Copertina
Autore Edoardo Boncinelli
Titolo Perché non possiamo non dirci darwinisti
EdizioneRizzoli, Milano, 2009, , pag. 280, cop.ril.sov., dim. 14x22,4x2,6 cm , Isbn 978-88-17-03425-8
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe evoluzione , biologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Premessa                                                  7
L'idea di evoluzione

La storia della vita                                      9
L'evoluzione dei viventi                                 12
Geni e genomi                                            20
Il valore dell'idea di evoluzione                        25
Le cose da spiegare                                      28
Si può spiegare tutto questo?                            34


Forze e meccanismi evolutivi:
l'originaria proposta di Darwin

Il punto di partenza                                     36
Il nucleo della proposta di Darwin                       44
La natura della variazione                               49
Darwin e Lamarck                                         52
La selezione naturale                                    54
Qualche semplice esempio                                 61
Un paio di esempi reali                                  65
Ambiente e malattie                                      68
Il caso particolare dei batteri                          73
I due semplici enunciati della proposta di Darwin sono
sufficienti a spiegare ciò che ci eravamo proposti?      76
Le prime reazioni                                        82


Forze e meccanismi evolutivi: il neodarwinismo

Sviluppi conoscitivi della biologia postdarwiniana       85
Il darwinismo dopo Darwin                                90
Le critiche scientifiche degli ultimi decenni            92
Gerarchie geniche                                        97
Evoluzione e sviluppo embrionale                        114
Il neodarwinismo oggi                                   118
Adattamento & Co                                        127
Le radici profonde del cambiamento                      135
Progresso e complessità crescente                       141
Regressi e non progressi                                154


Sviluppi e implicazioni

Riassunto minimo                                        159
Difficoltà psicologiche                                 161
Le critiche non scientifiche                            168
Che cosa spiega e che cosa non spiega la teoria
dell'evoluzione                                         173
Il faticoso inizio                                      175
L'origine dell'uomo e l'ominazione                      182
Forme di intelligenza                                   188
Linguaggio e coscienza                                  194
L'unicità dell'evoluzione culturale                     198
La progressione della cultura                           201
Conclusione e considerazioni generali                   213
Cambiamenti concettuali                                 227
L'evoluzionismo e la fede                               232

Domande e risposte                                      236

Commiato                                                266

Bibliografia                                            269


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Premessa



C'è qualcosa di grandioso in questa visione della vita, con tutte le sue proprietà, che è stata originariamente infusa in poche forme o in una sola; e di come, mentre questo pianeta orbitava nello spazio in ottemperanza alle leggi della gravità fissate una volta per tutte, da un inizio tanto semplice così tante forme di vita si siano evolute e stiano evolvendo, tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazione. CHARLES DARWIN, L'origine delle specie (1859)


Quest'anno si celebrano i centocinquant'anni dalla pubblicazione dell'opera maggiore di Charles Darwin , L'origine delle specie. Sembra un'ottima occasione quindi per fare il punto sulla teoria dell'evoluzione, nata dalla mente di questo grande della scienza e sviluppatasi poi da allora in una grandiosa teoria scientifica, perno concettuale attorno al quale ruota tutta la biologia moderna.

La teoria, almeno nelle sue linee generali, è nota a tutti; ma l'idea che ne abbiamo è spesso solo lontana parente della verità e in ogni caso fortemente personalizzata. Ce n'è abbastanza perché sulla teoria stessa se ne sentano dire di cotte e di crude, sia da parte di chi la avversa sia da parte di chi la difende e la sostiene. Personalmente mi è capitato di ascoltare di tutto, perché, a differenza di altri argomenti, in questo campo tutti pensano di essere competenti e di poter dire la loro, come succede in fondo anche a proposito della natura del cervello e della mente.

Mi è sembrato opportuno quindi esporre con semplicità, ma anche con rigore, i punti salienti della teoria, e i progressi oggi raggiunti, ma con qualche cenno alla sua forma originaria. Dopo una prima esposizione dei concetti essenziali, ho pensato pure di rispondere, anche se in maniera concisa, a molte delle domande che più frequentemente mi rivolgono. Per rispetto della verità e senza troppo concedere a speculazioni ed elucubrazioni.

La mia sarà una trattazione dichiaratamente scientifica e cercherà di restituire la teoria dell'evoluzione, come pure il darvinismo, alla scienza. Per far questo occorre prendere le distanze, fra le altre cose, da due tipi di tendenze oggi molto diffuse: la prima è quella di parlare della teoria dell'evoluzione e in particolare dell'opera di Darwin come se si trattasse di una teoria filosofica, nella quale il ruolo fondamentale è giocato dalle argomentazioni. Si tratta invece, ripeto, di una teoria scientifica che si fonda su osservazioni sul campo e su veri e propri esperimenti.

La seconda è quella di fare di Darwin un «santino», restituendoci il ritratto di una persona infinitamente intelligente e osservatrice, buona, saggia e dotata pure di spirito profetico. Darwin è stato un grande scienziato che ha cambiato d'un tratto il corso degli studi biologici, e non solo, ma era pur sempre un uomo, un singolo, per giunta vissuto un bel po' di tempo fa. La scienza non la fanno i singoli, per quanto geniali, ma è il frutto di un'impresa collettiva e oggetto di un continuo succedersi di novità e colpi di scena. Con questo non si vuole affatto sminuire il valore di quel geniale naturalista che è stato Charles Darwin, ma lo si vuole collocare sul suo giusto piedistallo insieme ad altri biologi, grandi e piccoli, di ieri e oggi.

La teoria dell'evoluzione è troppo importante, e lo stesso Darwin troppo geniale, insomma, perché ci si possa permettere che il tutto venga seppellito sotto un colpevole e spesso interessato disprezzo o, al contrario, che finisca in pasto a un'inopportuna e talvolta scadente agiografia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

L'idea di evoluzione



Sono quasi convinto (in totale contrasto con la mia opinione iniziale) che le specie non sono immutabili (è come confessare di avere commesso un omicidio). CHARLES DARWIN, Lettera a JD Hooker (1844)


La storia della vita

Di tutte le forme viventi – animali, piante, funghi, protisti e batteri – che si sono succedute nel tempo sulla superficie del nostro pianeta, quattro miliardi di anni fa non ne esisteva nessuna. Le prime testimonianze di vita sulla Terra risalgono infatti solo a circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Tutti gli eventi biologici verificatisi a partire da quel momento sono l'oggetto di studio della teoria dell'evoluzione.

Con il termine evoluzione intendiamo quel vastissimo complesso di eventi, grandi e piccoli, che hanno interessato la vita sulla Terra dal suo inizio fino alla condizione attuale, plasmandone all'infinito i contorni. L'effetto principale di questi eventi è stato quello di popolare il nostro pianeta di innumerevoli forme viventi, presenti un po' dappertutto e appartenenti a milioni di specie diverse. Senza alcuna eccezione, queste forme sono costituite di cellule, una sola per i batteri e per i protisti, tante o tantissime per tutti gli altri organismi. Il nostro corpo per esempio è costituito da decine di migliaia di miliardi di cellule appartenenti a più di cento tipi diversi.

L'evoluzione si identifica quindi con la storia delle forme viventi, presenti e passate. Questa storia vede continui cambiamenti e trasformazioni, con la comparsa di forme sempre nuove accompagnata spesso dall'estinzione di quelle precedenti. Tanto le forme nuove quanto quelle vecchie sono per definizione tutte adatte a vivere nell'ambiente nel quale si trovano, ma mostrano caratteristiche biologiche che noi uomini interpretiamo secondo una nostra scala di valori che ci induce a preferire e a valutare come migliori quelle che più si avvicinano o sembrano avvicinarsi alle nostre. Nell'immaginario collettivo l'idea di evoluzione è spesso associata a quella di «miglioramento», progressivo se non complessivo, delle diverse forme viventi. La verità è ben diversa: in alcune linee evolutive si può vedere un certo «miglioramento» — nel senso sopra precisato —, in altre un «peggioramento», mentre nella maggioranza di esse è impossibile scorgere segni dell'una o dell'altra tendenza. Va detto inoltre che l'evoluzione ha un passo così lento che osservando per qualche anno o per qualche secolo la natura delle forme esistenti non si nota alcun cambiamento significativo. Ciò la differenzia nettamente dall'altra forma di evoluzione presa in considerazione dalla scienza: quella riguardante il cosmo, ovvero l'universo fisico. I primi eventi significativi di quest'ultima forma di evoluzione sono stati incredibilmente rapidi — frazioni infinitesime di secondo, secondi o minuti —, anche se poi il tutto ha rallentato e l'intero processo dura da più di tredici miliardi di anni.

La lentezza dei fenomeni evolutivi, unita alla scala veramente esorbitante dei tempi implicati, ha fatto sì che l'uomo non se ne sia reso conto se non in epoche ridicolmente recenti e abbia tuttora difficoltà ad accettarli e a concepirli. Ma è anche la condizione che ci permette di studiarli, di farne oggetto di analisi e di individuarne i principi, così come di parlare in generale della natura alla stregua di un'entità ben precisa e definita.

Perché si manifesti qualche cambiamento evolutivo di rilievo occorre attendere il succedersi di molte generazioni. È essenzialmente per questo motivo che l'evoluzione ci appare lenta rispetto alla durata di una vita. Anche se il tempo che intercorre tra una generazione e l'altra è assai variabile nelle varie specie — questione di minuti o di decenni — è pressoché inevitabile per noi attribuire particolare importanza alla durata della nostra esistenza e tendere a rapportare a questa tutte le valutazioni temporali.

L'evoluzione si identifica con la storia della vita, anzi con le innumerevoli storie particolari che riguardano una determinata specie o una precisa comunità biologica. Ciò non significa che non si sia tentati di estrarre da tutto questo qualche principio ispiratore, qualche legge o qualche meccanismo specifico. Ciò è più che legittimo perché a questo ci portano la nostra natura e la nostra storia. L'uomo vuole capire, per gestire e prevenire. Tale operazione ci è riuscita particolarmente bene per la materia inanimata, al punto che la fisica e la chimica hanno raggiunto risultati eccezionali e hanno fornito, almeno fino a una certa epoca, un quadro complessivo chiaro e informativo della realtà che ci circonda. Il mondo fisico — dalle galassie alle placche tettoniche — ha le sue leggi generali se non universali, i suoi principi particolari e locali e le sue regole applicative. Lo studio della vita si presenta invece fin dall'inizio un po' diverso. Qui non ci sono leggi universali e neppure principi particolari, mentre abbondano descrizioni e narrazioni, quasi sempre illustrate: la vita è una collezione di entità uniche, sostanzialmente irripetibili, e di processi molto particolari collocati in un flusso temporale più o meno accelerato.

Tutto questo si esprime di solito affermando che la biologia è una scienza storica: molte cose sono andate in una certa maniera, ma potevano anche andare in un'altra e solo l'osservazione e la comprensione di ciò che è effettivamente avvenuto ci può fornire informazioni pertinenti e valide. È vero però che, data la lentezza dei cambiamenti evolutivi e la relativa conservazione di alcune strutture biologiche fondamentali, non è impossibile descrivere organi, organismi e specie come sono e come funzionano al momento. Ed è ciò che studia la biologia.

Si è soliti parlare di biologia tout court per indicare lo studio delle forme di vita esistenti e delle loro proprietà, mentre si parla di biologia evoluzionistica per indicare l'analisi delle loro trasformazioni nel tempo. Ciò è perfettamente lecito a patto che si tenga presente che tutta la biologia ha un'intrinseca dimensione evoluzionistica, della quale è talvolta comodo osservare specifici spaccati temporali, come se si trattasse di fotografie istantanee in grado di «arrestare» il tempo.

Lo studio delle forme viventi, prodotte dalla storia e perennemente immerse nella stessa, si è rivelato particolare e idiosincratico, anche se la cosmologia più recente ci dice che pure il mondo fisico possiede una storia e una sua evoluzione. Le differenze risiedono nell'entità delle diverse scale temporali e nel fatto fondamentale che gli esseri viventi conservano una memoria esplicita degli eventi del passato, dai quali sono stati tra l'altro direttamente forgiati. Dovrebbe essere noto a tutti che gli esseri viventi conservano tale memoria nel loro patrimonio genetico, altrimenti detto genoma, che gli esseri inanimati non posseggono.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

Tutta la biologia ha tratto profitto dall'idea di un'evoluzione biologica e dal suo studio. Quella evoluzionistica è anzi l'unica idea unificante della biologia, capace di dare un senso a tutte le osservazioni e ipotesi che si possono fare in questo campo. Sul piano della conoscenza pura, quindi, e dell'interpretazione dei fatti biologici, l'idea di evoluzione si rivela ogni giorno di più, come ha fatto in passato, di straordinaria importanza. Ma è soprattutto per la comprensione dell'evoluzione dell'ambiente naturale del nostro pianeta che ci preme oggi capire cosa è effettivamente successo nei secoli addietro, per valutare appieno cosa sta succedendo e cosa verosimilmente succederà. L'insieme degli organismi della Terra, la biosfera, si articola in una collezionè di tantissimi ecosistemi locali dove animali, piante e microorganismi interagiscono e competono per adattarsi al meglio alle condizioni circostanti ed entro certi limiti per modificarle. Questo studio, l' ecologia, si avvale dell'idea di evoluzione biologica e nello stesso tempo contribuisce a illuminarne molti aspetti, dai più astratti ai più concreti. Non si concepisce oggi uno studio evoluzionistico senza un'analisi dei risvolti di natura ecologica e allo stesso tempo non si può impostare un'indagine di tipo ecologico se non nel quadro di un approccio evoluzionistico. Meccanismi evolutivi e fenomeni ecologici sono strettamente interdipendenti e rappresentano il nucleo concettuale della biologia sul campo, mentre evoluzionismo e genetica guidano la biologia in laboratorio.

L'ecologia è la nuova scienza degli equilibri naturali che si è affiancata negli ultimi decenni alla genetica per guidarci alla comprensione dei cambiamenti che sono occorsi e che stanno occorrendo nel mondo vivente e nel suo rapporto con l'ambiente marino e terrestre. L'esame delle cosiddette reti alimentari o trofiche, le dinamiche di popolazione, le relazioni fra le diverse specie e fra la biomassa e i grandi cicli dell'acqua e degli elementi principali – primo fra tutti il carbonio – dominano da una parte gli studi teorici e dall'altra le considerazioni pratiche necessarie per sviluppare quelle politiche per l'ambiente che abbiano una base scientifica. Dominante su tutto questo è la consapevolezza che quella umana è comunque una specie vivente che ha le sue esigenze, i suoi bilanci e che potrebbe anche soffrirne fino ad arrivare a estinguersi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

Le cose da spiegare


Poiché si sta parlando di una spiegazione scientifica e della ricostruzione storica di una serie di eventi naturali, appare fondamentale chiedersi fin dall'inizio che cosa ci sia veramente da chiarire. Ovvero, che cosa deve mostrare e dimostrare una teoria dell'evoluzione che aspiri a un minimo di scientificità. Non c'è niente in biologia che non abbia attraversato un processo evolutivo e tutto ciò va illustrato e spiegato. È chiaro però che alcuni aspetti di questo complesso di eventi ci colpiscono di più e si presentano più difficili da comprendere.

Occorre dare ragione di almeno tre osservazioni fondamentali che io metto in un ordine che non è quello consueto: l'incredibile diversità e varietà dei viventi, la loro presenza in ogni più impervia plaga della Terra, il notevole livello di adattamento al loro proprio ambiente che sembrano mostrare gli individui appartenenti alla maggior parte delle specie.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

Esiste poi un terzo aspetto della questione molto meno oggettivabile degli altri due, ma invariabilmente presente nei nostri pensieri e nella nostra concezione delle forme viventi, in virtù della nostra biologia e della nostra storia: la maggior parte delle forme viventi alle quali istintivamente pensiamo ci appaiono adatte e quindi adattate all'ambiente nel quale vivono. Un organo, una struttura o un comportamento si possono dire adattati a una determinata caratteristica ambientale se sembrano progettati per sfruttarne in qualche misura la specificità o per sfuggirne le insidie. L'occhio del gufo è adattato al suo stile di vita e di caccia notturne, le zampe dei trampolieri sono adattate alla natura delle acque basse e limacciose in cui vivono, la forma generale del corpo e la pelliccia della foca sono adattate alla sua vita nelle acque dei mari polari e la struttura e la fisiologia di un cactus sono adattate alle condizioni di elevata temperatura e di ridotta umidità delle zone desertiche. E se questo è vero, va certamente spiegato.

Il problema è che si pone di solito un'enfasi eccessiva e spesso affettata su questo particolare aspetto della vita. C'è tutta una letteratura incentrata sulle «mirabilie» della natura e sulle sue «miracolose» proprietà. Secondo questa concezione la natura sarebbe un'opera perfetta e meravigliosa, necessariamente posta in essere da una Potenza Superiore. «Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, non fu mai vestito come uno di loro» (Matteo 6, 28-29).

Anche chi non ha una dichiarata fede religiosa resta affascinato e rapito da tutta una serie di proprietà biologiche che «sembrano fatte apposta» per raggiungere un certo scopo, come la lingua del formichiere, perfetta per tirar su le formiche da un formicaio, o come la coda del castoro, robusta e tozza quanto basta per spatolare e compattare il fango sulle dighe che costruisce per vivere. Potremmo andare avanti all'infinito con esempi del genere — lo stesso Darwin ce ne ha indicati e «spiegati» moltissimi — e non c'è dubbio che molti studiosi si sono dedicati e si dedicano tutt'oggi alla biologia perché attratti da fenomeni del genere.

Il motivo per cui ho relegato tale problema solo al terzo posto della mia piccola graduatoria di cose da spiegare è piuttosto sottile e merita un approfondimento più avanti. Qua ci basti dire che l' adattamento, tanto di un organo all'adempimento di una specifica funzione quanto di un intero organismo alla vita nell'ambiente nel quale si trova a vivere, non è una grandezza facilmente definibile e misurabile, in quanto frutto di una visione prepotentemente antropocentrica e indebitamente finalistica, che ci porta quasi invariabilmente a gravi errori logici che sono tipici più delle pseudoscienze che della scienza.

L'adattamento a un numero crescente di condizioni ambientali vecchie e nuove può a sua volta condurre all' innovazione biologica, cioè alla comparsa di tipi nuovi di organizzazione. Oltre a un'enorme espansione della diversità degli organismi, gli ultimi tre-quattro miliardi di anni hanno visto infatti la comparsa di sempre nuove forme di organizzazione della materia vivente, alcune delle quali sembrano mostrare una complessità crescente, anche se il fenomeno è molto difficile da definire da un punto di vista scientifico. Sono state importanti innovazioni la comparsa di organismi Pluricellulari prima, dei Vertebrati poi e infine dei Mammiferi placentati, per fare solo qualche esempio. Quello della comparsa di organismi sempre più complessi è uno degli aspetti del processo evolutivo che ci colpiscono di più e spesso lo si assume erroneamente come l'essenza stessa, se non come il fine, dell'evoluzione. La nostra psicologia ci porta poi a identificare la complessità con la somiglianza agli esseri umani e un aumento di complessità con l'acquisizione di tratti tipici della nostra specie. È una visione piuttosto semplicistica che finisce per privilegiare certi aspetti del processo evolutivo e trascurarne altri. Se alcune linee evolutive procedono infatti verso forme viventi più complesse, moltissime altre appaiono ferme, tese a conservare e a perpetuare forme di organizzazione relativamente semplici originatesi magari più di tre miliardi di anni fa. Non bisogna dimenticare che i veri padroni del nostro pianeta, i vincitori indiscussi della lotta per l'esistenza, sono i batteri e le alghe elementari, organismi unicellulari che non mostrano neppure un nucleo cellulare ben distinto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 90

Il darwinismo dopo Darwin


Con queste premesse, non desta meraviglia che dal nocciolo originario della proposta darwiniana sia nata una vera e propria scienza, che si è sviluppata e perfezionata nel corso del tempo, attraverso una serie di tappe.

La prima di queste risale agli inizi del Novecento. Si riscopre la grandiosa opera di Mendel e si gettano le fondamenta della nuova scienza della genetica. Si comincia a parlare di geni e di mutazioni e si tenta di inserire queste nuove nozioni all'interno della proposta darwiniana, con grandi successi, ma anche con alcune difficoltà. Rimane per esempio ancora irrisolto il problema della nascita di organi complessi come l'occhio o dell'origine, più o meno repentina, delle grandi suddivisioni tassonomiche.

La questione della discontinuità e dei grandi cambiamenti fu uno degli argomenti principali a interessare i riscopritori della genetica all'inizio del Novecento. Ci fu chi introdusse per esempio il concetto di supermutazione, un'ipotetica mutazione particolarmente ricca di conseguenze, poiché sembrava impossibile o improbabile che si procedesse sempre attraverso piccoli cambiamenti, ma si trattava di una teoria troppo speculativa che non ha retto alla prova del tempo.

Nello stesso periodo accadono però due fenomeni fondamentali per la vicenda che stiamo raccontando: da un lato si assiste al fiorire rigoglioso di ampi studi naturalistici sul campo, dall'altro alla nascita della biologia matematica, e in particolare della cosiddetta genetica delle popolazioni, a opera di grandi autori come Ronald Fisher e John Haldane in Inghilterra e Sewall Wright negli Stati Uniti.

La matematica dell'evoluzione e la genetica delle popolazioni richiederebbero un capitolo a parte. Non è questa la sede per tale approfondimento, ma possiamo dire che è con l'affermarsi, negli anni Venti e Trenta del Novecento, di questa disciplina che nasce, finalmente, un evoluzionismo scientifico e verificabile sul campo: si postulano ipotesi precise, si segue in dettaglio l'evolversi di determinate popolazioni, si calcola la fitness dei diversi gruppi di individui e l'azione della selezione naturale attraverso un coefficiente numerico, per giungere infine a una conclusione. La proposta darwiniana dell'evoluzione diventa quindi una teoria scientifica a tutti gli effetti.

Gli esempi di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente potrebbero tranquillamente essere riproposti da un punto di vista matematico, ipotizzando in questo caso la fitness dei nostri immaginari erbivori di dimensione media o di taglia più piccola in un determinato ambiente, e osservando come questo coefficiente potrebbe variare con il passare del tempo o con il mutare delle condizioni ambientali. Nel caso poi di fenomeni reali molto studiati come la falcemia o la talassemia, si conosce con grande precisione il coefficiente di selezione degli individui normali, dei falcemici omozigoti e degli eterozigoti.

Tutto questo fervore teorico e pratico crea, dunque, intorno agli anni Trenta e Quaranta del Novecento, i presupposti per lo sviluppo di un nuovo darwinismo, che prende il nome non felicissimo di sintesi moderna. Allo sviluppo di questa danno il loro contributo grandi naturalisti come il genetista Theodosius Dobzhansky (cui si deve la celebre frase: «Niente ha senso in biologia se non nella luce dell'evoluzionismo»), il botanico Ledyard Stebbins e gli zoologi Geoge Gaylord Simpson ed Ernst Mayr.

Si giunge così alla vigilia dell'avvento del DNA e della biologia molecolare con una versione aggiornata, arricchita e «quasi» perfetta della proposta darwiniana. (È curioso notare come l'uomo creda sempre di aver raggiunto la perfezione nelle teorie scientifiche più diverse, salvo accorgersi, solo qualche tempo dopo, di essersi sbagliato, o almeno di aver corso troppo.) Questa versione aggiornata convinse all'epoca moltissime persone in tutto il mondo che la teoria di Darwin, unita alla genetica e in particolare a quella applicata alle popolazioni, fosse una scienza ormai matura e quasi definitiva, anche se permanevano parecchi interrogativi.


Le critiche scientifiche degli ultimi decenni

Negli anni Sessanta del secolo scorso, in piena rivoluzione molecolare, la teoria è ormai ben sviluppata e in continua espansione. È in grado di fare previsioni precise e molte di queste possono essere messe alla prova, in laboratorio o sul campo. I trionfi della biochimica e della genetica molecolare, un numero sempre crescente di osservazioni naturalistiche nuove e diverse, e i primi passi mossi dalla scienza dell'ecologia portano nuovi elementi di conoscenza, alcuni dei quali abbastanza sorprendenti.

All'orizzonte si profilano a questo punto due critiche scientifiche molto serie che per qualche anno mettono a dura prova l'edificio del neodarwinismo, promuovendone a conti fatti la crescita e la maturazione. Ci si rende conto che la teoria ha bisogno di qualche ritocco, soprattutto concettuale, e si arriva così a un nuovo neodarwinismo, che è poi sostanzialmente quello attuale.


La posizione biologica che formulò e promosse la prima di queste due critiche prende il nome di neutralismo, guidata principalmente dal genetista giapponese Motoo Kimura. La proposta dello scienziato giapponese si sviluppa a partire dai primi anni Sessanta quando si comincia ad analizzare in dettaglio la composizione di un grande numero di proteine. Determinando aminoacido per aminoacido la sequenza della stessa proteina prodotta in diversi individui della stessa specie, si scopre una grande variabilità, largamente inattesa: la quantità di mutazioni esistenti in ogni popolazione è quindi enorme, molto più grande di quanto ci si potesse aspettare.

Il fenomeno è stato pienamente confermato successivamente, quando si è avuta la possibilità di paragonare fra di loro le sequenze dei geni e dei genomi oltre che delle proteine. Tra due esseri umani scelti a caso, per esempio, esistono più o meno tre milioni di nucleotidi diversi. Poiché il genoma umano consta di tre miliardi di nucleotidi, significa che tra una persona e un'altra è diverso un nucleotide su mille. Oggi questo è un dato che non ci turba più di tanto, ma in quel periodo sconcertò non poco scoprire l'esistenza di una tale quantità di mutazioni negli individui della stessa popolazione, a brillante conferma dell'ipotesi originaria di Darwin. E questo crea una difficoltà concettuale di un certo peso. Vediamo perché. La stragrande maggioranza di tali mutazioni è per così dire innocua, non ha alcun effetto sul fenotipo, vale a dire sull'aspetto esterno, sul comportamento e sullo stato di salute degli individui in questione, non offrendo così alcuna opportunità alla selezione naturale di esercitare il suo potere di discriminazione. Le mutazioni che non incidono sul fenotipo di chi le porta sono dette silenti o neutrali; da qui il nome, neutralismo, del movimento critico in questione, che sostiene appunto che nella realtà c'è troppo poco spazio per l'azione della selezione naturale, mentre l'eccezionale quantità delle mutazioni esistenti nelle popolazioni favorisce l'azione di fenomeni biologici di natura diversa, che agiscono in maniera casuale e non direzionale, e dei quali parleremo più avanti.

Si è trattato insomma di un attacco al ruolo primario della selezione naturale nel processo evolutivo, a vantaggio di altri fenomeni di natura genetica più nuovi e sofisticati, che rendono ancora più casuale il procedere del tutto. Poiché si trattava di una proposta ben articolata, documentata e confermata da un gran numero di esperimenti, non se ne poteva non tenere conto. E così è stato, anche se ci sono voluti alcuni anni di ricerca e di dibattito teorico — di natura prevalentemente matematica — perché l'obiezione neutralista venisse assimilata e inglobata in un neodarwinismo più maturo e consapevole. Il quale sostiene in sostanza che, accanto all'azione selettiva e direzionale della selezione naturale, operano nei millenni anche altri meccanismi biologici ancora più «ciechi» ed erratici.

La natura prevalentemente matematica di queste discussioni e delle successive elaborazioni ha impedito però che questo dibattito di importanza capitale avesse la dovuta eco nel grande pubblico, che quindi lo ha di fatto ignorato.


Così non è stato per la seconda grande critica mossa alla teoria dell'evoluzione di stampo neodarwinista. Questa critica, nata in sede paleontologica, è stata prevalentemente portata avanti da due grandi naturalisti come Niles Eldredge e Stephen Jay Gould , ed è stata oggetto di una certa attenzione grazie anche al successo di libri scritti per il grande pubblico da quest'ultimo.

I nostri autori evidenziarono, nei tardi anni Sessanta, che se si osserva la progressione dei vari resti fossili nel tempo, si nota un fatto a prima vista sorprendente: esistono periodi piuttosto brevi in cui si accumulano moltissime variazioni evolutive e intervalli di tempo più lunghi in cui sembra, al contrario, non accadere quasi nulla. Si sono verificati quindi di tanto in tanto veri e propri terremoti evolutivi, a cui sono seguiti periodi di stasi e di assestamento.

Dalla descrizione di questo fenomeno nasce il termine saltazionismo, poiché sembra quasi che l'evoluzione «salti» da un episodio evolutivamente rilevante all'altro. Questo è uno dei due nomi con i quali è nota questa obiezione; l'altro nome, teoria degli equilibri punteggiati, fa riferimento, invece, all'impressione di un'alternanza nel tempo di lunghi periodi di equilibrio e di stasi — in cui non succede niente di clamoroso — intervallati da brevi periodi di grande cambiamento.

L'illustrazione più nota di questo stato di cose si ha con la cosiddetta «esplosione del Cambriano», un episodio evolutivo di eccezionale rilevanza, di cui si avrà ampiamente modo di riparlare. Intorno a seicento milioni di anni fa sono comparsi in una sola volta praticamente tutti i principali tipi di animali esistenti. Ciò è avvenuto quasi all'improvviso in un periodo di soli, si fa per dire, venti milioni di anni. Prima regnava una relativa quiete; poi è seguito un lungo periodo di assestamento. Ma l'evento, che ha meritato appunto l'epiteto di esplosione, è stato di proporzioni più che notevoli. Sono comparse infatti trenta delle trentadue divisioni tassonomiche principali del regno animale, tra cui gli Artropodi e i Cordati. Come vedremo, quasi tutto quello che è oggetto di una trattazione scientifica da parte della teoria dell'evoluzione riguarda di fatto il periodo che va da quell'esplosione a oggi, anch'esso ricco di eventi. Nonostante gli enormi cambiamenti che si sono verificati in concomitanza con l'esplosione del Cambriano, ancora non erano apparsi a quello stadio gli Insetti o i Vertebrati, ma solo i loro «capostipiti»: gli Artropodi e i Cordati.

L'esplosione del Cambriano è il più imponente di questi eventi «rivoluzionari», ma non è l'unico. La paleontologia più moderna rivela infatti un'infinità di periodi di grande effervescenza evolutiva alternati ad altri di «quiescenza», cioè di relativa calma evolutiva. Se l'esplosione del Cambriano ha riguardato quasi tutto il pianeta e ha agito al livello dei tipi animali, questi altri episodi hanno avuto un'importanza prevalentemente locale restando circoscritti a certe classi o a certi ordini di animali e di piante. Ciò non toglie che molti di essi abbiano avuto notevole rilevanza.

Anche la critica saltazionista possedeva un'indiscutibile validità scientifica e non si è potuto non tenerne conto. Si è dovuto quindi prenderne atto nell'unico modo scientificamente possibile e appropriato: modificando alcuni punti, soprattutto teorici, della teoria evolutiva. Ne è scaturita una teoria più aderente alle osservazioni sperimentali e meno esposta a rilievi di carattere teorico. Possiamo dire che intorno agli anni Ottanta l'edificio dell'evoluzionismo neodarwinista si è rafforzato, anche grazie all'assimilazione dei punti essenziali delle due critiche scientifiche appena riportate. Vedremo tra un attimo di cosa si tratta, ma è a questo edificio teorico che mi sono riferito fin dall'inizio del libro.

Non si può negare però che le affermazioni del saltazionismo e il modo con cui vennero a suo tempo presentate turbarono non poco i sonni degli studiosi dell'evoluzione e furono attaccate con forza dai difensori della visione tradizionale. Dovrebbe essere chiara qual è la posta in gioco: evoluzione a salti (saltazionismo) piuttosto che graduale (gradualismo), e che procede in maniera discontinua (discontinuismo) piuttosto che continua (continuismo).

Oggi tutto ciò ci fa un po' sorridere, ma fiumi di inchiostro sono stati versati in passato, su entrambi i fronti, da scienziati e non. Anche per motivi commerciali si è molto enfatizzato il contrasto tra i pubblicisti saltazionisti come Gould e quelli di stampo più ortodosso come Richard Dawkins. In questa disputa mediatica Gould ha interpretato a lungo il ruolo del paladino dei grandi cambiamenti improvvisi, mentre i darwinisti più ortodossi rimanevano fedeli all'idea dei piccoli mutamenti che si susseguono con continuità. Come abbiamo visto, e ancora vedremo in seguito, tra i concetti che più hanno fatto le spese di questo conflitto teorico c'è quello di adattamento, un concetto a cui gli evoluzionisti più ortodossi, come per esempio George Williams, tendono ancor oggi ad attribuire un valore maggiore rispetto agli altri.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 104

Ricapitolando, fra i vari geni di un organismo, soprattutto fra quelli attivi durante lo sviluppo embrionale, esiste una precisa organizzazione gerarchica. Alcuni, pochi, controllano l'attività di molti altri. Anche fra i geni regolatori ci sono delle gerarchie e una precisa disposizione spazio-temporale: prima se ne attivano alcuni in determinate regioni del corpo o dell'embrione, poi altri in zone diverse. Alla fine di questa cascata di attivazioni geniche, entrano in ballo i geni esecutori che realizzano materialmente l'opera. In fondo è tutto molto logico, ma... bisognava arrivarci.

È inutile aggiungere che quando uno di questi geni di alto livello gerarchico, e in particolare dei geni architetti, muta, sono guai grossi per l'individuo in questione. Nella grande maggioranza dei casi l'evento risulterà fatale, ma nelle rare occasioni in cui ciò non avviene può darsi che si profili all'orizzonte evolutivo una nuova forma di vita.


Queste scoperte abbastanza recenti, delle quali sono stato testimone diretto e alle quali ho personalmente contribuito, implicano almeno tre cose diverse, tutte di estrema importanza per il nostro discorso.

La prima ha a che fare con la sostanziale e sorprendente unitarietà degli esseri viventi. Già si sapeva che tutti gli organismi viventi usano un identico codice genetico: i tre nucleotidi TTT sul DNA specificano in ogni organismo l'aminoacido fenilalanina, i tre nucleotidi ATG l'aminoacido metionina e via discorrendo. Tutti i viventi sono inoltre costituiti di cellule e queste sono avvolte in una membrana cellulare di costituzione molto simile. Il macchinario che porta alla sintesi delle proteine, infine, è ovunque lo stesso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 114

Evoluzione e sviluppo embrionale

Uno degli effetti non secondari di tutte queste scoperte è quello di aver ispirato nei biologi la nuova consapevolezza che spesso non sono gli individui a evolvere, ma i processi di sviluppo. Quasi nessun individuo nasce infatti adulto, ma lo diventa e, nel cammino verso questo stadio, lo sviluppo ontogenetico – tutto ciò che accade nel periodo che intercorre tra la fecondazione e lo stadio adulto – può prendere diverse strade. Oggi possiamo sostenere senza timore di smentita che la teoria evolutiva degli organismi pluricellulari tratta innanzitutto dell'evoluzione dei processi di sviluppo degli esseri in questione.

Non è un caso quindi che si sia venuta a imporre di recente una nuova disciplina, molto di moda negli ultimi tempi, che prende il nome di Evo-Devo, una contrazione di Evolutionary Developmental Biology, ovvero una biologia dello sviluppo studiata sotto il profilo evoluzionistico. Si tratta di una scienza che si propone di indagare contemporaneamente lo sviluppo embrionale e l'evoluzione in un unico contesto disciplinare.

In teoria si sarebbe dovuto procedere in questa direzione da sempre, poiché l'evoluzione riguarda lo sviluppo, ma lo studio dello sviluppo embrionale presenta delle difficoltà che solo di recente si sono potute aggirare. L'uomo, poi ama coniare nuovi termini e così è nata questa nuova disciplina. Oggi non esiste comunque uno studio embriologico che non rientri o non possa rientrare nell'ambito dell' Evo-Devo. Come tutte le mode, questa gode forse di una considerazione esagerata, ma sicuramente è molto produttivo pensare in termini di evoluzione e sviluppo o di evoluzione dello sviluppo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 118

Il neodarwinismo oggi

A seguito delle critiche scientifiche alla teoria dell'evoluzione, poi metabolizzate, e delle continue clamorose scoperte nel campo della genetica, della biologia dello sviluppo e molecolare, ma anche della zoologia, della botanica e dell'ecologia, ha preso corpo una proposta scientifica che oggi ci sembra l'unica valida e che possiamo chiamare neodarwinismo contemporaneo. Si tratta di una teoria che da quindici anni circa si è stabilizzata e di cui possiamo finalmente esporre i punti fondamentali, anche se non è questa la sede per addentrarsi troppo a fondo nella sua articolazione.

L'intera situazione può essere facilmente riassunta con una considerazione di carattere generale: se la teoria di Darwin e le sue prime varianti risultavano assai difficili da accettare perché conferivano al caso e a eventi casuali un'importanza secondo molti esagerata, il moderno neodarwinismo ha finito per assegnare al caso un ruolo ancora maggiore, così che questo è divenuto protagonista assoluto della vicenda evolutiva. Abbiamo già avuto modo di definire cosa si intende con il termine caso. Vediamo quindi più specificamente di che cosa stiamo parlando e come il caso entri di diritto in molte, moltissime vicende evolutive.

Se i capisaldi della moderna teoria dell'evoluzione rimangono infatti ancora oggi quelli della proposta originaria di Darwin, ci si rende conto con sempre maggior evidenza del fatto che la vita non si sarebbe evoluta e non apparirebbe come è se non ci fossero stati nei secoli e nei millenni grandissimi sconvolgimenti di natura essenzialmente casuale, che possiamo assegnare ad almeno tre grandi categorie: quelli non biologici, quelli biologici esterni e quelli genetici o biologici interni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 127

Adattamento & Co

Abbiamo lasciato un po' in sospeso il discorso dell'adattamento e del suo ruolo concettuale nell'ambito delle spiegazioni evolutive. Siamo giunti al momento di riprendere le fila del discorso, anche tenendo conto di quanto abbiamo detto.

Il discorso dell'adattamento (adaptation) è talmente chiaro di per sé, che non dovrebbe presentare dei problemi. Tutti gli esseri viventi sono e sono stati adatti alla vita nel loro ambiente, altrimenti non ci sarebbero stati. Si ritiene però generalmente, e niente lo può smentire, che gli organismi che sono venuti dopo in una determinata linea evolutiva siano più adatti dei loro antenati a quel tipo di vita. Ciò soddisfa la nostra intuizione e ci fornisce una chiave per capire la direzione del processo evolutivo nel suo complesso, chiave ben presente nella mente di Darwin e per nulla da lui disdegnata. È proprio da queste premesse che nasce la frase: «La selezione naturale seleziona gli individui più adatti».

Fin qui tutto bene. Il problema nasce quando si tenta di dare una formulazione scientifica a queste impressioni e a queste affermazioni. Ricapitoliamo.


Va detto innanzitutto che la constatazione dell'adattamento di una struttura o di un comportamento a un certo ambiente può essere effettuata solo a posteriori. Noi riscontriamo un adattamento osservando che quel particolare organismo che vive in un dato ambiente ha escogitato quel determinato trucco. Non possiamo conoscere nei dettagli come era quell'organismo prima di adattarsi a quell'ambiente e soprattutto non sappiamo se avrebbe potuto adattarsi anche meglio sviluppando altre caratteristiche strutturali o comportamentali. Quindi l'adattamento è una realtà riconoscibile solo a posteriori, sulla base di un'interpretazione.

In secondo luogo, allo stesso ambiente ci si può adattare in mille modi diversi. Noi osserviamo quindi alcune forme di adattamento, non l' adattamento. Alle condizioni di una certa zona desertica si sono adattate certe piante, certi rettili, certi insetti, certi uccelli e perfino certi piccoli mammiferi, senza che si possa dire chi si sia adattato meglio o quale sia il trucco più riuscito e soprattutto se si sarebbe potuto escogitare qualcosa di ancora migliore. L'adattamento quindi non è assoluto ma relativo a certe condizioni: date certe condizioni ambientali e biologiche di partenza — essere un rettile, un insetto o una pianta con certe caratteristiche — si riscontra o meno un buon adattamento.

In terzo luogo, il grado di adattamento non si può misurare e neppure comparare: si tratta in sostanza di un parametro isolato e qualitativo. Non si può affermare che una struttura o un comportamento sono meglio adattati di altri, sia che questi ultimi siano presenti nella stessa specie sia in organismi di altre specie. Al massimo si può affermare che un organismo che sta invadendo un nuovo ambiente è per il momento molto male adattato a certe caratteristiche di quell'ambiente. È molto probabile per esempio che un dromedario o un'ara avrebbero qualche difficoltà a vivere in Antartide. È più facile in sostanza riscontrare o sottolineare un non-adattamento che il contrario.

Ci dobbiamo quindi accontentare di una definizione intuitiva e approssimata di adattamento. In questa luce è decisamente inappropriata, come abbiamo visto, quella formulazione ingenua dell'evoluzionismo darwiniano secondo la quale la selezione naturale favorirebbe gli individui più adatti. Anche se alla fine il significato è quello, questa formulazione non soddisfa alcun criterio di scientificità e non ha nessun valore predittivo. Si tratta di un'affermazione di grande effetto ma di natura intrinsecamente circolare. Come faccio infatti a sapere chi sono i più adatti se non osservando quegli individui che sono stati selezionati? Come faccio a distinguere gli adatti dai più adatti? Come faccio infine a comparare il grado di adattamento delle due sottospecie che così di frequente la selezione naturale finisce per sostituire a una data specie?

Questa formulazione avrebbe un significato non ambiguo solo se disponessimo di un criterio indipendente, e magari quantitativo, per valutare il grado di adattamento a determinate condizioni ambientali di una struttura o di una funzione, ma questo criterio, almeno per il momento, non esiste. La formulazione corretta, anche se certamente meno soddisfacente dal punto di vista psicologico, è quella secondo cui la selezione naturale favorisce preferenzialmente alcuni individui di una data specie rispetto ad altri. Negli individui che la selezione ha favorito possiamo riconoscere alcuni tratti di un buon adattamento a quell'ambiente, ma anche altri che difficilmente potrebbero essere definiti tali. La selezione infatti opera sugli individui nel loro complesso, non sui singoli tratti biologici. La formulazione più corretta potrebbe quindi essere: la selezione naturale assegna una capacità riproduttiva differenziale ai vari tipi di individui presenti in ogni istante all'interno di una data popolazione. Secondo la visione corrente, tutto il resto deriva da questa azione selettiva differenziale.

A parte questa formulazione comune, più cauta e fondamentalmente inoppugnabile, occorre dire che non tutti sono d'accordo riguardo a una svalutazione del concetto di adattamento biologico. Alcuni naturalisti, soprattutto di lingua e tradizione anglosassone, attribuiscono tutt'oggi una notevole importanza al concetto di adattamento e vengono di solito definiti adattamentisti o iperadattamentisti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 134

A rigore, insomma, non esistono neppure i geni per fare le gambe, le mani o quelli per fare le antenne, contrariamente a quanto abbiamo detto in precedenza. Il singolo gene ignora, per così dire, ciò che è destinato a fare. È lì per sintetizzare il suo prodotto e basta. Se questo verrà utilizzato per produrre una struttura biologica oppure un'altra, non lo riguarda affatto. Innanzitutto perché i prodotti di un gene possono essere utilizzati per la costruzione di un certo numero di strutture biologiche diverse nello stesso organismo. E, in secondo luogo, perché lo stesso gene può entrare nella costruzione di strutture biologiche diverse in specie differenti. Quello che cambia da una specie all'altra è la regia, non gli attori, che sono invece notevolmente conservati.

Di recente ha sollevato un certo scalpore la notizia che le spugne, che sono fra gli organismi più primitivi e che vivono in colonie, possiedono alcune proteine molto simili a quelle utilizzate nel sistema nervoso degli animali superiori per far funzionare le sinapsi, le minuscole connessioni dei nervi tra di loro. Nelle spugne, però, le proteine in questione sembrano compiere una funzione assai differente: regolare o meno l'adesione di una cellula all'altra nello sviluppo di una colonia. A parte il fatto che dal punto di vista astratto le due funzioni non sono poi così differenti – in un caso come nell'altro si tratta di riconoscere e discriminare, una funzione fondamentale per la vita nel suo complesso –, che cosa c'è di strano in questa interessante scoperta? La chiave per comprendere il fenomeno è tutto sommato molto semplice: i geni in questione non producono né strutture di riconoscimento fra cellule di spugna né complessi sinaptici di animali superiori; si limitano semplicemente a produrre il loro prodotto, che può essere utilizzato per questo oppure per quel fine.

Il fatto è che la vita, in tutte le sue manifestazioni, dalla replicazione dei virus all'intelligenza e al pensiero, è di natura intrinsecamente e inesorabilmente molecolare. Perché pensare che la replicazione cellulare e la digestione siano fenomeni molecolari, mentre la memoria e la creatività no? Gli attori sono sempre gli stessi. Inconsapevoli nel senso più metaforico del termine. Le molecole si aggregano, si parlano, si separano, che si tratti di spugne o di Mammiferi, di aggregazione cellulare o della risoluzione di un problema. La differenza non risiede nella natura intrinseca di questi fenomeni, ma nel nostro modo di considerarli.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 136

Quando si scende al livello dei geni e delle molecole il panorama cambia radicalmente e molti termini introdotti per l'analisi al livello degli organismi perdono parte del loro significato. Dobbiamo sbarazzarci quindi del tutto di questi termini? Direi di no. Sono ancora utili al livello descrittivo e illustrativo, allo stesso modo in cui si può parlare di febbre, anche se oramai si conoscono i meccanismi che la generano, o di prurito, anche se si sa con precisione che cosa c'è dietro.

Non c'è dubbio per esempio che nel quadro generale di una diversificazione degli organismi viventi si possono riconoscere innumerevoli esempi di strutture più o meno ben adattate ad alcuni aspetti dell'ambiente e dello stile di vita tipici delle singole specie. In questo contesto il concetto di adattamento è uno di quelli più usati e più presenti nella mente di chi parla, con professionalità o meno, di evoluzione. Più o meno inconsciamente, molti sono portati a concepire le varie specie come statuine di plastilina che possono assumere varie forme e acquisire varie caratteristiche sotto la spinta della selezione naturale, che le modella sulle caratteristiche del loro ambiente. Non si tratta di un'immagine del tutto campata in aria, a patto però che si consideri che l'evoluzione naturale plasma, col tempo, solo ciò che è di fatto plasmabile; cioè ciò che non è vietato dalle leggi della fisica e della chimica e, soprattutto, ciò che è compatibile con l'esistenza di un genoma che deve permanere non molto diverso da se stesso ed essere trasmesso da una generazione all'altra. L'esistenza di un genoma attribuisce al blocco di plastilina un'anima di metallo all'interno. Queste limitazioni ineludibili – di natura fisica, chimica o biologica – che condizionano il processo evolutivo vero e proprio, effetto della variazione e della conseguente selezione, vengono dette vincoli evolutivi. Per esempio, il fatto che le balene e i delfini non abbiano sviluppato strutture di tipo branchiale, certamente più adatte dei loro polmoni alla vita acquatica, deve essere considerato come effetto di qualche tipo di vincolo essenzialmente biologico, dovuto alla struttura del genoma o alle leggi dello sviluppo.


Va detto inoltre che il concetto di adattamento e la schiera di termini che lo accompagna trovano la loro più legittima utilizzazione quando si segue l'evoluzione di una specie o di un genere lungo una particolare linea evolutiva. In quel caso, poiché si sa già come va a finire la storia, almeno fino a un certo punto, i concetti di valore adattivo e selettivo coincidono e l'evoluzione acquista una sua plausibilità e un grado di persuasione psicologica di cui è difficile ignorare l'influenza.

Prendiamo la storia del cavallo. Negli ultimi cinquantacinque milioni di anni si è passati da un piccolo Mammifero che possedeva quattro zampe a cinque dita, terminanti con altrettanti piccoli zoccoli, e che si cibava di foglie a un animale un po' più grande che si cibava d'erba e infine al possente animale che conosciamo oggi, che si ciba sempre di erba ma possiede zampe dotate di un solo dito a forma di zoccolo. Il cavallo che ci è familiare appartiene al genere Equus, che comprende al momento sei o sette specie più o meno rappresentate. Grazie ai resti fossili, la storia degli antenati del cavallo si può appunto delineare almeno a partire da circa cinquantacinque milioni di anni fa. A quell'epoca, dieci milioni di anni dopo l'estinzione in massa dei dinosauri e l'inizio del faticoso cammino dei Mammiferi, si fa risalire l'esistenza di un animale delle dimensioni di un grosso gatto chiamato oggi Hyracotherium, un tempo Eohippus. Questo ungulato primitivo viveva in un ambiente caldo e umido. Con le sue svelte zampe (quelle davanti con quattro dita, e tre per quelle posteriori) si muoveva agevolmente sui terreni melmosi e si cibava delle foglie tenere dei rami bassi degli arbusti di latifoglie. Da questo protocavallo deriva direttamente il Mesohippus che popolò l'America Settentrionale venti milioni di anni dopo. Era leggermente più alto del suo antenato, le sue zampe possedevano tre dita (quella centrale più sviluppata delle altre due), aveva un muso più allungato e un cranio leggermente più voluminoso.

Quando il clima da caldo e umido divenne sempre più freddo e più arido, le foreste di latifoglie cedettero il posto a grandi estensioni di steppe erbose. Si osservò allora una radiazione di vari generi, alcuni dei quali continuarono a mantenere il loro stile di vita cercando sempre nuovi ambienti finché non si estinsero. Esaminando i resti fossili di questi generi estinti appartenenti a linee evolutive collaterali possiamo trovare le tracce degli esperimenti naturali più diversi che includono sia forme giganti (Megahippus) che forme nane (Archaeohippus). Il genere destinato a perpetuarsi fino ad arrivare al cavallo dei giorni nostri è invece il Merychippus che quindici milioni di anni fa imparò a cibarsi di erba, grazie a una progressiva trasformazione della sua dentatura, e a correre sicuro sul terreno compatto delle praterie, grazie alle sue zampe che terminavano con uno zoccolo centrale, già preminente rispetto a quelli delle altre due dita. Nel periodo successivo seguirono molte altre radiazioni evolutive, tra le quali vale la pena di ricordare il genere Pliohippus, che visse meno di dieci milioni di anni fa e che mostra ormai quasi tutti i caratteri del cavallo moderno.

Percorrendo questa serie evolutiva dall' Hyracotherium all' Equus si possono osservare molte trasformazioni secolari come l'aumento delle dimensioni del cranio e di tutto il corpo e la progressiva trasformazione degli arti e della dentatura. Accanto a queste trasformazioni che col senno di poi ci sembrano condurre da qualche parte, si possono però osservare innumerevoli tentativi di percorrere altre vie. Le specie di cui ci sono giunti i resti fossili, senza contare quelle delle quali non possediamo al momento alcuna documentazione concreta, testimoniano chiaramente di un continuo, quasi affannoso, tentativo di proporre nuove soluzioni evolutive. Solo pochissime di queste si sono rivelate valide, per pregi intrinseci o per puro caso, e hanno condotto al cavallo. Questo a sua volta non è l'unico mammifero di successo. È solo uno dei tanti che popolano il nostro pianeta. La storia evolutiva del cavallo, una delle meglio costruite e probabilmente emblematica di molte altre, non è che una successione di eventi individuati dal naturalista e collocati da questi in un ordine temporale significativo. Come questa se ne potrebbero individuare miriadi di altre: la stragrande maggioranza di tali storie non avrebbe un lieto fine ma rappresenterebbe un ramo morto. L'unico dato certo è la continuità per discendenza diretta di un certo numero di individui e il fatto, innegabile, che ci sia qualcuno che li sta studiando.

Un'altra applicazione molto conveniente del concetto di adattamento si può riscontrare nell'analisi dell'evoluzione delle caratteristiche di un organo specifico lungo una particolare linea evolutiva. L'elefante, per esempio, non aveva probabilmente alcuna necessità di possedere una proboscide. Ma dal momento che gli è toccata, la selezione ha fatto in modo che questo organo fosse sempre più utile, anche se nessuno conosce ancora tutte le sue potenzialità. Insomma, data una struttura o una funzione biologica, la selezione opera in modo da renderla sempre più adatta al suo ruolo. Ancora una volta possiamo dire che la selezione naturale rifinisce e perfeziona secondo criteri suoi propri ciò che il caso ha offerto e messo in campo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 159

Sviluppi e implicazioni



Data l'estrema difficoltà, l'impossibilità quasi, di concepire l'universo, immenso e meraviglioso, incluso l'uomo, con la sua capacità di guardare lontano verso il passato e verso il futuro, come il risultato di un cieco caso o di una necessità (as a result of blind chance or necessity). CHARLES DARwIN, Autobiografia (1876)


Riassunto minimo

Possiamo a questo punto riassumere i punti salienti dell'attuale concezione del processo evolutivo in maniera più astratta e semiformalizzata.

Tutti gli esseri viventi attuali discendono dagli stessi esseri viventi primordiali attraverso una catena ininterrotta di generazioni. In ogni epoca le caratteristiche biologiche degli individui della stessa specie sono pressoché identiche e sono codificate dal loro patrimonio genetico. Questo però non è esattamente lo stesso in ogni individuo poiché in ogni specie c'è una continua comparsa di alterazioni genetiche più o meno significative.

Non tutti gli individui di una data specie hanno lo stesso successo riproduttivo, spesso anche in conseguenza delle caratteristiche biologiche del loro fenotipo, dettate dalla particolare forma di patrimonio genetico che costituisce il genotipo.

In genere quindi gli individui di una data generazione possono essere diversi da quelli della generazione precedente. Questa diversità può essere trascurabile e/o fluttuare in modo da lasciare le cose sostanzialmente immutate, oppure può assumere proporzioni cospicue e accumularsi per qualche generazione.

Gli individui di una data specie possono quindi acquisire nelle generazioni caratteristiche biologiche diverse e/o dare luogo a un certo numero di specie differenti.

La teoria dell'evoluzione biologica sta tutta qui, con l'aggiunta di alcune precisazioni:

1) La generazione della variazione genetica avviene prevalentemente mediante una mutazione, un evento sostanzialmente casuale.

2) Il successo riproduttivo differenziale dei vari individui può essere determinato o meno direttamente dal loro fenotipo. Quando ciò accade, e si tratta della grande maggioranza delle situazioni, si parla di selezione naturale, un'azione selettiva che l'ambiente esercita sui diversi individui di una stessa specie sulla base dei loro fenotipi.

3) C'è nel mondo scientifico una certa disparità di vedute sull'importanza relativa della selezione naturale rispetto a un complesso di processi biologici diversi che conducono ugualmente a una variazione nelle proporzioni relative degli individui di una data specie, ma in maniera sostanzialmente indipendente dal loro rispettivo fenotipo. Né l'una né l'altra componente possono però essere trascurate e la loro importanza relativa varia da un'epoca all'altra e da una situazione all'altra.

Questo è, in estrema sintesi, il messaggio biologico della teoria dell'evoluzione degli esseri viventi su questo pianeta. Se ce ne siano di diversi su altri pianeti di altri corpi celesti non lo sappiamo, ma essi potrebbero anche presentare caratteristiche diverse e seguire principi un po' diversi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 173

Che cosa spiega e che cosa non spiega la teoria dell'evoluzione

In sostanza, a quale domanda risponde la teoria? Cominciamo dall'analisi del suo potere esplicativo. La teoria dell'evoluzione è una teoria scientifica e come tale non spiega tutto. Anche nella sua forma più moderna, il neodarwinismo, non può rendere conto di ogni fenomeno. Ha un suo campo di validità, entro il quale spiega molto bene quasi tutto, ma ha anche regioni dove non è di molto aiuto e altre nelle quali quasi non serve.

Ci sono persone convinte che la teoria evoluzionistica non spieghi nulla — e tutto il presente libro ha l'obiettivo di mostrare come questi abbiano torto —, ma c'è anche chi pensa che possa andare bene per tutto. Pure costoro sbagliano, poiché una teoria che spieghi ogni cosa non è una teoria scientifica, ma un articolo di fede. Vediamo allora in dettaglio che cosa spiega e che cosa non spiega la proposta neodarwiniana, fissando innanzitutto tre date.

La prima risale a tre miliardi e ottocento milioni di anni fa e riguarda la comparsa dei primi esseri viventi sulla Terra. La seconda si aggira invece intorno ai seicento milioni di anni fa e prende il nome di esplosione del Cambriano. Si è trattato, come abbiamo già detto, di un periodo durante il quale, in poco tempo — in verità circa venti milioni di anni —, sulle terre emerse si sono formate quasi tutte le divisioni tassonomiche importanti del regno animale: per la precisione trenta su trentuno-trentadue. Non sappiamo esattamente che cosa sia successo, ma in tempi relativamente rapidi si sono costituiti tutti i grandi tipi animali. La terza data di cui si deve tenere conto risale a sei o sette milioni di anni fa, quando i primi antenati diretti dell'uomo si sono differenziati più o meno chiaramente dalle scimmie antropomorfe superiori.

Tenendo presente questi tre momenti, possiamo affermare che la teoria dell'evoluzione non spiega quello che è successo prima di tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Spiega abbastanza bene, anche se non del tutto, quello che è accaduto da quel momento fino a circa seicento milioni di anni fa, mentre spiega perfettamente tutto quello che è avvenuto dopo.


La teoria dell'evoluzione non può infatti funzionare in assenza di esseri viventi. Anche ciò che è avvenuto nel periodo che precede la data di tre miliardi e ottocento milioni di anni fa prende spesso il nome di evoluzione, per la precisione evoluzione chimica o prebiotica, ma sarebbe meglio utilizzare un altro termine per evitare ambiguità: non si tratta certo di evoluzione biologica, proprio per la mancanza di esseri viventi. La spiegazione darwiniana, ma anche quella neodarwiniana, è quindi totalmente impotente nello spiegare quello che è successo prima della formazione del primo genoma, presente in un organismo capace di vita autonoma.

Non è in grado di far luce neanche su quello che è avvenuto nel lungo periodo che ha preceduto l'esplosione del Cambriano. In questo caso non per la mancanza di materia prima — poiché esistono in questo lasso di tempo tanti organismi dotati di genomi che possono portare mutazioni ed essere esposti all'azione della selezione —, ma sono le condizioni ambientali in cui tutto ciò avvenne a sfuggirci quasi completamente. La spiegazione neodarwiniana nel suo nucleo concettuale vale anche in questo caso, ma non sappiamo bene come applicarla, poiché non conosciamo tutto quello che effettivamente è accaduto nell'ambiente circostante.

La teoria darwiniana spiega invece molto bene quello che è successo negli ultimi seicento milioni di anni, e non è poco, poiché in realtà tutto ciò di cui si parla di norma riguarda proprio questo periodo. Seicento milioni di anni fa non c'erano i Vertebrati, né gli Insetti. A maggior ragione non esistevano i Mammiferi o i Ditteri. Tutti questi si sono formati successivamente, durante il periodo in questione. Si tratta quindi di un intervallo di tempo molto ampio per il quale abbiamo una conoscenza assai più profonda di tutto quello che è avvenuto dal punto di vista esterno alla vita.

Non bisogna dimenticare però il fatto che, per esempio, ancora oggi siamo all'oscuro di che cosa materialmente abbia portato alla scomparsa dei dinosauri: possiamo fare solo delle ipotesi. Anche in questo caso non è però la teoria dell'evoluzione a essere insufficiente, ma è l'ignoranza delle condizioni di contorno che non ci permette di articolare i dettagli della vicenda. Al contrario, più ci si avvicina al presente e maggiori sono le informazioni — sulle glaciazioni e interglaciazioni, sulla comparsa e scomparsa di montagne e fiumi, sulla saldatura o frattura di continenti —, così che l'apparato teorico della teoria dell'evoluzione è in grado di trovare un'applicazione concreta.


Sbagliano quindi coloro che affermano che la teoria dell'evoluzione rappresenta una spiegazione completa degli eventi biologici, anche se non di molto: tutto quello che è avvenuto di importante sulla Terra viene infatti chiarito dalla proposta neodarwiniana. Esistono poi in questa storia due eventi critici, anche se per motivi assai diversi: l'inizio della vita e la comparsa dell'uomo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 200

Il fatto che l'espressione «evoluzione culturale» contenga il termine evoluzione non deve trarre in inganno. È evidente che questo processo non ha molto di biologico, anche se non può prescindere da un tale supporto. Non si appoggia infatti né sulla trasmissione ereditaria di caratteri vecchi o nuovi né sulla selezione di certi individui piuttosto che di altri. L'aggettivo «culturale» annulla completamente la portata del sostantivo: l'evoluzione culturale non è assolutamente una forma di «evoluzione» biologica. È un'invenzione della nostra specie che non può essere paragonata a nient'altro che a se stessa. La suggestione che emana dal termine «evoluzione» getta però indirettamente una luce particolare sulla concezione che i più hanno dell'evoluzione biologica e anche dell'evoluzione culturale stessa. Poiché l'evoluzione culturale è effettivamente un fenomeno cumulativo e progressivo che ha portato gli uomini dalle caverne ai grattacieli, si è indotti a pensare che anche l'altra evoluzione, quella biologica, sia intrinsecamente un fenomeno cumulativo e progressivo. Abbiamo visto che ciò non è vero, se non in alcuni aspetti molto marginali. Eppure molte persone anche colte tendono a concepire l'evoluzione biologica come una lenta e naturale ascesa degli organismi viventi dalla semplicità dell'ameba alle sofisticate costruzioni materiali, mentali e sociali dell'uomo.

Sempre sulla base della suggestione che promana dalla parola «evoluzione», molti si chiedono se si tratta di evoluzíone darwiniana o lamarckiana. Forse è necessario ribadire che il fenomeno non ha niente in comune con l'evoluzione biologica, in merito alla quale può avere un senso chiedersi se segua principi darwiniani o lamarckiani. Purtroppo molta gente fatica ad accettarlo, un po' perché ama parlare comunque di evoluzione culturale ritenendo di conoscerla bene, un po' perché è comodo poter seguire una falsariga già determinata e stabilita come quella rappresentata dall'evoluzione biologica. Ma è comunque un'operazione sconsigliabile, perché piena di trabocchetti che sanno scansare solo le persone molto esperte. Come si possono applicare all'evoluzione culturale i criteri messi a punto per quella biologica, anche solo su un piano analogico? Chi sono in questo caso gli individui? Quali sono i genomi? Che cos'è la mutazione? Che cos'è la selezione naturale? E la prolificità differenziale? Insomma, è un'impresa sostanzialmente sterile, che confonde più che chiarire. Dei quattro processi evolutivi concepibili — quello degli astri, quello chimico o prebiotico, quello biologico e quello culturale — solo a quello biologico si applicano i principi che siamo andati illustrando. Sarebbe meglio non dimenticarlo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 205

Quanto è potente l'azione dell'apprendimento culturale sull'individuo singolo? E soprattutto che tipo di realtà instaura? Volendo affrontare questo interrogativo in maniera seria ci si trova a navigare per così dire fra Scilla e Cariddi. Da una parte sta l'inconfutabile conclusione che biologicamente l'uomo non è niente di più del prodotto del suo patrimonio genetico. Dall'altra, l'altrettanto inconfutabile osservazione che ogni uomo vive fin dai primissimi anni in un universo culturale, in primo luogo linguistico, che ne fa quasi subito un essere molto diverso da qualsiasi altro animale conosciuto. Procedere senza contraddire nessuna di queste due affermazioni – e anzi possibilmente mettendole d'accordo senza inventarsi soluzioni ad hoc –, è al momento fuori della nostra portata, ma rappresenta una sfida della più grande importanza.

La trasformazione dell'animale uomo in un essere fondamentalmente culturale non è un prodotto diretto dei suoi geni, anche se questi permettono e per così dire favoriscono questa trasformazione, ma accade, inevitabilmente, per ogni essere umano dalla notte dei tempi. È un evento necessario ma non geneticamente codificato e con uno sbocco un po' diverso da epoca a epoca, da luogo a luogo, da individuo a individuo. Ha tutta l'aria di un corto circuito che s'attiva ogni volta partendo da zero e non lasciando traccia. E questo avviene solo se a livello collettivo si sono realizzate specifiche condizioni che fungono da «innesco» per gli individui di una certa comunità culturale. Un fenomeno nuovo, non facile da inquadrare, ma non inconcepibile.


Apriamo una parentesi. Qualcuno potrebbe argomentare che anche la vita nel suo complesso ha un po' queste caratteristiche. La vita è un habitus vivendi che va avanti sorretto ma non determinato dalle informazioni genetiche ed è un impromptu che si rinnova ogni giorno: come dire un'improvvisazione programmata. Ci sono però delle differenze. Lo stupore che coglie chi osserva la messa in scena della vita a partire dall'informazione genetica ha un certo numero di gradi, molto diversi fra di loro. Che un virus riesca a far fare alla cellula che lo ospita — sia essa batterica, vegetale o animale — quello a cui mira non desta una grande sorpresa: c'è un rapporto diretto fra le poche ma precise istruzioni genetiche portate dal virus e quello che accade alla cellula ospite dopo l'infezione da parte del virus.

Anche per un batterio il rapporto fra le sue istruzioni genetiche e la sua «vita» non si presenta così difficile da concepire. Via via che si sale la cosiddetta scala evolutiva le cose si complicano un po', ma ciò avviene per gradi, così che non c'è ragione di ipotizzare alcuna discontinuità nelle possibili spiegazioni.

Il segreto degli esseri viventi, che li differenzia da ogni oggetto inanimato ma anche da ogni altro processo o sistema dinamico, come un uragano o un'eruzione vulcanica, risiede nel fatto che in ciascuna delle loro cellule è contenuto un genoma, vale a dire una raccolta di istruzioni biologiche che ispirano e talvolta controllano le loro attività. Ogni essere vivente possiede una doppia realtà, il suo corpo e il suo genoma. Una roccia è una roccia. Un organismo è un organismo più il suo genoma, in cui risiede l'identità di ogni particolare organismo, ma è chiaro che le istruzioni in esso contenute devono essere lette e applicate. Questo è il compito delle strutture biologiche, costituite prevalentemente di proteine, presenti nell'organismo stesso. Occorre quindi un genoma in congiunzione con le strutture cellulari, come dire un libretto di istruzioni e qualcosa che lo legga, lo interpreti e lo attualizzi. Anche le strutture cellulari sono state prodotte sulla scorta delle istruzioni di un genoma, appartenente allo stesso organismo o a quello che lo ha preceduto — anche il lettore è quindi figlio del libretto di istruzioni — ma le scale temporali sulle quali è scandita la loro vita sono diverse, molto diverse.

Le strutture cellulari nascono e scompaiono nel giro di ore o di giorni e «vedono» il genoma da cui derivano e che poi contribuiscono a interpretare come incredibilmente stabile e quasi eterno. Noi sappiamo che anche il genoma cambia nel tempo, cioè evolve, ma per far questo impiega decine e centinaia di migliaia di anni. Rispetto agli organismi delle varie generazioni è sostanzialmente eterno.

Forse tutta la vita sta in questo gioco di relazioni fra entità storiche di almeno due tipi diversi: il genoma che cambia solo molto lentamente e le strutture cellulari che hanno al contrario una vita effimera. Nessuna di queste due entità potrebbe esistere senza l'altra. Dentro gli organismi sono presenti insomma i prodotti di due storie, parallele ma non indipendenti, che trasmettono continuità diverse e che si dipanano su scale temporali molto differenti. Da ciò deriva l'impressione di stabilità nella variazione, che è un po' la cifra del vivente.

| << |  <  |