Copertina
Autore Michele Boldrin
CoautoreDavid K. Levine
Titolo Abolire la proprietà intellettuale
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2012, i Robinson Letture , pag. 242, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-420-9821-8
TraduttoreEmanuela Corbetta, Matteo Molinari
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe copyright-copyleft , media , economia , economia politica , informatica: storia , beni comuni , salute , storia sociale , storia della tecnica
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Indice


    Introduzione                                              3

1.  La creatività della concorrenza                          19

- Software, p. 19
- Software libero e aperto, p. 24
- I pirati di software, p. 28
- Libri, notizie, film e musica, p. 30
- Narrativa e letteratura, p. 31
- Giornalismo, p. 37
- Il quotidiano moderno, p. 40
- Il mondo prima del copyright, p. 41
- Cosa c'è di nuovo in Napster?, p. 43
- La nascita dell'industria musicale e cinematografica, p. 46
- Pornografia, p. 47

2.  Innovazione in concorrenza                               52

- Un mondo senza brevetti, p. 53
- La Rivoluzione industriale e la macchina a vapore, p. 60
- Agricoltura, p. 63
- Hortalizas spagnole e maglioni italiani, p. 68
- Mercati finanziari, p. 70
- Design, p. 72
- Sport, p. 73
- Profitti senza brevetti, p. 74
- Condivisione di brevetti, p. 76

3.  Il diavolo nel monopolio intellettuale                   78

- Il costo del brevetto, p. 83
- Il groviglio dei brevetti, p. 85
- Semi, animali e geni, p. 87
- Disfare il progresso, p. 91
- Brevetti sottomarini, p. 93
- Il fattore Dilbert, p. 96
- Errori nei brevetti, p. 102

4.  Il diavolo in Disney                                    104

- Copyright eterno, p. 105
- L'economia della musica, p. 111
- Il «Digital Millennium Copyright Act», p. 114
- Libertà di espressione, p. 118

5.  Come funziona la concorrenza                            122

- I frutti dell'albero delle idee, p. 125
- Costi fissi e concorrenza, p. 130
- Indivisibilità, p. 137
- Essere primi conta, p. 139
- Vendite complementari, p. 140
- Idee dal valore incerto, p. 142
- Il valore sociale dell'imitazione, p. 143

6.  Difesa del monopolio intellettuale                      145

- Proprietà privata e beni pubblici, p. 145
- Costi fissi e costi marginali costanti, p. 148
- Traboccanti esternalità, p. 150
- L'esternalità imitativa, p. 152
- Segretezza e brevetti, p. 156
- Il buon monopolio schumpeteriano, p. 158
- L'economia delle idee, p. 160
- L'economia globale, p. 163
- Il dominio pubblico e la proprietà comune, p. 165

7.  Il monopolio aumenta l'innovazione?                     169

- Copyright e musica nel Settecento, p. 170
- Brevetti e innovazioni nell'Ottocento, p. 172
- Proprietà intellettuale e innovazione nel Novecento, p. 175
- Route 128 e Silicon Valley, p. 180
- Scoperte simultanee, p. 183
- Onde radio, p. 184
- Bloccare e sbloccare i cieli, p. 188
- Tele-cose, p. 189
- La morale, p. 190

8.  L'industria farmaceutica                                191

- Brevissima storia dei brevetti farmaceutici, p. 192
- Prodotti chimici senza brevetto, p. 196
- L'industria farmaceutica oggi, p. 199
- Da dove vengono le medicine utili?, p. 200
- Rendite farmaceutiche, p. 204
- Il costo delle nuove medicine, p. 209

    Conclusioni                                             211

- Le cattive proposte, p. 213
- Qualche buona idea, p. 215
- Deregolamentazione, p. 218
- Abolizione, p. 218
- Prodotti farmaceutici, p. 221
- Sussidi per innovazione e creazione, p. 223
- Norme sociali, p. 223
- Pessime idee, p. 225

    Bibliografia                                            229


 

 

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Pagina 5

In quasi tutti i libri di storia, James Watt è descritto come un eroico inventore, il cui genio diede il via alla Rivoluzione industriale. I fatti suggeriscono un'interpretazione alternativa: Watt rappresenta uno dei tanti ingegnosi inventori che contribuirono al miglioramento della macchina a vapore durante la seconda metà del Settecento. Meglio: fatti alla mano, le nostre pur scarse conoscenze ingegneristiche ci fanno ritenere che egli fosse probabilmente il più capace e dotato fra le tante persone che si dedicarono a questo obiettivo durante il mezzo secolo che va dal 1760 al 1810. Dopo aver superato, con una brillante idea, gli altri inventori, rimase in vantaggio non tanto perché continuò a produrre innovazioni superiori a quelle dei suoi concorrenti, ma a causa di un migliore utilizzo del sistema legale. Il fatto che il suo socio in affari fosse una persona facoltosa con salde relazioni in Parlamento fu un aiuto non secondario in questa impresa redditizia.

Il brevetto di Watt fu un incentivo necessario a innescare il suo genio creativo che altrimenti, come suggerisce la storia tradizionale, sarebbe rimasto sopito? O, piuttosto, non è il caso di pensare che la sua particolare innovazione sarebbe (e, di fatto, è) arrivata alla sua mente (o a quella di qualcun altro in sua assenza) indipendentemente dalla prospettiva di ottenere un brevetto di così lunga durata? Non suggeriscono, forse, i fatti che l'uso che Watt fece del sistema legale per inibire le imitazioni e la concorrenza rallentò la Rivoluzione industriale di un paio di decenni?

Queste domande, che sorgono spontanee dopo aver studiato il caso di James Watt, si traducono in quesiti più generali quando si allarga lo sguardo alle migliaia di altre innovazioni che, nel corso della storia umana, si sono venute accumulando. Le due componenti basilari del nostro sistema di proprietà intellettuale — brevetti e copyright —, nonostante i loro numerosi difetti, rappresentano forse un male necessario da sopportare per godere dei frutti della creatività umana? Oppure, brevetti e copyright sono solo un male inutile, reliquie di un tempo andato in cui i governi, per consuetudine, concedevano monopòli per favorire i cortigiani e raccogliere denaro? Questi i dubbi a cui cerchiamo di rispondere in questo libro.

Vale la pena osservare, per tornare all'esempio di Watt, come il suo talento creativo fosse mal investito: nel leggere la sua biografia si scopre che passava più tempo in azioni legali che nel migliorare e produrre la sua macchina. Watt era anzitutto un ingegnere e un inventore, sicché il suo contributo al progresso economico del Regno Unito sarebbe stato senz'altro maggiore se, invece di correre dietro agli avvocati per proteggere la sua macchina da soldi (il brevetto), la competizione con altri inventori l'avesse costretto a stare in officina a inventare altre macchine a vapore. Da un punto di vista strettamente economico, Watt non avrebbe avuto bisogno di un brevetto così duraturo. Si valuta che nel 1783 — otto anni dopo la concessione e diciassette anni prima che il suo secondo brevetto scadesse — la sua impresa fosse già in pareggio economico, ovvero avesse rimborsato tutti i debiti pregressi, avesse coperto i propri costi e avesse guadagnato profitti ragionevoli sul capitale investito.

Gli economisti chiamano «ricerca (e cattura) di rendite» l'attività che consiste nello spendere risorse umane e materiali al fine (vantaggioso sul piano privato, ma dannoso socialmente) di prevenire la competizione e ottenere privilegi particolari per vie legali e politiche. Per avere un'idea concreta di cosa si tratti, pensate a ciò a cui si dedicano in Italia, da sempre e con notevole successo, le associazioni di notai, farmacisti, avvocati e professionisti vari, via via sino ai tassisti: alla cattura di rendite. Non c'è infatti grande differenza fra il brevetto concesso al primo che si presenta all'ufficio brevetti e i diritti esclusivi di cui godono, per esempio, i notai: la storia e il senso comune mostrano che, in entrambi i casi, si tratta del frutto avvelenato del monopolio legale.

Il tentativo — riuscito — da parte di Watt di prolungare fino al 1800 la durata del brevetto del 1769 è un perfetto esempio di cattura di rendite: il prolungamento del brevetto, avvenuto nel 1775, non fu certo ciò che spinse Watt, nel 1764, a lavorare sulle invenzioni originali, le quali, se proprio vogliamo, già avevano ricevuto una ricompensa con il primo brevetto.

Il motore di Hornblower fu una vittima importante: si trattava infatti di un miglioramento sostanziale rispetto a quello di Watt, poiché introduceva il nuovo motore a due cilindri. E fu quest'ultimo — non il progetto di Boulton e Watt — a porre le basi per un ulteriore sviluppo della macchina a vapore dopo la scadenza del loro brevetto. Ma siccome Hornblower lavorava sulla base dell'invenzione precedente di Watt, furono Boulton e Watt a prevalere in tribunale e a bloccare lo sviluppo della sua macchina a vapore. Il monopolio su un'innovazione utile come il condensatore separato arrestò lo sviluppo di un'altra innovazione altrettanto utile, il motore a due cilindri, rallentando di conseguenza la crescita economica del Regno Unito. Un tale ritardo nell'innovazione è un classico caso di ciò che chiamiamo «inefficienza-PI», dove «PI» sta, ovviamente, per «Proprietà Intellettuale».

La storia di James Watt rappresenta un ottimo esempio dei danni sociali (e dei benefici privati, per gli ammanicati) che il sistema dei brevetti provoca. Come vedremo, non si tratta affatto di una storia insolita, bensì di un paradigma che si è ripetuto nei secoli e continua a ripetersi. Una nuova idea matura, quasi per caso, nella mente dell'innovatore mentre sta svolgendo un'attività di routine che mira a tutt'altro obiettivo; il brevetto arriva molti anni dopo e si deve, più che altro, a un misto di acume legale e abbondanti risorse che «lubrificano gli ingranaggi della fortuna». Una volta ottenuto, il brevetto viene usato principalmente come strumento per impedire il progresso economico e per danneggiare i concorrenti. Quella appena descritta è la regola, non l'eccezione, nel caso delle invenzioni brevettate. Ne vedremo esempi a bizzeffe nel corso di queste pagine.

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Pagina 8

La Rivoluzione industriale è storia di molto tempo fa, ma la questione della proprietà intellettuale è molto più attuale oggi che allora. Nello stesso anno in cui incominciavamo a scrivere questo libro, il giudice distrettuale statunitense James Spencer minacciava, da ben tre anni, di chiudere il servizio offerto da Blackberry per l'invio e la ricezione di posta elettronica via telefono mobile, un sistema usato da milioni di persone: tutto questo per una disputa legale sui brevetti in possesso di Blackberry. L'impresa Blackberry non è senza peccato: nel 2001 denunciò a sua volta Glenayre Electronics per violazione di un brevetto per «spedire informazione da un sistema ospitante a uno strumento mobile per la gestione di dati». Chi di brevetto ferisce...

Battaglie simili si combattono continuamente anche a proposito del copyright: a tutt'oggi, a dieci anni di distanza, la più celebre rimane quella che ebbe luogo attorno al 2000-2001, quando la rete per lo scambio di archivi digitali, creata spontaneamente da migliaia di consumatori utilizzando il software Napster, venne chiusa da un giudice federale americano perché tale condivisione di archivi protetti da copyright violava la legislazione vigente al tempo e in forza ancora oggi. Da allora la battaglia mondiale sul diritto dei consumatori a condividere, copiare e scambiarsi archivi digitali, contenenti materiale da loro legalmente acquisito ma coperto dalle restrizioni indotte dal copyright, si è andata estendendo e prolungando, senza che all'orizzonte sia apparsa una qualche soluzione. Questo sul terreno formale e giuridico, perché, sul terreno dei fatti concreti, la vittoria delle tecnologie e dei metodi di trasmissione degli archivi digitali introdotti da una qualche Napster è oramai totale. Ma è argomento su cui torneremo più avanti.

Mentre infuria l'arroventato dibattito a proposito di copyright e brevetti, esiste un accordo generale sul fatto che qualche tipo di protezione sia necessaria per salvaguardare i frutti del lavoro di inventori e creatori. La frase grondante retorica «l'informazione vuole essere libera» suggerisce che nessuno dovrebbe trarre vantaggi dalle proprie idee, il che, ovviamente, fa sorridere chiunque vive producendo idee utili. Nonostante alcuni sostengano che le idee debbano essere sempre e comunque gratuite, non sono molte le persone convinte che inventori e creatori debbano sopravvivere grazie alla carità altrui!

Al di là delle forti tensioni, entrambe le parti concordano sul fatto che la legislazione sulla proprietà intellettuale debba definire una qualche saggia via di mezzo tra la necessità di fornire sufficienti incentivi alla creazione e il desiderio di rendere più gratuite possibile le idee già esistenti. Detto altrimenti: nonostante litighino sul prezzo, entrambe le parti concordano sul fatto che i diritti di proprietà intellettuale siano una specie di male necessario che favorisce l'innovazione; il disaccordo è su dove dovrebbero essere tracciati i confini di tali diritti. Per i sostenitori della proprietà intellettuale, gli attuali profitti di monopolio sono appena sufficienti; per gli avversari tali profitti sono troppo alti.

La nostra analisi porta a conclusioni che sono in disaccordo con entrambe le parti. La logica del nostro ragionamento è la seguente: tutti vorrebbero essere detentori di un monopolio e nessuno vuole competere con i propri clienti, o con gli imitatori. Attualmente i brevetti e il copyright accordano un monopolio ai «creatori» di certe idee (vedremo nel corso del libro perché quelle virgolette siano più che appropriate). Ora, è certo che pochissime persone fanno qualcosa in cambio di niente. I creatori di nuovi beni non sono diversi dai produttori di copie dei vecchi beni, per esempio le scarpe: entrambi vogliono vedere il proprio sforzo ricompensato. Tuttavia, c'è un'enorme differenza tra l'affermare che gli innovatori meritano una ricompensa per i loro sforzi e concludere che brevetti e copyright – ovverosia il monopolio intellettuale – siano l'unica o almeno la via migliore per garantire tale ricompensa. Come vedremo, esistono molte altre strade per ricompensare adeguatamente gli innovatori, di gran lunga preferibili, per la società nel suo insieme, al potere di monopolio che brevetti e copyright attualmente conferiscono. Dal momento che – come mostreremo – gli innovatori possono ricevere e di fatto ricevono abbondanti compensi anche senza brevetti e copyright, risulta opportuno chiedersi: è poi vero che la proprietà intellettuale raggiunge il fine che si propone, ossia di creare incentivi per l'innovazione e l'invenzione? È vero, inoltre, che gli incentivi creati dalla proprietà intellettuale compensano i considerevoli danni sociali che essa provoca?

Questo libro esamina queste due domande sia teoricamente che empiricamente. E le conclusioni a cui siamo giunti sono le seguenti: i diritti di proprietà dei creatori di idee nuove possono essere ben protetti anche in assenza di proprietà intellettuale, la quale non stimola né innovazione né creazione. Nella nostra analisi il punto cruciale non sta nell'affermare che i produttori di idee nuove guadagnano troppo a causa di copyright e brevetti, ma che la proprietà intellettuale costituisce un male inutile, in quanto non genera maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di ulteriori nuove idee. Dovrebbe pertanto essere progressivamente abolita perché ha come unico risultato la creazione di dannosi monopoli.


Questo libro si occupa di economia, non di giurisprudenza. Più precisamente, non si occupa di ciò che è la giurisprudenza in materia di proprietà intellettuale, ma di quello che dovrebbe essere. Se vi interessa sapere se finirete o meno in carcere per aver condiviso i vostri archivi informatici in internet, questo non è il libro per voi; se vi interessa capire se è una buona idea che la legge vi impedisca di condividere i vostri archivi informatici in internet, allora il libro fa per voi.

Comunque, nonostante non ci si occupi qui di giurisprudenza, è necessario avere una qualche formazione in materia per capire le questioni economiche. Esistono tre tipi generici di proprietà intellettuale riconosciuti nella maggioranza dei sistemi legali: brevetti, copyright (diritto d'autore) e marchi.

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Pagina 13

Non siamo a conoscenza di alcuna argomentazione legittima secondo la quale i produttori di idee non dovrebbero trarre vantaggio economico dalle proprie creazioni. Pertanto, non prenderemo seriamente in considerazione quelle posizioni che sostengono la non commerciabilità delle idee, in quanto fondate su una visione utopista (e discriminatoria) del mondo secondo cui chi produce idee dovrebbe vivere della carità altrui e non del proprio lavoro. A nostro avviso le (buone) idee non solo possono ma devono essere vendute, altrimenti non verrebbero prodotte o ne verrebbero prodotte assai poche. Di idee brutte, si sa, ce n'è sempre più del necessario... forse perché vengono distribuite gratuitamente.

Nonostante le (buone) idee si possano vendere anche in assenza di un diritto legale di proprietà, i mercati funzionano meglio in presenza di diritti di proprietà chiaramente definiti. Si dà però il caso che, per far funzionare bene i mercati, dovrebbero essere protetti non solo i diritti di proprietà degli innovatori ma anche quelli di chi ha ottenuto legittimamente una copia dell'idea dall'innovatore originario, direttamente o indirettamente. Il primo tipo di diritti incoraggia l'innovazione, mentre il secondo incoraggia la diffusione, l'adozione e il miglioramento delle innovazioni. Perché mai, dunque, i creatori di un'idea dovrebbero avere il diritto di controllare l'uso che ne fanno gli acquirenti? Un tale particolare diritto conferisce ai creatori iniziali il monopolio su un'idea. Usiamo l'espressione «monopolio intellettuale» per enfatizzare che ciò che è discutibile in esso non è il diritto di proprietà sull'idea originale ma il monopolio su tutte le copie della stessa. Questo monopolio, di fatto, uccide l'altro diritto legittimo, quello di comprare, vendere e liberamente utilizzare le copie di un'idea.

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Pagina 16

In ultima analisi l'unica giustificazione della proprietà intellettuale è che incrementerebbe – de facto e sostanzialmente – l'innovazione e la creazione. Cosa ci hanno insegnato gli ultimi trecento anni circa? La scelta dei tre secoli (e qualcosa) non è fatta a caso: come vedremo più avanti, anche se i primi esempi di brevetti vengono dall'Italia rinascimentale, la legislazione contemporanea su brevetti e copyright affonda le proprie radici in provvedimenti adottati nel Regno Unito all'inizio del Settecento. Ma non facciamoci prendere dall'entusiasmo per la storia, per ora, e ritorniamo al punto che qui ci interessa: è o non è un dato di fatto che il monopolio intellettuale stimoli maggiore creatività e innovazione? Il nostro studio dei dati non ha rivelato evidenza alcuna che il monopolio intellettuale raggiuga il proposito desiderato. Poiché esso non porta benefici, non c'è ragione che la società ne sopporti i costi: la proprietà intellettuale è un male inutile.

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Pagina 22

Il settore del software è il miglior esempio di una delle conclusioni a cui la ricerca illustrata in questo libro è pervenuta: il monopolio intellettuale non è causa dell'innovazione, quanto piuttosto una conseguenza, socialmente non apprezzata, anche se piacevole per il privato che ne trae beneficio. In un settore giovane e dinamico, pieno di idee e creatività, il monopolio intellettuale non gioca un ruolo utile. Come prova l'esempio del software, e come proveranno altri esempi nelle sezioni seguenti, le industrie creative e in grande crescita sono tali perché centinaia o anche migliaia di imprenditori fiutano delle opportunità di profitto e di conseguenza, imitandosi, copiandosi, superandosi, producono la crescita travolgente che sempre caratterizza il decollo di una nuova industria. È quando le idee cominciano a scarseggiare e le imprese del settore si ritrovano a lottare per l'accesso a quelle poche idee buone rimaste che alcuni si rivolgono allo Stato — appellandosi alla proprietà intellettuale — per proteggere la loro vecchia e redditizia maniera di fare affari.

Se esaminiamo l'impegno profuso da Microsoft per impedire che il proprio software venga «rubato dai pirati», scopriamo che nei decenni iniziali lo sforzo, sia legale che tecnico, era minimo. A Microsoft, ovviamente, interessava senz'altro proteggere la sua proprietà intellettuale, ma non le premeva poi più di tanto rendere effettiva tale protezione, visto che aveva da fare altre cose maggiormente redditizie, come per esempio innovare. È solo ora, nel XXI secolo, che Microsoft investe tempo e risorse nella protezione del proprio potere di monopolio. È significativo, quindi, che, confrontando i sistemi operativi lanciati durante l'ultimo decennio, sia difficile rilevare in essi un'innovazione decisiva, mentre risulta piuttosto comune un andamento deludente. Basta pensarci un attimo per vedere che questa osservazione è applicabile più in generale: quale è stata la più grande innovazione di Microsoft dal 1994 a oggi? Senza dubbio il navigatore Internet Explorer. Ma chi ha inventato il navigatore? Non Microsoft, bensì un piccolo gruppo di concorrenti creativi dai quali più tardi Microsoft trasse l'idea (che non venne brevettata probabilmente solo perché In re Alappat arrivò con qualche mese di ritardo) acquistando, da un ente terzo che ne deteneva quasi per caso il copyright, la maggior parte del codice di base! La prima versione popolare di un navigatore, NCSA Mosaic, apparve nel marzo del 1993, mentre fu solo nell'agosto del 1995 che Microsoft lanciò Internet Explorer 1.0.

Provate a immaginare come dovrebbe essere riscritta la storia economica e sociale degli ultimi quindici anni se i creatori di Mosaic avessero avuto le risorse finanziarie di Microsoft e se, prevedendo che Amazon avrebbe un giorno brevettato il concetto di one-click con l'appoggio dei giudici federali, fossero riusciti a brevettare l'idea del navigatore di rete! Sarebbe davvero stato più utile a tutti se fosse stata applicata a questo caso la dottrina della proprietà intellettuale?

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Software libero e aperto

La prova migliore che il copyright e i brevetti non sono necessari e che la concorrenza invece produce una notevole innovazione sta nel fatto che esiste una porzione sempre più rilevante del settore del software che ha volontariamente rinunciato al proprio monopolio intellettuale, ossia ha rinunciato sia al copyright sia ai brevetti. Questo straordinario esempio di creatività imprenditoriale in situazione di concorrenza è noto come open-source software (OSS). Quasi sempre questo software viene distribuito con una licenza che è l'opposto del copyright, e anzi in molti casi essa induce chiunque voglia vendere tale software a permettere ai suoi concorrenti di copiarlo. Tale accordo copyleft è un impegno volontario da parte dei produttori di software per evitare il monopolio intellettuale e operare in condizioni di libera concorrenza. Vi chiederete come sia possibile che la rinuncia volontaria a un monopolio si incontri con l'interesse economico di una ditta o di un individuo: la risposta è, anzitutto, che questo fornisce un'importante assicurazione agli acquirenti del prodotto. Per esempio, un nuovo arrivato nel campo del software può trovare il suo mercato limitato dal fatto che i potenziali clienti si mostrano dubbiosi sulla sopravvivenza a lungo termine della ditta: chi è intenzionato ad acquistare non desidera certo ritrovarsi bloccato con un software brevettato, per poi magari vedere scomparire l'unico fornitore autorizzato. Non solo: quando io acquisto un software non brevettato mi aspetto di ricevere vantaggi dalla concorrenza futura, perché ogni nuovo prodotto concorrente, che usi lo stesso codice come punto di partenza e lo migliori, risulterà compatibile con quanto ho già installato. Ma questo vale anche per l'impresa che innova per prima: ogni nuovo concorrente che usi il mio codice e lo migliori dovrà rispettare le regole della licenza open-source o copyleft, il che mi permetterà, se ne sono capace, di utilizzare a mia volta la sua innovazione. Tutti questi fattori aumentano la domanda del prodotto open-source originario, cosicché, molto spesso, la rendita ottenuta dall'essere i primi a entrare nel mercato è sufficientemente alta da rinunciare volontariamente al monopolio futuro.

Nel caso del software open-source, è sorprendente quanto tale modalità sia diffusa, e soltanto i nostri paraocchi spesso ci impediscono di notarlo. Se oggi avete navigato in rete, è quasi certo che abbiate usato un software open-source. Sebbene probabilmente pensiate a voi stessi come a dei fruitori di Windows o di Macintosh, la realtà è che siete anche fruitori di Linux: ogni volta che usate Google, la vostra richiesta viene elaborata da un software open-source creato da Linus Torvalds.

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Pagina 30

Libri, notizie, film e musica

Tradizionalmente il copyright è stato usato per i lavori letterari e la comunicazione artistica o di notizie, dai quotidiani alla musica ai film. Grandi imprese di comunicazione, come la Disney, e associazioni di categoria come la RIAA (un'industria discografica USA) e la MPAA (un'industria cinematografica sempre statunitense) sostengono a gran voce che occorre adottare una legislazione che permetta un controllo crescente della loro proprietà intellettuale. Lo stesso fanno in Italia, nel loro piccolo, le associazioni degli autori, dei produttori cinematografici e musicali e perfino, anche se con più stile, quella degli editori di libri. Sulla base di queste continue lamentele si potrebbe immaginare che l'attività creativa sia oggi sempre minore (a causa della diffusa pirateria) e che gli artisti diventino poveri quando la protezione del copyright è debole: inutile dire che niente è più lontano dalla verità.


Narrativa e letteratura

Si fa fatica ad accettare il concetto che le idee possano essere remunerate senza copyright o brevetti. Come potrà mai essere pagato l'autore di un romanzo se non esiste il copyright? Vediamolo.

Cominciamo dagli autori inglesi che nell'Ottocento vendevano libri negli Stati Uniti. «Durante l'Ottocento negli Stati Uniti tutti erano liberi di ristampare una pubblicazione straniera» senza effettuare alcun pagamento all'autore se non l'acquisto di una copia legale del libro. Sorprenderà sapere che, senza copyright, gli autori venivano pagati lo stesso, e a volte meglio che con il copyright.

Come funzionava? Gli autori inglesi vendevano a editori americani il manoscritto dei loro nuovi libri prima che questi venissero pubblicati in Inghilterra. L'editore americano che aveva comprato il manoscritto disponeva di tutti gli incentivi per saturare al più presto il mercato per quel determinato romanzo, in modo da evitare che subito dopo si presentassero degli imitatori a basso prezzo. Questo sistema portava a pubblicazioni massicce a prezzi piuttosto bassi. La quantità di denaro che gli autori britannici ricevevano come anticipo dagli editori americani spesso sorpassava gli introiti che riuscivano a incassare dai diritti d'autore nel Regno Unito nel corso di vari anni (si noti che, al tempo, il mercato statunitense era paragonabile in grandezza al mercato inglese).

In termini più generali, la mancanza di protezione del copyright, che permise agli Stati Uniti di «pirateggiare» gli scrittori inglesi, rappresentò una politica socialmente fruttuosa per gli abitanti statunitensi e non danneggiò più di tanto gli autori inglesi: non soltanto, infatti, consentì la creazione e la rapida crescita di un vasto e apprezzato settore editoriale negli Stati Uniti, ma incrementò anche l'alfabetizzazione e giovò allo sviluppo culturale di quel paese, inondando il mercato di copie poco costose di grandi libri. Il libro di Dickens Canto di Natale, per esempio, si vendeva per sei centesimi negli Stati Uniti, mentre costava circa due dollari e mezzo in Inghilterra.

Ma quanto sono rilevanti per l'era moderna gli esempi dell'Ottocento? Cosa accadrebbe ora a uno scrittore privo di copyright?

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Il mondo prima del copyright

Il copyright comparve in vari paesi europei solo dopo l'invenzione del torchio tipografico. Non ebbe origine per proteggere i profitti degli autori dai copisti o per incoraggiare la creatività, ma come uno strumento di censura governativa. Il potere religioso e quello regio si arrogarono infatti il diritto di decidere ciò che poteva o non poteva essere stampato; di conseguenza, il diritto di copiare si configurava come una concessione da parte dei potenti alla cittadinanza di stampare e leggere quello che essi pensavano fosse appropriato. Il processo a Galileo non fu niente di più che un esercizio di imposizione di copyright da parte del pontefice romano.

Più tardi, per lo più nella seconda metà del Settecento e contemporaneamente alla diffusione di regi brevetti, le concessioni di copyright cominciarono a essere usate come strumento fiscale. La vendita di un copyright, esattamente come la vendita di un brevetto, equivaleva ad assegnare potere di monopolio a qualcuno in cambio di un certo ammontare di denaro. La creazione nel Regno Unito della Stationers Company con monopolio di fatto su stampa ed editoria è probabilmente l'esempio meglio conosciuto di questo tipo di pratica. Non esiste alcun riscontro, né nel Regno Unito né in paesi europei che adottarono leggi simili (come la Repubblica di Venezia), che tale pratica abbia determinato un aumento della creazione letteraria o dell'alfabetizzazione.

Lo Statute of Anne, adottato in Inghilterra attorno al 1710, viene considerato la prima legge che, nello spirito moderno, separa la funzione censoria da quella della proprietà personale del prodotto letterario, assegnando agli autori, o ai legittimi acquirenti dei loro manoscritti, un diritto esclusivo della durata di quattordici anni. Notate il numero: quattordici, non – come oggi – tutta la vita dell'autore e fino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte. William Shakespeare trovò incentivi sufficienti per scrivere la sua opera anche senza quei quattordici anni, eppure nessuno Shakespeare è sorto dopo il 1710.

Ci volle circa un secolo di controversi andirivieni affinché la legge sul copyright venisse accettata a pieno in Inghilterra e perché si espandesse nel resto d'Europa. Intorno al periodo della Rivoluzione francese, sotto il nome di propriété littéraire, divenne popolare l'idea che le opere d'arte appartenessero agli autori, che potevano venderle o riprodurle a volontà senza l'autorizzazione regia. Lo scontro per la propriété littéraire in Francia non puntava a ottenere un nuovo monopolio bensì ad abolire un antico privilegio regale particolarmente odioso: quello sulle idee e sulla loro espressione. L'assetto istituzionale dell'editoria francese del Settecento, in assenza di copyright, risulta decisamente interessante per la nostra analisi: i libri venivano frequentemente copiati e rapidamente distribuiti da differenti editori; non esistevano diritti d'autore e gli autori venivano pagati in anticipo; molte piccole aziende furono create solo al fine di pubblicare un unico libro. In breve, i libri venivano pubblicati, gli autori pagati, e tutto accadeva senza il beneficio del copyright.

Abbiamo già fatto cenno alla particolare modalità in cui il copyright letterario venne introdotto negli Stati Uniti nel 1790 e a come l'assenza della protezione del copyright per gli scrittori stranieri abbia favorito la diffusione dell'alfabetizzazione in quel paese. In Germania fu Bismarck, un uomo con evidenti simpatie per ogni forma di monopolio, che nel 1870 introdusse una legge sul copyright modellata sulle linee guida britannniche; Goethe e Schiller, Kant e Hegel non ne trassero profitto. È solamente nel 1886, con la Conferenza di Berna e la firma del primo trattato internazionale sul copyright, che si giunge a un certo grado di uniformità nel mondo occidentale.

La letteratura e il mercato per la compravendita di lavori letterari, dunque, emersero e prosperarono per secoli in completa assenza di copyright. La maggior parte di ciò che oggi consideriamo grande letteratura e che insegniamo nelle università proviene da autori che non hanno mai ricevuto una lira dai diritti di copyright. La qualità commerciale dei tanti lavori realizzati senza copyright è stata così grande che la Disney si è servita smisuratamente di quei soggetti e di quei temi: grandi produzioni disneyane quali Biancaneve, La bella addormentata nel bosco, Pinocchio e Il piccolo Hiawatha sono state tutte prese (dovremmo dire «predate»?) dal dominio pubblico. Molto saggiamente, dal suo punto di vista monopolistico, Disney è ora riluttante a farli ritornare alla fonte da cui vengono e a cui apparterrebbero. Tuttavia, l'argomento secondo cui questi grandi lavori non sarebbero stati prodotti senza il monopolio intellettuale viene radicalmente indebolito dal fatto che sono effettivamente venuti alla luce in assenza di tale monopolio.

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Mercati finanziari

Dopo la crisi iniziata nel 2007, di cui stiamo ancora soffrendo le conseguenze, il settore finanziario viene, forse giustamente, percepito come una fonte di pericolo per il resto della società. Ma non è stato sempre così e sembra ragionevole anche in questo caso separare il grano dal loglio: anche perché, così facendo, forse potremmo scoprire qualcosa di interessante perfino sulle cause di questa crisi finanziaria.

Prima del 1998 le banche d'investimento e altre imprese dedite alla vendita di titoli finanziari operavano senza il vantaggio della proprietà intellettuale. Nel campo dei titoli finanziari il ritmo molto rapido dell'innovazione prima del 1998 è ben documentato da moltissimi autori. Poiché vorremmo evitare di entrare nei dettagli tecnici dell'innovazione finanziaria, chiediamo al lettore di fidarsi, per così dire: alla fin fine l'unica cosa che ci interessa è il fatto, abbastanza incontrovertibile, che la grande maggioranza delle innovazioni finanziarie attuali, incluse molte di quelle che sono servite a costruire i castelli di carta crollati dopo il 2007, erano state introdotte prima del 1998.

Tre caratteristiche di questo mercato sono particolarmente degne di nota. La prima è che innovare nel settore dei titoli finanziari costa molto, per la semplice ragione che le persone coinvolte in questo processo vengono pagate con quantità esorbitanti di soldi: legittimi o meno che siano gli stipendi di questi signori – e noi dubitiamo assai che lo siano –, rimane il fatto che un'innovazione finanziaria costa molto; magari non quanto una nuova medicina, come vedremo nel capitolo 8, ma poco ci manca. La seconda caratteristica che vorremmo sottolineare è che le innovazioni finanziarie vengono imitate rapidamente – molto rapidamente – dai concorrenti. La terza è che esiste un evidente vantaggio nell'essere i primi a innovare, visto che l'innovatore detiene un 50-60% del mercato anche nel lungo periodo. Alla luce di queste tre caratteristiche e del fatto che, nel bene o nel male, il settore delle banche d'investimento è cresciuto enormemente dalla fine degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta, possiamo concludere, per l'ennesima volta, che, anche nella più completa assenza di una qualsiasi forma di monopolio intellettuale, la concorrenza genera innovazione redditizia e in proporzioni elevatissime (con il senno di poi, forse persino eccessive).

Questa storia è comunque finita ben prima del recente crash finanziario: il 23 luglio del 1998, nel caso State Street Bank & Trust Co. vs Signature Financial Group, Inc., la Corte d'Appello per il circuito federale degli Stati Uniti ritenne che uno specifico (e relativamente semplice) metodo di classificazione finanziaria fosse brevettabile da un gruppo finanziario che sosteneva di averlo inventato. Dopo questa sentenza sono diventati brevettabili, almeno nella misura in cui sono inclusi in un codice di un computer, sia i metodi aziendali sia gli algoritmi matematici. Di conseguenza, si possono ora brevettare i titoli finanziari, perché ognuno di essi altro non è che la combinazione di metodi aziendali e contrattuali e di algoritmi di calcolo. Oggi esistono già decine di migliaia di invenzioni finanziarie brevettate, ed esse sono – che questo piaccia oppure no – gli strumenti che alimentano quel mercato over the counter che gli ultimi tre anni hanno reso tristemente famoso. Infatti, una delle ovvie implicazioni dell'adozione della protezione brevettuale per i titoli finanziari consiste nel fatto che ormai ogni prodotto va in cerca della propria nicchia di mercato e non viene condiviso dagli altri operatori. Ecco perché il prodotto finanziario non è più standardizzabile e, non potendo essere trattato su mercati pubblici organizzati, la sua commercializzazione non può che avvenire attraverso transazioni bilaterali, le quali, per definizione, sono opache. Ma non è questo né il momento né il luogo per addentrarsi in una discussione sul ruolo giocato dal monopolio intellettuale nella costruzione di quel sistema di monopòli incrociati che permea oggi il mercato finanziario americano e mondiale. A noi interessa semplicemente stabilire che fino alla fine degli anni Novanta il settore finanziario era privo di monopolio intellettuale ed era sia altamente innovativo che aperto alla concorrenza; dopo l'introduzione del monopolio intellettuale, circa dodici anni fa, non si sono visti segni che questa rinnovata assegnazione dei diritti di proprietà abbia generato qualche particolare ondata di innovazioni socialmente utili, né una crescita economica senza precedenti.


Design

Per ragioni storiche e pratiche, né il design della moda né il design in generale (architettura, mobili, illuminazione, ecc.) sono – o meglio erano fino a poco fa – protetti in modo efficace da brevetti e copyright. Sicuramente i brevetti sul design esistono, sono descritti scrupolosamente in ponderosi manuali, e centinaia di domande di brevetti sono presentate ogni mese allo USPTO (United States Patent and Trademark Office) o all'ufficio brevetti, italiano o di qualsiasi altro paese. Ciononostante, l'esperienza quotidiana dimostra che, nel design, l'imitazione è tanto diffusa e frequente quanto la sabbia nel deserto del Sahara.

I concetti generali – e anche quelli specifici e particolari – del design non sono, di fatto, brevettabili. Da un lato, troppe caratteristiche del design di un oggetto che si intenda utilizzare sono dettate da preoccupazioni di carattere funzionale e, dall'altro, ogni minima variazione ornamentale è sufficiente a ottenere un certo design diverso da quello originale. Dal punto di vista pratico, questo significa che le compagnie automobilistiche imitano a vicenda i modelli e lo stile delle loro auto; gli architetti e gli ingegneri progettano gli stessi edifici e gli stessi ponti, per non parlare degli edifici universitari; i produttori di mobili si copiano i letti, i divani e i tavolini, mentre tutti i produttori di lampade se ne escono costantemente con l'ennesima variante della lampada di Artemide che ha avuto tanto successo e, per la medesima ragione, tutti i tailleur da donna sono imitazioni di quello di Chanel.

Mentre il design non è l'unico elemento che definisce un cappotto o un divano, esso sta diventando sempre di più il fattore attorno al quale si costruisce il vantaggio competitivo. Anche l'osservatore più occasionale non può non accorgersi dell'enorme attività innovativa che si realizza, nel settore dell'abbigliamento e degli accessori, ogni tre-sei mesi, e di come a essa faccia seguito, quasi senza soluzione di continuità, un'ancora più intensa frenesia imitativa. Pochi disegnatori, i più famosi, gareggiano per stabilire lo stile con cui si vestiranno durante i successivi tre mesi le persone facoltose e che sarà enormemente imitato, poco dopo (nel senso letterale dell'espressione), dai produttori di massa di abbigliamenti per i meno abbienti. Il nuovo fenomeno mondiale, da questo punto di vista, è la compagnia di abbigliamento Zara (con i suoi numerosi imitatori), la quale mostra che si può portare al mercato di massa il design introdotto per la clientela esclusiva con un ritardo che va dai tre ai sei mesi. Nonostante questo enorme processo di libera imitazione, gli innovatori originali continuano a innovare e ad arricchirsi.


Sport

Iniziamo da una domanda, senz'altro retorica oltre che un po' strana, nella speranza che diventi chiaro in poche righe perché vale la pena porsela. Se il monopolio intellettuale è uno strumento pubblico adeguato a incoraggiare l'innovazione (brevetti e copyright sono, dopotutto, delle leggi dello Stato che quest'ultimo fa rispettare con grande dispendio di mezzi), perché non viene utilizzato con lo stesso scopo nel settore privato? Un esempio calzante è quello delle leghe sportive: per esempio, tanto per non andare troppo lontani, la Lega Calcio in Italia.

Di solito queste leghe esercitano un potere quasi assoluto su uno sport e sulle regole che lo governano, nonché un controllo pieno sull'ambito commerciale, e inoltre le imprese che le compongono (non bisogna mai dimenticare che dietro ogni squadra di calcio c'è sempre qualcuno che ci fa i soldi) beneficiano economicamente di qualsiasi cosa possa aumentare la domanda dei loro prodotti. L'innovazione è importante anche nello sport: nuove tecniche come il Fosbury Flop nel salto in alto, l'offensiva a triangolo nella pallacanestro, il catenaccio e le sue mille varianti nel calcio, sono tutti, in un certo senso, prodotti nuovi o nuove tecniche di produzione che intendono fornire una maggiore soddisfazione al consumatore affinché moltiplichi i suoi acquisti nell'ambito dello sport in questione o sia disposto a pagare un prezzo maggiore. Poiché le leghe sportive sono nella condizione di incoraggiare tutte le innovazioni per le quali il beneficio supera il costo, potrebbero anche implementare un sistema privato di proprietà intellettuale, nel momento in cui dovesse sembrare loro vantaggioso. In altri termini, niente impedisce, per esempio, alla Lega italiana calcio di concedere diritti esclusivi di una nuova giocata, per un certo periodo di tempo, all'allenatore o alla squadra che per primo l'abbia praticata o fatta registrare. Nel calcio questo è forse più complicato per la fluidità apparentemente irregolare del gioco, ma idee come l'introduzione del libero o del terzino che di tanto in tanto attacca sarebbero anch'esse, almeno potenzialmente, brevettabili. Basterebbe continuare ad aggiungere regole del tipo «il giocatore nella posizione iniziale X non può fare le azioni A, B, C... a meno che la sua squadra non sia titolare del loro brevetto» e si replicherebbero esattamente quelle che i governi fanno rispettare quando concedono un brevetto a qualcuno: vietano a chiunque altro di fare la medesima cosa! Il fatto che non si conosca nessuna lega sportiva dove si sia anche lontanamente considerata una tale cretinata dovrebbe far riflettere. Perché ciò che ci appare, giustamente, come un'assoluta cretinata che ingesserebbe lo sport e ne ridurrebbe enormemente l'attrattiva, costituisce esattamente il tipo di regola che invece seguiamo nella maggior parte dei settori economici da cui dipende non tanto il nostro divertimento domenicale ma il nostro benessere complessivo.

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Il groviglio dei brevetti

L'enorme aumento nel numero di brevetti è in parte dovuto al fatto che i brevetti generano altri brevetti per la difesa dai brevetti già esistenti. Non è uno stupido gioco di parole, ma un dato di fatto.

Gli esperti e gli avvocati chiamano questa costosissima attività «navigare nel groviglio dei brevetti», e attorno a essa, negli ultimi venti anni, è nata un'intera letteratura, per non parlare della nuova lucrativa professione. Tutto ciò non assomiglia forse all'equilibrio del terrore fra USA e URSS, quando entrambi detenevano migliaia di costosissime testate nucleari che speravano di non utilizzare mai? Il signor Sewell, un alto dirigente di Intel, ce lo conferma:

Deteniamo 10.000 brevetti – è un incredibile ammontare di brevetti. Sarei contento di averne 1.000 invece che 10.000? Sì, a patto che il resto del mondo facesse la stessa cosa.

La situazione è quindi affine a quella della guerra fredda, durante la quale si possedevano di solito migliaia di costose armi nucleari per motivi difensivi: le società spendono oggi un congruo ammontare di soldi per ottenere e mantenere brevetti difensivi. Poiché i tribunali e gli uffici brevetti accettano richieste sempre più stravaganti, si è ampiamente incentivati a sprecare risorse per procurarsi brevetti che hanno una sola funzione: ricattare, in futuro, delle imprese realmente innovative che abbiano inventato, e messo in produzione con successo, qualcosa che assomigli a ciò che qualche anno prima si era soltanto brevettato, ma che non era stato effettivamente inventato e prodotto. Il lettore penserà che siamo impazziti: come sarà mai possibile brevettare qualcosa senza inventarlo e produrlo veramente? Niente di più facile, invece. Si consideri, fra le centinaia possibili, il caso di Panip IP LLC, una compagnia formata per spillare soldi a piccole e medie imprese con la scusa dei brevetti. Considerate l'interpretazione da loro proposta per due brevetti di cui detengono i diritti:

– Brevetto U.S. N. 5.576.951: utilizzare informazioni grafiche o di testo su uno schermo video con lo scopo di compiere una vendita;

– Brevetto U.S. N. 6.289.319: accettare informazioni per condurre transazioni finanziarie automatiche tramite linea telefonica o schermo video.

Ovviamente Panip non ha contribuito per nulla allo sviluppo di queste attività: ha solo registrato un brevetto decisamente generico che descrive un'attività molto ovvia e che era ragionevole aspettarsi che qualcuno avrebbe davvero sviluppato. Le imprese come Panip abbondano sia negli USA sia, sempre più, anche in Europa. L'ammontare richiesto alla vittima per concedere la licenza viene tenuto sufficientemente basso da rendere più conveniente pagare che andare in tribunale.

Si legge spesso che i brevetti sono utili alle piccole imprese, specialmente nella biotecnologia e per i software: senza brevetti, si dice, le piccole imprese non avrebbero alcun potere contrattuale e non potrebbero nemmeno tentare di sfidare quelle più grosse. Questa argomentazione, tuttavia, è fallace almeno per due motivi. Innanzitutto, non considera nemmeno la più ovvia controargomentazione: quante nuove imprese cercherebbero di innovare se non ci fossero i brevetti, cioè se l'impresa dominante non prevenisse la loro entrata acquisendo brevetti su più o meno tutto ciò che appaia ragionevolmente fattibile in quel comparto? Per ogni piccola impresa che trova una nicchia vuota nella foresta dei brevetti, quante ne sono state tenute fuori dal fatto che tutto ciò che volevano usare o produrre era già stato brevettato da qualcuno ben più grosso?

In secondo luogo, coloro che sostengono l'utilità dei brevetti per le piccole imprese non si rendono conto che, in questi settori, molte piccole imprese sono spinte a presentarsi come una compagnia con una sola idea, con la mira di farsi acquistare da una grossa impresa. In altre parole, la presenza di un groviglio di brevetti crea un incentivo a non competere con il monopolista, ma a cercare semplicemente qualcosa di valore da offrirgli, tramite un nuovo brevetto, al prezzo più alto possibile, per poi togliersi di mezzo. Bisogna ammettere, tuttavia, che quello che può essere piuttosto vantaggioso per alcuni imprenditori fortunati, che riescono a vendere a un buon prezzo a un monopolista, non è certo il sistema economico che, come società, vorremmo fosse operante. Esso non offre alcun beneficio ai consumatori – che continuano a vivere in un mondo monopolizzato pagando prezzi alti per prodotti scadenti – né agli imprenditori potenziali, che, semplicemente, non possono entrare nell'arena a competere. Questa è inefficienza-PI al lavoro per voi.

Insomma: i brevetti sono solo uno strumento di scambio tra i «bulli del quartiere». Invece di un mercato concorrenziale per le innovazioni, abbiamo un mercato oligopolistico per brevetti, strutturato attorno al meccanismo del patent pool che abbiamo presentato nel capitolo precedente.

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Pagina 93

Brevetti sottomarini

Un metodo particolarmente evidente di abuso consiste nel cosiddetto «brevetto sottomarino». Fino a poco tempo fa, la lunghezza dei termini di un brevetto era misurata dal momento in cui veniva assegnato; prima dell'assegnazione, l'esistenza del brevetto è segreta, ed è possibile procrastinare l'assegnazione del brevetto presentando emendamenti. Mentre il termine del brevetto veniva misurato dalla data dell'assegnazione, l'attività creativa che lo precede e la validità del brevetto sono misurati dalla data della sottomissione. Questa combinazione legale rende possibile il brevetto sottomarino, ossia la richiesta di un brevetto per un'idea molto ampia e vaga che potrebbe, un giorno, divenire utile se qualcuno inventasse qualcosa che potrebbe avere a che fare con la vaga descrizione fornita. L'esistenza della richiesta è segreta (sottomarina, appunto) e l'esame relativo viene trascinato nel tempo, nella speranza che qualche innovatore effettivo investa tempo e denaro per creare qualcosa di utile che assomigli a ciò che il brevetto descrive: in quel momento, la presentazione di emendamenti si interrompe, il brevetto viene assegnato e il sottomarino emerge per incassare le royalties che derivano dalla licenza di usare il proprio brevetto!

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Pagina 98

L'industria musicale, raccolta nella RIAA (Recording Industry Association of America), ha preso anch'essa una serie di giganteschi granchi legali. Nel 1998 fece causa a una piccola compagnia relativamente sconosciuta, la Diamond Multimedia Systems. Il crimine della Diamond? Avevano iniziato a vendere uno strumento elettronico portatile in grado di riprodurre musica in un formato compresso all'epoca non ampiamente noto: l'MP3. Non solo la RIAA riuscì a perdere la causa, ma la pubblicità generata dal caso giudiziario giocò un ruolo importante nella divulgazione del formato tra i consumatori. Dopo che i giornali diedero largo spazio al caso, gli aficionados della musica si precipitarono ai loro computer per convertire i propri scomodi e vecchi CD in convenienti collezioni di MP3.

Il gigantesco trasferimento di musica da CD a files MP3 che iniziò nel 1998 è largamente responsabile del capitolo successivo nella saga della RIAA: la nascita dei networks P2P. Con l'avvento di Napster, nel 1999, gli amanti della musica scoprirono che, specialmente tramite connessioni a banda larga, canzoni formattate in MP3 potevano essere trasferite attraverso la rete in maniera conveniente. Gli avvocati della RIAA denunciarono la piccola compagnia chiamata Napster, ma la querela poté fare ben poco per impedire il dilagare della tecnologia (sebbene, forse, abbia aiutato a pubblicizzarla fra gli utenti della rete). I documenti giudiziari indicano che, all'epoca, Napster contava meno di 500 mila utenti (fra cui noi due); a metà del 2000, grazie all'enorme pubblicità del caso, Napster dichiarò di avere quasi 38 milioni di utenti in tutto il mondo. Nel 2001 la RIAA trionfò in appello e un'ingiunzione contro Napster determinò la chiusura di fatto di quella rete, portando Napster nel 2002 alla bancarotta. Questa vittoria della RIAA è stata così efficace che, nel 2010, si stima che, soltanto negli Stati Uniti, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone che si scambiano musica usando reti del tipo P2P (da pari a pari).

Considerate, ancora, la pluriennale controversia sul progetto Google Print, che dopo essersi chiamato Google Book Search è stato ora ribattezzato Google Books ed è ormai diventato l'ombra di se stesso. Il progetto iniziò, o meglio venne reso pubblico, alla fine del 2004. Dieci mesi dopo fioccavano già le denunce da parte del Sindacato degli Autori e di una associazione di cinque grandi editori USA. Alle due iniziali ne seguirono svariate altre, tutte basate sulla medesima accusa: Google violava l'uso equo dei libri presenti nelle biblioteche universitarie che avevano aderito al progetto di Google Print, trasgredendo, a loro avviso, la legge sul copyright. La battaglia legale iniziata cinque anni fa dura in parte tutt'ora e si è ormai estesa su scala mondiale; nonostante siano stati raggiunti, nel frattempo, svariati accordi (uno peggio dell'altro dal punto di vista del consumatore di libri, ossia del lettore), le case editrici e i sindacati degli autori non sembrano in grado di convivere con un'innovazione socialmente tanto utile quanto Google Print sarebbe potuta essere. Nel tentativo di prevenire i danni finanziari che la lunga sequenza di denunce avrebbe potuto provocare a un'impresa che stava, nel frattempo, arricchendosi a dismisura grazie ai suoi successi in altri campi, Google ha finito per accettare le richieste e le restrizioni più incredibili, modificando di conseguenza il prodotto fino a renderlo irriconoscibile e venendo a creare una situazione di novello monopolio condiviso fra Google e le associazioni che rappresentano autori ed editori. Chiunque avesse usato Google Print nel 2004, e usi Google Books nel 2010, può apprezzarne le enormi differenze: il Google Print originale era un meraviglioso strumento di ricerca bibliografica che ci ha fatto acquistare molti libri utili e apprendere cose per cui, altrimenti, avremmo dovuto spendere ore oppure mesi; il Google Books disponibile ora in rete è un programma evirato e frustrante, il cui valore sociale e la cui commerciabilità non sono per nulla evidenti: non solo risulta palese come sia infinitamente meno utile del suo antenato, ma ci chiediamo se, alla fine, possa anche essere economicamente redditizio.

Qual era il piano originale di Google Print? Quello di scannerizzare e digitalizzare tutti i libri disponibili in una serie di grandi biblioteche universitarie di tutto il mondo, permettendo poi agli utenti di ricercarne gratuitamente i contenuti, tramite la rete, nel tradizionale stile di Google. Google Print permetteva all'utente di consultare numerosi paragrafi, spesso intere pagine, di ogni libro in cui le parole oggetto di ricerca fossero menzionate: in tal modo l'utente poteva capire se, in ogni dato libro, le parole in questione apparissero per puro caso o fossero oggetto del tipo di trattazione che egli andava cercando. Insomma, Google Print consentiva all'utente di rendersi conto se il libro in questione fosse o non fosse utile per apprendere qualcosa sul tema che lo interessava. La cosa più importante era che, da un qualsiasi angolo del mondo, rendeva possibile ricercare gratuitamente, in modo praticamente istantaneo e con l'ausilio di un algoritmo estremamente intelligente, il contenuto delle migliori biblioteche del mondo. Accanto alla lista dei libri in cui il tema appariva, Google Print permetteva anche connessioni a diverse librerie online, dove il libro poteva facilmente essere acquistato con spedizione a domicilio. Con l'avvento di Kindle e di altri lettori di libri elettronici, uno strumento come Google Print avrebbe permesso a chiunque di passare in pochi minuti o, per quelli sicuri del fatto proprio, in alcuni secondi da una curiosità estemporanea sulla natura dei buchi neri alla lettura di un testo di Subrahmanyan Chandrasekhar. Tutto qui.

Ci è difficile concepire, per il libro, un migliore strumento di pubblicità con vendita allegata. Questo servizio era offerto gratuitamente ad autori ed editori e le sue potenzialità commerciali erano palesemente enormi. Google, ovviamente, ci avrebbe guadagnato alla grande attraverso la pubblicità, ma senza togliere nulla a nessuno, anzi aumentando la torta a disposizione di autori ed editori. A questo servono, infatti, le grandi invenzioni socialmente benefiche: ad aumentare la torta a disposizione di tutti ricompensandone, contemporaneamente, l'inventore. Tuttavia il Sindacato Autori fece causa a Google e, in compagnia delle associazioni degli editori, arrivò, alcuni anni dopo, a soffocarlo in modo definitivo. Infatti nel 2010 la versione Google Books rende possibile fare quanto appena descritto soltanto per un numero ristretto di libri, quasi tutti pubblicati almeno novant'anni fa e praticamente impossibili da acquistare. Quando l'utente cerca un tema di cui si parli in libri pubblicati negli ultimi decenni, egli riceve in risposta solo qualche riga di testo. Spesso appaiono righe in cui le parole ricercate... nemmeno ci sono! È impossibile, in queste condizioni, comprendere se il tema viene discusso, nel libro in questione, in maniera da toccare l'interesse del lettore. Spesso, infatti, non si capisce affatto di cosa il libro parli, se sia utile o meno all'utente, se sia ben scritto o mal scritto, accessibile o incomprensibile. Uno strumento decisamente poco utile, visto che, di fronte a una lunga lista di titoli di libri non esplorabili, non resta che abbandonare la ricerca maledicendo coloro i quali hanno avuto la balzana idea di fare causa a Google, e anche, ovviamente, la legislazione che glielo ha permesso: inefficienza-PI alla massima potenza.

A fronte di questo ennesimo esempio di ottusa ostruzione del progresso economico e sociale, il lettore potrebbe chiedersi: perché un monopolista incompetente è così evidentemente più pericoloso che, per esempio, un cuoco di fast food incompetente? La ragione è molto semplice: la concorrenza tende a eliminare gli incompetenti facendo fallire le aziende in cui lavorano o quelle che dirigono, mentre il monopolio permette loro di sopravvivere e prosperare a spese di tutti gli altri.

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Errori nei brevetti

Il settore privato non ha il monopolio sulla stupidaggine. I burocrati governativi, infatti, sono noti per la loro inefficienza e l'Ufficio Brevetti Americano non fa eccezione: la loro incompetenza fa aumentare il costo per ottenere un brevetto, anche se questo è un effetto minore e, forse, positivo più che negativo. Il danno arriva quando si scopre che vengono assegnati con grande frequenza brevetti totalmente demenziali o pretestuosi. Dal momento che, dal punto di vista legale, un brevetto è legittimo finché non sia provato il contrario, il detentore del brevetto si ritrova in una posizione di sostanziale vantaggio, visto che egli lo può usare come strumento di estorsione (si ricordi il caso dei sottomarini) o per altri scopi. Ecco una breve serie di idee che l'Ufficio Brevetti Americano ha considerato meritorie di brevetto negli anni recenti:

- Brevetto U.S. 6.080.436: tostare pane in un tostapane che opera tra i 2.500 e i 4.500 gradi Fahrenheit (circa 1.400 e 2.500 Celsius);

– Brevetto U.S. 6.004.596: il sandwich senza crosta, con burro di arachidi e marmellata, sigillato;

– Brevetto U.S. 5.616.089: un metodo di putting secondo cui il giocatore di golf controlla la velocità e la direzione del putt prevalentemente con la mano dominante, e che tuttavia utilizza la mano non dominante del giocatore per mantenere stabile la testa del putter;

– Brevetto U.S. 6.368.227: viene svelato un metodo per oscillare su un'altalena, in cui un utente posizionato su una tradizionale altalena sospesa tra due catene dal ramo di un albero sostanzialmente orizzontale causa un movimento da un lato all'altro grazie al tiro alternato prima di una catena e poi dell'altra;

- Brevetto U.S. 6.219.045: dal comunicato stampa di Worlds.com: «[Il brevetto fu assegnato] per la sua tecnologia scalabile di server 3D... [dall'] Ufficio Brevetti Americano. La Compagnia crede che il brevetto si possa applicare ad aree di Internet correnti e utilizzate per giochi multiuso, e-Commerce, disegno di web, pubblicità e mondo dello spettacolo». Un'ammissione rassicurante che, invece di inventare qualcosa di nuovo, Worlds.com semplicemente ha brevettato qualcosa che veniva già ampiamente utilizzato;

– Brevetto U.S. 6.025.810: questa invenzione prende una trasmissione di energia, e invece di mandarla attraverso i normali tempo e spazio, crea un piccolo buco in un'altra dimensione, dunque invia l'energia attraverso un luogo che ne permette la trasmissione a una velocità superiore a quella della luce.

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Tutto è bene quel che finisce bene? Non siamo di questo avviso. Come il lettore italiano ben sa, da diversi anni il governo italiano — specialmente, ma non esclusivamente, quello presieduto da Silvio Berlusconi — ha tentato in mille forme di controllare l'informazione liberamente diffusa in rete utilizzando provvedimenti legislativi che si fondano e si giustificano, l'uno più l'altro meno, in base alla Direttiva 2001/29/EC e agli assurdi princìpi a essa sottostanti. Molto spesso l'intenzione del legislatore non è nemmeno quella di far applicare la legislazione sul copyright in sé bensì, più gravemente, quella di controllare e manipolare la libera informazione, impedendo che certi fatti sgraditi o certe opinioni non conformi circolino fra il pubblico. Per ottenere questi risultati si sfrutta, maliziosamente, il principio della difesa del diritto di copyright, argomentando che iniziative come quella di Wikileaks, per menzionare un esempio sia noto sia recente, lo infrangono.

Proprio mentre correggiamo le bozze dell'edizione italiana del libro è esplosa in Italia la polemica relativa alla versione iniziale di una delibera AgCom, la quale, molto sommariamente, minacciava la chiusura per via amministrativa di siti che, anche per uso non commerciale, venissero accusati dall'autorità medesima di riprodurre o rendere disponibile materiale protetto da copyright. La versione iniziale della delibera era il classico tentativo di prendere non due ma addirittura tre piccioni con una fava: fare, anzitutto, un nuovo e ingiustificato favore alle grandi compagnie mediatiche restringendo ulteriormente e in modo abnorme l'uso altrimenti legittimo di materiali coperti dal diritto d'autore; colpire in tal modo la rete, i bloggers, l'informazione prodotta direttamente dai cittadini e, più in generale, la libertà di espressione che attraverso la rete si realizza; in terzo luogo, soddisfare le ossessioni regolatorie di un'agenzia e del suo presidente che, in preda a una concezione autoritaria e legalistica della loro funzione di «garanti», anziché operare per la libertà di comunicazione sembrano tentare a ogni piè sospinto di imbavagliarla mediante regolamenti tanto antiliberali quanto ostili alla creatività.

La reazione — da parte sia degli operatori della rete sia dei suoi utilizzatori sia dell'opinione pubblica in generale — è stata particolarmente forte e ha portato a una immediata revisione della delibera originale. Un rapido esame della versione aggiornata, tuttavia, non solleva particolarmente lo spirito: l'impianto di fondo, teso a utilizzare il diritto d'autore per limitare la libertà d'espressione, rimane intatto. Visto che in Italia il dibattito e lo scontro politico su tale questione sono ancora in corso, ci fermiamo qui ed evitiamo di esprimere ulteriori giudizi.

In ogni caso, e comunque vada a finire, questo ennesimo episodio supporta ulteriormente la nostra conclusione: il principio stesso del copyright è altamente dannoso non solo per i guasti economici che causa, non solo perché restringe la creatività, ma anche — e forse soprattutto — perché apre la porta ad arbitrarie restrizioni della libertà di informazione.

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La distinzione che abbiamo appena introdotto fra idea (astratta, invendibile) e copia dell'idea (concreta, vendibile) è forse sottile ma senza dubbio cruciale. Considerate il seguente esempio: se vendo a un'altra persona le mie scarpe, esse non sono più in mio possesso; la vendita delle scarpe implica il trasferimento fisico di qualcosa di materialmente unico in modo che, una volta che vendita e trasferimento si siano compiuti, il possessore originale risulta escluso dalla fruizione di quella cosa. Lo stesso ragionamento vale per un servizio: se acquisto un'ora di massaggio da X, solo io posso usufruire di quella specifica ora di massaggio, mentre ogni altra persona ne viene esclusa. Eppure, se vendo a una persona un'idea (possibilmente facendogliela capire), la mia copia di quell'idea rimane in mio possesso, mentre appare una seconda copia della medesima idea nella testa, o nel computer, o nelle mani del signore a cui l'ho venduta. Una volta effettuata la transazione, io rimango con la mia copia della mia idea e un certo ammontare addizionale di denaro, mentre il signore in questione si ritrova con una nuova copia dell'idea e un po' di denaro in meno. In un regime di proprietà privata «normale» egli è ora libero di fare ciò che desidera con la copia dell'idea che ha appena acquistato, come io sono libero di fare ciò che più mi aggrada con la copia che ho mantenuto per me. In presenza di un brevetto, invece, quando un inventore vende i diritti di esclusiva di un'idea, ciò che viene smerciato è una copia dell'idea più i diritti (acquisiti dal compratore) di impedire, ora, che l'inventore originale usi la copia di quella (sua) idea che rimane comunque in suo possesso.

In alternativa, quando un inventore dà in licenza l'uso della sua idea, ciò che viene venduto al licenziatario sono soltanto copie dell'idea, mentre i diritti di dire ai proprietari di dette copie cosa farne e cosa non farne rimangono all'inventore originale. Queste osservazioni dovrebbero fare intendere in che senso ciò che viene (erroneamente, a nostro avviso) chiamato proprietà intellettuale contenga un elemento aggiuntivo rispetto alla versione corrente della proprietà privata: la proprietà intellettuale, infatti, contiene anche íl diritto di esclusione dall'uso, ossia il diritto di monopolizzare una certa idea (astratta) impedendo ad altri il libero utilizzo delle loro copie. Per questo abbiamo adottato l'espressione «monopolio intellettuale».

In assenza di monopolio intellettuale, una volta che io abbia venduto volontariamente una copia della mia idea ad altri – per esempio una copia di questo meraviglioso libro –, costoro diventano i proprietari di quella copia mentre io serbo la mia idea insieme a tutte le altre copie che ho stampato ma non ancora venduto. Effettuata questa vendita, gli acquirenti possono fare ciò che pare loro più appropriato con le copie della mia idea, nello stesso modo in cui possono fare ciò che pare loro con il tritaghiaccio che avevano comprato ieri da qualcun altro. Senza proprietà intellettuale, in particolare, gli acquirenti di questo libro potrebbero dedicare del tempo e delle risorse per farne delle nuove copie al fine di rivenderle: se ne cambiassero il titolo oppure il nome degli autori o se si lanciassero in qualche inganno fraudolento, si tratterebbe di plagio, non di violazione della proprietà intellettuale; ma se cambiassero la copertina, la qualità della carta, la fonte dei caratteri, la catena distributiva oppure il medium che divulga il testo originale – o perfino se modificassero il testo, inserendo un chiaro riferimento all'autore originale – non verrebbe violato alcun diritto di proprietà. In questa maniera, aumenterebbe la concorrenza nel mercato dei libri e delle idee. Ovviamente, mantenendo ferma questa consapevolezza, in un mondo privo di copyright la vendita delle prime copie di un'idea, o di un libro, avverrebbe quasi certamente a un prezzo differente da quello a cui avviene attualmente. Ma questo è un problema diverso su cui ritorneremo più avanti.

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Come abbiamo visto nel capitolo 3, gli economisti chiamano surplus sociale il beneficio netto totale che deriva da un'azione di scambio. A mezzo del monopolio intellettuale, l'innovatore riscuote una quota del surplus sociale che egli genera; in condizioni di concorrenza, invece, riscuote una quota più piccola del surplus sociale, ma non una quota nulla. Quando tale quota è sufficiente a compensare l'innovatore per i costi della creazione, l'allocazione delle risorse economiche è efficiente: non vengono generate né troppe né troppo poche innovazioni, e il surplus sociale risulta massimizzato. Si potrebbe mostrare matematicamente che, in una varietà di meccanismi concorrenziali, il valore privato di cui un innovatore si appropria aumenta con il surplus sociale della sua invenzione. In parole povere: gli inventori dei migliori gadgets fanno più soldi degli altri anche senza monopolio intellettuale. E questo vale anche quando il valore privato diventa una quota più piccola del surplus sociale all'aumentare di quest'ultimo.

Insistiamo a parlare di una quota del surplus sociale, anziché dell'intero surplus. Contrariamente a ciò che molti sapientoni ripetono in continuazione, perfino in presenza di monopolio intellettuale gli innovatori ricevono meno del 100% del surplus sociale creato dalla loro innovazione, mentre il resto va ai consumatori. In condizioni di concorrenza, invece, í consumatori ricevono una quota maggiore e l'innovatore una minore. I medesimi sapientoni sembrano preoccupati dal fatto che l'innovatore non si appropri del 100% del surplus sociale che la sua innovazione genera. Che i mercati concorrenziali permettano al surplus sociale di essere conquistato, in parte, da persone diverse dai produttori ci sembra, in effetti, una delle loro caratteristiche più preziose, almeno dal punto di vista del benessere collettivo: questo è ciò che fa del mercato concorrenziale con proprietà privata un buon sistema anche per chi, tra di noi, non riscuote troppo successo nella competizione che esso provoca. Il fine ultimo dell'efficienza economica non è rendere i monopolisti i più ricchi possibile, ma in effetti è quasi l'opposto: portarci tutti alla migliore condizione possibile, per ogni data tecnologia. Per ottenere questo risultato i produttori devono essere compensati per i loro costi, ricevendo l'incentivo economico a fare ciò in cui eccellono: ma non c'è bisogno di compensarli più di così. Se, vendendo la versione originale della sua idea in un mercato concorrenziale e pertanto piantando le radici dell'albero da cui deriveranno le altre copie, l'innovatore guadagna il sufficiente per coprire i suoi costi di opportunità – cioè guadagna quanto o più di quanto avrebbe guadagnato se si fosse dedicato alla seconda in graduatoria fra le attività in cui eccelle – allora possiamo dire che si è raggiunta un'allocazione efficiente.

Il giardino dell'eden ritratto finora si fonda sul principio fondamentale secondo cui sono le copie di un'idea ad avere valore economico e ci possono essere molte copie della stessa idea astratta. Le copie di idee sono sempre limitate ed è sempre costoso replicarle: per questo sono preziose e devono godere della stessa protezione fornita a tutti i tipi di proprietà. Non dovrebbero essere portate via senza permesso, e il possessore dovrebbe avere il diritto legale di venderle. Copyright e brevetti, però, non sono necessari per fornire questa protezione, perché sono invece il diritto addizionale – e non necessario – di poter ordinare ad altra gente ciò che non può fare con le copie che ha legalmente acquistato. Se alle idee fornissimo esclusivamente questa protezione e non quella straordinaria della proprietà intellettuale, gli imprenditori tirerebbero fuori ancora delle buone idee per venderne copie ad altra gente? Potete scommetterci, lo farebbero!

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Conclusioni



In un famoso studio del 1958 sul sistema dei brevetti il celebre economista Fritz Machlup, parafrasando una dichiarazione della sua coautrice di lunga data Edith Penrose, concluse che:

Se non avessimo un sistema di brevetti, sarebbe irresponsabile, sulle basi della nostra attuale esperienza delle sue conseguenze economiche, raccomandare di istituirne uno. Ma poiché è da lungo tempo che abbiamo un sistema di brevetti, sarebbe irresponsabile, sulle basi della nostra attuale conoscenza, raccomandare di abolirlo.

Quasi cinquant'anni dopo, la prima metà di questa illustre frase è più valida che mai. Dal momento che, durante i cinquant'anni trascorsi dallo scritto di Machlup, abbiamo anche accumulato ulteriori evidenze che i brevetti non servono ad aumentare l'innovazione, è tempo di riconsiderare la sua seconda raccomandazione.

Sulle basi dell'attuale esperienza, la lenta ma definitiva abolizione della proprietà intellettuale appare oggi come l'unica strategia socialmente responsabile. Scartarla a priori dall'insieme delle politiche adottabili, come è usuale nelle discussioni pubbliche, sarebbe miope ora esattamente come sessanta anni fa scartare a priori l'ipotesi che la completa abolizione delle barriere al commercio internazionale potesse essere raggiunta. Non dimentichiamoci che, per lungo tempo, chi ricavava sostanziali benefici dalle barriere al commercio internazionale andò sostenendo che la loro presenza aumentava la ricchezza della nazione e che abolirle avrebbe causato il catastrofico fallimento di centinaia di imprese. Ci volle un bel po' per capire che questo non era affatto vero e che le barriere al commercio non erano altro che degli strumenti per generare rendite artificiali a favore di una minoranza privilegiata, danneggiando chiunque altro. Quanto era vero sessanta anni fa per le barriere al commercio internazionale è vero oggi per brevetti e copyright.

Stabilito che in linea di principio la completa abolizione del monopolio intellettuale deve essere considerata come un serio obiettivo strategico, conviene anche fare una pausa. Poiché brevetti e copyright sono in giro da lungo tempo, abbiamo imparato a convivere con essi e a essi ci siamo adattati. Una miriade di altre istituzioni, pratiche di affari e conoscenze professionali si sono sviluppate attorno e in simbiosi con la proprietà intellettuale. Di conseguenza, un'improvvisa eliminazione dei brevetti e del copyright potrebbe causare danni collaterali di dimensioni intollerabili.

Prendete per esempio il caso dei prodotti farmaceutici: non solo i farmaci sono brevettati, ma sono anche regolati dal governo in una miriade di modi diversi. Secondo il sistema vigente, per esempio, negli USA, per ottenere l'approvazione della FDA è necessario superare costosi esami clinici, e i risultati di quegli esami vengono resi disponibili gratuitamente ai concorrenti. Abolire i brevetti chiedendo alle compagnie farmaceutiche, al contempo, di mettere i propri risultati a disposizione gratuita dei concorrenti non può essere una buona riforma. È ovvio che non si può cambiare una istituzione (il brevetto farmaceutico) lasciando inalterata l'altra (l'esame clinico).

Ciò che questo esempio suggerisce è che ci si deve avvicinare all'abolizione a piccoli passi, e che è molto importante l'ordine in cui questi passi avvengono. È necessaria una riforma graduale sia perché c'è bisogno che altre istituzioni varino riforme parallele, sia perché muoversi lentamente è necessario dal punto di vista politico. Il numero di persone che prosperano grazie al monopolio intellettuale è grande e in aumento. Mentre alcuni di loro hanno accumulato così tanta ricchezza che non dovremmo preoccuparci troppo, tanto per dire, dell'impoverimento di Tom Cruise conseguente all'abolizione del copyright, questo non è il caso di molte altre persone. Per molta gente comune il monopolio intellettuale è diventato un modo alternativo di guadagnarsi da vivere e, mentre parecchi di loro sarebbero in grado di farlo altrettanto se non meglio senza di esso, tanti altri hanno bisogno di tempo per adeguarsi. Inoltre – e di nuovo in analogia con le barriere per il commercio – mentre il numero di persone cui gioverebbe l'eliminazione del monopolio intellettuale è ampio e in crescita, il guadagno che ognuno di loro riceverebbe è invece piccolo. A dispetto della gran sarabanda che circonda la pirateria della musica e dei film popolari, il risparmio personale direttamente derivante dalla riduzione del copyright (o perfino dalla sua abolizione) non sarebbe rilevante, poiché musica, film e libri formano una piccola quota del consumo della famiglia media. Nel caso di medicine e software, il risparmio potenziale dei consumatori potrebbe forse essere più sostanziale, ma sarebbe anche più difficile da notare, viste le modalità di acquisto di tali prodotti. Infine, se negli anni Cinquanta o Sessanta il consumatore medio difficilmente avrebbe potuto prevedere i sostanziali vantaggi economici che il libero commercio avrebbe generato nello spazio di pochi decenni, ancor più difficile è adesso riuscire a scorgere il progresso tecnologico incrementale che una graduale eliminazione del monopolio intellettuale potrebbe portare nel medesimo arco di tempo.

Dedichiamo quindi l'ultimo capitolo a un esame delle proposte che sono oggetto di dibattito pubblico, cercando di classificarle in cattive, buone e pessime.

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Le cattive proposte

Sembra non ci sia limite alle proposte di rafforzamento del monopolio intellettuale. Eccone una lista parziale, che inizia con le più insignificanti per poi arrivare alle più dannose:

- estendere i brevetti al mondo dello sport per includervi mosse e strategie sportive;

– estendere il campo dei copyright per includere immagini per servizi giornalistici, rassegne stampa e così via;

– permettere di brevettare una trama (cosa che l'Ufficio Brevetti Americano ha appena fatto assegnando un brevetto a Mr. Andrew Knight per la trama di The Zombie Stare);

– estendere il livello di protezione offerto dal copyright ai database, lungo le linee della Direttiva dei Database della UE del 1996 e della successiva proposta del Trattato WIPO;

- estendere la copertura di copyright e brevetti ai risultati della ricerca scientifica, inclusa quella finanziata con fondi pubblici (risultato già parzialmente ottenuto, negli USA, con il Bayh-Dole Act, mentre in Europa questo processo è ancora alle prime fasi);

– estendere la durata del copyright europeo per eguagliare quella degli Stati Uniti;

– estendere le circostanze in cui è permesso rifiutarsi di concedere la licenza di un brevetto senza essere oggetto di punizioni da parte dell'antitrust;

– stabilire, come ha fatto la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Verizon vs Trinko, che il potere di monopolio legalmente acquisito e il suo uso per caricare prezzi alti non solo è ammissibile, ma «è un elemento importante del sistema del libero mercato» perché «provoca innovazione e crescita economica»;

– imporre obblighi legali ai produttori di computer, spingendoli a introdurre modificazioni dell'hardware che hanno come unico scopo quello di proteggere i diritti di copyright;

– rendere i produttori dei software usati negli scambi P2P direttamente responsabili di ogni violazione di copyright eseguita utilizzando il loro software (risultato forse già raggiunto con la decisione della Corte Suprema nel caso Grokster);

– estendere formalmente in Europa la brevettabilità dei software per computer attraverso una modificazione – già più volte tentata – dell'articolo 52 (2,3) della Convenzione Europea sui Brevetti (anche se questa proposta è stata rigettata più volte dal Parlamento Europeo, l'EPO – European Patent Office – continua a concedere migliaia di brevetti per i software determinando di fatto una situazione di brevettabilità per ogni tipo di software);

– permettere, al di fuori degli Stati Uniti dove è già permesso, di brevettare ogni varietà di pianta e di prodotti genomici;

– costringere altri paesi, specialmente quelli in via di sviluppo, a imporre le medesime leggi sulla proprietà intellettuale attualmente in vigore negli Stati Uniti, nell'Unione Europea e in Giappone.

Tutte queste sono brutte proposte che sarebbe utile bloccare.


Qualche buona idea

Ci sono molte cose che possono essere fatte per realizzare piccoli miglioramenti nel sistema attuale di brevetti e copyright: nel caso dei brevetti esiste una serie di proposte per rendere il sistema meno vulnerabile ai brevetti sottomarini e, in genere, per evitare che si brevettino vaghe idee anziché invenzioni effettivamente prodotte e operanti; nel caso del copyright, una priorità assoluta è garantire che tutti i lavori abbandonati oppure orfani non rimangano inutilizzabili soltanto perché – essendo tutelati da copyright ed essendo il detentore del copyright deceduto, svanito o irreperibile – ne viene proibita la pubblicazione da parte di terzi.

Sia per i brevetti sia per il copyright, un'altra priorità consiste nel prevenire che il dominio pubblico si restringa ulteriormente.

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Pessime idee

A nostro avviso la progressiva estensione del monopolio intellettuale minaccia sia la nostra prosperità sia la nostra libertà, e così facendo minaccia di uccidere la gallina dalle uova d'oro della civiltà occidentale strangolando, alla distanza, l'innovazione.

Potrebbe sembrare una dichiarazione esagerata, che serve soltanto a generare controversie. Ricordiamo però che, nonostante nel 1433 la flotta del grande esploratore cinese Cheng Ho avesse già raggiunto l'Africa e il Medio Oriente, nei secoli a seguire il mondo venne colonizzato dagli europei e non dai cinesi. I monopolisti della dinastia Ming videro nelle esplorazioni di Cheng Ho una minaccia al loro monopolio – che all'epoca era monopolio del potere intellettuale e amministrativo – e lo costrinsero a fermarsi. Questo portò a un regime chiuso verso l'esterno e regressivo al suo interno perché in opposizione a qualsiasi forma di cambiamento: un regime in cui gli imperatori regnavano sotto motti quali «Mantenere la rotta» e «Non far alcunché» e in cui l'innovazione e il progresso non solo si incepparono, ma vennero progressivamente sostituiti dalla stagnazione, dalla regressione e alla fine dalla povertà.

Su scala più ridotta, ma con un impatto non meno reale sulla storia mondiale, scopriamo che la proprietà intellettuale ha ritardato lo sviluppo del motore a vapore, dell'automobile, dell'aeroplano e di innumerevoli altri beni utili. Cosa limita, oggigiorno, il potere legale della Microsoft se non, forse, il potere legale di un altro potenziale monopolista, Google? Dove saranno, domani, le compagnie farmaceutiche capaci di sfidare i brevetti Big Pharma rivitalizzando un'industria che costa molto, guadagna tantissimo ma non innova quasi più? Dove sono, oggi, gli editori coraggiosi disposti a lavorare con Google Books per diffondere invece di nascondere il nostro patrimonio di conoscenza? Da nessuna parte, per quanto possiamo vedere, e questo è un pessimo presagio per i tempi futuri.

Riconosciuto che potrebbe essere vero che qualche modesto grado di monopolio intellettuale sia superiore alla sua completa abolizione, perché stabiliamo come nostro scopo ultimo la completa eliminazione della proprietà intellettuale? La nostra posizione sul monopolio intellettuale non è differente da quella che la maggior parte degli economisti assume riguardo alle restrizioni del commercio interno e internazionale: sebbene qualche modesta dose di protezionismo possa essere auspicabile in certi casi particolari, è più pratico e utile concentrarsi, come regola generale, sull'eliminazione delle restrizioni; analogamente, mentre qualche lieve traccia di monopolio intellettuale potrebbe essere auspicabile in casi speciali, è più pratico e utile concentrarsi, come regola generale, sull'eliminazione del monopolio intellettuale. Nell'innovazione come nel commercio, un modesto grado di monopolio non è sostenibile: una volta che il lobbista abbia infilato un piede nella porta, l'intera lobby seguirà a ruota e di nuovo ci troveremo davanti un sistema dei brevetti impazzito e un copyright dalla durata assurdamente lunga. Per assicurare la nostra prosperità e la nostra libertà, dobbiamo far uscire completamente di casa l'idea del monopolio intellettuale. Per farlo occorre armarci della medesima e paziente determinazione con cui abbiamo ridotto progressivamente – e non abbiamo ancora terminato – le barriere al commercio internazionale durante l'ultimo mezzo secolo.

L'analogia tra proprietà intellettuale e restrizioni al commercio non è pura retorica, né un paragone casuale. Per secoli, l'innovazione ha assunto la forma della creazione di nuovi beni di consumo, nuove macchine e nuovi modi di produrre cose utili. Ma la trasmissione delle nuove idee da un produttore a un altro e da un paese all'altro non era né veloce, né standardizzata e routinaria come oggi. L'attività creativa si concentrava nella creazione e riproduzione di beni materiali e non nella creazione e riproduzione di idee. Il libero commercio delle merci era dunque uno strumento chiave per stimolare il progresso: più concorrenti si presentavano cercando di vendere scarpe come le vostre, più voi dovevate migliorare le vostre scarpe per continuare a venderle.

Eravamo soliti chiamare questa dialettica progresso economico e, dopo alcuni secoli di dibattiti intellettuali e numerose guerre, le società occidentali sono arrivate a capire che restringere il commercio internazionale è dannoso, perché il protezionismo previene il progresso economico e foraggia tensioni internazionali che portano poi a conflitti armati. Sin dal tardo Medioevo la battaglia si è svolta sistematicamente tra forze del progresso (libertà individuale, concorrenza e libero commercio) e forze della stagnazione (controllo delle libertà individuali, difesa dei monopoli, restrizione del commercio). Ora che la battaglia intellettuale e politica sul libero commercio dei beni materiali sembra vinta e che un numero crescente di paesi meno avanzati sta entrando nei ranghi delle nazioni che, praticando il libero commercio, si sviluppano e si arricchiscono, le pressioni per rendere più forte la protezione della proprietà intellettuale stanno crescendo in quegli stessi paesi che sostenevano inizialmente il libero commercio dei beni materiali. Questa non è una coincidenza.

Molti beni materiali sono già – e nei decenni a venire saranno sempre più – prodotti nei paesi meno sviluppati; molte innovazioni e creazioni hanno luogo nei paesi più avanzati, e le rivoluzioni dell'IT e della bioingegneria suggeriscono che continuerà a essere così. Non è sorprendente, dunque, che una nuova versione dell'eterno parassita del progresso economico – il mercantilismo – stia emergendo nei ricchi paesi del Nord America, dell'Europa e dell'Asia.

Il progresso economico viene dall'avere beni e servizi prodotti nel modo più efficiente possibile, cosicché li si possa vendere al prezzo più basso. Questa regola si applica sia alle cose che compriamo sia a quelle che vendiamo, ed è qui che si annida la trappola del mercantilismo. Molti di noi hanno imparato che il modo più sicuro per ottenere un profitto è «comprare a poco e vendere a molto». Quando c'è un'adeguata concorrenza, il solo modo per cui una persona possa comprare a poco e vendere a molto è essere più efficiente degli altri: questo genera gli incentivi per l'innovazione. La trappola mercantilista arriva quando questa regola, che vale per i singoli individui, si trasforma in una politica nazionale, generando la credenza secondo cui staremmo tutti meglio se il nostro «paese» comprasse a buon mercato e vendesse a caro prezzo. Era questa visione miope e distorta di come funziona il mercato che Smith, Ricardo e gli economisti classici combatterono duecentocinquanta anni fa. In quei tempi i produttori di grano del Regno Unito volevano restringere il libero commercio del grano per poter vendere a caro prezzo: ma questo implicava, necessariamente, che i consumatori inglesi non potessero comprare il grano a buon mercato. Ora, prima di continuare, considerate il dibattito attuale sulla prevenzione delle importazioni parallele di medicine, CD, DVD e altri prodotti tutelati dal monopolio intellettuale: notate un parallelismo?

La variante contemporanea del mercantilismo sostiene che il nostro interesse collettivo è, apparentemente, meglio servito se compriamo i beni materiali a buon mercato e vendiamo le idee a caro prezzo. Secondo questa visione, la World Trade Organization dovrebbe garantire il commercio più libero possibile per i beni, così che noi possiamo acquistare i «loro» prodotti a basso prezzo, e dovrebbe anche proteggere la nostra proprietà intellettuale il più possibile, così che noi possiamo vendere i «nostri» film, software e medicine ad alto prezzo. Ciò che questa follia non vede affatto è che, adesso come tre secoli fa, mentre è un bene acquistare il «loro» cibo per pochi euro, se «loro» acquistano film e medicine a caro prezzo dobbiamo farlo anche «noi». In effetti, come provano medicine e DVD, il monopolista vende a «noi» perfino a un prezzo più caro che a «loro». Questo fatto presenta serie conseguenze sugli incentivi al progresso: quando qualcuno può vendere a un prezzo alto grazie a protezioni legali, non farà alcuno sforzo per cercare metodi migliori e più economici di produzione.

Nei decenni a venire sostenere il progresso economico dipenderà, sempre più, dalla nostra capacità di ridurre — ed eventualmente eliminare — il monopolio intellettuale. Come nella battaglia per il libero commercio, il primo passo deve consistere nella distruzione delle fondamenta intellettuali della posizione mercantilista, la quale oggi insegna che, senza il monopolio intellettuale, l'innovazione sarebbe impossibile. Ci auguriamo di aver contribuito con questo libro a rendere meno credibile questa bugia.

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