Autore Roberto Bolaņo
Titolo Puttane assassine
EdizioneAdelphi, Milano, 2015, Fabula 285 , pag. 230, cop.fle., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-459-2976-2
OriginalePutas asesinas [2001]
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2015
Classe narrativa cilena












 

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Indice


L'Ojo Silva                                  13

Gómez Palacio                                29

Ultimi crepuscoli sulla terra                40

Giorni del 1978                              68

Vagabondo in Francia e in Belgio             83

Prefigurazione di Lalo Cura                  99

Puttane assassine                           116

Il ritorno                                  133

Buba                                        151

Dentista                                    179

Foto                                        202

Carnet di ballo                             212

Incontro con Enrique Lihn                   222


 

 

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Pagina 13

L'OJO SILVA



a Rodrigo Pinto e María e Andrés Braithwaite




Così vanno le cose, Mauricio Silva, detto l'Ojo, aveva sempre cercato di fuggire la violenza anche a rischio di essere considerato un vigliacco, ma la violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta, noi che avevamo una ventina d'anni quando morì Salvador Allende.

Il caso dell'Ojo è paradigmatico ed esemplare e forse non è male ricordarlo, soprattutto adesso che sono passati tanti anni.

Nel gennaio del 1974, quattro mesi dopo il colpo di Stato, l'Ojo Silva se ne andò dal Cile. Prima si fermò a Buenos Aires, poi la brutta aria che tirava nella vicina repubblica lo spinse in Messico, dove visse un paio d'anni e dove lo conobbi io.

Non era come la maggior parte dei cileni che vivevano allora nel Distrito Federal: non si vantava di aver partecipato a una resistenza più fantomatica che reale, non frequentava gli ambienti degli esuli.

Diventammo amici e ci vedevamo, almeno una volta a settimana, al caffè La Habana, in calle Bucareli, o a casa mia, in calle Versailles, dove vivevo con mia madre e mia sorella. Nei primi mesi l'Ojo Silva sopravvisse grazie a lavoretti sporadici e precari, poi trovò posto come fotografo in un giornale del DF. Non ricordo che giornale era, forse «El Sol », se mai è esistito in Messico un giornale chiamato così, forse «El Universal», io avrei preferito che fosse «El Nacional», il cui supplemento culturale era diretto dal vecchio poeta spagnolo Juan Rejano, ma non era «El Nacional» perché ci lavoravo e non vidi mai l'Ojo in redazione. Comunque lavorava in un giornale messicano, su questo non ho il minimo dubbio, e la sua situazione economica andò migliorando, all'inizio impercettibilmente, perché l'Ojo si era abituato a vivere in modo spartano, ma a uno sguardo attento non sfuggivano i segni inequivocabili di una certa ripresa economica.

I primi mesi nel DF, per esempio, lo ricordo vestito con felpe. Gli ultimi si era ormai comprato un paio di camicie e una volta lo vidi addirittura con la cravatta, un accessorio che noi, intendo io e i miei amici poeti, non portavamo mai. In realtà, l'unico personaggio incravattato che si fosse mai seduto al nostro tavolo nel caffè La Habana fu proprio l'Ojo.

A quei tempi si diceva che l'Ojo Silva era omosessuale. Voglio dire, negli ambienti degli esuli cileni correva questa voce, in parte come espressione di malevolenza e in parte come nuovo pettegolezzo di cui si nutriva la vita piuttosto noiosa degli esuli, gente di sinistra che, almeno dalla cintura in giù, la pensava esattamente come la gente di destra che a quel tempo si stava impadronendo del Cile.

Una volta l'Ojo venne a pranzo da me. A mia madre lui piaceva e l'Ojo ricambiava l'affetto facendo di tanto in tanto delle foto alla famiglia, cioè a mia madre, a mia sorella, a qualche amica di mia madre e a me. A tutti piace essere fotografati, mi disse una volta. A me non importava, o così credevo, ma quando l'Ojo me lo disse ci pensai un po' su e finii per dargli ragione. Solo a qualche indiano non piacciono le foto, disse. Mia madre credette che l'Ojo stesse parlando dei Mapuche, ma in realtà parlava degli indiani dell'India, di quell'India che sarebbe stata così importante per lui in futuro.

Una sera me lo trovai al caffè La Habana. Non c'era quasi nessuno e l'Ojo era seduto vicino alle vetrate che si affacciano su calle Bucareli con un café con leche nel bicchiere, quei grandi bicchieri di vetro spesso che aveva allora La Habana e che non ho più visto in nessun locale. Mi sedetti con lui e chiacchierammo un po'. Sembrava trasparente. Fu questa la mia impressione. L'Ojo sembrava di cristallo, e la sua faccia e il bicchiere di vetro del café con leche sembravano scambiarsi segnali, come se due fenomeni incomprensibili si fossero appena incontrati nel vasto universo e cercassero con più buona volontà che speranza di trovare un linguaggio comune.

Quella sera mi confessò che era omosessuale, proprio come raccontavano in giro gli esuli, e che se ne andava dal Messico. Per un attimo capii che se ne andava perché era omosessuale. Invece no, un amico gli aveva trovato lavoro in un'agenzia fotografica a Parigi ed era quello che aveva sempre sognato. Aveva voglia di parlare e lo ascoltai. Mi disse che per qualche anno aveva vissuto con disagio?, con discrezione?, le sue inclinazioni sessuali, soprattutto perché si considerava di sinistra e i compagni guardavano agli omosessuali con un certo pregiudizio. Parlammo del termine invertito (oggi desueto) che attirava come una calamita paesaggi desolati, e della parola colisa, checca, che io scrivevo con la s e che l'Ojo pensava si scrivesse con la z.

Ricordo che finimmo per metterci a inveire contro la sinistra cilena e che a un certo punto io brindai ai combattenti cileni erranti, cospicua frazione dei combattenti latinoamericani erranti, entelechia composta da orfani che, come dice il nome, erravano per il vasto mondo offrendo i loro servizi al miglior offerente, che peraltro era, quasi sempre, il peggiore. Ma dopo aver riso l'Ojo disse che la violenza non faceva per lui. Per te sì, disse con una tristezza che allora non capii, ma non per me. Detesto la violenza. Io gli assicurai che provavo la stessa cosa. Poi ci mettemmo a parlare d'altro, libri, film, dopodiché non ci rivedemmo più.

Un giorno seppi che l'Ojo se ne era andato dal Messico. Me lo comunicò un suo ex collega del giornale. Non mi sembrò strano che non mi avesse salutato. L'Ojo non salutava mai nessuno. Io non salutavo mai nessuno. I miei amici messicani non salutavano mai nessuno. A mia madre, però, parve un segno di maleducazione.

Due o tre anni dopo me ne andai anch'io dal Messico. Quando arrivai a Parigi, lo cercai (sia pure senza troppo impegno), non lo trovai. Col passare del tempo cominciai a dimenticare perfino il suo volto, anche se mi rimase sempre nella memoria un suo modo di avvicinarsi, di comportarsi, un modo di dare la propria opinione da una certa distanza e da una certa tristezza per niente enfatica che associavo con l'Ojo Silva, un Ojo Silva che non aveva più volto o che aveva ormai un volto fatto di ombre, ma che ancora conservava l'essenziale, il ricordo dei suoi movimenti, un'entità quasi astratta in cui però non rientrava la quiete.

Passarono gli anni. Molti anni. Alcuni amici morirono. Io mi sposai, ebbi un figlio, pubblicai qualche libro.

In una certa occasione dovetti andare a Berlino. L'ultima sera, dopo aver cenato con Heinrich von Berenberg e la sua famiglia, presi un taxi (anche se fino allora era stato Heinrich a riportarmi in albergo la sera) a cui chiesi di fermarsi un po' prima perché volevo fare due passi. Il tassista (un orientale piuttosto anziano che ascoltava Beethoven) mi lasciò a circa cinque isolati dall'albergo. Non era molto tardi, anche se per strada non c'era quasi più gente. Attraversai una piazza. Seduto su una panchina c'era l'Ojo. Non lo riconobbi finché non mi parlò. Disse il mio nome e mi chiese come stavo. Allora mi girai e lo guardai un momento senza capire chi fosse. L'Ojo era ancora seduto sulla panchina e i suoi occhi mi guardavano e poi guardavano per terra o ai lati, gli alberi enormi della piccola piazza berlinese e le ombre che lo circondavano più intensamente (così pensai allora) di quanto non accadesse a me. Feci qualche passo verso di lui e gli domandai chi era. Sono io, Mauricio Silva, disse. L'Ojo Silva del Cile?, dissi io. Lui annuì e solo allora lo vidi sorridere.

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Pagina 133

IL RITORNO



Ho una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che c'è vita (o qualcosa di simile) dopo la vita. Quella cattiva è che Jean-Claude Villeneuve è necrofilo.

La morte mi colse in una discoteca di Parigi alle quattro del mattino. Il medico mi aveva avvertito ma ci sono cose che sono più forti della ragione. Erroneamente pensavo (fatto di cui adesso mi pento) che il ballo e il bere non fossero le mie passioni più pericolose. Per di più la mia routine di quadro medio alla FRACSA contribuiva a farmi cercare ogni notte nei locali alla moda di Parigi ciò che non trovavo nel mio lavoro né in quello che la gente chiama vita interiore: il calore di un certo eccesso.

Ma preferisco non parlarne o parlarne il meno possibile. Mi ero separato da poco e avevo trentaquattro anni quando si verificò il mio decesso. Non mi resi conto quasi di nulla. All'improvviso una fitta al cuore e il volto di Cecile Lamballe, la donna dei miei sogni, che restava impassibile, e la pista da ballo che vorticava in modo violentissimo risucchiando i ballerini e le ombre, e poi un breve attimo di oscurità.

Dopo andò tutto come raccontano nei film e su questo mi piacerebbe dire qualche parola.

Da vivo non ero intelligente né brillante. Continuo a non esserlo (anche se sono molto migliorato). Quando dico intelligente in realtà voglio dire riflessivo. Ma ho una certa grinta e un certo gusto. In altre parole non sono una persona rozza. Oggettivamente parlando, sono sempre stato ben lontano dall'essere una persona rozza. Ho studiato economia aziendale, è vero, ma questo non mi ha impedito di leggere ogni tanto un bel romanzo, di andare ogni tanto a teatro e di frequentare le sale cinematografiche con più assiduità della gente comune. Certi film li ho visti per obbligo, spinto dalla mia ex moglie. Gli altri li ho visti per vocazione di cinefilo.

Come tante altre persone anche io ero andato a vedere Ghost, non so se ve lo ricordate, un record d'incassi, quello con Demi Moore e Whoopi Goldberg, quello dove ammazzano Patrick Swayze per poi abbandonarne il corpo in una strada di Manhattan, forse un vicolo, insomma, una strada lurida, mentre lo spirito di Patrick Swayze si separa dal corpo, con grande sfoggio di effetti speciali (soprattutto per l'epoca), e contempla stupefatto il proprio cadavere. Bene, a me (effetti speciali a parte) era sembrata una sciocchezza. Una soluzione facile, degna del cinema americano, superficiale e per niente credibile.

Quando arrivò il mio turno, però, fu esattamente quello che successe. Rimasi di sasso. Innanzitutto perché ero morto, cosa che arriva sempre inaspettata, eccetto, suppongo, nel caso di certi suicidi, e poi perché stavo interpretando involontariamente una delle peggiori scene di Ghost. La mia esperienza, fra mille altre cose, mi fa pensare che dietro la puerilità dei nordamericani a volte si nasconda qualcosa che noi europei non possiamo o non vogliamo capire. Ma dopo essere morto non pensai a questo. Dopo essere morto mi sarei volentieri messo a ridere a crepapelle.

Uno si abitua a tutto e per di più quella notte avevo un senso di nausea o di ubriachezza, non per aver bevuto alcolici la sera del decesso, non l'avevo fatto, era stata una notte di succo d'ananas misto a birra analcolica, ma per l'impressione di essere morto, per la paura di essere morto e di non sapere cosa sarebbe successo dopo. Quando uno muore il mondo reale si muove un pochino e questo contribuisce alla sensazione di nausea. Č come se all'improvviso ti mettessi degli occhiali con un'altra gradazione, non molto diversa dalla tua, ma differenti. E la cosa peggiore è che sai che sono i tuoi occhiali quelli che hai preso, non degli occhiali sbagliati. E il mondo reale si muove un pochino a destra, un pochino in basso, la distanza che ti separa da un determinato oggetto cambia impercettibilmente, e questo cambiamento uno lo percepisce come un abisso, e l'abisso contribuisce alle vertigini, ma anche questo non importa.

Viene voglia di piangere o di pregare. I primi minuti di un fantasma sono minuti da knockout imminente. Ti senti come un pugile suonato che si muove sul ring nel dilatato istante in cui il ring sta svanendo. Ma poi ti tranquillizzi e in genere ti limiti a seguire la gente che è con te, la tua fidanzata, i tuoi amici o, al contrario, il tuo cadavere.

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Pagina 151

BUBA



a Juan Villoro


La città del buonsenso. La città dell'assennatezza. Così gli abitanti chiamavano Barcellona. A me piaceva. Era una bella città e credo di essermi abituato a lei già dal secondo giorno (dire dal primo sarebbe un'esagerazione), ma la squadra non andava come ci si aspettava ed ecco che la gente inizia a guardarti storto, succede sempre così, lo so per esperienza, all'inizio i tifosi ti chiedono l'autografo, ti aspettano davanti alla porta dell'albergo per salutarti, quasi ti assillano talmente sono affettuosi, ma poi arriva la sfiga e non ti molla e loro cominciano a tenerti il muso, e dicono che sei uno che cazzeggia, e che passa le notti in discoteca, e che va a puttane, voi mi capite, la gente comincia a chiedersi quanto guadagni, a farti i conti in tasca e giù illazioni e non manca mai lo spiritoso che ti chiama pubblicamente ladro o mille volte peggio. Comunque queste storie succedono da tutte le parti, a me personalmente era già successo qualcosa di simile, ma allora ero nel mio paese, giocavo in casa, mentre adesso ero uno straniero, e la stampa e i tifosi si aspettano sempre qualcosa in più dagli stranieri, è per questo che li fanno venire, no?

Io, per esempio, come tutti sanno, sono ala sinistra. Quando giocavo in America latina (in Cile e poi in Argentina) segnavo in media dieci gol a stagione. Qui, invece, feci un debutto schifoso, alla terza partita mi infortunai, dovettero operarmi ai legamenti e il recupero, che in teoria doveva essere rapido, fu lento e faticoso da non dire. Di colpo mi sentii di nuovo solo come un cane. Č la verità. Spendevo una fortuna in telefonate a Santiago e l'unica cosa che ottenevo era preoccupare mia madre e mio padre, che non capivano nulla. Così un giorno decisi di andare a puttane. Non lo nego. Č la verità. In realtà mi limitai a seguire il consiglio che mi aveva dato un giorno Cerrone, il portiere argentino. Cerrone mi aveva detto: ragazzo mio, se non hai niente di meglio da fare e i problemi ti stanno ammazzando, chiedi alle puttane. Che brava persona era Cerrone. A quel tempo dovevo avere al massimo diciannove anni ed ero appena arrivato al Gimnasia y Esgrima. Cerrone era già sui trentacinque o quaranta, la sua età era un mistero, e fra i veterani era l'unico scapolo. Certi dicevano che Cerrone era dell'altra sponda. Questo all'inizio mi fece stare un po' sulle mie. Ero un ragazzo abbastanza timido e pensavo che se avessi conosciuto un omosessuale avrebbe subito cercato di venire a letto con me. Insomma, forse lo era, forse no, sta di fatto che un pomeriggio in cui mi sentivo più depresso che mai mi prese da parte, era la prima volta che parlavamo, si potrebbe dire, e mi disse che quella sera mi avrebbe portato a conoscere qualche ragazza di Buenos Aires. Non dimenticherò mai quella serata. L'appartamento era in centro, e mentre Cerrone se ne stava in salotto a bere qualcosa e a guardare un programma notturno alla televisione, io andai a letto per la prima volta con un'argentina e la mia depressione cominciò a passare. La mattina dopo, mentre tornavo a casa, capii che tutto sarebbe andato meglio e che la mia carriera nel calcio argentino mi avrebbe riservato molti altri pomeriggi di gloria. I momenti di depressione erano inevitabili, mi dissi, ma Cerrone mi aveva dato il rimedio per alleviarli.

E fu quello che feci quando mi trovai nella mia prima squadra europea: andai a puttane e così fronteggiai l'infortunio, il periodo di recupero, la solitudine. Se mi abituai? Forse sì, forse no, non posso dare un giudizio così netto. Là le puttane sono una vera delizia, le puttane di classe, voglio dire, oltre al fatto che sono in genere delle ragazze abbastanza intelligenti e preparate, per cui prenderci gusto, quello che si dice prenderci gusto, non è poi così difficile.

In pratica, iniziai a uscire ogni sera, e anche la domenica, quando c'era la partita e da noi infortunati si aspettavano che stessimo lì, in tribuna, trasformati in ultrà di lusso. Ma così uno non guarisce dagli infortuni e io preferivo passare i pomeriggi della domenica in qualche sala massaggi, con il mio whisky e una o due amiche per parte, parlando di cose più serie. All'inizio, naturalmente, nessuno se ne rese conto. Non ero l'unico infortunato, dovevamo essere sei o sette in panchina, la sfiga sembrava accanirsi sulla nostra squadra. Però poi, è chiaro, arriva sempre il giornalista stronzo che ti vede uscire da una discoteca alle quattro del mattino e allora è finita. A Barcellona, che sembra una città così grande e così civile, le notizie volano. Voglio dire: le notizie di calcio.

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