c'è niente di più facile che rintracciare una Magnum».

«La Manurhin è una Magnum?».

«Certo che è una Magnum».

«Io credevo fosse un'arma francese».

«È una .357 Magnum francese. Per questo non se n'era liberato. Ci era affezionato, è un'arma cara, ce ne sono poche in Cile».

«Ogni giorno si impara qualcosa».

«Povero Raulito Sánchez».

«Dicono che sia morto in prigione».

«No, è morto poco dopo, quand'era uscito, in una pensione di Arica».

«Dicono che avesse i polmoni distrutti».

«Sputava sangue fin da bambino, ma ha sopportato da uomo».

«Ricordo che era molto taciturno».

«Taciturno e lavoratore, anche se troppo attaccato alle cose materiali. La Manurhin è stata la sua rovina».

«La sua rovina sono state le puttane!».

«Ma se Raulito Sánchez era finocchio».

«Non ne avevo idea, te lo assicuro. Il tempo non risparmia nessuno, cadono persino le torri più alte».

«Cosa c'entrano le torri con tutto questo?».

«Io me lo ricordo come un tipo molto maschio, non so se mi spiego».

«Cosa c'entra l'essere maschio?».

«Ma uomo, a suo modo, lo era, no?».

«Non so proprio cosa dirti».

«Almeno una volta l'ho trovato con delle puttane. Schifo le puttane non gli facevano».

«A Raulito Sánchez non faceva schifo niente, ma mi risulta che non sia mai andato con una donna».

«È un'affermazione un po' categorica, amico, fa' attenzione a quel che dici. I morti stanno sempre a guardare».

«Ma cosa vuoi che guardino i morti! I morti sono abituati a starsene tranquilli. I morti sono degli stronzi».

«Come sono degli stronzi?».

«L'unica cosa che fanno è rompere le palle ai vivi».

«Mi rincresce, non la penso così, io per i defunti nutro un gran rispetto».

«Però al cimitero non ci vai mai».

«Come non ci vado al cimitero?».

«Dimmi: quand'è il giorno dei morti?».

«Così mi hai fregato. Io ci vado quando ne ho voglia».

«Tu ci credi ai fantasmi?».

«Non so bene cosa pensare, ma ci sono storie che fanno venire la pelle d'oca».

«Qui ti volevo».

«Lo dici per Raulito Sánchez?».

«Esatto. Prima di morire per davvero, ha fatto finta di essere morto almeno due volte. Una volta in una bettola di puttane. Ti ricordi della Doris Villalón? Aveva passato tutta la notte con lei al cimitero, sotto la stessa coperta, e a quanto aveva raccontato la Doris in tutta la notte non era successo niente».

«Ma alla Doris erano venuti i capelli bianchi».

«Ci sono varie versioni».

«Certo è che le sono venuti i capelli bianchi in una sola notte, come alla regina Antonietta».

«So da fonte sicura che lei aveva freddo e che si sono infilati tutti e due in un loculo vuoto, poi le cose si fanno confuse. A quanto mi ha raccontato un'amica della Doris, all'inizio lei ha cercato di fare una sega a Raulito, ma Raulito non era tanto per la quale e alla fine s'è addormentato».

«Che sangue freddo aveva quell'uomo!».

«Dopo, quando non si sentiva più abbaiare, la Doris ha fatto per scendere dal loculo e allora è apparso il fantasma».

«Quindi alla Doris sono venuti i capelli bianchi per il fantasma?».

«Così dicevano».

«Magari era solo la calce del cimitero».

«È dura credere ai fantasmi».

«E in tutto ciò Raulito continuava a dormire?».

«Già, e senza aver toccato quella povera donna».

«E il mattino dopo lui come ce li aveva i capelli?».

«Neri come sempre, ma non è registrato nei verbali perché ha tagliato la corda ipso facto».

«Per cui la calce magari non c'entrava».

«Magari è stato lo spavento».

«Lo spavento al commissariato».

«O le si è stinta la permanente».

«Questi sono i misteri della condizione umana. In ogni caso, Raulito non è mai stato con una ragazza».

«Eppure sembrava un vero uomo».

«In Cile di uomini non ce n'è più».

«Adesso sì che mi sorprendi. Sta' attento a gui dare. Non ti innervosire».

«Mi sa che era un coniglio, devo averlo investito».

«Cosa vuol dire di uomini non ce ne sono più?».

«Li abbiamo ammazzati tutti».

«Come li abbiamo ammazzati? Io non ho mai ammazzato nessuno in vita mia. E nel tuo caso, è stato adempimento al dovere».

«Il dovere?».

«Il dovere, l'obbligo, il mantenimento dell'ordine pubblico, il nostro lavoro, in una parola. O preferisci guadagnarti la pagnotta da seduto?».

«Non mi è mai piaciuto stare seduto, ho il fuoco nel culo, ma proprio per questo avrei dovuto cambiare aria».

«E se lo facevi, adesso in Cile di uomini ce ne sarebbero?».

«Non prendermi per pazzo, bello, soprattutto quando sono al volante».

«Tranquillo e guarda la strada. Ma che c'entra il Cile in questa storia?».

«C'entra su tutta la linea e forse è dire ancora poco».

«Comincio a capire».

«Ti ricordi del '73?».

«Era a quello che stavo pensando».

«Lì li abbiamo fatti fuori tutti».

«Non accelerare così, almeno mentre me lo spieghi».

«C'è poco da spiegare. Piangere, sì, non spiegare».

«Comunque parliamo, che ce n'è di strada. Chi abbiamo fatto fuori nel '73?».

«I veri uomini della patria».

«Non esagerare, dài. Per di più noi siamo stati i primi, non ti ricordi che ci avevano messo dentro?».

«Ma solo per tre giorni».

«Ma erano i primi tre giorni, e io me la facevo davvero sotto».

«Ma ci avevano rilasciato dopo tre giorni».

«Certi non ne uscirono mai, come l'ispettore Tovar, quel buzzurro di Tovar, uno con le palle, ti ricordi?».

«Lo fecero fuori nel campo di reclusione dell'isola Quiriquina, no?».

«È quello che avevamo raccontato alla vedova, ma la verità non si è mai saputa».

«Queste cose a volte mi uccidono dentro».

«Perché farsi il sangue cattivo...».

«Nei sogni mi appaiono i morti, insieme a quelli che non sono né vivi né morti».

«Come non sono né vivi né morti?».

«Voglio dire quelli che sono cambiati, sono cresciuti, come noi, senza cercare altri esempi».

«Ho capito, non siamo più bambini, è questo che vuoi dire».

«E a volte mi sembra che non riuscirò più a svegliarmi, che ho mandato tutto a puttane per sempre».

«Sono solo fisse, nient'altro, sai».

«E a volte mi viene tanta rabbia che devo cercare un colpevole, mi conosci, no, quelle mattine che arrivo con la faccia scura, cerco il colpevole, ma non trovo nessuno o peggio ancora trovo quello sbagliato e sto di merda».

«Sì, sì, ti ho visto».

«Allora do la colpa al Cile, paese di froci e assassini».

«Ma che colpa ne hanno i froci?».

«Nessuna, ma tutto fa brodo».

«Non sono d'accordo con te, la vita è già abbastanza dura così».

«E allora penso che questo paese è andato a catafascio da tempo, che noi altri siamo rimasti qui per essere tormentati dagli incubi, solo perché qualcuno doveva rimanere a ciucciarsi i sogni».

«Occhio che adesso c'è una salita. Non guardare me, io non dico niente, guarda la strada».

«Ed è allora che penso che in questo paese non ci sono più uomini. E come un flash. Non ci sono più uomini, solo zombie».

«E le donne, allora?».

«A volte sembri davvero cretino: parlo della condizione umana, in generale, che comprende le donne».

«Non so se ti seguo».

«Guarda che sono stato chiaro».

«Vuoi dire che in Cile non ci sono più né uomini né donne che siano uomini?».

«Non proprio così, ma ci siamo vicini».

«Mi sembra che le cilene meritino un po' di rispetto».

«E chi sta mancando di rispetto alle cilene?».

«Tu, tanto per cominciare».

«Ma se io conosco solo cilene, come posso mancare loro di rispetto?».

«Sì, a parole, ma fai caso a quello che dici».

«Perché sei tanto suscettibile?».

«Non sono suscettibile».

«Mi vien voglia di fermarmi e spaccarti la faccia».

«Sì, figuriamoci».

«Cazzo, che bella notte».

«Non rompere con la notte. Cosa c'entra la notte?».

«Sarà la luna piena».

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COMPAGNI DI CELLA



Eravamo stati in carceri diverse (separate da migliaia di chilometri) lo stesso mese e lo stesso anno. Sofia era nata nel 1950, a Bilbao, ed era bruna, bassa di statura e molto bella. Nel novembre del 1973, quando io ero in prigione in Cile, lei fu arrestata in Aragona.

A quell'epoca studiava all'Università di Saragozza, in una facoltà scientifica, Biologia o Chimica, una delle due, e finì dentro con quasi tutti i suoi compagni di corso. La quarta o quinta notte che dormimmo assieme, vedendo la mia esibizione di posizioni amatorie mi disse di non stancarmi, che il problema non era quello. Mi piace variare, le dissi. Se scopo nella stessa posizione due notti di seguito mi ritrovo impotente. Non farlo per me, disse lei. La stanza aveva un soffitto molto alto con le pareti dipinte di rosso, un rosso da deserto crepuscolare. Le aveva dipinte lei stessa pochi giorni dopo essere andata a vivere lì. Erano orribili. Io ho fatto l'amore in tutti i modi possibili, disse. Non ti credo, le dissi. In tutti i modi possibili? In tutti, disse, e io non dissi niente (preferii tacere, forse per imbarazzo) ma le credetti.

Poi, ma questo successe molti giorni dopo, disse che stava impazzendo. Mangiava pochissimo, si cibava unicamente di purè. Una volta entrai in cucina e vidi un sacco di plastica vicino al frigo. Erano venti chili di purè liofilizzato. Non mangi altro? le chiesi. Lei sorrise e mi rispose di sì, che a volte mangiava altre cose, ma quasi sempre fuori, al bar o al ristorante. A casa è più pratica una busta di purè, disse. Così c'è sempre da mangiare. Non lo scioglieva nemmeno nel latte, ma nell'acqua, e non aspettava nemmeno che l'acqua bollisse. Scioglieva i fiocchi di purè nell'acqua tiepida, mi spiegò in seguito, perché odiava il latte. Non la vidi mai ingerire latticini, diceva che era di sicuro un problema mentale che si trascinava dietro dall'infanzia, qualcosa che aveva a che fare con sua madre. E così la sera, se eravamo entrambi in casa, mangiava purè e a volte mi faceva compagnia quando rimanevo fino a tardi a vedere film in televisione. Non parlavamo quasi. Non si metteva mai a discutere. In quella casa all'epoca viveva un tipo del Partito Comunista, un nostro coetaneo, un ventenne con il quale mi impegolavo in inutili polemiche e lei non prese mai partito anche se sapevo che era più dalla mia parte che dalla parte di lui. Un giorno il comunista mi disse che Sofia era gnocca e che pensava di scoparsela alla prima occasione. Fàllo, gli dissi. Due o tre sere dopo, mentre guardavo un film di Bardem sentii che il comunista usciva in corridoio e bussava discretamente alla porta di Sofia. Parlarono un po' e poi la porta si chiuse e il comunista non ne uscì che due ore più tardi.

Sofia, ma questo lo seppi molto tempo dopo, era stata sposata. Il marito era un compagno dell'Università di Saragozza, un tipo che fu arrestato pure lui nel novembre del '73. Andarono a vivere a Barcellona appena laureati e dopo un po' si separarono. Si chiamava Emilio ed erano buoni amici. Con Emilio hai fatto l'amore in tutti i modi possibili? No, ma quasi, diceva Sofia. E diceva anche che stava impazzendo ed era un problema, soprattutto se guidava, l'altra sera sono impazzita sulla Diagonal, per fortuna non c'era molto traffico. Prendi qualcosa? Valium. Un sacco di pastiglie di Valium. Prima di finire a letto insieme andammo al cinema un paio di volte. Film francesi, credo. Ne vedemmo uno di una donna pirata che sbarca su un'isola dove vive un'altra donna pirata e ingaggiano un duello mortale con le spade. L'altro era sulla seconda guerra mondiale: un tipo che lavorava per i tedeschi e per la Resistenza allo stesso tempo. Dopo essere stati a letto insieme andammo altre volte al cinema e stranamente di quei film ricordo il titolo e persino i nomi dei registi, ma tutto il resto me lo sono dimenticato. Fin dalla prima notte Sofia mise bene in chiaro che la nostra storia non ci avrebbe portato da nessuna parte. Sono innamorata di un altro, disse. Il compagno comunista? No, uno che non conosci, disse, un professore, come me. Per il momento non volle dirmi come si chiamava. A volte andava a letto con lui, ma questo non succedeva molto spesso, più o meno una volta ogni quindici giorni. Con me faceva l'amore tutte le notti. All'inizio io cercavo di sfiancarla. Cominciavamo alle undici e non la smettevamo fino alle quattro del mattino, ma ben presto mi resi conto che non c'era verso di sfiancare Sofia.

All'epoca io mi incontravo con anarchici e femministe radicali e leggevo libri più o meno in linea con le mie amicizie. Uno di questi era di una femminista italiana, Carla vattelapesca, il libro si intitolava Sputiamo su Hegel. Un pomeriggio lo prestai a Sofia, leggilo, le dissi, credo che sia interessante. (Forse le dissi che il libro le sarebbe servito). Il giorno dopo, Sofia, molto di buonumore, mi restituì il libro e disse che come fantascienza non era male, ma che per il resto era una schifezza. Disse che poteva averlo scritto solo un'italiana. Hai qualcosa contro le italiane? le dissi, ti ha fatto male un'italiana quand'eri piccola? Disse di no, ma che se la si metteva su questo piano preferiva leggere Valerie Solanas. Il suo autore preferito, contrariamente a quello che pensavo, non era una donna ma un inglese, David Cooper, il collega di Laing. Alla fine anch'io lessi Valerie Solanas e David Cooper e persino Laing (i sonetti). Una delle cose che più mi impressionarono di Cooper fu che avesse curato, durante il suo periodo argentino (anche se a dire il vero non so se Cooper sia mai stato in Argentina, può darsi che mi confonda), militanti di sinistra con droghe allucinogene. Persone malate perché sapevano che potevano morire da un momento all'altro, persone che non avrebbero mai avuto esperienza della vecchiaia, la droga offriva loro questa esperienza e le guariva. A volte anche Sofia si drogava. Prendeva LSD e anfetamine e Roipnol, pasticche per andar su e pasticche per scendere e pasticche per controllare il volante della sua macchina. Una macchina sulla quale io, per precauzione, salivo di rado. Uscivamo, a dire il vero, poco. Io facevo la mia vita, Sofia faceva la sua vita e di notte, in camera sua o nella mia, ci avvinghiavamo in un corpo a corpo interminabile finché non rimanevamo esausti quando iniziava già a fare giorno.

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