Autore Edoardo Boncinelli
Titolo La farfalla e la crisalide
SottotitoloLa nascita della scienza sperimentale
EdizioneCortina, Milano, 2018, Scienza e idee 292 , pag. 192, cop.fle., dim. 14x22,5x1,5 cm , Isbn 978-88-3285-046-8
LettoreCorrado Leonardo, 2019
Classe scienza , filosofia , epistemologia , biologia , fisica , scienze naturali












 

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Indice


   Prefazione                                        11


1. Nascita e trionfo della filosofia antica          15

2. La nuova religione e il pensiero occidentale
   nell'era cristiana                                59

3. La nascita della scienza sperimentale             75

4. La larva:
   ovvero cosa c'era prima della prima filosofia    121

5. Il viaggio continua                              143


Bibliografia minima                                 189

Indice dei nomi                                     191


 

 

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Pagina 11

PREFAZIONE



                                          Non v'accorgete voi che noi siam vermi
                                          nati a formar l'angelica farfalla?

                                                                 DANTE ALIGHIERI



Questo libro tratta della conoscenza e della sua possibile acquisizione, anche se l'autore ha ben chiaro in mente che conoscere tutto è impossibile e dobbiamo accontentarci di scoprire ora questo e ora quello, in un continuo sforzo di approfondimento e di sistemazione, che non si può mai sapere quando e dove ci porterà. Parleremo di filosofia e di scienza, del mondo animale e della civiltà.

Ho sempre amato la filosofia, fin da quando ero bambino. È stata, anzi, il mio primo amore intellettuale. È bella, divertente e ti dà la sensazione di apprendere e di possedere qualcosa di prezioso. Ma come quasi tutte le cose belle è inutile, se non ingannevole. Tende a farti credere di sapere qualcosa che vale, ma non te ne dimostra mai la validità. Ha accompagnato le popolazioni dell'Occidente per venti secoli e ne ha potentemente influenzato il modo di vedere le cose, fino alla nascita della scienza moderna, in parte per continuità e in parte per contrasto.

La parola scienza è usata da moltissimo tempo in una certa varietà di significati. Indica in genere una specifica parte della conoscenza sulla quale si può fare un certo affidamento, per raggiungere una varietà di scopi concreti, oppure, alternativamente, quell'insieme di affermazioni che appaiono garantire un certo livello di verità, qualunque cosa ciò voglia dire. Nel tempo, alcuni hanno preferito la prima formulazione, diciamo così "prammatica", e altri la seconda, diciamo così "essenzialistica", che postula cioè l'esistenza di qualcosa che possiamo definire verità.

Ci può essere così una scienza delle costruzioni e della pittura, una scienza della pesca e del giardinaggio, una scienza delle finanze e anche una scienza dell'esoterico. Si considera, però, in genere vera scienza quella che non ha bisogno di specificazioni. Oggi come oggi, la parola scienza senza altre specificazioni si può riferire, a seconda di chi sta parlando, ad almeno tre diverse realtà: la matematica, le scienze sperimentali naturali e le cosiddette scienze umane. La matematica, una disciplina concettuale di natura ipotetico-deduttiva, fa capitolo a sé, ed è l'unica per la quale si possa spendere il termine di scienza esatta. Ha origini molto antiche, anche se continua ogni giorno a progredire, cioè a estendere il proprio dominio. La scienza diversa dalla matematica viene di solito definita come sperimentale, per sottolineare l'importanza che in essa rivestono le osservazioni empiriche e i veri e propri esperimenti. Salvo avviso contrario, considererò qui come scienza l'insieme delle scienze sperimentali naturali, quelle alle quali gli anglosassoni si riferiscono spesso con il termine impreciso ma efficace di "scienze dure", essenzialmente la fisica, la chimica e parte della biologia. Questa scienza ha fatto in tempi recenti progressi incredibili, viene sviluppata per lo più in sedi dedicate e impegna un numero non indifferente di addetti ai lavori, di maggiore o minore levatura intellettuale. È in grado di fare previsioni che si avverano ed è inoltre tale da condurre a una continua proliferazione di applicazioni pratiche.

Non c'è dubbio che questa scienza sia nata nel solco ideale del pensiero filosofico occidentale. La sua nascita si fa risalire convenzionalmente al Seicento anche per il contributo non meno geniale che fortunato del nostro Galileo Galilei , in consonanza ideale con il suo quasi contemporaneo inglese Francis Bacon. Prima di tale data, di scientifico c'era ben poco, anche se le innovazioni tecnologiche non mancavano di succedersi l'una all'altra. Il patrimonio di conoscenze e spiegazioni era detenuto da secoli da questo o quel credo filosofico e dalla filosofia in genere, parte della quale aveva intanto cominciato a definirsi naturale.

Molti tendono a sottovalutare l'importanza del passo storico in questione e si limitano ad affiancare alla scienza la filosofia, che ha continuato a esistere anche dopo la nascita più o meno ufficiale della scienza, considerando le due discipline come due modi diversi e in un certo senso complementari di organizzare la nostra conoscenza del mondo. Io non mi stancherò, invece, di sottolineare l'irreversibilità concettuale del passo compiuto quando è nata la scienza sperimentale e di illustrare l'ampiezza dell'abisso che si è andato progressivamente spalancando fra le due visioni e le rispettive metodologie d'indagine. Molto è stato scritto sull'importanza dell'introduzione del metodo sperimentale, a volte anche da parte di chi non ne ha una grande considerazione; ma non mi sento totalmente appagato dalle conclusioni di tali studi, e voglio qui proporre una mia analisi dell'essenza della rivoluzione scientifica verificatasi allora nell'ambito della tradizione filosofica ormai millenaria. Per fare questo mi avvarrò anche, non senza ardire, di una metafora biologica, anzi entomologica, che per lo sviluppo di certi insetti vede il succedersi di una larva, di una crisalide e di una farfalla, in quest'ordine.

Un'ultima parola ai lettori. Il libro contiene un'evidente pars destruens, ma anche una pars construens. Non vi fermate alla prima, perdendovi così la seconda. Per natura, qualunque cosa questo voglia dire, rifuggo dal distruggere, soprattutto gratuitamente, mentre mi appassiono a costruire. Spero lo noterete.

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Pagina 39

La filosofia parte in fondo da questa convinzione, che la verità sia da qualche parte e che basti solo contemplarla, utilizzando apposite tecniche, per sapere tutto di tutto e definirsi filosofo. La presente opera nasce dal desiderio di smontare tale assunzione e riportare le questioni, le risposte e i pensatori alle loro giuste dimensioni. Il punto essenziale è costituito proprio dalla differenza fra le affermazioni della matematica e quelle della filosofia, anche apparentemente più rigorosa. Matematica e filosofia hanno in comune il fatto che tutto si svolge a livello teorico, nel senso che non appare necessario ricorrere a qualcosa di non mentale per trarre conclusioni e decidere che certe affermazioni sono vere oppure no. Ma la somiglianza fra queste due discipline finisce qui.

È la struttura stessa delle affermazioni a essere diversa. Tutto comincia con una singola affermazione o con poche asserzioni. Le parole che queste contengono devono essere tutte definite, in maniera unica e non ambigua, e tutte le volte che si usa una data parola deve avere lo stesso significato e più precisamente quello iniziale. Ciò è proprio quello che fa la matematica, anche a costo di ripetizioni e di precisazioni, e che la filosofia non fa. Quest'ultima non definisce i suoi concetti in maniera chiara e univoca e, soprattutto, non associa lo stesso significato alla stessa parola, neanche all'interno della medesima argomentazione. Il risultato è che le affermazioni filosofiche non danno in genere alcun affidamento, mentre una dimostrazione matematica o geometrica offre subito un'impressione di limpidezza e affidabilità. In entrambi i casi non c'è stato nessun intervento esterno alla elaborazione intellettuale, ma i due risultati sono molto diversi, anche se i più lo negano.

Le due discipline presentano indubbiamente problemi un po' diversi. Il matematico è più libero di formare definizioni, che in genere sono astratte, come "circonferenza" o "rette parallele", mentre chi formula proposizioni sul mondo non è altrettanto libero, e può definire con assoluta precisione solo un numero molto ristretto di identità. Questo è indubbio, ma non può costituire un alibi per non comportarsi correttamente. Parlare di tutto, magari usando termini del linguaggio quotidiano, porta a un certo inevitabile grado di inesattezza, se non direttamente confusione, e dà luogo a interminabili discussioni sfuocate come quelle sulla politica e sui temi da Bar Sport. Se non si può definire con precisione è meglio desistere o affidarsi ad altri strumenti di verifica o falsificazione. In conclusione, è estremamente promettente ed eccitante poter utilizzare le armi logiche della dimostrazione intellettuale, ma queste non si possono applicare a tutto. D'altra parte, se così fosse, in cosa consisterebbe l'analisi dei principi della realtà, soprattutto oggi, quando tutti hanno già detto la loro? Vedremo più avanti, comunque, che in tempi più recenti sono stati introdotti anche altri criteri di verità.

[...]

Poi venne il grande Aristotele , "il maestro di color che sanno", fautore di una impostazione un po' più realistica e articolata delle diverse questioni. La sua opera, letteralmente enciclopedica, rappresentò per lungo tempo l'ultima parola su moltissime questioni, essendo stata presa spesso per scienza e non per filosofia qual era, e ha attraversato trionfalmente molti secoli del Medioevo. L'affermazione "Ogni corpo si muove verso il suo luogo naturale" è talmente bella e rassicurante che quasi nessuno si è chiesto che cosa volesse effettivamente dire, come l'altra secondo la quale "Tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa".

[...]

Il sommo filosofo stipula, comunque, che ogni sostanza sia fatta di materia e di forma, e questo binomio rappresenta per lui il primo dei suoi binomi fondanti che hanno attraversato trionfalmente il Medioevo e hanno contribuito a rafforzare l'edificio della fede.

Quali sono questi binomi? Lo sanno tutti: materia-forma appunto, potenza-atto, causa-effetto e motore-mosso.

Sono binomi di concetti in correlazione e allo stesso tempo in contrapposizione, tali da comporre una rete di relazioni che possono coprire tutto il reale; una sorta di analisi concettuale essenziiale del mondo conoscibile; una spiegazione attraverso la classificazione, un gioiellino di giro vizioso. Un abisso le separa da come la vediamo oggi, ma alla gente questa apoditticità e apparente semplicità della posizione degli antichi piace moltissimo, e poi rappresenta una sorta di fisica qualitativa, la massima aspirazione dei semplici.

[...]

Chi parla di continuità fra il pensiero filosofico e quello scientifico, e magnifica l'influenza del primo sullo sviluppo del secondo, deve almeno tener conto del fatto che talvolta le parole non hanno affatto, o non hanno avuto in qualche tempo, lo stesso significato nei due campi. Una di queste è "causa" e l'argomento mi permette di mettere in campo, per la prima volta a questo punto, un'osservazione del genere. Nelle scienze d'oggi la connessione causale è un legame concreto ed eventualmente modificabile tra eventi diversi, la cui funzione è anche quella, si badi bene, di individuare i due o più eventi come specifici e singolari nell'incessante flusso degli accadimenti. Individuare senza ambiguità due fenomeni che dipendano l'uno dall'altro non è impresa da poco e la conquista si rafforza se si riesce a individuare un nesso causale tra di loro. Spesso si individua, però, un nesso causale anche laddove c'è soltanto una covarianza o una variazione concomitante di due parametri che caratterizzano altrettanti eventi. In un certo senso questa è l'operazione più valida che possa fare una scienza, specialmente se il nesso è concreto e possono esistere risultanze sperimentali che lo dimostrino falso o parziale. In tempi recentissimi la fisica più avanzata è arrivata anche a mettere in discussione la possibilità stessa di un'idea di causa e la sua relazione con il prima e il poi, che la teoria della relatività generale indaga dalle fondamenta.

La filosofia non procede in questi termini. Quella di "causa" è solo una delle tante parole che descrivono il rapporto intercorrente tra i fatti, al pari di potenza e atto o di finalità, di successione temporale o altro, con il vertice della descrizione insufficiente rappresentato dai termini "sviluppo o evoluzione naturale" e "destino". Tale stile esplicativo è certamente più ricco e psicologicamente soddisfacente di quello della scienza, ma non ottempera ai requisiti di una spiegazione riproducibile, controllabile e soprattutto affidabile. Il rapporto di causa ed effetto della filosofia è più ricco, più ridondante e meno affidabile di quello della scienza e infatti, prima della nascita della scienza sperimentale, le connessioni causali fra i diversi fenomeni erano poche, arrischiate e fragili. Basti pensare alle malattie infettive, ai terremoti - come quello famoso che colpì Lisbona alla metà del Settecento - o all'invecchiamento.

Per la scienza, insomma, la relazione di causa è una cosa seria - anche se un evento non ha quasi mai una sola causa - e non l'oggetto di una dissertazione dotta, come quella di Aristotele stesso sui quattro diversi tipi di causa: materiale, efficiente, formale e finale. Da notare, in particolare, che con la voce causa finale il nostro filosofo introduce in maniera subdola e surrettizia l'idea di fine, un concetto omnipervasivo che avrebbe certamente meritato un binomio tutto per sé. Gli eventi hanno una causa, insomma, ma anche un fine. Se la prima affermazione è difficile da dare per scontata, la seconda è proprio arrischiata e si è rivelata talvolta perniciosa, per esempio in biologia evoluzionistica.

Le parole sono importanti e gran parte dei malintesi che rovinano la quiete del mondo della teoria e della pratica derivano dall'abitudine di usare le stesse parole con significati diversi.

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2
LA NUOVA RELIGIONE
E IL PENSIERO OCCIDENTALE
NELL'ERA CRISTIANA



                                                     L'uomo è un grande baratro.

                                                               AGOSTINO D'IPPONA



Nel frattempo si è andata sviluppando e diffondendo in Occidente, e non solo, una nuova religione, la religione cristiana, che si presenta come religione dell'amore e della solidarietà fra persone e gruppi sociali. Questa novità diviene presto la novità che, superando occasionali oscillazioni ed esitazioni di vario tipo, giunge fino ai nostri giorni. La caratteristica fondamentale di tutte le religioni è rappresentata dalla convinzione che affermare sia la stessa cosa di dimostrare. A tale costume non sfugge nemmeno la religione cristiana, almeno all'inizio. Infatti, per lungo tempo questa fu tutta una questione di devozione, di autoconvincimento e di celebrazione con chiare connotazioni pagane; ma con il passar degli anni i reggitori del nuovo movimento religioso si dovettero cautelare anche sul piano della dottrina e della teoria, e venne loro spontaneo appoggiarsi alle idee fondamentali della filosofia corrente. Il pensiero filosofico ne riceve così sollecitazioni e sfide, ma è soprattutto la dottrina della Chiesa che profitta di questi scambi, mutuando da una certa filosofia un'impalcatura razionale e argomentativa. A farla da padrone sarà infine il pensiero di Aristotele, attraverso varie vie, dirette e indirette, ma c'è pure una chiara influenza del platonismo, anche attraverso la visione di Plotino.

Le idee guida di questa eccezionale influenza della filosofia greca sul Cristianesimo sono, ovviamente, l'idea dell'esistenza di un mondo sovrasensibile, di anima immortale (o eterna), di creazione e di Bene, oltre all'elaborazione delle cosiddette prove dell'esistenza di Dio. È qui che la filosofia antica celebra più diffusamente i propri trionfi, abbandonando le cerchie delle élite per condizionare a poco a poco le convinzioni dei più. Il mondo delle divinità pagane recede inesorabilmente, anche per non avere stabilito connessioni abbastanza strette con il contemporaneo pensiero filosofico, vissuto come parallelo e sostanzialmente estraneo. Parecchie manifestazioni della nuova religione vengono invece "puntellate" con le riflessioni a carattere filosofico dei cosiddetti Padri della Chiesa, spesso portatori di conoscenza alle moltitudini scarsamente acculturate.


Una religione rappresenta una visione globale e totalizzante del mondo, condivisa da un certo numero di persone, accompagnata da una rigida precettistica e punteggiata di richieste e di promesse. Su tutto aleggia un senso di sicurezza, di immutabile permanenza e di giustizia. La nostra religione si è sviluppata come una diramazione di quella ebraica e ha ereditato da Roma la dottrina del diritto e dell'organizzazione dello Stato. Ciò ne ha rafforzato la presa e puntellato la stabilità, facendone, nel tempo, una delle compagini meglio organizzate della storia. Possedeva fin dall'inizio degli assunti di fondo e ha fatto sue, con il tempo, molte considerazioni e convinzioni della filosofia greca e romana. Ciò non era affatto scontato. Quasi tutte le religioni del mondo non possiedono alcun versante filosofico. Tra quelle a noi più vicine, l'Ebraismo ne ha in minima parte e l'Islam ne ha avuto un embrione solo per un certo periodo.

Spicca probabilmente fra tutte le tacite assunzioni quella dell'esistenza di un mondo sovrasensibile, ovvero di un mondo al di là del mondo (sensibile). Una tale convinzione accompagna la storia dei nostri simili fin dall'inizio: la realtà percepibile e afferrabile non è tutto; c'è dell'altro. A pensarci bene, questa è in sostanza l'obiezione sollevata anche oggi contro chi cerca di vederci chiaro nelle cose del mondo e di semplificare le diverse situazioni. "Questa è una visione parziale e superficiale." Si obietta: "Non tiene conto di una realtà complessiva, o più complessiva (quante volte ho sentito pronunciare questa frase nel Sessantotto e dai suoi epigoni!) e di tutte le articolazioni della questione che un atteggiamento olistico dovrebbe prendere in considerazione". "C'è dell'altro", ripetono in continuazione filosofi, preti e confusionisti di ogni specie, ma non ci dicono mai, o quasi mai, che cos'è questo altro e, quando ce lo dicono, non corrisponde a niente.

Insomma, un mondo solo non basta, e non è chiarissimo perché, anche se non c'è dubbio che il nostro mondo ordinario lascia per ciascuno di noi troppi conti in sospeso. In questa ottica, la sensazione di ingiustizia o di mancanza di equità crea una ferita psicologica e assiologica che reclama di essere sanata. Tale esigenza non è certo razionale e non può rappresentare un valido motivo per cercare spiegazioni in un secondo mondo, che non fa altro che complicare il quadro complessivo, ma l'uomo si sforza quasi sempre di soddisfarla. L'esistenza di una realtà ultramondana serve solo, in sostanza, a complicare ulteriormente una questione già abbastanza complicata. Ma tant'è; le cose stanno più o meno in questi termini in ogni parte del mondo. Forse è solo l'idea di Dio, divinità unica e monopolizzatrice, quella che caratterizza univocamente la religione cristiana e quelle affini: le cosiddette religioni del Libro, ovvero Cristianesimo, Ebraismo e Islam.

Non è un vanto da poco per queste religioni quello di aver fatto credere ai suoi fedeli che esiste Dio, ma in ciò la filosofia greca non può vantare meriti particolari ed esclusivi, anche se lo sviluppo della visione ha richiesto una continua e puntigliosa elaborazione filosofica.

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3
LA NASCITA
DELLA SCIENZA SPERIMENTALE



                                        Io stimo più il trovar un vero, benché
                                        di cosa leggera, che 'l disputar
                                        lungamente delle massime questioni senza
                                        conseguir verità nessuna.

                                                                 GALILEO GALILEI



Poi a poco a poco, inaspettatamente, dalla crisalide della filosofia occidentale si è liberata la farfalla della scienza sperimentale. Non si trattò, ovviamente, di un evento repentino, e per la verità molti filosofi quasi non se ne accorsero e continuarono a cercare quello che avevano sempre cercato, implicitamente considerando che quello che succedeva in campo scientifico e tecnico non li riguardava affatto e aveva tutta l'aria di essere irrilevante. Loro cercavano e cercano la verità, e non la verificabilità o l'affidabilità, un concetto poco considerato in epoca classica e in ambiente cosiddetto umanistico. D'altra parte, che cosa significa "affidabile"? Un'affermazione può essere definita affidabile se, basandosi su di essa, è possibile raggiungere un determinato obiettivo concreto o, meglio, una fitta serie di obiettivi concreti. Da tale atteggiamento di profondo disinteresse dei filosofi prese origine uno dei più disastrosi divorzi della storia dell'umanità, quello fra riflessione filosofica e ricerca scientifica, senza alcun inconveniente nella pratica, per la verità, ma con un grave danno culturale. Che scontiamo ancora oggi.

Nel periodo che va grosso modo dalla metà del Cinquecento a tutto il Seicento successe in Europa una cosa che doveva cambiare per sempre lo studio delle vicende del mondo, e non solo quello, e che noi siamo soliti chiamare nascita della scienza, anche se sarebbe più opportuno chiamarla nascita della scienza sperimentale. Perché la matematica già esisteva, come sappiamo, e da lungo tempo, così come la logica classica. Il peso della novità, la più grande che si conosca, enormemente superiore anche a quella dell'eliocentrismo, è rappresentato tutto dall'aggettivo "sperimentale", o qualche equivalente, che accompagna il sostantivo scienza.

Nella sua poderosa opera The Invention of Science, David Wootton è più esplicito sui limiti temporali di tale evento: "La scienza moderna è stata inventata tra il 1572, quando Tycho Brahe vide una nova, cioè una nuova stella nel firmamento, e il 1704, quando Newton pubblicò la sua Ottica, che dimostrava come la luce bianca sia composta da tutti i colori dell'arcobaleno, come la si possa separare nei suoi componenti per mezzo di un prisma e come il colore sia una proprietà della luce, non degli oggetti". Un tale problema prima non era stato neppure posto, perché non si osava nemmeno chiedersi quale fosse la natura della luce e di molte altre realtà. "Tutto è come deve essere, e basta solo osservarlo con acume e pazienza, senza troppe idee preconcette." In questa affermazione è riassunta un po' tutta la filosofia antica, almeno la parte che si dedica all'osservazione dei fenomeni naturali, importanti a parole per i pensatori di allora, ma in fondo assai poco degni di nota per i filosofi dell'epoca e per molti di quelli di oggi. Osservare e riflettere. Riflettere, contemplare e tirare conclusioni di validità universale ed eterna è il compito di coloro che sono riusciti ad alzarsi dal pavimento della Caverna di Platone, per dare un'occhiata fuori e conoscere il mondo per quello che è.

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Pagina 83

Oggi sappiamo che la tecnica è di volta in volta madre e figlia della scienza, ed è a questa indissolubilmente legata. Tale consapevolezza è di acquisizione assai recente e non ha certamente accompagnato il cammino della scienza. Ma noi abbiamo il privilegio di leggere il libro giallo dalla fine. La tecnica è madre della scienza per la sollecitazione indiretta a occuparsi della soluzione di problemi pratici e per l'apporto diretto alla messa a punto e alla costruzione di strumenti di osservazione e misurazione. Negli ultimi duecento anni non c'è stata praticamente scoperta scientifica di rilievo che non si sia avvalsa di strumenti potenti di nuova concezione, la cui costruzione ha richiesto notevole ingegno e impegno. Oggi questo è tanto più vero in quanto negli ultimi cinquant'anni è giunta alla ribalta anche la biologia avanzata con le sue peculiari esigenze. Gli strumenti per la ricerca sono divenuti così fondamentali per le diverse branche della scienza e si sono rivelati sempre più importanti anche per la definizione stessa di concetti e criteri. Ciò ha aperto la via a una concezione operazionale della scienza con le corrispondenti definizioni operative, quali per esempio "La temperatura è ciò che misura un termometro", utilissime soprattutto nella fisica degli ultimi due secoli.

La tecnica, quindi, ha prima stimolato e poi reso più facile la ricerca scientifica e la necessaria conduzione degli esperimenti. Ma la tecnica è oggi anche figlia della scienza, perché molti avanzamenti tecnici sono ispirati e confortati nei loro fondamenti teorici dalla scienza stessa. I passi avanti della scienza sono continui e generano sempre nuove opportunità di progresso tecnico e di applicazioni pratiche. C'è, quindi, un continuo interscambio fra la scienza e la tecnica, al punto che qualcuno parla oggi, in genere con sarcasmo, di tecnoscienza.

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Pagina 84

Tradotte nel linguaggio della moderna neurobiologia, le diverse inclinazioni riguardo alla contemplazione, alla riflessione o all'azione corrispondono ad almeno tre aree della nostra corteccia cerebrale: l'area occipitale, quella frontale e quella parietale posteriore. La corteccia occipitale raccoglie ed elabora i segnali visivi provenienti dagli occhi; la corteccia frontale, detta anche prefrontale, associa e connette tra di loro la stragrande parte dei segnali che attraversano il cervello a qualsiasi titolo, dando vita al pensiero e alla coscienza; la corteccia parietale posteriore, infine, è impegnata soprattutto nella concezione intenzionale e nella progettazione di un'azione. Tutto parte, ovviamente, dalla corteccia occipitale, un occhio aperto sul mondo, un occhio non puramente recettivo, si direbbe, perché la vista, come tutti i sensi, non è solo passiva e neutrale, ma "vede" specificamente ciò che ci serve ad agire in risposta alle sollecitazioni del mondo esterno. La vista, quindi, è già in buona parte finalizzata all'azione. La corteccia prefrontale, dal canto suo, è la regione della quale andiamo più fieri, sede della riflessione, del pensiero astratto, della creatività e probabilmente della coscienza. Del pensiero abbiamo già trattato sopra e della coscienza abbiamo parlato diffusamente altre volte, definendola come il modo nel quale la percezione del mondo esterno, ma anche delle condizioni momentanee del mio proprio corpo, diviene una cosa "mia", interiore, omogenea a tutto ciò che già vi si trova, e utilizzabile. Utilizzabile per poter "agire", materialmente, mentalmente o anche solo attraverso un'espressione verbale. Può darsi che tutta la magia del fenomeno coscienza si risolva nel portare alla ribalta del mio Sé, inteso come centro senziente e progettante, certi contenuti della percezione che siano "pronti per l'azione" o addirittura già azione: cose che stanno a mezza via fra la constatazione e la progettazione, come dire "il progetto". La corteccia parietale posteriore, infine, è connessa, come abbiamo appena visto, alla progettazione e alla collimazione dell'azione.

Noi andiamo particolarmente fieri del fatto di possedere una coscienza sviluppata, che spesso definiamo coscienza di secondo grado o autocoscienza. Certamente le cose stanno così, ma, nell'evoluzione recente del nostro cervello si è avuta un'espansione ragguardevole anche della corteccia parietale posteriore che ha "innalzato" la volta del cervello rispetto ai nostri antenati, e quindi la volta superiore della nostra scatola cranica. Esagerando un po', possiamo dire che quello dei nostri antenati è un cranio "orizzontale", mentre il nostro è un cranio "verticale". In conclusione, sicuramente l'essere umano si avvale di una coscienza, qualsiasi sia il suo vero ruolo, ma vince quasi sicuramente per la creatività e l'incisività dell'azione.

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Pagina 88

L'idea di esperimento e di metodo sperimentale è stata analizzata a fondo in diverse sedi e da diverse prospettive nei quattro secoli trascorsi dalla sua prima introduzione ufficiale. È accaduto, anzi, che con il passare degli anni qualcuno abbia proposto di considerare l'applicabilità del criterio sperimentale come il fondamento stesso della scientificità di una affermazione come distinta da una generica enunciabilità astratta. Karl Popper ha fatto notare, circa un secolo fa, che perché si possa dire se un'affermazione è vera o falsa è necessario che sia almeno potenzialmente falsificabile, che esista cioè una condizione nella quale un esperimento possa dimostrare che è falsa, se è falsa, ovviamente. In assenza di tale requisito, l'affermazione non può essere considerata scientifica, ma piuttosto di natura metafisica. In sé e per sé non c'è niente di particolare a essere un fatto scientifico, ma non si può definire scientifico ciò che scientifico non è. Non si tratta qui di un criterio di verità, ma di un criterio di demarcazione. Solo ciò che è falsificabile è scientifico; tutto il resto non lo è. Lucido e geniale.

[...]

In terzo luogo, il criterio di demarcazione non è e non può essere un criterio di verifica o di validazione. Il criterio di Popper non riguarda le pratiche della scienza sperimentale e la loro gestione, ma lo status stesso di scienza sperimentale. Distingue quello che possiamo definire scienza da tutto il resto. È vero che, come dicono molti, la scienza non è tutto, e il marchio di scientificità non è essenziale in assoluto, ma per chi ha a cuore la scienza la distinzione scienza o non scienza è molto importante e deve poter essere definita rigorosamente e controllata. In fondo, la distinzione è un po' il centro di questo libro, che cerca sostanzialmente di tirare una linea tra la filosofia, di ieri e di oggi, e la scienza. L'impostazione di Popper è chiara: ciò che può essere falsificato è scienza; quello che non può essere falsificato non lo è, che lo si chiami metafisica oppure no. Basta non chiamarlo scienza. E allora? Perché la cosa è così importante? Niente è importante in assoluto; ma noi siamo uomini, abituati a vivere in questo limbo e a cercare di conoscere in una condizione di incertezza perenne. Forse questo è il peccato originale: voler sapere, sicuri di non poter sapere niente con sicurezza. Soprattutto la differenza fra bene e male, ma non solo.

Il valore concettuale della distinzione non è per nulla da sottovalutare. Per chiarire che cosa non è scienza e che cosa è scienza. Ciò che non è scienza non può essere messo alla prova. Può essere certamente affermato e magari sbandierato, ma appartiene al mondo dell'arbitrario, al quale possono essere applicati tutti i criteri dell'argomentazione classica, tutta interna alla mente umana e alla storia della cultura. Nella sua versione più recente tale insieme di pratiche contempla anche l'esecuzione virtuale di cosiddetti "esperimenti mentali". Si tratta di esperimenti ideali, concepiti, eseguiti e analizzati nel loro esito. È chiaro che non si tratta di veri e propri esperimenti e la loro "esecuzione" non ha alcun valore probatorio, anche se un illustre filosofo italiano mi fece notare una volta che anche i filosofi ricorrono a esperimenti. È ovvio che tale tipo di esperimenti non può portare a una falsificazione e quindi non si può parlare di scienza.

Il criterio suggerito da Popper può illuminarci, si è detto, anche su che cosa è veramente scienza in rapporto alle numerose pseudoscienze che caratterizzano la nostra epoca, la meno adatta, si direbbe, per prendere in considerazione tali mistificazioni. Ma non è così. Nonostante il clima di aumentata conoscenza e le patenti di scientificità tipiche dei nostri tempi, c'è ancora molto da fare per distinguere la vera scienza dalla falsa scienza. Anzi, il prestigio raggiunto dalla scienza in parecchi campi stimola molti a tentare di far passare per scientifico, in maggiore o minore buona fede, pure ciò che scientifico proprio non è, anche se a volte la distinzione è veramente sottile. Sarebbe troppo facile fare l'esempio della omeopatia o dei fiori di Bach, puro nonsenso, ma la psicoanalisi? Nonostante il suo indubbio successo e il fatto che sia entrata nella nostra cultura spicciola, avendo anche introdotto parole senza senso come "rimuovere" o "pulsione", la psicoanalisi non ha niente di scientifico. Abbiamo già detto che essere scientifico non è tutto, ma ciò che non lo è non può essere definito tale.

Ma perché le affermazioni della psicoanalisi non sono scienza? Proprio perché non sono falsificabili. Tutto sembra dimostrare che la psicoanalisi è vera e nulla la può smentire, a parte la follia di pensare che i sogni possano significare qualcosa. Ci deve essere, quindi, qualcosa che non va. Ciò che non va è piuttosto semplice: le sue affermazioni sono concepite in modo che non possano essere falsificate o, se preferite, smentite.

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Ritorniamo quindi a noi. Abbiamo visto e rivisto che la caratteristica essenziale del metodo sperimentale è rappresentata dalla necessità di fare esperimenti per dire l'ultima parola sulla veridicità dell'una o dell'altra ipotesi. Da dove deriva tale necessità? Non è possibile farne a meno, prolungando e ampliando, per esempio, l'analisi speculativa e argomentativa del problema? Non basta la ragione e la sua potenza al servizio dell'indagine, senza ricorrere alla sperimentazione? Oggi riteniamo di no, e lo diciamo dal tempo di Galileo. Perché?

Il motivo è da ricercare fondamentalmente nel nostro passato evolutivo. Noi ci siamo evoluti e siamo cresciuti in un mondo che alberga cose che sono lunghe da un millimetro a dieci chilometri approssimativamente, implicate in avvenimenti che durano da un secondo a una decina d'anni. Questo è il nostro mondo, chiamiamolo "mesomondo", e in questo "sappiamo" vivere molto bene. Questi sono i confini di quanto ci è familiare e di ciò in cui siamo cresciuti, e quindi evoluti. Andare più sotto o sopra ancora ci riesce molto difficile e non ci possiamo per quello appoggiare al patrimonio di conoscenze implicite consegnatoci dall'evoluzione biologica. È chiaro, però, che c'è dell'altro, sopra e sotto. Sotto ci sono le molecole, gli atomi, le particelle elementari e altro ancora fino al limite di grandezza che oggi si ritiene inferiore, rappresentato da una frazione di metro che ha un denominatore di 35 cifre intere. Sopra ci sono í pianeti, le stelle e le galassie in un Universo che ha un diametro in metri rappresentabile con una cifra a 27 zeri. Più o meno in mezzo ci stiamo noi con il nostro metro. Anzi, per essere più precisi, ci sta lo spessore di un capello o, se volete, il diametro di una cellula-uovo umana. Più in generale ci stanno le nostre cellule, gli elementi costitutivi della vita. E forse non è un caso.

Non voglio insistere troppo su questi numeri, ma è chiaro che la vita come la conosciamo, e tutti gli oggetti del nostro mondo quotidiano, si trovano approssimativamente al centro di una scala di grandezze autenticamente spropositata. Quel che possiamo conoscere di prima mano è quindi molto limitato, e per il resto bisogna arrangiarsi. Per completezza dobbiamo dire che se invece delle lunghezze si parla di tempi, in secondi per esempio, il centro capita a circa un mille miliardesimo di secondo, cioè un picosecondo, 10^-12 secondi, a mezza via fra l'intervallo di tempo più corto - occorre per misurarlo una frazione con un denominatore di 44 cifre intere - e l'età stimata dell'Universo, un numero in secondi con 17 cifre. In un caso come nell'altro noi ci troviamo un po' sopra il punto centrale di queste immani scale. Affondiamo le radici nel mondo dell'immensamente piccolo, ma ci estendiamo giusto un po' al di sopra di quello.

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Si potrebbe dire che noi, unici forse nell'Universo, uniamo libertà e necessità. Niente e nessuno ci può esentare dall'obbedienza alle leggi e ai principi che reggono il mondo, stabiliti e controllati non si sa da chi. Nello stesso tempo, però, noi godiamo, non si sa perché, di una libertà inusitata che ci permette, fra le altre cose, di prendere tempo fra un'osservazione e un'altra, e di progettare. I nostri esperimenti, si direbbe, sono inevitabili, ma programmabili, dandoci l'impressione di essere gli unici a farli. E certamente gli unici a prenderne nota e a fare un uso costruttivo di questa nostra facoltà. Anche il genoma dei viventi fa lo stesso, ma in maniera inconsapevole e, con tempi lunghi e intrinsecamente insondabili. Siamo noi, dunque, il ponte principale fra libertà e necessità. Fra ignoranza e conoscenza, capitoli diversi dell'essere nel tempo.

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Esiste un principio, forse uno dei più importanti, certo il più noto della fisica quantistica, detto principio d'indeterminazione, formulato nel 1927 da Werner Heisenberg , che afferma che se si conosce con grande precisione la posizione di una particella, si ignora quasi del tutto l'entità della sua quantità di moto. E viceversa, se si conosce abbastanza bene la sua quantità di moto, si sa molto poco sulla sua posizione. Detto così, questo sembra un principio di natura qualitativa, ma non lo è. In realtà, si afferma che il prodotto dell'indeterminazione sulla posizione di una particella per l'indeterminazione sulla sua quantità di moto è maggiore o uguale a un valore predeterminato che contiene la costante di Planck. È facile vedere che le due formulazioni sono praticamente equivalenti, ma la seconda è molto più precisa. Il principio è universale, nel senso che si applica a tutti gli oggetti, anche alle palle da tennis, ma in quest'ultimo caso le sue conseguenze possono essere a buon diritto considerate del tutto irrilevanti. È la piccolezza delle particelle subatomiche che conferisce al principio tutta la sua importanza.

Possiamo fare un esperimento mentale, mirante a determinare la posizione di una particella. Per raggiungere questo scopo posso investirla con un sottile raggio di luce; ma, data la sua piccolezza, il raggio di luce stesso può dare a quella una piccola spinta, alterandone così il valore della quantità di moto. Il fatto è che questo non è un difetto tecnico. Non esiste un'altra maniera di determinarne la posizione, ma l'operazione altera in maniera imprevedibile la sua quantità di moto. Insomma, non posso ottenere contemporaneamente con precisione queste due informazioni: o sarò sicuro di una o dell'altra, ma non di entrambe allo stesso tempo. Niente di simile è nemmeno pensabile nel caso di oggetti del nostro mondo, per quanta approssimazione possano avere i valori delle misure condotte su di essi. L'approssimazione di questi rappresenta un'inevitabile complicazione tecnica de facto, mentre per gli oggetti quantistici l'incertezza è strutturale e fondante.

Notate che l'osservazione dell'esistenza dell'indeterminazione quantistica ne implica un'altra. Non posso in alcun modo sapere di quanto è stata modificata la quantità di moto della mia particella quando l'ho illuminata per osservarne con precisione la posizione. Quindi l'azione dello sperimentatore, cioè dell'osservatore quantistico, perturba inesorabilmente e in maniera imprevedibile il sistema sotto osservazione, al contrario di quanto accade, per esempio, misurando simultaneamente velocità e posizione di un elefante o di un pianeta. E non è necessario che sia uno scienziato o uno studente a condurre l'esperimento, ma può benissimo essere una macchina, un fotodiodo, uno schermo televisivo o, al limite, un'altra particella. Anche senza scomodare nessun essere umano, misurare una grandezza fisica nel mondo delle particelle introduce automaticamente un elemento di forte indeterminazione su una seconda grandezza che è correlata alla prima. È ovvio come nell'interazione tra particelle, simili per caratteristiche fisiche e cinematiche, tali limitazioni intrinseche siano tutt'altro che trascurabili.

In maniera forse un po' semplicistica si potrebbe dire che la fisica quantistica ha dimostrato che l'esperimento, cioè l'osservazione dettagliata, altera il fenomeno; ciò è in parte vero per quanto dicevamo sopra; però, non si può generalizzare troppo. Se parliamo di una particella subatomica, certamente l'esperimento modifica il moto della stessa e le sue variabili cinematiche. Se invece parliamo, per esempio, di studiare o curare una persona fisicamente o psichicamente, un essere vivente composto di miliardi e miliardi di particelle, il discorso non si applica di certo, nonostante tutte le sciocchezze che si sentono dire in giro, per esempio sulla natura della psicoterapia. A meno che il paziente non sia un elettrone: se un elettrone va in cura da un protone il discorso vale, ma normalmente ciò non accade... Direi che oggi si è imposta la cultura degli orecchianti, di coloro che hanno sentito parlare di qualcosa e spacciano questa loro conoscenza per un che di assodato, e su cui hanno magari anche qualche idea loro. A protezione di costoro c'è tutta una schiera di persone che, pur sapendo le cose, trovano piuttosto conveniente pescare nel torbido. E così nell'era della conoscenza nessuno sa niente. Grandioso!

Il principio d'indeterminazione non vale soltanto per la posizione e la quantità di moto di una particella, ma anche per altre coppie di grandezze, per esempio per l'energia e il tempo: se sappiamo che il nostro elettrone ha un'energia molto precisa, non potremo dire esattamente in quale momento ciò accade; al contrario, se stiamo considerando un ben determinato istante, non potremo affermare con esattezza quale sia l'energia del nostro oggetto quantistico. Due variabili associate in una specifica istanza del principio di indeterminazione si dicono "coniugate". Le quantità associate alle particelle quantistiche, anche le più nuove e inusitate, sono quindi soggette a una serie di restrizioni, riguardo a quanto è possibile conoscerne con precisione allo stesso tempo. Dall'indeterminazione quantistica non si scappa, e questo rende tutto un po' più complicato e imprevedibile. Sembra di muoversi in un'atmosfera di caos e instabilità, ma si tratta di un'impressione: in realtà, così si ha il massimo della stabilità pensabile.

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Forse può bastare per quanto concerne il rapporto tra filosofia e scienze naturali. Con una piccola aggiunta, in verità: le questioni del riduzionismo e del meccanicismo. La scienza, soprattutto quella di oggi, si sforza di spiegare i fenomeni - inorganici e soprattutto organici - spezzettando i problemi in tante parti. Questo è il riduzionismo, contrapposto all'olismo che gestisce tutte le questioni considerandole nel loro complesso, come se ci si volesse nutrire senza sminuzzare e processare il cibo. Il riduzionismo può vantare successi prodigiosi, ma non è considerato un metodo valido dal punto di vista filosofico; non ho mai capito perché. Una spiegazione scientifica è oggi quasi invariabilmente meccanicistica, ma anche questo non piace ai filosofi che disdegnano le spiegazioni di corto respiro e tirano sistematicamente in ballo entità e principi superiori che hanno il pregio di non poter essere osservati. Devo dire che ai cosiddetti laici che invocano principi superiori preferisco quasi quasi i credenti che invocano Dio...

Thomas Nagel, un filosofo di peso nell'attuale panorama culturale, e certamente non dei più rancorosi, nel suo libro Mente e cosmo sostiene che invece di prendere sul serio le teorie materialistiche di oggi, dobbiamo pensare a un Universo "fondamentalmente incline a generare la vita e la mente", dopo averci spiegato "perché la concezione materialista e neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa". Se avesse ragione lui, mi domando, perché dovremmo stare a perdere tempo: la sua proposta spiega tutto, come una religione, e che cosa altro potrebbe mai essere lasciato inspiegato da una concezione che vede l'Universo incline a generare la vita e la mente?

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Una conseguenza non secondaria di questa continuità per discendenza è la presenza in ogni specie di una varietà di meccanismi e parametri accidentali fissati nella biologia degli individui delle varie specie attraverso le generazioni. Almeno in linea di principio, ogni fenomeno che sia compatibile con le leggi della fisica può essere osservato una volta o l'altra in qualche organismo vivente e in realtà siamo colpiti dall'impressionante varietà di soluzioni fisico-chimiche e biologiche escogitate dall'evoluzione biologica per risolvere problemi che sono poi sempre gli stessi. Ma la scelta effettiva di soluzioni e di parametri specifici è spesso una questione di accidenti evolutivi. Per esempio, noi abbiamo alcune strutture anatomiche adulte che derivano da un certo numero di strutture branchiali perché discendiamo da animali acquatici e abbiamo sette vertebre cervicali perché questa è stata la soluzione numerica che è rimasta accidentalmente fissata fin dall'inizio della radiazione dei mammiferi.

Questi eventi accidentali sono stati chiamati "incidenti congelati" e la vita stessa può essere considerata un incidente congelato. Probabilmente il più famoso di questi è l'universalità del codice genetico. Al meglio delle nostre conoscenze attuali, non c'è nessun motivo per cui nel DNA della stragrande maggioranza degli organismi viventi la tripletta AGG debba codificare l'aminoacido arginina e la tripletta CCA debba codificare la prolina. Ma questo è ciò che osserviamo. L'interpretazione corrente di questo fenomeno è che questa particolare scelta è stata fatta, probabilmente a seguito di eventi casuali, più di tre miliardi di anni fa, ed è rimasta invariata, cioè fissata, da allora in poi. Le scelte riflesse nella natura di questo codice non sono né migliori né peggiori di altre, ma dal momento che si sono cominciate ad affermare sarebbe stato sommamente antieconomico cambiarle. Infatti, perché questo evento non comportasse l'estinzione della vita sulla Terra, sarebbe stato necessario il cambiamento concomitante di moltissime altre caratteristiche biologiche più o meno ben stabilite.

Altri esempi di incidenti congelati sono la struttura della membrana che circonda le cellule e i meccanismi della sintesi proteica. Nello studio degli organismi viventi ci si trova di fronte a una mescolanza di elementi necessari e quindi validi per così dire in ogni mondo possibile e di elementi intrinsecamente contingenti cioè validi per questo particolare pianeta e per la storia evolutiva del tipo di vita al quale siamo abituati. È chiaro che la presenza di un certo numero di incidenti congelati in ogni specie vivente rende un po' meno immediato inscrivere lo studio dei fenomeni biologici nel capitolo generale delle scienze fisiche.

Vale appena il caso di notare che l'esistenza di incidenti congelati nella vita terrestre rappresenta un chiaro esempio di irreversibilità e si situa al cuore di questo fenomeno. È noto che le leggi della natura sono simmetriche per l'inversione del tempo, mentre la vita di tutti i giorni ci offre una varietà enorme di esempi di processi irreversibili. In sostanza, le leggi sono simmetriche riguardo al tempo, ma gli eventi no. Questo fatto nasce dalla forma di alcune condizioni iniziali che derivano a loro volta da eventi che hanno infranto una simmetria originaria in quanto risultati di scelte operate selezionando una delle possibili alternative. Dí conseguenza, i fenomeni nei quali le condizioni iniziali hanno un'importanza maggiore, come quelli studiati dalla biologia, mostrano un grado più alto di irreversibilità.

La biologia è, quindi, una scienza storica. Ma nel secolo appena trascorso abbiamo appreso che anche l'Universo fisico ha avuto probabilmente un'origine e certamente ha una storia. Noi stiamo vivendo in un periodo particolare della storia dell'Universo e ci sono stati periodi nei quali la vita non c'era e altri nei quali non sarebbe stata neppure concepibile. È possibile che anche la cosmologia sia al fondo una scienza storica, ma la scala dei tempi implicata in essa è completamente diversa. Questo ci porta direttamente a un secondo punto, quello dei valori di temperatura che caratterizzano le varie scienze.

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La questione fondamentale in questo contesto è quanto potente e promettente possa rivelarsi un approccio riduzionistico nella biologia di oggi e di domani. La mia risposta è che questo approccio è di importanza capitale per lo studio dettagliato di ogni tipo di processo biologico. Ma la sua utilità è tanto maggiore quanto più si ha coscienza dell'importanza degli accidenti storici che rendono i fenomeni biologici così unici e irripetibili. In altre parole, le entità biologiche possono essere o non essere ridotte a livelli inferiori di organizzazione, ma ogni volta che ci si accinge a questa impresa è opportuno ricordare che moltissime delle loro proprietà si sono originate per rotture casuali di simmetria. Se le scelte avvenute in queste circostanze fossero state diverse, ci troveremmo davanti a entità e a fenomeni assai diversi. Oggi sappiamo pure che molte delle caratteristiche spicciole delle varie specie di esseri viventi non si sono consolidate tutte in una volta, ma sono il risultato di un processo storico di innovazione e sedimentazione lungo e laborioso, e di natura sostanzialmente erratica.

Vale la pena di considerare come al continuo comparire di proprietà emergenti si accompagni anche un altrettanto progressivo eclissarsi di altre caratteristiche e proprietà che vanno via via perdendo di rilevanza per i fenomeni che si stanno osservando. Si ritiene, per esempio, che per il grosso della chimica la microstruttura dei nucleoni non sia rilevante e che per la maggior parte dei fenomeni viventi non sia neppure rilevante la fisica subatomica. Con l'espansione e il progressivo raffreddamento dell'Universo sono comparse sempre nuove proprietà, ma è anche vero che altre sono andate declinando perché inessenziali per la comprensione dei nuovi fenomeni.

Queste ultime considerazioni ricordano un particolare punto di vista sulla natura delle scienze fisiche, secondo cui la teoria fisica da adottare specificamente per spiegare vari tipi di fenomeni fisici varia a seconda delle energie, e quindi delle temperature, che si stanno considerando o, che è lo stesso, della risoluzione spaziale alla quale si conduce l'analisi. Alle altissime energie occorre utilizzare una teoria fisica che tenga conto delle forze fondamentali unificate. A energie più basse è sufficiente adottare un approccio quantistico diciamo "classico", mentre a temperature ancora più basse può essere sufficiente l'armamentario della fisica classica ottocentesca. Se tutti questi piani di realtà sono considerati compresenti nel mondo di oggi, si ha una visione sincronica di queste diverse scale di energia, come se si trattasse di un regolo calcolatore sul quale sono riportate contemporaneamente tutte le fisiche corrispondenti alle varie energie. Spostando da sinistra a destra o da destra a sinistra il cursore del regolo, si può passare da un piano di realtà a un altro. In una visione diacronica, invece, più consona alla proposta di un riduzionismo diacronico, il trascorrere del tempo si è concretizzato in uno spostamento progressivo del cursore in una direzione, cioè dalle alte energie e temperature verso quelle più basse e dai livelli di aggregazione più infimi verso quelli via via più estesi e complessi. Ciò non significa che le varie fisiche non possano essere compresenti nell'Universo di oggi, ma solo che non lo erano nell'Universo di ieri e che con íl passar del tempo è sempre più difficile ripercorrere a ritroso la strada verso le condizioni fisiche caratteristiche di tempi remoti.

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L'Italia non è empirista, né utilitarista, né illuminista, né positivista, né materialista, né pragmatista, né naturalistica. È solo blandamente spiritualista.

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