Copertina
Autore Edoardo Boncinelli
CoautoreGaleazzo Sciarretta
Titolo Verso l'immortalità
SottotitoloLa scienza e il sogno di vincere il tempo
EdizioneCortina, Milano, 2005, Scienza e idee , pag. 234, cop. fle., dim. 139x225x18 mm , Isbn 978-88-7078-941-6
LettorePiergiorgio Siena, 2005
Classe biologia , scienze umane , evoluzione
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Indice

    Prefazione                            IX

    Introduzione.
    Quattro strade per l'immortalità       1

    PARTE PRIMA
    Ieri: il concetto di immortalità

1.  I vari tipi di immortalità            17
2.  Corpi e anime                         31
3.  L'immortalità degli alchimisti        43

    PARTE SECONDA
    Oggi: lo stato dell'arte

4.  Le basi scientifiche della vita       57
5.  Della vita e della morte              75
6.  Materia organizzata                   93
7.  Dal neurone all'Io cosciente         109

    PARTE TERZA
    Domani, forse: le quattro strade

8.  Vivere di più, vivere meglio         135
9.  L'eterna giovinezza                  157
10. La strategia sostitutiva             181
11. L'essenza dell'Io                    199
12. Chi desidera l'immortalità?          215

    Letture consigliate                  229

 

 

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Fisica e metafisica

La ricerca dell'immortalità di cui tratteremo non intende essere di tipo filosofico, né tanto meno religioso: già troppi l'hanno intrapresa con tali presupposti e le loro verità sono state accettate per millenni, improntando e condizionando la vita di gran parte dell'umanità. Tali concezioni, peraltro rispettabili e di indubbio (e forse insostituibile) potere consolatorio, non trovano cittadinanza nel quadro delle scienze sperimentali, le quali non valutano le asserzioni sulla base della loro verità o verosimiglianza, bensì della loro controllabilità empirica e coerenza logica. Avremo occasione di ritornare in seguito sullo spirito dell'approccio sperimentale alla conoscenza del mondo: per ora, ci limitiamo a sottolineare che la finalità principale del metodo scientifico è di predire, con la maggior attendibilità possibile, quali effetti seguiranno a un determinato insieme di cause; oppure, simmetricamente, quali provvedimenti conviene mettere in atto per ottenere un certo effetto. Né più, né meno. Può sembrare poco per chi cerca grandi risposte ai cosiddetti grandi quesiti; ma è molto, o comunque il massimo finora ottenuto nella storia, per chi si accontenta di far fronte nel modo più razionale possibile alle sfide che quotidianamente la vita gli presenta. In realtà, anche il metodo scientifico fornisce le sue risposte ai suddetti grandi quesiti: il guaio è che non sono quelle che ai più piacerebbe che fossero, come invece sono quelle fornite dalle diverse fedi.

Abbiamo detto che intendiamo affrontare l'immortalità in termini di fattibilità concreta, sulla base di quanto lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e una proiezione il più possibile realistica dei loro prossimi sviluppi applicativi permettono di prospettare. In quest'ottica si comprende come il concetto di immortalità, che nella sua comune accezione presuppone e include quello di eternità, vada riportato nei limiti di archi di tempo, sia pure assai estesi rispetto alle durate di vita attuali, certo non infiniti e nemmeno cosmologici. L'infinito, sia nello spazio sia nel tempo, è un'astrazione che non appartiene all'esperienza umana, e forse neppure alla realtà. Parlare di un'immortalità di decine di migliaia di anni non avrebbe alcun senso, non essendo assolutamente predicibili forme di vita e di conoscenza in un futuro così lontano. Di fatto, una soluzione in grado di moltiplicare per due o tre volte, in accettabile stato d'efficienza fisica e psichica, il già lusinghiero valore di aspettativa di vita raggiunto oggi dai cittadini dei paesi industrializzati potrebbe soddisfare chiunque, al di là d'ogni più ottimistica previsione. Dal punto di vista filosofico, di fronte all'eternità mille anni sono niente, da quello pratico, sarebbero... l'immortalità!

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Lo spettacolo è in scena


Possiamo ora riassumere quanto finora detto sui meccanismi di base della vita:

- ogni organismo vivente è composto di cellule, in costante attività biochimica;

- ogni cellula contiene uno o più gomitoli di filamenti di DNA, i cromosomi, ciascuno in una o più copie, che insieme costituiscono il genoma tipico della specie cui l'organismo appartiene, con qualche modesta ma non trascurabile variante individuale;

- il DNA è un acido nucleico caratterizzato da una doppia catena di solo quattro tipi di basi, che a tre a tre identificano venti diversi tipi di amminoacido;

- nel DNA, una sequenza di basi, o se si preferisce di triplette di basi, compresa tra un segnale d'inizio e uno di stop che definisce, attraverso la sequenza degli amminoacidi che la compongono, una particolare catena proteica, prende il nome di gene;

- quando un gene viene attivato, o acceso, si mette in moto il processo che porta all'assemblaggio della proteina da lui specificata;

- il DNA contenuto in una cellula è in grado, in particolari condizioni, di dar luogo a una copia, salvo errori, identica di se stesso da cui, in seguito all'assemblaggio di varie nuove proteine e di altre strutture biochimiche disponibili, viene prodotta una nuova cellula (processo di mitosi).

Per completare il quadro occorre precisare altri due punti. Il primo è che, se pure il DNA si replica in modo da produrre normalmente sempre e solo copie identiche a se stesso, non altrettanto vale per le cellule. Infatti, una volta prodotto un nuovo filamento di DNA, non è affatto detto che in questo vengano attivati i medesimi geni che avevano prodotto la cellula madre: ne possono essere attivati altri, oppure gli stessi in momenti diversi, con il risultato di dar luogo a una cellula diversa, anche notevolmente; ciò dipende solo dalla funzione regolatrice delle proteine che partecipano al processo, a loro volta prodotte da altri geni. Così si dipana il meraviglioso fenomeno dello sviluppo differenziato di un intero organismo, sia nella sua fase di crescita a partire da una sola cellula, sia in quella che potremo chiamare di normale esercizio, quando quotidianamente necessitano nuove cellule per le varie esigenze della sopravvivenza o della riproduzione.

Il secondo punto è che, in parziale contraddizione con quanto appena detto, talvolta anche la replica del DNA contiene qualche errore. Accade, per fortuna abbastanza di rado, che una o più basi della sequenza della copia siano accidentalmente diverse da quelle dell'originale. Di conseguenza, da quel momento in poi, tutte le copie di DNA discendenti da quello variato conterranno la medesima variazione, a meno di ulteriori errori di copiatura. Possedendo, tuttavia, le cellule vari strumenti di individuazione e correzione degli errori, si è stimato che la probabilità di errore non corretto sia, nel caso del genoma umano, di uno su un miliardo, purché non intervengano agenti particolari, chiamati mutageni, come, per esempio, intense radiazioni nucleari o elevata presenza di radicali liberi. Danni più gravi, spesso fatali, seguono alla mancanza o all'eccesso di interi cromosomi. La sindrome di Down, per esempio, che colpisce uno ogni settecento neonati, è dovuta alla presenza di un cromosoma in più, il cromosoma 21, presente in 3 copie invece di 2.

Un errore di copiatura del DNA può provocare differenti livelli di gravità delle conseguenze:

- la variante rimane latente e non comporta alcun effetto concreto se, con una notevole dose di fortuna, l'errore dà luogo a una tripletta che specifica il medesimo amminoacido di quella originale, oppure se riguarda sequenze del DNA che non codificano proteine;

- la variante produce un effetto dimostrabile ma assolutamente non patologico, come cambiare il colore degli occhi o dei capelli;

- la variante produce un effetto patologico, ma di rilevanza marginale, come l'albinismo (pelle e capelli molto chiari e occhi arrossati) o il daltonismo (incapacità di distinguere bene i diversi colori);

- la variante produce un chiaro effetto patologico sul corpo o sulla mente;

- la variante ha un effetto letale: l'individuo interessato non nasce oppure muore dopo pochi mesi o qualche anno.

È poi assai importante dove si verifica l'errore:

- se si verifica a uno stadio dello sviluppo cellulare tale da non coinvolgere le cellule destinate alla riproduzione, gli effetti dell'errore, buoni o cattivi, rimangono confinati al portatore e moriranno con lui: si parla in tal caso di mutazione somatica;

- se, invece, si verifica ai primi livelli dello sviluppo, in una delle cellule da cui discenderanno quelle destinate alla riproduzione, i suoi effetti possono estendersi anche a tutti i discendenti: si parla, in questo caso, di mutazione germinale o genetica.

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I grandi numeri


Così, nel corso dei millenni e delle generazioni, si sono casualmente formati nuovi geni e nuovi genomi, e quindi nuovi organi e nuovi organismi. Quante estrazioni sono state necessarie? Un batterio può avere un ciclo generazionale di 20 minuti, oltre mezzo milione di volte più veloce di quello di un essere umano odierno: se gli umani si riproducessero a questo ritmo, i Neandertal si sarebbero estinti solo 20 giorni fa e quella scimmiesca femmina di australopiteco alta 120 centimetri che i paleontologi hanno battezzato Lucy sarebbe vissuta solo sei anni fa! All'attuale ritmo dei batteri, e senza contare l'ultimo mezzo miliardo di anni, quello del Fanerozoico, una sola linea di discendenza diretta avrebbe avuto a disposizione circa 84.000 miliardi di generazioni! E non chiedeteci quante linee, cioè quanti batteri ha contemporaneamente ospitato la Terra, perché non siamo in grado di rispondere.

Dicevamo che il segreto della vita è quello di replicare ciò che funziona e di conservare solo le mutazioni valide: altrimenti sarebbe ogni volta in mano al solo potere del caso, che è per natura il grande disgregatore. La complessità viene quindi preservata e, sia pure lentamente e per goffi tentativi, pian piano incrementata. Noi, che vediamo tutto attraverso gli occhiali del finalismo, siamo portati a chiamarla organizzata o funzionale. In realtà, si tratta solo di complessità in grado di produrre massicciamente copie di se stessa, talvolta non proprio identiche all'originale; al resto provvede il filtro della selezione naturale.

Come abbiamo detto in precedenza, allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo ancora quali siano stati i primi passi del fenomeno e come si sia giunti al raffinato meccanismo che conosciamo: le condizioni necessarie e, forse, sufficienti, sono una abbondante disponibilità di materiale organico (e si sono individuati ambienti che a quel tempo potevano esserne ricchi) e una struttura chimica in grado di catturare dall'ambiente molecole utili e di replicarsi. Chi vivrà, saprà.

Malgrado le contestazioni, il principio evolutivo enunciato da Darwin è diventato un importante strumento del pensiero scientifico; al punto che si è presa l'abitudine di giustificare con un qualche vantaggio selettivo, talvolta cervellotico, qualunque aspetto morfologico o comportamentale venga riscontrato nelle varie specie di viventi. Questo darwinismo estremo è sbagliato e i fatti lo dimostrano: se la selezione naturale fosse così drastica, esisterebbe una sola specie vivente; invece, sono decine di milioni e, per giunta, estremamente diversificate. Se è vero che si riscontrano in natura numerosi casi di convergenza evolutiva, cioè di organi o funzioni che, attraverso percorsi evolutivi diversi, hanno dato luogo a soluzioni simili (per esempio, l'occhio sembra essere stato indipendentemente sviluppato in una quarantina di casi diversi e le ali almeno quattro volte), è altrettanto vero che convivono in natura soluzioni diversissime ai medesimi problemi; hanno avuto successo evolutivo gli alberi, i funghi, i licheni, gli insetti, gli uccelli e i mammiferi, ciascuno a modo suo. Questa constatazione mostra quanto, nell'accoppiata caso-selezione, sia importante anche il peso del primo. Le nicchie ecologiche a disposizione sono molte e la selezione naturale non è un giudice poi così severo: lascia passare tante alternative, e questo ha consentito alla vita di accumulare un ingente patrimonio di biodiversità, con una miriade di alternative da opporre a eventuali catastrofi ambientali.

Con questo, abbiamo concluso la carrellata sulla vita in generale, su come essa sussista e si diffonda, sul perché si possa considerarla una conseguenza abbastanza naturale delle proprietà della materia inanimata. La marcia di avvicinamento al tema centrale si sta concludendo. D'ora in poi, parleremo di animali dotati di sistema nervoso, dell'essere umano e di quell'inafferrabile quid che è il suo Io cosciente: questo, soprattutto questo, ci interesserebbe sottrarre il più a lungo possibile alle grinfie della morte.

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Il Sé sinaptico


Il sistema nervoso di un individuo deve compiere in maniera coordinata una grande quantità di funzioni diverse, variamente importanti per la sopravvivenza e il successo nella competizione con gli altri viventi. A livello centrale, l'architettura di base è ampiamente di tipo parallelo (gli informatici direbbero multitask), cioè con strutture singolarmente dedicate a una certa funzione e in grado di svolgere il proprio compito anche indipendentemente dalle altre. Per citarne alcune a titolo di esempio, in un mammifero vengono contemporaneamente controllati e regolati il ritmo cardiaco, il livello della pressione sanguigna, la temperatura corporea, il flusso ematico verso i vari organi, la frequenza e la profondità degli atti respiratori, la postura, l'equilibrio, la preparazione e attuazione di varie attività motorie riflesse, la gestione dei sistemi percettivi visivo, acustico, tattile e olfattivo, il richiamo dell'attenzione su particolari eventi o situazioni ambientali, l'attivazione di reazioni riflesse e così via. Tutti questi processi devono funzionare al meglio: l'evoluzione ha nel tempo selezionato e collaudato altrettanti moduli neuronali atti a gestirli adeguatamente. Ciascuna di queste unità operative costituisce generalmente un sistema reattivo del tipo schematizzato all'inizio, cioè dotato di una sezione sensoriale, di una sezione di elaborazione decisionale e di una sezione attuativa, nonché delle relative interconnessioni. Poiché, come abbiamo avuto modo di osservare, il momento più qualificante è quello decisionale, ognuno di questi sistemi sarà dotato, in misura più o meno ampia, di capacità di memoria, in cui immagazzinare e da cui prelevare le informazioni raccolte in precedenti esperienze. Sono queste basi di dati che consentono di fare scelte che noi oggi chiamiamo intelligenti o, più esattamente, circostanziate.

Per quanto ciascun modulo funzionale sia in grado di operare anche indipendentemente dagli altri, e quindi nel minor tempo possibile, è chiaro che il miglior risultato complessivo si otterrà se esisterà anche una certa interazione e coordinazione tra le varie funzioni. In battaglia è importante che i singoli ufficiali siano in grado di manovrare i propri uomini e di usare con la massima efficacia le armi e le munizioni di cui il reparto dispone, ma lo è altrettanto che essi prendano ordini da livelli di comando superiori, che dispongono di un quadro strategico più ampio, a loro volta facenti capo a un comandante supremo. Di complessità in complessità, il cervello degli animali ha sviluppato le funzioni di coordinamento, prima sotto forma di semplici interrelazioni tra sottosistemi, poi avvalendosi di apposite strutture dedicate, a vari livelli, alla supervisione e alla integrazione delle attività dei singoli sotto sistemi. Sono queste le sedi della consapevolezza, della coscienza e della autocoscienza?

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I responsabili della senescenza


Indipendentemente dalle eccessive aspettative sollevate dalla scoperta della funzione dei telomeri, numerosi altri studi sono stati rivolti, nel corso degli ultimi decenni, a indagare sui processi biologici che determinano (o che accompagnano) l'invecchiamento. Tali sforzi erano promossi, oltre che dalla nobile motivazione di allargare le conoscenze scientifiche, dalla speranza di scoprire qualche efficace rimedio. A oggi possiamo dire che mentre i passi avanti compiuti sul terreno della conoscenza sono stati notevoli, quanto ai rimedi siamo poco più che alle buone intenzioni; ma, forse, ne stiamo finalmente comprendendo il perché e la situazione potrebbe essere presto rovesciata. La più illuminante conclusione emersa da questi studi è infatti che se da un lato i processi e gli agenti degenerativi sono tipicamente i medesimi per tutte le specie animali, dall'altro i loro effetti sono quantitativamente assai diversi da una specie all'altra. La prima parte di quest'affermazione non dovrebbe sorprendere, in quanto sappiamo che i meccanismi base della vita animale sono ovunque gli stessi; ma non dovrebbe sorprendere nemmeno la seconda, poiché abbiamo visto che la rilevanza degli effetti dipende primariamente dalla capacità dello specifico patrimonio genetico di contrastarli. Ed è appunto la differenza tra i genomi che distingue macroscopicamente le varie specie nei confronti dell'invecchiamento.

Senza volerci addentrare eccessivamente in questa materia, e rimanendo nell'ambito del regno animale, ci limiteremo ad alludere ad alcuni punti, allo scopo di fornire un'idea della complessità dei problemi e delle possibilità di affrontarli in un prossimo futuro. Il più vistoso processo degenerativo dipende dalla più comune tra le reazioni chimiche che si svolgono all'interno delle cellule animali: l'ossidazione del glucosio, che costituisce la tipica fonte di energia per le attività delle cellule stesse. Come un motore a scoppio utilizza l'ossigeno per bruciare il carburante, così le cellule animali ne hanno bisogno per bruciare il glucosio, anche se la presenza di questo gas è assai pericolosa per le macromolecole presenti all'interno della cellula. Nei primi miliardi di anni, quando erano ancora prive della protezione della membrana, esse hanno potuto sussistere solo perché la percentuale di ossigeno libero nell'atmosfera era molto bassa.

La reazione di ossidazione del glucosio è realizzata da organelli detti mitocondri, presenti in gran numero (da centinaia a migliaia) all'interno di ogni cellula. Per inciso, è interessante notare che i mitocondri sono a loro volta una specie di esseri viventi in miniatura, paragonabili a batteri, dotati di un loro DNA che viene tramandato di cellula in cellula e di organismo in organismo solo per via materna. In un qualche momento della evoluzione essi sono entrati in simbiosi con le cellule e da allora vi svolgono la loro operosa attività senza potersi più affrancare e vivere una vita autonoma. Succede, però, che la reazione talvolta non sia completa e che molecole di ossigeno elettricamente cariche (radicali liberi] rimangano in libertà, andando a danneggiare i mitocondri stessi e riducendoli in numero e in efficienza. Con il tempo i danni si accumulano. Per esempio, l'insuffrcienza mitocondriale è la principale causa del progressivo indebolimento muscolare che accompagna l'invecchiamento.

I radicali liberi non avvelenano solo i mitocondri, ma anche la membrana che avvolge e protegge la cellula. All'interno di essa le sostanze ossidanti possono danneggiare varie proteine, causando malattie degenerative come il diabete, il morbo di Alzheimer o quello di Parkinson, che, appunto, hanno probabilità crescente di comparire con il procedere dell'età. Tra le loro azioni più nocive vi è l'ossidazione dei grassi, i preziosi "lubrificanti" di tante funzioni dell'organismo, che in tal modo diventano "rancidi" e si induriscono. Da questa malfunzione dipendono, per esempio, il deposito di placche all'interno delle arterie (ossia, l'arteriosclerosi), con tutte le sue dannose conseguenze, e la perdita di elasticità del cristallino, una vera e propria "lente" biologica, con la riduzione della capacità di accomodamento e un generale indebolimento della vista tipico della tarda età.

Gli effetti più disastrosi dell'attacco dei residui ossidanti si verificano tuttavia nei confronti del DNA. Possiamo qui distinguere due diverse situazioni, con differente livello di rischio, nel caso che il DNA danneggiato appartenga a cellule che nel corso della vita hanno cessato di dividersi oppure a cellule che sono ancora chiamate a riprodursi (tra queste, in particolare, quelle della pelle, del sistema linfatico o dell'apparato riproduttivo). Nelle prime, il danno si può manifestare nella codificazione di proteine, ma fortunatamente viene contrastato dall'azione di meccanismi correttori che si avvalgono della presenza del filamento complementare (ricordiamo che il DNA è costituito da due sequenze di basi complementari, strettamente allacciate) per costruire dei nuovi segmenti e sostituirli a quelli portatori di un difetto (purché non siano danneggiati entrambi). Purtroppo anche questi servizi di manutenzione perdono nel tempo la loro efficacia e non riescono più a far fronte alle troppo frequenti chiamate di intervento. Ma il peggio, e si chiama cancro, si verifica quando il danno genomico scatena la duplicazione incontrollata della cellula interessata, sconvolgendo gli equilibri dell'organo coinvolto e propagandosi poi ad altri tessuti.

Una seconda causa di degrado funzionale, sempre di origine metabolica, riguarda il combustibile mitocondriale, e cioè il glucosio. Tracce incombuste di questo carboidrato possono legarsi indissolubilmente a vari tipi di proteine che esercitano funzione strutturale, facendo perdere flessibilità al materiale biologico: in quei tessuti in cui non vi è ricambio cellulare, come il cuore, i polmoni, il cervello o il collagene dei legamenti, i danni si accumulano e si osservano quelle sclerotizzazioni o indurimenti che ci fanno sentire vecchi e che a lungo andare possono diventare fatali.

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La bomba demografica


La più grave minaccia che pesa sull'umanità del secolo appena iniziato è l'insostenibilità dell'incremento demografico, rischio da tempo noto e segnalato in varie sedi, con apocalittiche previsioni. Se non rallenteranno drasticamente gli attuali tassi di natalità dei paesi emergenti, a poco o nulla serviranno il miglioramento delle tecniche agricole, l'industrializzazione su scala globale, l'equa distribuzione della ricchezza: le risorse non saranno mai sufficienti e i miasmi dell'inquinamento soffocheranno il mondo. A meno che, ma i dati mostrano il contrario, non accada anche ai popoli ora così prolifici quanto si è verificato ultimamente nella vecchia Europa, dove vi è stata una notevole contrazione delle nascite (adesso peraltro in via di ripresa), compensata tuttavia dall'allungamento della vita media.

Di fatto, la tendenza all'espansione è una proprietà fondamentale della vita. Abbiamo visto in precedenza come la vita sia un fenomeno esplosivo, teso a riempire prepotentemente ogni possibile spazio utilizzabile: questa è stata la sua arma vincente nei confronti dell'azione disgregatrice del caso. Grazie alla sua virulenza e adattabilità, la vita si è affermata sul pianeta Terra e ne ha cambiato radicalmente l'aspetto e perfino l'atmosfera. Per miliardi di anni, l'equilibrio è stato comunque assicurato dalla ferrea legge della selezione naturale: sopravvivono solo i più adatti, e compatibilmente con le risorse disponibili. La specie cui apparteniamo, grazie all'eccezionale sviluppo delle strutture cerebrali, si è posta in una posizione di privilegio, imponendo nuove regole nell'antico gioco: ha sterminato sistematicamente i propri predatori, ha protetto e allevato le proprie prede, ha convertito ai propri scopi gran parte della superficie del pianeta, incrementandone la produttività con l'irrigazione, la concimazione e la selezione delle specie vegetali coltivate. Con il crescere delle conoscenze mediche e del livello di benessere ha inoltre drasticamente ridotto la mortalità, aumentando considerevolmente l'aspettativa di vita. Il naturale dettame del crescete e moltipllcatevi è stato interpretato da Homo sapiens nel modo più efficace e totalizzante.

Oggi le risorse naturali sono vicine al limite, anche per l'atavica spinta ad accaparrarsene oltre lo stretto necessario, ma il fenomeno espansivo non si ferma. D'altra parte, la più forte delle pulsioni naturali, in tutte le specie viventi, è quella di avere una numerosa discendenza. Questa è la proprietà premiata dal vaglio della selezione naturale e questa possiedono i genomi che meglio superano la prova. Sarà duro convincere le popolazioni del contrario, soprattutto quelle più povere e disperate (povere e disperate anche per questo), per le quali la procreazione è l'unico modo di dare uno scopo alla propria travagliata esistenza. E per chi invece sta bene, il poter avere dei figli sui quali riversare il benessere conquistato e i sogni mancati, rimane uno dei più gratificanti aspetti della vita. Da parte loro, infine, ideologie nazionalistiche e integralismi religiosi tendono ancora a incoraggiare la prolificità, come hanno sempre fatto in passato, nell'intento di veder ingrossare le fila dei loro adepti e, quindi, aumentare forza e rappresentatività dei loro movimenti.

Negli ultimi decenni la comunità internazionale ha lanciato appelli e attivato campagne per limitare le nascite nei paesi in via di sviluppo: la cosa è stata presa, e non del tutto a torto, come un'egoistica ingerenza dei ricchi nella vita dei poveri; gli effetti sono stati modestissimi o addirittura, per reazione, controproducenti. Un solo governo, quello cinese, si è impegnato seriamente per arginare il fenomeno (peraltro in quel paese già a livelli drammatici) e lo ha fatto mettendo in campo una capacità di persuasione e dissuasione senza precedenti: il diktat di un solo figlio per coppia è stato imposto e fatto rispettare con metodi che sarebbero improponibili in paesi democratici. Ciononostante, i cinesi sono passati in 40 anni da 700 a 1400 milioni, senza contare coloro che sono usciti dai confini nazionali e che prolificano attivamente altrove.

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