Copertina
Autore Filippo Bologna
Titolo Come ho perso la guerra
EdizioneFandango, Roma, 2009 , pag. 280, cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6044-114-0
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa italiana
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Indice


Prologo                                                 9
Ora mi vedete così                                     13
Vivo e morto                                           17
Secondo il professar Voinea                            19
Il castello                                            21
Da piccoli                                             31
Fede aveva una gran mira                               35
Avreste dovuto vederli i gemellini                     38
Erano avanguardisti cavalleggeri                       40
Saluti romani                                          42
O mangi la minestra                                    49
Verrà il giorno del comizio                            52
Neve marzolina                                         54
Belzebù                                                58
O salti la finestra                                    61
Non se ne faceva una ragione                           64
Era cresciuto Vanni senza Fede                         66
Vanni aveva fatto a tempo                              69
Un nome e un destino                                   73
E poi vogliono lo sviluppo                             75
E quel nome era Ottone Gattai                          79
Per questo vinceremo                                   85
Costa ancora troppo poco la benzina                    90
È stata una fortuna                                    95
Aquatrade Resort                                       97
Finirai di mangiare la tua pappa                       99
C'è il plastico in comune                             107
Il vento tira caldo e umido                           114
Quando la vidi                                        117
Giovanotto non faccia come me                         120
Per la befana si giocava a Monopoli                   128
I contadini erano peggio dei padroni                  131
Paul Newman                                           133
Tutti tranne noi                                      138
Come anguille                                         143
Ci diamo un siroppino                                 145
Abbiamo fatto tanto per te                            147
Capodanno col botto                                   149
Sceicchi e gangster                                   159
Il guaio è che qua ci sono nato                       163
Sadat Mawazini                                        168
Stiamo lavorando per noi                              172
Tagliano gli alberi                                   176
Il latrato delle motoseghe                            180
La serpe                                              181
Come cittadini amanti e rispettosi                    190
Morta la serpe spento il veleno                       197
Adesso il babbo                                       202
Vedo le pance gonfie dei cavedani                     207
Si fanno anche cose contrarie ai propri interessi     209
L'esproprio                                           211
Non una riga                                          213
Furono giorni di scontri aspri e destini incerti      214
Ti guardo dormire                                     216
Siamo io e Lea                                        221
Non mi hai più guardato negli occhi                   225
I tuoi vestiti sono lì                                227
Vado io                                               233
Ci siamo quasi                                        235
Le ragioni della sconfitta                            239
Dinosauri morti                                       243
Acqua                                                 245
L'odore del fieno                                     248
Ti ho aspettato tanto                                 250
Lei era Lea                                           252
Che coglione che sei                                  254
Non siamo alla Nasa                                   256
È passato del tempo                                   258
La guerra è finita                                    260
Epilogo                                               271


 

 

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Pagina 9

C'era finito dentro un cane.

Lo avevano sentito abbaiare per giorni. Settimane. Un lamento straziante, che veniva da sottoterra. La notte raggelava per quanto era disperato. Sembrava il pianto di un bambino murato in una botte. Finché il latrato si era fatto più debole, quasi impercettibile, per poi cessare del tutto. I vecchi, quelli con le facce scheggiate come buccheri, la sigaretta di traverso e la cravatta solo la domenica, dicevano butinale. E lo dicevano come se pronuciassero una parola magica.

Un geologo, un tizio minuto come un uccellino, s'era calato dentro con delle corde. Era arrivato fino a un certo punto, poi era risalito e aveva detto che più in là non si poteva andare. Allora ci avevano buttato dentro una specie di reagente a base di polvere di zolfo color zafferano. C'era chi era pronto a giurare che il giorno dopo la sorgente della Ficoncella e quella della Doccia della Testa avevano sputato giallo per tutto il giorno. Ma c'era anche chi era pronto a giurare che non era vero niente.


Per arrivarci bisogna arrampicarsi su una strada che sarà una ventina d'anni che l'hanno asfaltata ma mi ricordo ancora quando era a breccia. Le curve tagliano la macchia con delle anse ora ampie ora strette come l'orlo di una trapunta, e la strada tira sempre in salita, regolare, senza mai dare respiro. Nel punto di massima pendenza, in prossimità della grande cisterna dell'acqua che serve il paese durante i periodi di siccità, piega stretta sulla destra. Sul principio la cisterna finì anche tra gli obiettivi strategici, ma poi non se ne fece nulla, perché anche a manometterla, di acqua, allo stabilimento ne avrebbero avuta comunque, calda, va bene, ma sempre acqua è. E gli unici a rimetterci sarebbero stati i poveri cristi che restavano a vivere giù in paese, con le autoclavi impazzite a sibilare nelle cantine come vecchi con l'enfisema. Davanti al casotto dell'ANAS, quello rosso a bordo strada, c'è un piccolo spiazzo. La macchina si può lasciare li. Poi si deve proseguire a piedi. Per forza. S'imbocca un sentiero stretto tutto pozze e pozzanghere che si inoltra nel bosco. Il sentiero taglia una radura butterata di grandi pietre che affiorano tra l'erba e sembrano frammenti di un meteorite andato in pezzi milioni di anni fa. Il viottolo rasenta quel che rimane di una vecchia fornace, sono rimasti giusto i muri maestri soffocati dai rovi. Il fondo della pista è un letto di foglie secche che crepitano sotto gli stivali. Il sentiero prende giù per il greto di un torrente in secca lastricato di pietre schiacciate come vertebre di un fossile. I cerri e le querce si pigiano ai margini del sentiero. Gli alberi intrecciano i rami verso il cielo in una grande trama di legno e foglie che inghiotte la luce. I cespugli di ginepro spandono un odore ubriacante che penetra nel cervello e risveglia ricordi perduti. Ogni tanto fruscia la boscaglia, un serpe o una lucertola dietro a un sasso. Forse un topo, chissà. Comunque niente di cui aver paura. Si arriva a una radura dove c'è un grande faggio. Se ne sta solo in mezzo al campo da qualche centinaio d'anni. Ha un tronco deforme che una catena di cinque uomini che si tengono per mano non bastano per abbracciarlo. È cresciuto tutto torto su uno zoccolo di terra vicino a una polla d'acqua. Le radici sono escrescenze ricoperte di muschio, nervi scoperti che piovono giù e affondano nell'acqua e nella terra. Sembra il ritrovo ideale per un sabba. Pare di vedere la luna alta in cielo e figure di donne danzare nude intorno al faggio alla luce tremola di un falò. A mezzacosta il viottolo s'impenna verso la cresta. Le orme dei cinghiali e dei caprioli tracciano la via da seguire. I tronchi degli alberi sono scortecciati e infangati fino a un metro da terra: i cinghiali si rotolano nelle trosce e poi si puliscono grattando via la corteccia fino all'alburno tenero. Arrivati in cima alla salita si può rifiatare. Sembra una radura come un'altra. E invece no. Non sono in molti a conoscere questo posto. Nessuno sa, e chi sa non vuol sapere cosa c'è oltre. Dove i passi arrancano, dove la luce stenta.

Resta solo da farsi largo tra gli spini e l'ortica che vegliano questo luogo come guardiani di un tempio in rovina.

Sassi e terra smossa attorno. E nel mezzo, un buco.

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Pagina 21

Il castello


Bisogna che lo dica subito così non ci penso più. Vivo in un castello. O meglio, ci vivevo. Con i merli, la torre che svetta superba sui tetti rossi, i piccioni, le mura e tutti i requisiti minimi che deve avere un castello per essere tale. Vivere in un castello vuol dire vivere una condizione di eterno anacronismo, che non può essere sanato con nessun condono temporale, e che non poteva non produrre qualche — seppur minimo spostamento della mia psiche rispetto agli assi cartesiani della storia. Nascere in un luogo morto, venire alla luce al buio, aprire gli occhi al chiuso; svegliarsi in un sepolcro, ecco cosa significa vivere in un castello. Niente di magico, niente di principesco, nelle facce accigliate degli antenati che ti scrutano dai loro ritratti fuligginosi. Ed essere l'unico maschio. L'ultimo rampollo depositario di un cognome, di una storia, di una tradizione. Il germoglio più tenero in punta di ramo, quello più esposto al rischio delle gelate, basta una brinata d'aprile e addio raccolto. Contiamo su di te perché si perpetui la razza, ammoniscono severi gli avi mentre attraverso a passo svelto i corridoi bui, infilando gallerie di ritratti bisunti a capo basso, per evitare gli sguardi inquisitori del parentame. Mi raccomando! T'insegue la voce della carne della tua carne da una stanza all'altra: Ricorda che hai in mano il nostro avvenire. Altro che in mano, nelle gonadi ce l'ho il vostro avvenire. No, non contate su di me.

Ma come si fa a costruire un castello nel Novecento? Nel secolo della velocità, delle masse, della guerra totale, dell'uomo sulla luna e del grande balzo in avanti? Solo un necrofilo - o un reazionario — potrebbe concepire un edificio già morto agli albori del secolo più moderno della storia. Perché un castello non è solo un edificio ma è anche un concetto. Un concetto tramontato da secoli, sprofondato nei recessi della storia assieme alla ridicola società cavalleresca che abitava le sue stanze. Provate per un attimo a uscire dalla grettezza dei vostri condomini, dallo squallore delle vostre palazzine, dalla pretenziosità delle vostre villette, e immaginate di abitarci voi, in un castello. Non c'è niente di romantico, niente di favoloso, levatevelo dalla testa. È come abitare nel bozzolo essiccato di una crisalide. È una cosa orribile. Eppure è sublime. E non c'è affatto contraddizione, perché non si può che provare orrore ed estasi per le forme morenti. Se siete un pittore di nature morte sapete di cosa parlo.

Io ho fatto il massimo, ve lo giuro, il massimo del minimo d'accordo, ma pur sempre il massimo di quello che si poteva fare. Converrete con me che non mi si poteva certo chiedere di essere un uomo moderno. "Sei un uomo ottocentesco!" mi rinfacciavano le fidanzate lasciandomi (anche quando le lasciavo io). Sfido io. E mi è andata bene. Potevo a ragione essere un uomo trecentesco, o peggio ancora, duecentesco. Sono un passatista all'avanguardia, un conservatore progressista, un retrivo alla moda. Dai, alla fine poteva andare peggio.

Quello che ancora non mi capacito, è cosa passasse nella testa del mio bisnonno Terenzio quando decise che piuttosto si sarebbe rovinato, ma avrebbe costruito un castello. Fu lui che dette inizio a tutto e fece deragliare il treno del tempo dai binari. E quando ebbe l'illusione di aver fermato quel treno innalzando il castello contro il volere della storia, fra tutti fu forse il passeggero più a disagio. Perché una casa non è di chi la edifica ma di chi viene dopo, e la abita per generazioni. Nonostante fosse stato Terenzio a volere quella casa, a volerla con una determinazione febbrile che lo consumò e al tempo stesso lo tenne in vita.

Per costruire quel castello vennero muratori, carpentieri e artigiani da ogni dove, vennero scalpellini da Rapolano, pittori da Siena e decoratori da Orvieto. Vennero architetti da Roma e giardinieri da Firenze. Si lavorò per anni. Venti, trenta. Forse più. Si lavorò finché non finirono i soldi e il mio bisnonno non ebbe dilapidato tutta la sua immensa fortuna. I creditori più impazienti dovettero pazientare, per l'antico rispetto, o timore, fate voi, per la nostra famiglia e per quell'omone fiero che frustava i contadini. E tutti vennero pagati, fino all'ultimo centesimo. Finché i conti non furono saldati e i soldi finiti. Con l'ultima moneta si pagò l'ultimo artigiano. Restava un conto in banca asciutto e un castello eretto. Solo allora il bisnonno Terenzio, che era già morto da quando era morto Fede, si sentì davvero libero di morire. Il risultato giudicatelo voi, non voglio essere io a discuterne. L'architettura è un fatto. Anzi, è un oggetto. E gli oggetti non si discutono. Esistono o non esistono. Ci sono o non ci sono. Il castello è lì, sotto gli occhi di tutti. C'è.

Sì, c'è, ma prima non c'era... dicono molti con un sorrisino carico di malizia. La questione è spinosa e nondimeno oziosa. E ha tolto il sonno a più di una persona, che poi sarei io.

Perché i paesani tutti, ovvero contadini, artigiani, commercianti, professionisti e feudatari da quattro ettari che vivono da queste parti, e anche i parenti, più o meno stretti, il castello non l'hanno mai digerito. Ci ho pensato su parecchio, ho elaborato teorie assai complesse, anche troppo, perché in fin dei conti era piuttosto semplice.

Invidia.

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Pagina 61

O salti la finestra


Il paese era deserto e muto. Il sole si era arrampicato in cielo. La neve iniziava a sciogliersi e l'acqua correva nelle gronde e gorgogliava nei tombini.

Fede aprì la finestra proprio quando la fanfara di riscaldamento della banda attaccava facendo capire che c'eravamo quasi. Si sporse sul davanzale, si girò di schiena, si resse al telaio della finestra finché le mani non afferrarono il cornicione di travertino. Penzolò nel vuoto per un istante, chiuse gli occhi, e si lasciò andare.

Sentì un soffio caldo e una superficie ruvida e umida che gli raspava la neve dalla faccia: Si stropicciò gli occhi infarinati di neve e vide sopra di sé il muso nero di Belzebù, gli prese la testa tra le mani e lo grattò sotto il mento. Il cane abbassò gli occhi in segno di riconoscenza. Fede si scrollò la neve di dosso e con Belzebù al passo s'incamminò verso piazza.

Bianco e nero i colori dominanti quel giorno. Bianco delle nuvole, della neve, e dei denti di Fede. Nero dei fascisti, dei cappotti e di Belzebù. La banda chiuse una penosa marcetta di intermezzo e le ultime stecche vennero sopraffatte dagli applausi.

Fede non riusciva a farsi largo tra la gente. Una selva di teste e cappelli gli negava qualsiasi prospettiva. Allora si fece largo tra la gente, col cane che s'infilava nel sentiero umano aperto dal padrone a spinte e pestoni. Fino a che il cane e il ragazzo guadagnarono il lato della piazza. Fede si tolse la cintola e con quella assicurò Belzebù a una panchina ai piedi di un'acacia. "Buono qui" disse. Il cane si accucciò sotto la panchina.

Poi si issò sul tronco e si mise a cavalcioni sulla forca di un ramo. Il peso fece crollare della neve rimasta sulla pianta e qualcuno portò la mano al cappello e guardò in cielo senza capire. L'onorevole Becagli era sul palco. I baffoni virili, la bassa statura, il cranio calvo e liscio come un ciottolo di fiume. Il comizio doveva essere quasi finito, e la folla aspettava trepidante il pezzo forte del discorso. In prima fila, in mezzo ai soliti noti c'erano anche il Sor Terenzio e Vanni. Il Becagli si schiarì l'ugola e attaccò:

— Quanto alle terme...

Applauso della piazza.

Becagli premeva il palmo della mano verso il basso come a dire aspettate aspettate.

- ...Quanto alle vostre, alle nostre, beneameate terme, che furono etrusche e poi romane, vi posso assicurare che saranno...

Fede guardò verso il basso. Belzebù era sparito.

— ...Fasciste!

Boato della piazza.

- I danni della libertà sono sotto gli occhi di tutti. Torna trionfante dal suo lungo esilio... la legge! Noi spazzeremo via l'immobilismo delle precedenti amministrazioni con la scopa dell'azione, strangoleremo il lassismo con i guanti della risolutezza... Mai più le acque - che sgorgano copiose da millenni in queste amene contrade — e neppure gli animi - saranno tiepidi. Ma bollenti e fumiganti, scaldati dall'ardore e dalla passione del fascismo.

Ancora applausi.

— È Sua Eccellenza in persona che vi manda a dire...

Sussulto.

— Vi manda a dire...

La nera figura di Belzebù affiorò per un secondo in prossimità del palco e subito s'immerse tra le gambe degli astanti.

- ...che le vostre nobili terme, ove si bagnò casta la moglie dell'imperatore Ottaviano Augusto, torneranno all'antico, romano, splendore!

E qui il Recagli si aspettava che la piazza venisse giù in un applauso trionfale.

Invece ci fu un gravissimo attimo di silenzio. Che si sciolse in una risata sbracata.

Il Becagli ci mise un po' a capire. Sentì umido all'altezza dei polpacci. Guardò in basso. Ai suoi piedi una bestiaccia nera era ritta su tre gambe. La quarta era a mezz'aria. Poi finì di sgocciolare e si rimise sulle quattro zampe.


Lo presero. Lo misero dentro una balla e lo bastonarono a sangue. Due uomini vestiti di nero con il sacco a spalla s'inoltrarono nel bosco. Costeggiarono una fornace. Attraversarono una radura costellata di grandi pietre. Si fecero largo tra gli spini con quel sacco che uggiolava sempre più piano e si gonfiava e si sgonfiava lieve come fosse un polmone morente. Gli uomini si guardarono. Aprirono la balla.

— Vai all'inferno — disse uno dei due.

E gettò il cane nel buco.

Belzebù, il cane del diavolo, precipitò nel buio con un guaito come una sirena lontana.

Andava, o forse tornava, dal suo padrone.

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Pagina 147

Abbiamo fatto tanto per te


Era bella la mia mamma la sera di Capodanno che inaugurarono l'Aquatrade Resort. Elegante nel suo vestito di raso blu petrolio, abbastanza scollato da lasciar intuire che era stata una donna bellissima e abbastanza castigato da far capire che non lo era più. Una signora che veste come una zingara e nei ristoranti chiede se il pesce è fresco, con la forza di una contadina della steppa e l'eleganza di una gran dama parigina. Imponente il babbo in tutta la sua mole scuro vestita accompagnata da un enorme ombrello nero che lo faceva somigliare a un personaggio fuggito dalla galleria Alinari. No, il babbo una grandissima classe non l'ha mai avuta. È un uomo onesto, buono, intelligente, con un gran senso del dovere e della famiglia – e ogni volta che glielo ricordi gli si illuminano gli occhi che avrebbe potuto non far nulla come quell'altro mio parente che come disse uno al bar se fosse nato povero avrebbe tribolato parecchio a campare. E invece lui ha sempre lavorato sodo. È un cow-boy caduto al di là della frontiera, un uomo ottocentesco, cacciatore, medico e poeta paludato, ma per quanto si sforzi di fare il disinvolto in società resta sempre un animale in gabbia. Se devo pensare a lui me lo figuro a piazzare trappole in un bosco dello Yukon, a pescare in una notte di luna piena, a raggiungere a piedi un podere isolato in mezzo alla tormenta e cavare dalle cosce sode di una contadinotta un marmocchio piagnucolante.

Abbiamo fatto tanto per te. Questo mi ripeteva sempre la mamma quando mi lamentavo di qualcosa. Sei triste? Sì mamma. Ma abbiamo fatto tanto per te. Ti senti solo? Sì mamma. Ma abbiamo fatto tanto per te. Non ti piace come ti abbiamo arredato la casa? No mamma. Nemmeno le stampe art déco che sono in corridoio? No mamma. E neanche i quadretti con le bambole che abbiamo messo in sala? No mamma. E le applique liberty in sala da pranzo? Nemmeno quelle ti piacciono? No mamma. Ma sono art deco! Non mi piacciono lo stesso mamma. Ma abbiamo fatto tanto per te. E non sei contento che ti abbiamo comprato il computer? E la moto? E la macchina? E la casa? No, mamma, non sono contento. Ma abbiamo fatto tanto per te. Sì, mamma. Avete fatto tanto per me. Forse troppo.

Le piante muoiono anche per troppa acqua, mamma.

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Pagina 163

Il guaio è che qua ci sono nato


Li conosco bene questi posti. E se ci sei nato, più li ami, e più li odi. E il guaio è che io qua ci sono nato. Che conosco a memoria il paesaggio, i profili dei monti, le fughe di luce e i colori delle stagioni e le strade con tanto di curve, pendenze e contropendenze.

La Cassia che scende verso Siena, ad esempio, come un cieco ve la potrei disegnare a occhi chiusi. Dopo essersi ingobbita sul ponte del Paglia, si stira tutta lunga fino al traforo sul Monte Amiata. Poi esce dalla galleria veloce come un proiettile, attraversa il quarantottesimo parallelo e si avvita scorbutica verso San Quirico. Da lì tira il fiato, se si mette in folle si può rotolare per chilometri lungo quei viadotti poggiati sulle crete grigie e ondulate, fondali limacciosi di un mare primordiale in cui un tempo nuotavano le balene. La trovarono anche una balena in un campo mentre aravano, sana, con tutte le ossa dalla testa alla coda. L'hanno rimontata precisa com'era nel chiostro dell'Accademia dei Fisiocritici a Siena.

E lungo la strada fermatevi all'altezza di quella piazzola da cui si può fotografare un pugno di cipressi tutti stretti uno accanto all'altro in mezzo al campo. È su tutte le cartoline questa inquadratura. Ma i cipressi veri stanno da soli, sparuti in cima a qualche maggese o in fila a fronteggiarsi lungo i viali che portano al cimitero, o a qualche pieve o villa abbastanza vecchia, da averli visti piantare. Solo come un cipresso, ecco come mi sento in certi giorni.

Oggi è uno di questi. E in giorni così, mi piace pensare che da qualche parte, oltre le foglie marce di questo bosco, oltre la radura dell'accampamento, oltre questo nebbione che verrebbe voglia di spalar via come la neve, c'è ancora il paese. Il mio paese.

Mi pare di vederlo, di sentirlo, oltre la nebbia, laggiù a valle. Sento il bar di Corinto che risuona dei rinterzi secchi del biliardo, toc, toc, coi birilli che frusciano sul panno verde e il cono di luce che piove sbilenco dalla lampada sospesa. Dietro il bancone del bar vedo Corinto e dietro Corinto le bottiglie colorate con il Vov e la China Martini, e sulla mensola sopra il bancone, vedo il vaso bianco con le decorazioni blu dell'Amarena Fabbri, e vicino alla cassa la ciotola delle caramelle con le Rossana, le Sperlari alla menta, quelle al limone con la carta a spicchi, le palline di zucchero e i cioccolatini sfusi, con le livree di stagnola colorate che nuotano nell'insalatiera come pesciolini tropicali, ogni colore un gusto: verde/oro cioccolato al latte, nero/oro fondente, rosso/oro amaretto, e se cerchi bene e rimesti sul fondo forse c'è anche la Banana Perugina e speriamo ohe il babbo si ricordi di portarmene un paio quando torna dalla partita di biliardo per darmi il bacio della buonanotte e io lo bacio e lui sa di fumo e di cuoio del giubbotto di pelle, di quelle cose di cui sanno i babbi quando tornano dai bar insomma. Mi piace pensare che nel bar del mio paese ci sono ancora i posacenere stracolmi di cicche, coi filtri schiacciati come cimici, il fumo denso che ha il colore dell'anice e ristagna nel locale anche quando la saracinesca è abbassata e il bar è chiuso, perché quel fumo lì, nel bar, ci abita come un inquilino, e non lo sfratti nemmeno con la porta aperta, e anzi se la apri c'è sempre uno che ti dice chiudila che fa riscontro. Chissà perché proprio ora, invece di questi rami, ho davanti agli occhi le mattonelle bianche e nere tanto annerite che non si riconosce più il bianco dal nero del bar di Corinto, e ho nostalgia della voce di De Zan che commenta il Giro d'Italia alla televisione e dice che Saronni è entrato in una fuga e sta guadagnando qualche minuto sul drappello degli inseguitori, proprio così dice, e che Moser è in crisi sul Pordoi... e in sala c'è qualcuno aggrondato che preferirebbe che questa fuga proprio non fosse partita.

Mi piace pensare che in paese c'è ancora l'antiquario, il vecchio Gino, che sparava ai mobili a pallini per ottenere l'effetto tarlo, con la bottega piena di pendole che suonavano tutte assieme e quando suonavano Cosetta la matta si affacciava alla porta della bottega e diceva:

– Orologi orologi orologi, è il tempo che manca, il tempo, il tempo, il tempo!

E dov'è finito lo spaccio di Battista? Con le Nazionali esportazione, le caramelle al rabarbaro e al miele, i fogli protocollo a righe per il compito in classe da comprare la mattina presto, a buio, con i lampioni ancora accesi, in quelle giornate di dicembre corte come un fiammifero. Vorrei che fosse ancora aperto il forno della Tecla, e magari avere in tasca mille lire pronte per la focaccia all'olio col rosmarino, appena uscita. Che ne è della bottega di Azolino il calzolaio e Primo il barbiere e Ilio il falegname che c'aveva il cazzo lungo sette cerini. Mi piacerebbe che nello spiazzo all'ingresso del paese ci fossero ancora piantate le porte di legno che aveva fatto fare il nonno dal falegname, e le reti che avevamo comprato con una colletta al maglificio, e vorrei che il pallone rimbalzasse ancora scorbutico su quel fondo sconnesso. E poi per un attimo voglio chiudere gli occhi e provare a figurarmi il piazzale del ponte come era, pieno di grida e di bestemmie innocenti della partitella del sabato pomeriggio, quando si scendeva dal postale alle due e mezzo e nemmeno si passava a casa a posare le cartelle ma ci si buttava tutti all'inseguimento di un Tango sull'asfalto, e quelli più grandi e più bravi non te la facevano vedere mai, mai. Se non quando ti offrivi volontario per andare a recuperare la palla in un'orticaia: quando c'hai tempo portali da Agesilao (il fabbro del paese) a fatti da' una raddrizzata a 'sti piedi, diceva puntuale una voce in campo.

Se chiudo gli occhi posso far scorrere l'acqua fresca della fonte del Piscinello, far scendere l'ombra sul viso accaldato, e far salire l'odore di terra bagnata tutto attorno alla fonte, posso far scendere quel fiotto d'acqua gelida da bere tutto d'un fiato, acqua che raschia giù in fondo alla gola secca. La posso bere quell'acqua, devo solo stare attento agli scherzi degli amici assetati che ti fanno ridere mentre bevi e ti va l'acqua su per il naso. Mi piacerebbe che nulla fosse cambiato, che dietro la collina esistesse ancora un paese vivo, con i camini accesi e l'odore amaro della legna che sale nell'aria bruna dell'inverno, e non questo paese di seconde case con la piazza rileccata coi lampioncini e il ghetto termale con le inferriate di alluminio acuminate e i neon e il filo spinato.

Smettila di attaccarti ai ricordi come un naufrago al bordo di una scialuppa. Ecco cosa mi direbbe Lea se le confidassi questo pensiero. E poi è tutto da vedere, perché a volte spacci per ricordi tuoi i ricordi degli altri e a volte parli come se avessi vissuto per mille anni, sei un vampiro di ricordi, un parassita della memoria e io non ci capisco più niente con te. Anche questo mi direbbe. E poi lo sai. Lo sai che piuttosto che vivere in questo prototipo di presente abitabile, in questo progetto di mondo in scala 1:1 disegnato a immagine e somiglianza di geometra, in questo sogno di futuro rassicurante come un manifesto da campagna elettorale, preferisco morire col colpo in canna. E poi scusa, è colpa mia - le direi – se il passato è l'unica cosa in cui mi riconosco, se solo guardando indietro trovo il coraggio per guardare avanti?

– A che pensi? – mi chiede Lea.

- A niente.

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