Copertina
Autore Roberto Bolaño
Titolo I detective selvaggi
EdizioneSellerio, Palermo, 2009 [2003], La memoria 787 , pag. 812, cop.fle., dim. 12x16,7x3,8 cm , Isbn 978-88-389-2389-0
OriginaleI detective selvaggi [1998]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe narrativa cilena
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Indice



      I detective selvaggi


I.    Messicani perduti in Messico (1975)        13

II    I detective selvaggi (1976-1986)          181

III.  I deserti di Sonora (1976)                739



 

 

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Pagina 15

2 novembre

Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Naturalmente, ho accettato. Non c'è stata cerimonia di iniziazione. Meglio così.


3 novembre

Non so bene in cosa consista il realismo viscerale. Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo quel che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte. O almeno una buona parte. Poi, con apparente rassegnazione, entrai alla gloriosa Facoltà di Giurisprudenza, ma dopo un mese mi iscrissi al seminario di poesia di Julio César Álamo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e così conobbi i realvisceralisti, o viscerrealisti o perfino vicerealisti, come a volte gradiscono farsi chiamare. Fino ad allora ero stato solo quattro volte al seminario e non era mai successo niente, dico per dire, perché a ben pensarci succedeva sempre qualcosa: leggevamo poesie, e Álamo, a seconda dell'umore, le lodava o le polverizzava: uno leggeva, Álamo criticava, un altro leggeva, Álamo criticava, un altro ancora leggeva, Álamo criticava. A volte Álamo si annoiava e diceva (a quelli che in quel momento non stavano leggendo) di criticare anche noi, e allora noi criticavamo e Álamo si metteva a leggere il giornale.

Era il metodo perfetto perché nessuno fosse amico di nessuno o perché le amicizie si fondassero sulla malattia e sul rancore.

D'altra parte non posso dire che Álamo fosse un buon critico, anche se parlava sempre di critica. Adesso credo che parlasse per parlare. Sapeva cos'era una perifrasi, non benissimo, ma lo sapeva. Non sapeva, però, cosa fosse una pentapodia (la quale, come tutti sanno, nella metrica classica è un sistema di cinque piedi), non sapeva nemmeno cosa fosse un nicarcheo (che è un verso simile al falecio), né cosa fosse un tetrastico (che è una strofa di quattro versi). Come faccio a sapere che non lo sapeva? Perché commisi l'errore, il primo giorno di seminario, di domandarglielo. Non so cosa mi fosse saltato in testa. L'unico poeta messicano che sa a memoria queste cose è Octavio Paz (il nostro grande nemico), tutti gli altri non ne hanno la più pallida idea, almeno questo è quanto mi disse Ulises Lima qualche minuto dopo che entrassi e fossi amichevolmente accolto nelle file del realismo viscerale. Facendo quelle domande a Álamo avevo dato prova, come non tardai ad accorgermi, della mia mancanza di tatto. All'inizio pensai che il sorriso che mi rivolgeva fosse di ammirazione. Poi mi resi conto che era di disprezzo. I poeti messicani (immagino i poeti in genere) detestano che gli si ricordi la loro ignoranza. Ma io non mi lasciai intimorire e dopo essermi visto distruggere un paio di poesie al secondo seminario cui partecipai, gli domandai se sapesse cos'era un rispetto. Álamo pensò che gli stessi chiedendo rispetto per le mie poesie e giù a parlare di critica obiettiva (tanto per cambiare), che è un campo minato che ogni giovane poeta deve attraversare, eccetera, ma io non lo lasciai continuare e dopo avergli spiegato che mai nella mia breve vita avevo preteso rispetto per le mie povere creazioni tornai a formulargli la domanda, questa volta cercando di scandire la parola con la maggiore chiarezza possibile.

- Non tirarmi fuori cazzate, García Madero - disse Álamo.

- Un rispetto, caro maestro, è un genere di componimento lirico, amoroso per essere più esatti, simile allo strambotto, composto di sei o otto endecasillabi, i primi quattro in forma di sirventese e i seguenti in distici rimati. Per esempio... - e già mi preparavo a fargli uno o due esempi quando Álamo si alzò di scatto e diede per conclusa la discussione. Quel che accadde dopo è confuso (anche se ho buona memoria): ricordo la risata di Álamo e le risate dei miei quattro o cinque compagni di seminario, probabilmente a una felice battuta consumata alle mie spalle.

Un altro, al posto mio, non avrebbe più rimesso piede là dentro, ma io, malgrado gli infausti ricordi (o malgrado l'assenza di ricordi, in quel caso altrettanto se non più infausta della conservazione mnemonica degli stessi), la settimana dopo ero di nuovo lì, puntuale come sempre.

Credo sia stato il destino a farmi tornare. Era la quinta volta che andavo al seminario di Álamo (ma avrebbe potuto essere anche l'ottava o la nona, ultimamente ho notato che il tempo si ripiega o si distende a suo piacimento) e la tensione, la corrente alternata della tragedia si poteva palpare nell'aria senza che nessuno riuscisse a spiegarsi come mai. Tanto per cominciare, c'eravamo tutti, tutti e sette gli apprendisti poeti iscritti inizialmente al seminario, cosa che non era mai successa alle riunioni precedenti. E poi: eravamo agitati. Lo stesso Álamo, di solito così tranquillo, non era del tutto padrone di sé. Per un attimo pensai che all'università fosse successo qualcosa, una sparatoria nel campus di cui non fossi venuto a conoscenza, uno sciopero selvaggio, l'assassinio del decano della facoltà, il sequestro di qualche professore di filosofia o qualcosa del genere. Ma niente di tutto questo era accaduto e in realtà nessuno aveva motivo per essere agitato. Almeno, obiettivamente nessuno ne aveva motivo. Ma la poesia (la vera poesia) è così: si lascia presentire, si annuncia nell'aria, come i terremoti, che a quanto si dice alcuni animali particolarmente adatti allo scopo riescono a presentire. (Questi animali sono i serpenti, i vermi, i topi e qualche uccello). Quel che successe dopo fu precipitoso ma dotato di una qualità che a rischio di sembrare stucchevole mi azzarderei a definire meravigliosa. Arrivarono due poeti realvisceralisti e Álamo, a denti stretti, ce li presentò, sebbene personalmente ne conoscesse soltanto uno, l'altro lo conosceva per sentito dire o soltanto di nome o qualcuno gli aveva parlato di lui, ma ce li presentò lo stesso.

Non so cosa fossero venuti a fare lì. La visita sembrava di natura chiaramente bellicosa, anche se non priva di una sfumatura propagandistica e proselitista. Al principio i realvisceralisti rimasero in silenzio, discreti. Álamo, a sua volta, adottò un atteggiamento diplomatico, lievemente ironico, come in attesa degli eventi, ma a poco a poco, dinanzi alla timidezza dei due estranei, cominciò a imbaldanzirsi e nel giro di mezz'ora il seminario era tornato quello di sempre. Allora ebbe inizio la battaglia. I realvisceralisti misero in dubbio lo schema critico utilizzato da Álamo; questi, a sua volta, li definì surrealisti da strapazzo e falsi marxisti, appoggiato nella sua invettiva da cinque membri del seminario, ossia da tutti tranne me e un tipo magrissimo che girava sempre con un libro di Lewis Carroll sotto il braccio e non parlava quasi mai. Presa di posizione, la loro, che con tutta franchezza mi sorprese, visto che quelli che con tanto ardimento appoggiavano Álamo erano gli stessi che accoglievano con stoica rassegnazione le sue critiche implacabili e che ora si rivelavano (cosa che mi parve sorprendente) come i suoi più fedeli difensori. In quel momento decisi di dare il mio piccolo contributo e accusai Álamo di non avere la minima idea di cosa fosse un rispetto; signorilmente i realvisceralisti riconobbero che nemmeno loro lo sapevano ma che l'osservazione gli pareva pertinente e ci tenevano a dirlo; uno di loro mi chiese quanti anni avessi, io dissi diciassette e cercai ancora una volta di spiegare cos'era un rispetto; Álamo era rosso dalla rabbia; i membri del seminario mi accusarono di pedanteria (uno disse che ero accademico); i realvisceralisti mi difesero; ormai lanciato, domandai ad Álamo e al seminario in generale se per lo meno si ricordassero cos'era un nicarcheo o un tetrastico. E nessuno seppe rispondermi.

La discussione, contrariamente a quanto speravo, non finì in una scazzottata generale. Devo riconoscere che ne sarei stato felice. E sebbene uno dei membri del seminario avesse promesso a Ulises Lima che un giorno gli avrebbe spaccato la faccia, alla fine non successe niente, voglio dire niente di violento, anche se io reagii alla minaccia (che, ripeto, non era rivolta a me) assicurando al suo autore che mi avrebbe avuto a sua completa disposizione in qualunque angolo del campus, nel giorno e all'ora che desiderasse.

La chiusura della serata fu sorprendente. Álamo sfidò Ulises Lima a leggere una delle sue poesie. Questi non si fece pregare e tirò fuori da una tasca del giubbotto delle carte sporche e spiegazzate. Orrore, pensai, quest'idiota è andato a ficcarsi da solo nella bocca del lupo. Credo di aver chiuso gli occhi vergognandomi per lui. Ci sono momenti per recitare poesie e momenti per fare a botte. Per me quello era uno di questi ultimi. Chiusi gli occhi, come ho già detto, e udii Lima schiarirsi la voce. Udii il silenzio (se è possibile, ma ne dubito) un tantino gelido che si creò intorno a lui. E alla fine udii la sua voce leggere la più bella poesia che avessi mai sentito. Poi Arturo Belano si alzò in piedi e disse che cercavano collaboratori per la rivista realvisceralista che pensavano di pubblicare. Sarebbe piaciuto a tutti dare il proprio nome, però dopo la discussione si sentivano un po' imbarazzati e nessuno aprì bocca. Quando il seminario finì (più tardi del solito) andai con loro alla fermata dell'autobus. Era troppo tardi. Non ne passava più nessuno, così decidemmo di prendere insieme un taxi fino a Reforma e di lì andammo a piedi in un bar della calle Bucareli dove rimanemmo fino a tardissimo parlando di poesia.

Di chiaro non venne fuori molto. Il nome del gruppo è un po' uno scherzo e un po' qualcosa di perfettamente serio. Credo che molti anni fa ci fosse un gruppo d'avanguardia messicano chiamato i realvisceralisti, ma non so se fossero scrittori o pittori o giornalisti o rivoluzionari. Furono attivi, nemmeno questo mi è molto chiaro, negli anni venti o trenta. Naturalmente, non avevo mai sentito parlare di quel gruppo, ma questo era dovuto alla mia ignoranza in materia letteraria (tutti i libri del mondo sono ancora in attesa che io li legga). Secondo Arturo Belano, i realvisceralisti si erano persi nel deserto di Sonora. Poi menzionarono una certa Cesárea Tinajero o Tinaja, non ricordo, credo che in quel momento stessi litigando a gran voce con un cameriere per certe bottiglie di birra, e parlarono delle Poesie del Conte di Lautréamont, qualcosa nelle Poesie aveva a che fare con quella Tinajero, e poi Lima fece un'affermazione misteriosa. Secondo lui, gli attuali realvisceralisti camminavano all'indietro. Come all'indietro? domandai.

— Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta verso l'ignoto.

Dissi che mi pareva fantastico camminare a quel modo, anche se a dire il vero non ci capivo niente. A ben pensarci, è il modo peggiore di camminare.

Più tardi arrivarono altri poeti, alcuni realvisceralisti, altri no, e la baraonda divenne impossibile. Per un attimo pensai che Belano e Lima si fossero dimenticati di me, occupati com'erano a parlare con ogni genere di personaggio stravagante che si avvicinasse al nostro tavolo, ma quando cominciò ad albeggiare mi chiesero se volevo far parte della banda. Non dissero "gruppo" o "movimento", dissero banda e questo mi piacque. Naturalmente, dissi di sì. Fu molto semplice. Uno di loro, Belano, mi strinse la mano, disse che ormai ero dei loro e poi cantammo una canzone ranchera. Questo fu tutto. Il testo della canzone parlava dei villaggi sperduti del nord e degli occhi di una donna. Dopo essere uscito a vomitare in strada gli domandai se fossero gli occhi di Cesárea Tinajero. Belano e Lima mi guardarono e dissero che senza dubbio ero un realvisceralista a tutti gli effetti e che insieme avremmo cambiato la poesia latinoamericana. Alle sei del mattino presi un altro taxi, questa volta da solo, che mi portò fino a Lindavista, dove abito. Oggi non sono andato all'università. Ho passato tutto il giorno chiuso in camera a scrivere poesie.

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Pagina 108

22 novembre

Mi svegliai a casa di Catalina O'Hara. Mentre facevo colazione molto presto (María non c'era, il resto della casa dormiva), con Catalina e suo figlio Davy, che doveva andare all'asilo, mi ricordai che la notte prima, quando ormai eravamo rimasti in pochi, Ernesto San Epifanio aveva detto che esisteva una letteratura eterosessuale, una letteratura omosessuale e una letteratura bisessuale. I romanzi, in genere, erano eterosessuali, la poesia, invece, era assolutamente omosessuale, i racconti, deduco, erano bisessuali, anche se questo non lo disse.

Nell'immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: finocchioni, finocchie, finocchietti, pazze, busoni, velate, ninfi e fileni. Le due correnti principali, però, erano quelle dei finocchioni e delle finocchie. Walt Whitman, per esempio, era un poeta finocchione. Pablo Neruda, un poeta finocchia. William Blake era finocchione, senz'ombra di dubbio, e Octavio Paz finocchia. Borges era fileno, vale a dire che di colpo poteva essere finocchione e di colpo semplicemente asessuato. Rubén Darío era una pazza, anzi regina e paradigma delle pazze.

- Per quanto riguarda la poesia nella nostra lingua, certo - chiarì; - nel vasto mondo il paradigma continua a essere Verlaine il Generoso.

Una pazza, secondo San Epifanio, era più vicina al manicomio fiorito e alle allucinazioni in carne viva, mentre i finocchioni e le finocchie vagavano sincopatamente dall'etica all'estetica e viceversa. Cernuda, l'amato Cernuda, era un ninfo e in momenti di grande amarezza un poeta finocchione, mentre Guillén, Aleixandre e Alberti potevano essere considerati rispettivamente finocchietto, busone e finocchia. I poeti sul tipo di Carlos Pellicer erano, per regola generale, busoni, mentre i poeti come Tablada, Novo, Renato Leduc erano finocchietti. Di fatto, la poesia messicana mancava di poeti finocchioni, anche se qualche ottimista poteva pensare che lo fossero López Velarde o Efraín Huerta. Le finocchie, invece, abbondavano, da quel magnaccia (anche se per un secondo io sentii dire mafioso) di Díaz Mirón fino al cospicuo Homero Aridjis. Bisognava risalire a Amado Nervo (fischi) per trovare un vero poeta, ossia un poeta finocchio, e non un fileno come l'oggi famoso e riscoperto potosino Manuel José Othón, un trombone come non ce n'è. E parlando di tromboni: una velata era Manuel Acuña e un ninfo dei boschi della Grecia José Joaquín Pesado, sempiterni ruffiani di certa lirica messicana.

- E Efrén Rebolledo? - domandai io.

- Una finocchia di ultimissimo piano. La sua unica virtù è quella di essere se non il solo, il primo poeta messicano a pubblicare un libro a Tokyo, Rimas japonesas, 1909. Era un diplomatico, naturalmente.

Il panorama poetico, dopotutto, era essenzialmente la lotta (sotterranea), il risultato del conflitto fra poeti finocchioni e poeti finocchie per impadronirsi della parola. I finocchietti, secondo San Epifanio, erano poeti finocchioni nell'anima che per debolezza o comodità convivevano o si adattavano - anche se non sempre - ai parametri estetici e morali delle finocchie. In Spagna, in Francia e in Italia i poeti finocchie sono stati legione, diceva, al contrario di quanto potrebbe pensare un lettore non eccessivamente attento. Il fatto è che un poeta finocchione come Leopardi, per esempio, presta in qualche modo la sua energia a finocchie come Ungaretti, Montale e Quasimodo, il trio della morte.

- Allo stesso modo Pasolini rivernicia la finocchieria italiana attuale, si veda il caso del povero Sanguineti (con Pavese non mi ci metto, era una pazza triste, esemplare unico nella sua specie, e neppure con Dino Campana, che fa tavolo a parte, il tavolo delle pazze terminali). Per non parlare della Francia, gran calderone di divoratori, dove cento poeti finocchioni, da Villon fino alla nostra ammirata Sophie Podolski alimentarono, alimentano e alimenteranno col sangue delle loro tette diecimila poeti finocchie con la loro corte di fileni, ninfi, busoni e velate, eccelsi direttori di riviste letterarie, grandi traduttori, piccoli funzionari e grandissimi diplomatici del Regno delle Lettere (si veda, altrimenti, il penoso e sinistro discorrere dei poeti di Tel Quel). Per non parlare della finocchieria della Rivoluzione Russa dove, se dobbiamo essere sinceri, vi fu un solo poeta finocchione, uno solo.

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Pagina 428

Rafael Barrios, seduto nel soggiorno di casa sua, Jackson Street, San Diego, California, marzo 1981

Voi l'avete visto Easy Rider? Sì, il film di Dennis Hopper, Peter Fonda e Jack Nicholson. Più o meno così eravamo noi allora. Ma soprattutto più o meno così erano Ulises Lima e Arturo Belano prima di andarsene in Europa. Come Dennis Hopper e il suo riflesso: due ombre piene di energia e di velocità. Non che abbia niente contro Peter Fonda ma nessuno dei due gli assomigliava. Müller sì che assomigliava a Peter Fonda. Invece loro erano identici a Dennis Hopper e questo era inquietante e seducente, dico, inquietante e seducente per noi che li conoscevamo, per noi che eravamo loro amici. E questo non è un giudizio di valore su Peter Fonda. Mi piaceva Peter Fonda, ogni volta che danno alla tele quel film che fece con la figlia di Frank Sinatra e con Bruce Dern non me lo perdo a costo di star sveglio fino alle quattro del mattino. Tuttavia nessuno dei due gli assomigliava. Ma con Dennis Hopper era tutto il contrario. Era come se consapevolmente lo imitassero. Un Dennis Hopper moltiplicato per due in giro per le strade di città del Messico. Un Mr. Hopper che si dispiegava geometricamente da est a ovest come una duplice nube nera, fino a sparire senza lasciare traccia (era inevitabile) oltre la città, dove non c'erano più vie d'uscita. E io a volte li guardavo e malgrado l'affetto che provavo per loro pensavo, che razza di teatro è questo? che razza di imbroglio o di suicidio collettivo è questo? E una sera, poco prima del capodanno del 1976, poco prima che partissero per Sonora, capii che era la loro maniera di fare politica. Una maniera che oggi io non condivido più e che allora non comprendevo, e non so se fosse buona o cattiva, giusta o sbagliata, ma so che era la loro maniera di far politica, di incidere politicamente sul reale, scusate se le mie parole non sono chiare, ultimamente sono un po' confuso.


Barbara Patterson, nella cucina di casa sua, Jackson Street, San Diego, California, marzo 1981

Dennis Hopper? Politica? Figlio di buona donna! Pezzo di merda attaccato ai peli del culo! Cosa cazzo ne sa quel coglione di politica. Ero io quella che gli diceva: datti alla politica, Rafael, datti alle cause nobili, porca miseria, tu sei un fottuto figlio del popolo, e quello stronzo mi guardava come se fossi una merda, un mucchietto di spazzatura, mi guardava da un'altezza immaginaria e rispondeva: non sono mica noccioline, Barbarita, non ti scaldare, e poi si buttava a dormire e io dovevo uscire a lavorare e poi studiare, insomma, io ero di corsa tutto il giorno, sono di corsa tutto il giorno, su e giù, dall'università al lavoro (faccio la cameriera in un fast-food in Reston Avenue) e quando tornavo a casa trovavo Rafael addormentato, i piatti sporchi, il pavimento sporco, rimasugli di cibo in cucina (ma niente da mangiare per me, quel deficiente!), la casa ridotta a uno schifo, come se ci fosse passato un branco di mandrilli, e allora io dovevo mettermi a pulire, a spazzare, a cucinare e poi dovevo uscire e riempire il frigorifero di roba da mangiare, e quando Rafael si svegliava gli chiedevo: hai scritto, Rafael? hai cominciato a scrivere il tuo romanzo sulla vita dei chicanos a San Diego? e Rafael mi guardava come se mi vedesse in televisione e diceva: ho scritto una poesia Barbarita, e io allora, rassegnata, gli dicevo forza, stronzo, leggimela, e Rafael apriva un paio di lattine di birra, me ne dava una (lo stronzo sapeva che io non dovrei bere birra) e poi mi leggeva la fottuta poesia. E dev'essere che in fondo lo amo ancora perché quella poesia (solo se era bella però) mi faceva piangere, quasi senza che me ne rendessi conto, e quando Rafael finiva di leggere io avevo la faccia bagnata e luccicante e lui mi si avvicinava e io sentivo il suo odore, puzzava di messicano, lo stronzo, e poi ci abbracciavamo, molto dolcemente, e poi, ma quasi una mezz'ora dopo, cominciavamo a fare l'amore, e poi Rafael mi diceva: cosa ci mangiamo, ciccina? e io mi alzavo, senza vestirmi, e andavo in cucina e gli facevo le sue uova con prosciutto e pancetta, e mentre cucinavo pensavo alla letteratura e alla politica e mi ricordavo di quando Rafael ed io vivevamo ancora in Messico e andammo a trovare un poeta cubano, andiamo a trovarlo, Rafael, gli dissi, tu sei un figlio del popolo e quel finocchio che lo voglia o no dovrà rendersi conto del tuo talento, e Rafael mi disse: ma io sono realvisceralista, Barbarita, e io gli dissi non essere idiota, le tue palle sono realvisceraliste, ma non vuoi proprio renderti conto della fottuta realtà, tesoro? e Rafael ed io andammo a trovare il grande cantore della Rivoluzione e lì c'erano passati tutti i poeti messicani che Rafael più detestava (o per meglio dire che Belano e Lima più detestavano), fu strano perché ce ne accorgemmo tutti e due dall'odore, la stanza d'albergo del poeta puzzava di poeti contadini, di quelli della rivista El Delfín Proletario, della moglie di Huerta, di stalinisti messicani, di rivoluzionari di merda che ogni quindici giorni prendevano l'assegno dell'erario, insomma, dissi a me stessa e cercai di dire telepaticamente a Rafael: non rovinare tutto, non far cazzate proprio adesso, e il figlio dell'Avana ci ricevette bene, un po' stanco, un po' malinconico, ma in linea generale bene, e Rafael gli parlò della giovane poesia messicana ma non dei realvisceralisti (prima di entrare gli avevo detto che l'avrei ammazzato se l'avesse fatto) e io perfino mi inventai sul momento un progetto di rivista che, dissi, mi avrebbe finanziato l'Università di San Diego, e al cubano questo interessò, gli interessarono le poesie di Rafael, gli interessò la mia fottuta rivista chimerica, e di colpo, quando già il colloquio volgeva al termine, il cubano che ormai sembrava più addormentato che sveglio, ci chiese di punto in bianco del realismo viscerale. Non so come spiegarlo. La stanza di quel fottuto albergo. Il silenzio e gli ascensori lontani. L'odore dei precedenti visitatori. Gli occhi del cubano che si chiudevano dal sonno o dalla noia o dall'alcol. Le sue parole inaspettate, come pronunciate da un uomo ipnotizzato, mesmerizzato, tutto contribuì a farmi uscire un gridolino, un gridolino che tuttavia suonò come uno sparo. Dovevano essere i nervi, fu quel che dissi. Poi tutti e tre rimanemmo in silenzio per un po', il cubano sicuramente a chiedersi cosa ci facesse lì quella gringa isterica, Rafael a chiedersi se parlare o non parlare del gruppo e io a dirmi mille volte troia di merda, vediamo se un giorno o l'altro ti cuci quella fottuta bocca. E allora, mentre mi vedevo chiusa nel gabinetto di casa mia, la bocca trasformata in una crosta immensa, a leggere e rileggere i racconti della Pianura in fiamme, sentii che Rafael parlava dei realvisceralisti, sentii che quel fottuto cubano faceva domande su domande, sentii che Rafael diceva sì, forse, la malattia infantile del comunismo, sentii che il cubano suggeriva manifesti, proclami, rifondazioni, maggiore chiarezza ideologica, e allora non ce la feci più a trattenermi e aprii la bocca e dissi adesso basta, dissi che Rafael parlava solo a titolo personale, da quel buon poeta che era, e allora Rafael mi disse sta' zitta, Barbarita, e io gli dissi tu non mi fai star zitta, coglione, e il cubano disse ahi, le donne, e cercò di mediare da maschio merdoso con le palle marce e nauseabonde, e io dissi merda, merda, merda, vogliamo solo pubblicare presso la Casa de las Américas a titolo personale, e il cubano allora mi guardò molto serio e mi disse naturalmente, alla Casa de las Américas si pubblica sempre a titolo personale, meglio per loro, dissi io, e Rafael disse chiudi la bocca, Barbarita, che il maestro può prenderti per quello che non sei, e io dissi il fottuto maestro può pensare quello che vuole, ma il passato è passato, Rafael, e il tuo futuro è il tuo futuro, o no? e allora il cubano mi guardò più serio che mai con certi occhi come se dicesse se fossimo a Mosca ci andresti a finire tu in un manicomio, bambina, ma al tempo stesso, mi accorsi anche di questo, come se pensasse, be', non c'è da preoccuparsi, la pazzia è la pazzia è la pazzia e anche la malinconia e alla fine della fiera siamo tutti e tre americani, figli di Calibano, perduti nel grande caos americano, e credo che questo mi intenerì, vedere nello sguardo dell'uomo potente una scintilla di simpatia, una scintilla di tolleranza, come se dicesse non darti pena, Barbara, che io lo so come sono queste cose, e allora, da quell'imbecille che sono, sorrisi, e Rafael tirò fuori le sue poesie, una cinquantina di pagine, e gli disse queste sono le mie poesie, compagno, e il cubano prese le poesie, lo ringraziò e immediatamente lui e Rafael si alzarono, come al rallentatore, come un fulmine, come due fulmini o come un fulmine e la sua ombra, ma al rallentatore, e in quella frazione di secondo io pensai è andata bene, speriamo che tutto vada bene, mi vidi prendere il sole su una spiaggia dell'Avana e vidi Rafael al mio fianco, a circa tre metri, conversare con dei giornalisti americani, gente di New York, di San Francisco, parlare di LETTERATURA, parlare di POLITICA, alle porte del paradiso.

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Andrés Ramírez, bar El Cuerno de Oro, calle Avenir, Barcellona, dicembre 1988

La mia vita era destinata al fallimento, Belano, proprio così. Partii dal Cile in un lontano giorno del 1975, per essere più precisi il 5 marzo alle otto di sera, nascosto nelle stive del cargo Napoli, vale a dire come un clandestino qualunque, e senza conoscere la mia destinazione finale. Non l'annoierò con gli incidenti più o meno disgraziati della mia traversata, le dirò solo che allora avevo tredici anni di meno e che nel mio quartiere di Santiago (La Cisterna, per essere precisi) mi conoscevano con l'affettuoso appellativo di Super Topo, in ricordo di quel grazioso animaletto vendicatore che aveva rallegrato tanti dei nostri pomeriggi d'infanzia. In una parola, che il sottoscritto era pronto, se non altro fisicamente, come suoi dirsi, per superare tutte le vicissitudini di un viaggio di quella portata. Lasciamo perdere la fame, la paura, la nausea, i contorni ora confusi ora mostruosi con cui l'incerto destino mi si presentava. Non mancò mai un'anima caritatevole che scendesse nella sentina e che mi tendesse un pezzo di pane, una bottiglia di vino, un piattino di maccheroni alla bolognese. Ebbi il tempo, d'altra parte, di pensare con comodo, cosa che nella mia vita precedente mi era quasi vietato, perché nella città moderna, come tutti sanno, gambero che dorme se lo porta la corrente. E così ebbi modo di esaminare la mia infanzia, poiché quando uno se ne sta chiuso nella pancia di una nave gli conviene procedere attenendosi a un certo ordine, fino al canale di Panama, approssimativamente, e di lì in avanti, vale a dire per tutto il tempo che durò la traversata dell'Atlantico (ahimè, così lontano ormai dalla mia amata patria e perfino dal mio continente americano, che non conoscevo ma che sentivo ugualmente caro), mi impegnai nella dissezione di quella che era stata la mia gioventù e giunsi alla conclusione e al fermo proposito che tutto dovesse cambiare, sebbene allora non sapessi in che modo e in quale direzione volgere i miei passi. In fondo, permetta che glielo dica, era un modo come un altro per ammazzare il tempo e per non punire o debilitare il mio organismo, già di per sé prostrato dopo tanti giorni di quell'umida oscurità sonora che non auguro neanche al mio peggior nemico. Un mattino, però, entrammo nel porto di Lisbona e le mie riflessioni cambiarono decisamente obiettivo. Il mio primo impulso, com'è logico, fu quello di sbarcare il giorno stesso, ma, come mi disse uno dei marinai italiani che di tanto in tanto mi davano da mangiare, alle frontiere portoghesi di mare e di terra non c'era tanto da scherzare. E così mi dovetti rassegnare e per due giorni che mi parvero due settimane mi accontentai di ascoltare le voci provenienti dalle stive della nave, aperte come le fauci di una balena, nascosto dentro un barile vuoto, ogni minuto che passava più malato e impaziente, con certe febbri terzane che non so da dove mi venissero, finché una notte, finalmente, salpammo e ci lasciammo alle spalle l'industriosa capitale portoghese che io, nei miei sogni febbrili, immaginavo come una città nera, con gente vestita di nero, con case fatte di mogano o di marmo nero o di pietra nera, forse perché una volta nel mio dormiveglia febbricitante mi era venuto in mente Eusebio, la pantera nera di quella nazionale che aveva fatto così bella figura ai Mondiali d'Inghilterra del '66 dove noi cileni fummo così ingiustamente trattati.

E riprendemmo a navigare e facemmo il giro della penisola iberica e io ero sempre malato, tanto che una sera un paio di italiani mi portarono in coperta perché prendessi un po' d'aria e io vidi le luci in lontananza e chiesi cosa fossero, a quale parte del mondo (quel mondo che così duramente mi stava trattando) appartenessero quelle luci, e gli italiani dissero Africa, come chi dice montagna, o come chi dice mela, e io allora mi misi a tremare molto più di prima, certe terzane che sembravano attacchi di epilessia, ma che invece erano solo terzane, e allora sentii che gli italiani mi lasciavano seduto sul ponte e si tenevano in disparte, come chi va a fumarsi una sigaretta lontano da un malato, e un italiano diceva all'altro: se ci muore l'unica cosa è buttarlo a mare, e l'altro italiano gli rispondeva: d'accordo, d'accordo, però non morirà. E anche se non sapevo l'italiano questo lo sentii distintamente, in fin dei conti sono tutte e due lingue romanze come direbbe un accademico della lingua. Io so che lei ha passato momenti simili, Belano, quindi non voglio fargliela lunga. La paura o la voglia di vivere, l'istinto di sopravvivenza mi fecero tirar fuori le forze da dove non c'erano e dissi agli italiani sto bene, non muoio, qual è il prossimo porto? Poi mi trascinai di nuovo giù nella stiva, mi rannicchiai nel mio angolo e mi addormentai.

Quando arrivammo a Barcellona mi sentivo già meglio. La seconda notte che eravamo attraccati abbandonai di soppiatto la nave e uscii a piedi dal porto come un lavoratore del turno di notte. Con quel che avevo addosso, più dieci dollari che mi ero portato da Santiago e che tenevo in uno dei calzini. La vita ha molti istanti meravigliosi, molto diversi, anche, ma io non dimenticherò mai le Ramblas di Barcellona e le vie circostanti che si aprirono per me quella notte come le braccia di una donna che uno non ha mai visto ma che riconosce come la donna della sua vita! Non ci misi, glielo giuro, più di tre ore a trovare lavoro. Un cileno, se ha due buone braccia e non è una pappamolla, sopravvive dappertutto, mi disse mio padre quando andai a dirgli addio. Gli avrei volentieri mollato un pugno in faccia al vecchio figlio di puttana, ma questa è un'altra storia e non è il caso di farsi venire il sangue cattivo. Sta di fatto che quella notte memorabile mi misi a lavorare da lavapiatti, quando ancora non mi era passata del tutto la sensazione di dondolio delle crociere prolungate, nel locale chiamato La Tía Joaquina, della calle Escudillers, e verso le cinque del mattino, stanco ma soddisfatto, uscii dal bar e mi diressi alla pensione La Svelta, che come nome era tutto un programma, raccomandata da uno dei camerieri del Tía Joaquina, un ragazzo della Murcia che dimorava anche lui in quel tugurio.

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Abel Romero, cab L'Alsacien, rue de Vaugirard, nei pressi del Jardin du Luxembourg, Parigi, settembre 1989

Fu al caffè di Victor, in rue Saint-Sauveur, l'11 settembre del 1983. Eravamo un gruppo di cileni masochisti riunitisi lì per ricordare l'infausto giorno. Eravamo in venti o trenta e ci spargemmo all'interno del locale e nel dehors. All'improvviso qualcuno, non so chi, si mise a parlare del male, del crimine che ci aveva coperti con la sua enorme ala nera. Ma mi faccia il favore! La sua enorme ala nera! È proprio vero che noi cileni non impareremo mai! Poi, come c'era da aspettarsi, si scatenò la discussione e volarono perfino pezzi di pane da un tavolo all'altro. Credo che ci presentò un amico comune in mezzo a quella baraonda. O forse ci presentammo da soli e lui tirò a riconoscermi. Lei è scrittore? mi disse. No, gli dissi, io ero poliziotto all'epoca del Guatón Hormazàbal e adesso lavoro per una cooperativa lavando vetri e pavimenti di uffici. Dev'essere un lavoro pericoloso, mi disse. Per quelli che soffrono di vertigini, gli risposi, altrimenti è più che altro noioso. Poi ci unimmo alla conversazione generale. Sul male, sulla crudeltà, come ho detto. L'amico Belano fece due o tre osservazioni abbastanza pertinenti. Io non aprii bocca. Si bevve molto vino quella notte e quando ce ne andammo, senza sapere come, mi ritrovai a camminare accanto a lui per qualche isolato. Allora gli dissi quel che mi girava e rigirava in testa. Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come lei vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale, possiamo combatterlo, è difficile sconfiggerlo ma c'è una possibilità, più o meno come fra pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fottuti. Che Dio, se esiste, ce la mandi buona. E in questo si riassume tutto.

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Amadeo Salvatierra, calle República de Venezuela, nei pressi del Palacio de la Inquisición, Città del Messico DF, gennaio 1976

Come non c'è nessun mistero? dissi. Non c'è nessun mistero, Amadeo, dissero loro. E poi mi domandarono: cosa significa per te questa poesia. Niente, dissi, non significa niente. E perché dici che è una poesia? Be', perché Cesàrea lo diceva, ricordai io. Per questo e basta, perché avevo la parola di Cesàrea. Se quella donna mi avesse detto che un pezzo della sua merda avvolto in un sacchetto della spesa era una poesia io le avrei creduto, dissi. Davvero moderno, disse il cileno, e poi menzionò un certo Manzoni. Alessandro Manzoni? dissi io ricordando la traduzione dei Promessi sposi dovuta alla penna di Remigio López Valle, lo specialista ingenuo, e pubblicata a città del Messico approssimativamente nel 1930, non ne sono sicuro, Alessandro Manzoni? ma loro dissero: Piero Manzoni! l'artista povero, quello che metteva la propria merda in lattina. Ah, che roba. L'arte è impazzita, ragazzi, dissi, e loro dissero: è sempre stata pazza. E in quel momento vidi come delle ombre di cavallette sulle pareti della sala, dietro i ragazzi e di lato, ombre che scendevano dal soffitto e che sembravano voler scivolare sulla carta da parati fino alla cucina ma che alla fine affondavano nel pavimento, così mi sfregai gli occhi e dissi forza, chissà se mi spiegate una volta per tutte questa poesia, sono più di cinquant'anni, per fare cifra tonda, che me la sogno di notte. E i ragazzi si strofinarono le mani dall'entusiasmo, angioletti, e si avvicinarono alla mia poltrona. Cominciamo dal titolo, disse uno di loro, cosa credi che significhi? Sion, il monte Sion a Gerusalemme, dissi senza esitazioni, e anche la città svizzera di Sion, in tedesco Sitten, nel cantone del Vallese. Molto bene, Amadeo, dissero, si vede che ci hai pensato su, e quale delle due possibilità scegli? il monte Sion, vero? Mi sembra di sì, dissi. Evidentemente, dissero loro. Adesso vediamo il primo segmento della poesia, cos'abbiamo? Una linea retta con sopra un rettangolino, dissi. Bene, disse il cileno, lascia perdere il rettangolino. Fa' conto che non esista. Guarda solo la linea retta. Cosa vedi?

Una linea retta, dissi. Cos'altro potrei vederci, ragazzi? E cosa ti suggerisce una linea retta, Amadeo? L'orizzonte, dissi. L'orizzonte di una pianura, dissi. Tranquillità? disse uno di loro. Sì, tranquillità, calma. Bene: orizzonte e calma. Adesso vediamo il secondo segmento della poesia:

Cosa vedi, Amadeo? Be', una linea ondulata, cos'altro potrei vederci? Bene, Amadeo, dissero, adesso vedi una linea ondulata, prima vedevi una linea retta che ti suggeriva calma e adesso vedi una linea ondulata. Continua a suggerirti calma? Be' no, dissi capendo di colpo dove stavano andando a parare, dove volevano portarmi. Cosa ti suggerisce la linea ondulata? Un orizzonte di colline? Il mare, le onde? Può essere, può essere. Il presentimento che la calma si alteri? Movimento, rottura? Un orizzonte di colline, dissi. Forse delle onde. Adesso vediamo il terzo segmento della poesia:

Abbiamo una linea spezzata, Amadeo, che può essere molte cose. I denti di uno squalo, ragazzi? Un orizzonte di montagne? La Sierra Madre occidentale? Be', molte cose. E allora uno dei due disse: quand'ero piccolo, non avrò avuto più di sei anni, sognavo sempre queste tre linee, la linea retta, quella ondulata e quella spezzata. A quel tempo dormivo, non so perché, nel sottoscala, o almeno in una stanza molto bassa, vicino alle scale. Forse non era casa mia, forse eravamo lì solo di passaggio, forse era la casa dei miei nonni. E ogni sera, dopo che mi ero addormentato, compariva la linea retta. Fin lì tutto bene. Il sogno era perfino piacevole. Ma a poco a poco il panorama cominciava a cambiare e la linea retta si trasformava in linea ondulata. Allora cominciavo ad avere la nausea e a sentirmi sempre più caldo e a perdere il senso delle cose, la stabilità, e l'unica cosa che desideravo era tornare alla linea retta. Eppure, nove volte su dieci alla linea ondulata seguiva la linea spezzata, e quando arrivavo lì, la cosa più simile a quel che sentivo dentro il mio corpo era una lacerazione, non da fuori ma da dentro, una lacerazione che cominciava nel ventre ma che presto provavo anche dentro la testa e in gola e al cui dolore potevo sfuggire solo svegliandomi, anche se il risveglio non era precisamente facile. Che strano, no? dissi io. In effetti sì, dissero loro, è strano. Veramente strano, dissi io. A volte facevo la pipì a letto, disse uno dei due. Ma guarda un po', dissi io. Hai capito? dissero loro. Se devo dire la verità no, ragazzi, dissi io. La poesia è uno scherzo, dissero loro, è molto facile da capire, Amadeo, guarda: aggiungi a ogni rettangolino di ogni segmento una vela, così:

Cosa abbiamo adesso? Una nave? dissi io. Esatto, Amadeo, una nave. E il titolo, Sion, in realtà nasconde la parola navegación. E questo è tutto, Amadeo, semplicissimo, non ci sono altri misteri, dissero i ragazzi e io avrei voluto dire che mi toglievano un peso dal cuore, questo avrei voluto dire, o che Sion poteva nascondere sino, un'affermazione in gergo lanciata dal passato, ma l'unica cosa che feci fu dire ah, che roba, e cercare la bottiglia di tequila e versarmene un bicchiere, ancora uno. Questo era tutto quanto restava di Cesárea, pensai a una nave sul mare calmo, a una nave sul mare mosso e a una nave sul mare in burrasca. Per un attimo la mia testa, ve lo assicuro, fu come un mare infuriato e non sentii quel che dicevano i due ragazzi, anche se captai qualche frase, qualche parola slegata, le parole più prevedibili, suppongo: la barca di Quetzalcoatl, la febbre notturna di un bambino o di una bambina, l'encefalogramma del capitano Achab o l'encefalogramma della balena, la superficie del mare che per gli squali è la bocca del vasto inferno, la nave senza vela che potrebbe anche essere una bara, il paradosso del rettangolo, il rettangolo-coscienza, il rettangolo impossibile di Einstein (in un universo dove i rettangoli sono impensabili), una pagina di Alfonso Reyes, la desolazione della poesia. E allora, dopo avere bevuto la mia tequila, mi riempii un'altra volta il bicchiere e riempii i loro e dissi brindiamo a Cesárea e vidi i loro occhi, com'erano contenti benedetti ragazzi, e tutti e tre brindammo mentre la nostra barchetta era sballottata dalla tramontana.

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Xosé Lendoiro, Terme di Traiano, Roma, ottobre 1992

Fui un avvocato singolare. Di me si poté dire, con pari ragione tanto Lupo ovem commisisti quanto Alter remus aquas, alter tibi radat harenas. Tuttavia io preferivo attenermi al catulliano noli pugnare duobus. Un giorno i miei meriti saranno riconosciuti.

A quei tempi viaggiavo e facevo esperimenti. Dall'esercizio della professione di legale o giureconsulto ricavavo introiti sufficienti per dedicarmi con larghezza alla nobile arte della poesia. Unde habeas quaerit nemo, sed oportet habere, ovvero, detto in lingua volgare, che nessuno domanda da dove proviene quanto possiedi, ma è necessario possedere. Il che era fondamentale se volevo consacrarmi alla mia vocazione più segreta: i poeti rimangono incantati dallo spettacolo del denaro.

Ma torniamo ai miei esperimenti: diciamo che questi consistevano, in una prima fase, solo nel viaggiare e nell'osservare, anche se presto mi fu dato sapere che quanto inconsciamente desideravo era ottenere una mappa ideale della Spagna. Hoc erat in votis, questi erano i miei desideri, come dice l'immortale Orazio. Naturalmente, avevo una rivista. Ne ero, se mi è concesso dirlo, il mecenate e l'editore, il direttore e la penna più prestigiosa. In petris, herbis vis est, sed maxima verbis: le pietre e le erbe hanno poteri, ma più ancora ne hanno le parole.

La mia pubblicazione, inoltre, era detraibile dalle imposte, il che me la rendeva non troppo gravosa. Ma perché essere pedante? i dettagli in poesia sono di troppo, questo è sempre stato il mio motto, insieme a Paulo maiora canamus: cantiamo cose un poco più grandi, come diceva Virgilio. Bisogna andare direttamente al nocciolo, all'osso, alla sostanza. Io avevo una rivista e avevo uno studio di avvocati, azzeccagarbugli e legulei con una certa fama per nulla immeritata, e durante l'estate viaggiavo. La vita mi sorrideva. Un giorno, però, mi dissi: Xosé, sei già stato in tutto il mondo, incipit vita nova, è ora che tu vada per le strade di Spagna, anche se non sei Dante, è ora che tu vada lungo le strade di questa Spagna nostra tanto sofferente e coraggiosa e tuttavia ancora sconosciuta.

Sono un uomo d'azione. Detto fatto: mi comprai una roulotte e partii. Vive valeque. Girai l'Andalusia. Com'è bella Granada, com'è graziosa Siviglia. Cordoba com'è severa. Ma dovevo approfondire, andare alle fonti, dottore in legge e criminalista qual ero, non dovevo concedermi riposo fino ad aver trovato la strada giusta, il ius est ars boni et aequi, il libertas est potestas faciendi id quod facere iure licet, la radice dell'apparizione. Fu un'estate iniziatica. Ripetevo a me stesso: nescit vox missa reverti, la parola, una volta lanciata, non la si può ritirare, del dolce Orazio. Detta da me che sono un avvocato quest'affermazione può avere i suoi risvolti negativi. Ma non detta da un poeta. Da quel primo viaggio tornai accalorato e anche un po' confuso.

Non tardai a separarmi da mia moglie. Senza drammi e senza fare del male a nessuno, perché fortunatamente le nostre figlie erano già maggiorenni e avevano il discernimento sufficiente per comprendermi, soprattutto la più grande. Tieniti pure la casa e la villa di Tossa, le dissi, e non se ne parli più. Mia moglie, sorprendentemente, accettò. Il resto lo mettemmo in mano ad avvocati di sua fiducia. In publicis nihil est lege gravius: in privatis firmissimum est testamentum. Anche se non so perché lo dico. Cosa c'entra un testamento con un divorzio. I miei incubi mi tradiscono. In ogni caso legum omnes servi sumus, ut liberi esse possimus, il che vuol dire che davanti alla legge siamo tutti schiavi per poter essere liberi, che è l'ideale più grande.

Di colpo, le mie energie ribollirono. Mi sentii ringiovanire: smisi di fumare, al mattino uscivo a correre, partecipai con impegno a tre congressi di giurisprudenza, due dei quali tenutisi in antiche capitali europee. La mia rivista non fallì, al contrario, i poeti che si abbeveravano alla mia fonte serrarono le file in segno di manifesta simpatia. Verae amicitiae sempiternae sunt, pensai col dotto Cicerone. Poi, in un palese eccesso di autoconvincimento, decisi di pubblicare un libro con i miei versi. La pubblicazione mi costò una bella cifra e le critiche (quattro) mi furono avverse, salvo una. Diedi la colpa di tutto alla Spagna e al mio ottimismo e alle leggi inflessibili dell'invidia. Invidia ceu fulmine summa vaporant.

Quando arrivò l'estate presi la roulotte e decisi di darmi al vagabondaggio per le terre dei miei avi, vale a dire per l'ombrosa e primordiale Galizia. Partii con l'animo sereno, alle quattro del mattino, recitando fra i denti dei sonetti dell'immortale e uggioso Quevedo. Una volta in Galizia mi diedi a percorrere gli estuari e, a provare i suoi vini e a conversare con i suoi marinai, poiché natura maxime miranda in minimis. Poi deviai verso le montagne, verso la terra delle streghe, con l'anima rafforzata e i sensi aperti. Dormivo nei campeggi, perché un sergente della Guardia Civile mi aveva avvertito che era pericoloso accamparsi liberamente, sul ciglio di strade vicinali o provinciali, le quali, soprattutto d'estate, sono transitate da malviventi, gitani, rapsodi e giovinastri che vanno da una discoteca all'altra lungo i nebbiosi sentieri della notte. Qui amat periculum in illo peribit. Del resto, i campeggi non erano male e non tardai ad apprezzare l'abbondanza di emozioni e di passioni che in quei recinti potevo osservare e perfino catalogare tenendo gli occhi fissi sulla mia cartina.

Cosicché, trovandomi io in una di queste strutture di accoglienza, accadde ciò che ora mi appare come la parte centrale della mia storia. O almeno come l'unica parte che conservi intatta la felicità e il mistero di tutta la mia triste e vana storia. Mortalium nemo est felix, dice Plinio. E anche: felicitas cui praecipua fuerit homini, non est humani iudici. Ma bisogna che vada al sodo. Ero in un campeggio, l'ho già detto, nella zona di Castroverde, in provincia di Lugo, in un luogo montuoso e sovrabbondante di boschi e boscaglie d'ogni specie. E leggevo e prendevo appunti e accumulavo conoscenze. Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura. Anche se può darsi che esagerassi. In una parola (e siamo sinceri): mi annoiavo a morte.

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Iñaki Echavarne, bar Giardinetto, calle Granada del Penedés, Barcellona, luglio 1994

Per un po' la Critica accompagna l'Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o corto. Poi i Lettori muoiono uno per uno e l'Opera va avanti da sola, sebbene un'altra Critica e altri Lettori a poco a poco comincino ad accompagnarla sulla sua rotta. Poi la Critica muore di nuovo e i Lettori muoiono di nuovo e su questa pista di ossa l'Opera continua il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare nella sua scia è segno inequivocabile di morte certa, ma un'altra Critica e altri Lettori le si avvicinano instancabili e implacabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine l'Opera viaggia irrimediabilmente sola nell'Immensità. E un giorno l'Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estingueranno il sole e la Terra, e il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto quel che inizia come commedia finisce in tragedia.


Aurelio Baca, Fiera del Libro, Madrid, luglio 1994

Non soltanto davanti a me stesso né soltanto davanti agli specchi né nell'ora della mia morte che spero tarderà ad arrivare, ma anche davanti ai miei figli e a mia moglie e davanti alla vita serena che costruisco giorno per giorno, debbo riconoscere: 1) Che all'epoca di Stalin io non avrei sprecato la mia gioventù nel Gulag né l'avrei conclusa con un colpo alla nuca. 2) Che all'epoca di McCarthy io non avrei perso il mio impiego né avrei dovuto vendere benzina a un distributore. 3) Che all'epoca di Hitler, tuttavia, io sarei stato uno di quelli che presero la via dell'esilio e che all'epoca di Franco io non avrei composto sonetti al Caudillo né alla Vergine Benedetta come tanti che si dicono democratici da sempre. E una cosa vale l'altra. Il mio coraggio è limitato, certo, la mia capacità di mandar giù anche. Tutto quel che inizia come commedia finisce in tragicommedia.


Pere Ordóñez, Fiera del Libro, Madrid, luglio 1994

Un tempo gli scrittori di Spagna (e dell'America Latina) facevano il loro ingresso sulla scena pubblica per trasgredirla, per riformarla, per bruciarla, per rivoluzionarla. Gli scrittori di Spagna (e dell'America Latina) provenivano generalmente da famiglie agiate, famiglie consolidate o con una certa posizione, e nel prendere la penna si rivoltavano o si ribellavano contro quella posizione: scrivere era rinunciare, era rinnegare, a volte era suicidarsi. Era andare contro la famiglia. Oggi gli scrittori di Spagna (e dell'America Latina) provengono in numero sempre più allarmante da famiglie delle classi inferiori, dal proletariato e dal sottoproletariato, e il loro esercizio più usuale della scrittura è un mezzo per dare la scalata alla piramide sociale, un modo per sistemarsi facendo ben attenzione a non trasgredire niente. Non dico che non siano colti. Sono colti tanto quanto quelli di prima. O quasi. Non dico che non siano lavoratori. Sono molto più lavoratori di quelli di prima! Però sono, anche, molto più volgari. E si comportano da manager o da gangster. E non rinnegano nulla o rinnegano solo quel che si può rinnegare e si preoccupano molto di non crearsi dei nemici o di sceglierseli fra i più inermi. Non si suicidano per un'idea bensì per pazzia o per rabbia. Le porte, implacabilmente, si spalancano al loro passaggio. E così la letteratura va come sta andando. Tutto quel che inizia come commedia finisce indefettibilmente in commedia.

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