Autore Edoardo Boncinelli
Titolo Contro il sacro
SottotitoloPerché le fedi ci rendono stupidi
EdizioneRizzoli, Milano, 2016 , pag. 234, cop.rig.sov., dim. 14x22x2,2 cm , Isbn 978-88-17-08595-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2016
Classe evoluzione , filosofia , psicologia , antropologia , religione












 

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Indice


Prefazione. L'idea di sacro                           9


L'Appartenenza e il Radicamento                      23

La Legittimazione e le Spiegazioni                   47

La Normatività e la Socialità                       119

Il confinamento della Razionalità                   197


Conclusione                                         225


Letture consigliate                                 229


 

 

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Pagina 9

Prefazione
L'idea di sacro



                                             «Deorum manium iura sancta sunto.»

                          (Sacri saranno considerati i diritti degli dei Mani.)

                                                         Leggi delle XII tavole



La modestia, si sa, non è certo il tratto distintivo dell'animale uomo. Per millenni la sua voglia di staccarsi da terra – unita al suo irrefrenabile bisogno di porre infinite e sempre più elaborate distinzioni tra lui e le creature che popolano gli zoo – lo ha spinto a ricercare una radice nobile per la sua specie e a individuare uno scopo nobilitante per la propria esistenza.

Fin da quando ha memoria di sé, l'umanità si è chiesta: «Da dove veniamo? E perché siamo qui?». Per rispondere a queste domande, alcuni di noi hanno deciso di scavare, letteralmente e figuratamente, alla ricerca di un lontano progenitore. Molti altri, invece, sempre con l'intenzione di sciogliere quell'interrogativo, hanno preferito alzare lo sguardo e cercare conforto tra le stelle.

I più fantasiosi sono arrivati ad accarezzare l'ipotesi di una matrice oltrespaziale, individuando in una non meglio precisata civiltà extraterrestre gli iniziatori della vita umana sul nostro pianeta. La stragrande maggioranza delle persone, invece, ha scelto di elaborare e consolidare — generazione dopo generazione, superando confini temporali, geografici e sociali — l'idea di uno o più Enti Superiori onnipotenti e onniscienti (più o meno antropomorfi) che non solo avrebbero originato la vita sulla Terra, ma sarebbero i creatori di tutto quello che conosciamo e di tutto quello che non conosciamo, gli artefici di qualsiasi cosa (più o meno tangibile) incontreremo nella nostra esistenza e di qualsiasi cosa ci aspetti una volta che ne saremo giunti al termine.

Nonostante si parli del nostro tempo come di «Era della Scienza e della Tecnica» e si sbandieri un unanime sentimento razionalistico e filoscientifico, ancora oggi molti di noi proprio non riescono a mandar giù il fatto che, ripercorrendo a ritroso il proprio millenario albero genealogico, si rischi di incappare in un lontano antenato dai tratti somatici indiscutibilmente scimmieschi. Insomma, nelle nostre foto di famiglia i primati non sono i benvenuti. Piuttosto che permettere che un gorilla sieda alla nostra mensa, preferiamo cullare la speranza che sulle nostre tavole imbandite aleggi la benedizione di un non meglio precisato Ente Superiore a cui tutto fa riferimento. Un ente che può anche permettersi il lusso di essere invisibile e incorporeo, perché proprio allo scopo di proteggere, dimostrare e ribadire la Sua esistenza, gli esseri umani hanno ideato, tenuto in vita ed elaborato un millenario sistema di pensieri, principi, norme e riti. La metafisica, infatti, non rappresenta a mio parere un punto di arrivo nella storia del pensiero umano, ma un punto di partenza, che fa tutt'uno con la primitiva idea del sacro.

Che cos'è il sacro? «Il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza.» Quest'incisiva affermazione di Mircea Eliade, il grande studioso moderno della religiosità, tratteggia assai bene l'importanza che questo concetto ha per gli esseri umani, probabilmente fin dall'antichità più remota.

Fin quando ci possiamo spingere a ritroso nel tempo troviamo, infatti, un concetto simile come parte di una forma o l'altra di spiritualità. Lo stesso studioso afferma anche che «l'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato». Tale esigenza deriva originariamente dalla perdita, anche parziale, del magistero degli istinti e si articola a sua volta nella ricerca di spiegazioni, o almeno di giustificazioni, per la struttura del mondo, e di finalità «buone» per il nostro agire quotidiano.

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Pagina 17

Da quanto detto e da quanto diremo, appare chiaro che il sentimento del sacro è un insieme di stati d'animo, di vissuti e di ferree convinzioni, oltre che di spinte primitive. Appartiene perciò alla regione più profonda della nostra irrazionalità, quasi una necessità fisica di una serie di punti fermi da cui partire e sui quali fondarsi, anche a prescindere dalla religione vera e propria. Come di tutto, esiste però una maniera verbalizzabile e occasionalmente più razionale di parlarne, perché si sa che il linguaggio lotta con l'inesprimibile fino ad arrivare a esprimerlo, altrimenti addio! Va da sé che cercherò per quanto è possibile di percorrere un sentiero del genere.

Se esistono, o sono mai esistiti, dei popoli «primitivi», è loro il mondo proprio del sacro, come illustrato dai bellissimi racconti di un gran numero di autori di ogni tempo. Ma non ne parlerei qui, se la cosa non si applicasse in parte anche al mondo d'oggi, e abbastanza chiaramente. Si dice spesso che la nostra società tende sempre più a secolarizzarsi, ma anche in una società fortemente secolarizzata il senso del sacro non è andato perduto totalmente, e talvolta quasi per niente, anche se non tutti ci fanno caso, pure negli ambienti più avvertiti. Come ho già notato, il termine sacro è utilizzato spesso per sancire l'intoccabilità di cose e di concetti che non hanno direttamente molto a che fare con la religione, ma possiedono piuttosto una valenza sociale e civile, ovvero politica in senso lato. Il tutto considerato e assunto apriori, cioè prima di ogni discussione. Trovo che il colmo di tale tendenza sia rappresentato dalle affermazioni fatte spesso da più parti, ma soprattutto dai rappresentanti del clero, secondo le quali certe posizioni sono «non negoziabili». Non negoziabile non significa soltanto «oltremodo aprioristico», ma implica anche che per venirne fuori in qualche maniera occorre mettere mano alle armi. Altro che dialogo e pacifica discussione!

Mi sono chiesto qui: perché esiste in noi prepotente e universale un sentimento del sacro? Quali sono le sue radici e le sue giustificazioni? Quali vantaggi comunque comporta questa serie di fatti? E con che cosa, invece, può interferire negativamente, molto negativamente, nella nostra vita di tutti i giorni? Può l'idea del sacro arrivare a smorzare o anche a ottundere la nostra facoltà razionale? E se è così, quanto ci conviene ancora attenervicisi, soprattutto alla sua componente più aprioristica? Non potrebbe essere che molte gravi incomprensioni del mondo di oggi dipendano dalla sopravvivenza di questo arcano e implicito preambolo dei preamboli? Il problema non potrebbe essere più attuale, in un mondo abitato da uomini tutti uguali per natura, ma tutti in lotta fra di loro, con le parole e con i fatti. A questo scopo ho deciso di strutturare il libro in modo da rendere immediatamente evidente l'ambivalenza di un concetto così radicato nella nostra cultura, suddividendo il testo in quattro capitoli: nei primi tre analizzeremo le positività del sacro, mentre nell'ultimo ci concentreremo sulla sua cruciale e inaggirabile negatività.

Dice Ludwig Wittgenstein: «Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli. E questo significa non crearne di nuovi». Se è così, allora questa è un'opera filosofica. D'altra parte, l'assenza di un idolo, die Abwesenheit eines Gφtzen, può creare un deserto. Ma se c'è, il deserto va vissuto. E fino in fondo.

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Pagina 32

In primo luogo c'è una concezione tangibilissima della natura come insieme delle cose che ci circondano in questo momento, che sono prevalentemente, ma non esclusivamente, di origine organica: gli alberi, i prati, i fiori, gli animali, il cielo, il mare, il sole, la luna e le stelle, osservati in tutte le possibili condizioni atmosferiche. Θ un inventario di cose ed eventi dei quali il vivere quotidiano ci propone innumerevoli versioni e che i viaggi e i racconti arricchiscono continuamente. Parliamo spessissimo di una natura definita in questo modo, che possiamo designare come natura„ ma occorre considerare che molto spesso si ritengono incluse in essa molte cose che sono in realtà il risultato della millenaria interazione dell'uomo, cioè della sua cultura, con la natura vera e propria — che potremmo designare come natura0 — come il frumento, il granturco, le ciliege, i piselli, l'uva, le pecore, le mucche e via discorrendo, tutte cose che senza l'opera dell'uomo non esisterebbero. Si tratta di una natura osservata e quasi sempre amata per quello che è, senza una riflessione approfondita su quello che c'è dietro e sulla storia dei suoi singoli elementi. Questa è la natura della quale parliamo più spesso e che tendiamo a contrapporre all'uomo e alla sua cultura.

C'è poi una natura, chiamiamola natura2, vista come reggitrice e ordinatrice dell'immensa varietà dei processi biologici, la cui azione ha portato tra le altre cose alla natura0, ma anche all'uomo e in definitiva all'attuale natura1. Θ una Natura con la maiuscola la cui azione è stata ipotizzata e cantata da tempi immemorabili e che ha ispirato innumerevoli riflessioni poetiche, da Mimnermo a Leopardi. La biologia degli ultimi due secoli, e soprattutto il progressivo affermarsi di un punto di vista evoluzionistico, ci hanno permesso di gettare un occhio ai suoi disegni e sempre più spesso di descriverne con precisione le varie manifestazioni.

Ma che cosa c'è dietro questo concetto, che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria personalizzazione? Esiste veramente una qualche volontà di contemperare le esigenze delle varie specie, di promuoverne all'occorrenza alcune e penalizzarne altre, di aumentare la diversità naturale delle specie e di spingere nello stesso tempo gli organismi viventi verso un grado di complessità sempre maggiore? Si direbbe proprio di no. Non solo non esiste una volontà, ma non esiste neppure un'unica forza centrale che realizzi tutto questo. Quella, che a noi può apparire come un'impresa organizzata, è l'effetto del concorso di un numero enorme di fenomeni naturali, piuttosto che la loro causa.

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Pagina 35

Il reale propulsore dell'evoluzione, la cui presenza si avverte appena come un ronzio nello scantinato, ma che è alla base di ogni evento evolutivo, è la continua comparsa di nuove mutazioni genetiche, in ogni istante, in ogni specie. Gli effetti di questa incoercibile creazione di novità biologiche passano poi al vaglio dell'ambiente circostante che seleziona, positivamente o negativamente, gli individui portatori di tali novità. A quest'azione di filtro e di collimatore si dà il nome di selezione naturale. Un'espressione del genere rende molto bene l'idea che sta dietro i fenomeni evolutivi, a patto che essa venga interpretata correttamente, che non si pensi cioè a un'entità precisa che compie questa selezione.

Non solo non c'è nessuno che mette in atto consapevolmente una selezione, ma non c'è nessuna forza unitaria alla base di questa impresa. Avviene e basta, ovunque e in ogni stagione. Noi possiamo solo costatare gli effetti di tale processo e assai raramente prevederli. Qualcuno che vuole apparire più moderno, ma che non sa rinunciare a una visione progressiva e direzionale dei fenomeni evolutivi, invoca fantomatici processi di autopoiesi, di auto-organizzazione o di una non meglio definita spinta naturale verso una complessità biologica crescente. Di tutto questo non c'è alcuna evidenza e soprattutto non c'è alcun bisogno. I meccanismi alla base del processo evolutivo sono chiari. Sono il progettista e il supervisore a mancare. Tutto sommato, il fondamento e la legittimazione dell'esistenza di un'ipotetica natura2 riposa interamente sull'osservazione della natura1. Ovviamente nel complesso di queste vicende noi esseri umani siamo in grado di individuare e seguire un certo numero di storie di senso compiuto, una successione di eventi, un significato, ma ciò è dovuto esclusivamente ai poteri e ai limiti, tremendi e quasi innaturali, di quello che costituisce il centro e il culmine della natura,, vale a dire la mente dell'uomo. Come abbiamo già visto, il «libero arbitrio», l'anima immortale, la coscienza, la volontà, l'Io e l'idea stessa di Dio possono essere fatti derivare da un «semplice» processo di selezione naturale.

E veniamo al terzo significato, il più ampio di tutti, della parola natura, diciamo natura3, come entità ancora più astratta e onnipervasiva che regge i moti dell'intero universo, animato e inanimato, con la forza delle sue leggi, le cosiddette «leggi di natura» appunto. Il concetto di legge naturale ha almeno un paio di debiti storici. Da una parte, nasce da una visione «normativa», meglio ancora «universalmente normativa», tipica del diritto occidentale. Dall'altra, la concezione religiosa di un Dio benevolo e razionale che ha creato e governa l'universo ha portato a pensare che il tutto non possa che obbedire a leggi universali e invariabili che Lui stesso ha stabilito e di cui si fa garante. Tali leggi lo scienziato le deve solo individuare e spiegare, anche se tale opera diviene sempre più ardua, via via che ne individua di sempre nuove.

Una visione del genere è stata molto utile per lo sviluppo stesso della scienza occidentale e gioca tutt'oggi un ruolo fondamentale sul piano psicologico. Ma in una visione più disincantata e secolarizzata, chi garantisce che queste leggi siano le stesse in ogni angolo del creato e in ogni istante della sua storia? E prima ancora, siamo sicuri che le cose stiano così? Non conosciamo al momento alcun fenomeno che possa far pensare che le leggi della fisica non siano le stesse in ogni parte dell'universo e molte teorie sull'origine e sull'evoluzione dell'universo stesso assumono che le medesime leggi valessero sostanzialmente anche nei primi istanti di vita dell'universo. Se vogliamo essere rigorosi, però, nessuno può garantire apriori che sia così. Se qualcuno trovasse che in qualche angolo remoto del cielo vigessero leggi un po' diverse da quelle che noi conosciamo, nessuno sarebbe autorizzato a dubitarne e a lamentarsene, anche se ce ne stupiremmo non poco.

O forse non avremmo nemmeno modo di stupircene. Se queste leggi anomale non restassero confinate in uno spazio definito, ma si diffondessero nell'universo, è molto probabile che noi non avremmo neppure il tempo per accorgercene, e certo non ne serberemmo il ricordo. Noi siamo figli dell'universo quale lo conosciamo oggi e non potremmo probabilmente tollerare troppe variazioni. Il fatto che noi esistiamo è in fondo la garanzia dell'uniformità e della regolarità dei processi naturali, ma proprio per questo rappresentiamo una sorta di garante non garantito. Da un momento all'altro possiamo essere spazzati via da un'insignificante perturbazione nella fabbrica dell'universo.

Occorre notare che il cammino storico è proceduto in verità nel senso opposto a quello della nostra esposizione. Prima viene la natura3, poi, probabilmente soltanto su questo pianeta, la natura2 e infine l'attuale natura1, mentre la natura0 non rappresenta che un costrutto ipotetico. Anche lo status delle tre idee di natura è diverso. La natura3 è un insieme di leggi, per quel che ne sappiamo, universali; la natura2 è un meccanismo esplicativo, specifico, locale e semiempirico; mentre la natura1 coincide con tutto quello che esiste al momento sulla Terra. Nessuno sa che cosa potrebbe essere veramente, infine, la natura0, ma non si può non notare che buona parte dei discorsi di oggi vertono sulla differenza, variamente ricostruita, fra natura1 e natura0.

Non stupisca questa lunga digressione su una visione tipica del mondo d'oggi. Ragionamenti così precisi ed espliciti non potevano certo far parte del bagaglio culturale dei primi uomini, ma le esigenze intellettuali dell'uomo di un tempo non possono essere state radicalmente diverse da quelle di un uomo di oggi. L'uno e l'altro si pongono spesso le stesse domande. In fondo, l'ultima domanda che ci siamo fatti, cioè quella su chi garantisce che le leggi fondamentali della fisica siano le stesse in ogni angolo del creato e in ogni istante della sua storia, rimanda a qualcosa che, almeno in linea di principio, è al di sopra della natura, è cioè sovrannaturale. Qui sta proprio il cortocircuito fra l'ieri e l'oggi, o meglio fra l'uomo di ieri e quello di oggi. L'uno e l'altro sanno più o meno confusamente che cosa è la natura, ma assumono che in giro ci sia di più, cioè un insieme di fatti sovrannaturali, paralleli o sovrapposti a quelli naturali; anzi, che gli eventi di natura siano una combinazione di fatti «naturali», come li concepiamo noi oggi, e di eventi che noi definiremmo sovrannaturali.

Il sovrannaturale è quasi sempre l'altra faccia del sacro, non necessariamente comprensibile e raccontabile, ricco di imposizioni e di complicatissime norme, ma anche di concrete e allettanti possibilità di previsione. Il fatto è che la vita non ci piace sempre – spesso è sofferta e ingrata – ma non la vogliamo perdere, perché la morte è in fondo stretta parente della perdita di appartenenza. Ciò rappresenta uno dei più grandi enigmi del nostro essere. Ci lamentiamo delle nostre vicissitudini, ma siamo intimamente convinti che le cose possano migliorare, anche se spesso non sappiamo assolutamente immaginare come. (Tale è il senso più profondo, sorprendente e quasi paradossale di una piccola grande operetta morale di Giacomo Leopardi: Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere.) E alla fine di tutto, la nostra esistenza ci sembra sempre troppo corta. La profonda, sottile, contraddittorietà del nostro atteggiamento verso la vita è prodigiosamente colta da una fulminante battuta di Woody Allen: «Questo provo riguardo alla vita: solitudine, guai, dolori... e dura anche poco».

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I fini (e la Personificazione)


Poiché quando noi agiamo, abbiamo quasi sempre uno scopo, e lo stesso ci sembra che valga almeno per tutti gli animali superiori, ci siamo persuasi da tempo che ogni azione debba avere anche un suo fine. Da qui è poi facile scivolare nella convinzione più comprensiva che ogni evento abbia un fine. Θ un po' lo stesso discorso fatto per le cause, ma i fini delle azioni (o degli eventi) sono ancora più interessanti e rilevanti. Almeno in linea di principio, ci sono eventi che possono accadere perché occasionati da una causa, ma non necessariamente finalizzati a uno scopo. Posso per esempio urtare accidentalmente un alveare e mettere in moto un turbinio d'imenotteri, pur non avendo nessuna volontà di farlo e nessuna mira particolare riguardo a quello specifico alveare. Mettere in moto qualcosa con la volontà di farlo rappresenta un passo ulteriore verso la responsabilizzazione degli agenti e l'affermazione della loro volontarietà, almeno nel frangente specifico. E l'uomo tende a rendere completa la spiegazione e ad attribuire a ogni evento una causa e uno scopo, come se tutto fosse messo in moto da agenti consapevoli e dotati di finalità specifiche. Cioè come se alla base di tutto ci fossero degli esseri animati e miranti all'ottenimento di qualcosa. Questo si ottiene personificando il più possibile le essenze fondamentali o, almeno, quelle che si trovano in prima fila nell'originare gli eventi, tutti gli eventi.

Tale tendenza alla Personificazione generalizzata completa il quadro della mitologizzazione del mondo, la quale si ripromette di raggiungere così almeno due scopi. Da una parte, si soddisfa più o meno integralmente la nostra naturale sete di giustificare e di spiegare tutto quanto è possibile osservare; dall'altra, popolare il mondo di esseri animati dotati anche di intenzionalità ci fa sentire a casa nostra o addirittura «in famiglia» nell'universo. Ci dà cioè un'impressione di familiarità e un grado notevole di confidenza. In tal maniera il mondo non è accostabile solo meccanicamente, ma anche sentimentalmente, e quasi istintivamente, perché viviamo nel mondo facendone parte, quasi da sempre. Da notare a questo proposito che nel 1995 è uscito per mano di uno dei tanti scienziati un po' mistici del nostro tempo, Stuart Kauffman, un libro intitolato At Home in the Universe, tradotto in italiano e pubblicato nel 2000 da Editori Riuniti con il titolo di A casa nell'universo. Per chiarire ulteriormente che cosa intendeva, Kauffman ha anche scritto l'opera Reinventare il sacro. Scienza, ragione e religione: un nuovo approccio, pubblicato nel 2010 da Codice Edizioni. Né tanto diverso si presenta il mito-metafora di Gaia proposto da James Lovelock alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, che raffigura il nostro pianeta, la Terra, come una sorta di essere vivente unico, con tutte le sue proprietà e le sue problematiche. Trovarsi a casa nell'universo è quindi un'aspirazione mai tramontata — anche se certamente più viva nel lontano passato — che suggerisce a sua volta che il tutto sia stato creato proprio per noi.

In questa maniera l'universo si anima di uno stuolo di entità progettuali, attori e comparse dalle più diverse proprietà e indoli, e può arrivare a pullulare di colorite e vivaci personalità in contrasto fra loro, come gli dei e le dee dell'antica Grecia, o di titanici guerrieri sempre in lotta, come per esempio gli abitanti del nordico Valhalla. Secondo tale visione niente succede a caso e per tutto c'è non solo una spiegazione, ma anche una sorta di ricostruzione psicologica o psicosociale. Perseguire fini specifici conferisce alle diverse essenze esistenti una ricchezza e un'individualità tutte particolari, necessarie e sufficienti a fare uscire di scena tutte le cose inanimate, cui resta unicamente il ruolo di «occasioni» per l'epifania delle essenze ultime e per le varie ierofanie del caso. Così formulata, questa sembra un'inaccettabile esagerazione e lo sarebbe veramente se ogni singolo elemento del quadro fosse ben chiaro e presente alla mente degli esseri umani che vivono tutto ciò. Ma è evidente che non è così, anche se è così «asintoticamente», nel senso che tutto questo è così vicino alla verità che più vicino non potrebbe essere, e il quadro dipende in maniera critica dall'epoca storica della quale stiamo parlando e dall'età anagrafica dei diversi soggetti.

Forse vale la pena, giunti a questo passo, tirare in ballo il punto di vista di Hans Vaihinger, un filosofo tedesco d'ispirazione kantiana non molto celebrato, ma incredibilmente profondo, che nella sua opera La filosofia del come se tentò una conciliazione fra l'appello del ragionevole e il rigore del dimostrabile in maniera formale. Non possiamo sapere con assoluta certezza qual è stata la storia reale dell'idea del sacro, ma possiamo tentare alcune speculazioni ragionevoli su di essa, con pseudoricostruzioni che non contrastino troppo con tutto quello che sappiamo di certo sull'oggi e su un certo numero di ieri. Θ chiaro che si tratta di un'operazione un po' azzardata — per la quale peraltro non esistono alternative, almeno al momento — ed è quindi meglio dichiararla che tacerla, comportandoci come se si avesse a che fare con uno svolgimento lineare degli eventi, piuttosto che con un procedere storico a balzi e sussulti, dove lo spazio e il tempo agiscono più come una molteplicità di banchi di prova diversi e distinti che come elementi di continuità.

Considerare le entità ultime come dotate d'iniziativa, di efficacia e di volontà significa equipararle ad altrettante persone, anche se il termine è di quelli che devono consigliare la massima prudenza, anche solo nel loro uso colloquiale. Persona in latino significa essenzialmente maschera teatrale. La parola latina sembra derivare dall'etrusco phersu, phersuna, a sua volta probabilmente una corruzione del greco antico pròsopon, volto. Il diritto e la religione si sono impossessati in seguito di tale termine e l'hanno usato in una miriade di modi diversi, ma queste complicazioni a noi qui non interessano: per persona intendiamo un essere vivente capace di capire quello che fa, incline a volerlo fare e in grado di farlo effettivamente. Θ scontato che una persona così intesa goda del privilegio di esistere, di agire e di dirigere il suo operato verso un fine: riassume, insomma, tutte le proprietà delle quali abbiamo parlato finora.

Un'essenza ultima che può essere trattata come una persona rappresenta il grado più alto nel quale la possiamo posizionare.

[...]


In fondo tutta la costruzione del sacro e delle sue regole mira ad assicurare questo mantenimento, questo navigare in acque procellose ma familiari, verso un punto che non interessa sempre vedere. Il rispetto del sacro è la condizione centrale del mantenimento per il mantenimento, anche attraverso le paludi dell'indifferenziato e del profano, per un tempo indeterminato per definizione, e non conosciuto in dettaglio per elezione. Pregare è mantenere tutto ciò nel suo radicamento originario e nella sua legittimazione, stabilendo con il mondo, con le essenze ultime e con gli altri uomini, un contatto esplorativo che si è trasformato con il passare degli anni in una sorta di patto di non aggressione. Milioni e milioni di esseri umani sono vissuti nei secoli in tale condizione in tutte le parti del mondo, e milioni e milioni ci vivono ancora oggi.

Il vero nemico è l'imprevisto, anche se non si può negare che il cammino della civiltà è andato nei secoli di pari passo con una prevedibilità sempre maggiore degli eventi – di tutti gli eventi, dagli incidenti alle malattie, dai terremoti ai maremoti, dalla percorribilità delle strade alla capacità di procurarsi il cibo nonostante carestie, tempeste e siccità – e molto di recente anche con una seppur limitata capacità di intervento. Lo scudo contro tutto questo è sempre stata la preghiera, e lo è ancora oggi per moltissimi. Vale la pena notare come per molti la parola chiave del nostro tempo sia Sicurezza, anche, se non soprattutto, nel nostro mondo. I più si sono sempre rifiutati di ammettere che dalle nostre parti il problema della sicurezza è andato perdendo di importanza, e tendono ad approfittare degli eventi internazionali del momento per mettere sempre di più il dito su questa piaga, come se intere popolazioni africane, asiatiche e americane (soprattutto centro- e sudamericane) non vivessero in condizioni ben peggiori.

Ma di sicurezza non ce n'è mai abbastanza, perché l'insicurezza rappresenta l'esatto contrario della continuità, continuità cui tutti aspirano. Poiché l'imprevisto per definizione non si può eliminare, la preghiera, nel nostro mondo, ma soprattutto nella storia delle diverse popolazioni del mondo, dovrebbe servire proprio a stornarne gli effetti.

[...]


Quello che invece potrebbe essere un ambìto obiettivo a medio e lungo termine, sovrapposto a quello del mantenimento della continuità, è la Salvezza, un termine sempre molto usato e particolarmente menzionato oggi, anche se non è ben chiaro a cosa possa riferirsi. Nella religione cristiana il Redentore viene anche chiamato il Salvatore, perché è sceso sulla terra per salvarci, e oggi non si fa che nominare un grande bisogno di salvezza, allo stesso tempo individuale e collettiva. «Solo un dio ci può salvare», «L'arte sola ci salverà», «La bellezza ci può salvare», «Solo il ritorno ai valori di una volta può salvarci», «La solidarietà ci può salvare», «La misericordia, l'empatia o l'amore possono salvarci» e via discorrendo. Queste frasi vengono continuamente pronunciate da filosofi, scrittori, intellettuali, giornalisti, opinionisti e gente comune, con la tacita intesa che tutti parlino della stessa cosa, ma forse non è proprio così, e non è neanche così fermamente stabilito che si tratti di una salvezza individuale o collettiva. O forse entrambe.

Mi sono sempre chiesto che cosa significhi «salvarci», da chi o da che cosa, e per opera di chi.

[...]


A proposito delle personificazioni, occorre notare come queste non riguardino solo entità esterne e per così dire naturali, ma anche facoltà intenzionali interne a noi. Tra le essenze, infatti, cui prestiamo un «corpo», una capacità causale e un fine ci sono anche l'Io, la volontà e l'anima stessa, spessissimo ritenuta immortale, come dire le cose più importanti sulle quali pensiamo di poter contare. La spiegazione che si dà comunemente a osservazioni come queste è che pensare di possedere facoltà del genere dia una grande forza, una notevole confidenza in sé e una disposizione d'animo vincenti su chi non ha invece tali convinzioni. Se a queste facoltà aggiungiamo l'Inconscio, una recente acquisizione, che può ragionevolmente giocare la parte del principio del male, si ha un quadro sufficientemente completo delle potenze interne come corrispondenza e contropartita di quelle esterne. Siamo tutti convinti di essere abitati da tali istanze, e tale convinzione arriva da molto lontano, dai tempi nei quali si aveva una visione della realtà di natura profondamente metafisica e sostanzialmente ispirata al sentimento del sacro. Dentro di noi, come fuori di noi, esistono presenze e forze capaci di «spiegare» il nostro comportamento, che da una parte ci rassicurano sul nostro controllo del mondo e che dall'altra ci proiettano in una realtà superiore, «naturale» e senza tempo. Ci troviamo così in una botte di ferro, «se non fosse per alcuni brutti sogni» come dice Amleto, se non fossimo cioè in preda alle più tremende paure e ai più neri presagi, le stimmate fondamentali e «restrittive» del sentimento del sacro. Le entità in questione ci sono sempre apparse come grandi scoperte del pensiero umano, prima filosofico-letterario, poi scientifico o quasi, ma di nessuna di esse c'è mai stata alcuna evidenza diretta, come di tutto quello che riguarda il sacro.

Per la verità all'elenco andrebbe aggiunta anche la mente, realtà presentissima anche oggi e corrispondente a una parola usatissima, ma anch'essa non sostanziata da niente. La nostra consuetudine è quella di chiamare «mente» l'insieme delle attività cerebrali superiori, dove il confine fra «superiori» e non lo poniamo noi a questo o a quel livello a nostro capriccio. Per esempio, aggiustare l'apertura della pupilla dell'occhio all'intensità dell'illuminazione, o anche seguire il volo di un uccello o di una pallina da tennis, non li consideriamo fenomeni mentali, anche se sappiamo che richiedono un difficile e complesso lavoro delle nostre cellule nervose e cerebrali.

Non parliamo poi dello spirito e di una fantomatica spiritualità di cui si discute oggigiorno quasi quotidianamente da parte dei più diversi sacerdoti, ma non solo. Molti sono convinti dell'esistenza di una cosa chiamata a volte «spiritualità laica», che comunque rappresenta sempre una merce da vendere, anche se non sempre i venditori appartengono alle stesse confraternite e alle stesse corporazioni, comunque collettive e sovrane, generatrici di luoghi comuni e d'insidiosissime «trappole logiche». Si direbbe quasi che oggi come oggi la pletora delle figure interiori residuate dal tempo delle costruzioni fantastiche delle più diverse mitologie sia ancora più influente dell'insieme delle figure esterne, se non altro perché sono più chiare e definite e quasi sedimentate nella nostra cultura di base. Che poi un Inconscio possa avere delle mire e delle strategie, rimanendo per definizione inconscio, resta una delle difficoltà maggiori per una comprensione guidata dalla razionalità.

Dell'Io semplicemente non c'è traccia, né in forza di una ricerca psicologica sperimentale né dopo anni di ricerche neuroscientifiche, anche se in questo caso non è difficile comprendere di che cosa potrebbe trattarsi.

Dell'anima non dirò niente, perché ne ho parlato spesso distesamente, ma non posso esimermi da considerare l'improbabilità della sua natura immortale, facendo allo stesso tempo parte di un corpo mortale. D'altronde, come può essere immortale qualcosa che non ha le caratteristiche di qualcosa di vivente? Ed è individuale o collettiva, personale o generale, attiva o passiva, nasce o semplicemente transita per questo o quell'individuo o persona?

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Il senso (e l'Individuazione)


Nella dinamica della scoperta del mondo e del nostro sforzo di comprenderlo non è affatto secondaria la ricerca di un senso, di un senso delle parti o del tutto, voglio dire. Anzi, coloro che oggi criticano aspramente l'approccio puramente scientifico al mondo, gli rimproverano soprattutto una cosa: l'assenza delle domande di senso e la conseguente incapacità della scienza di dare un senso alle cose, con la nostra vita, la vita in generale e la vita del mondo stesso in prima linea. Θ chiaro che non si può rimproverare ciò alla scienza, che non ha mai preteso di mirare a un obiettivo del genere, ma è anche chiaro che molti considerano il tema estremamente importante, tanto importante da essere diventato lo spartiacque fra i territori della scienza da una parte e quelli della filosofia e della teologia dall'altra. Sembra di capire quindi che la ricerca del senso va anche oltre la ricerca di una causa e di un fine. Ma esattamente che cosa significa avere un senso? E perché l'esigenza di una risposta a questioni del genere appare oggi particolarmente pressante?

Il senso è allo stesso tempo una natura, una giustificazione, un significato, una finalità-destinazione e un valore, anche se quest'ultima parola – in questo contesto – non ha lo stesso significato che abbiamo assegnato in precedenza al termine «valori». Cercare un senso nelle cose, e in generale nella vita, significa sapersi collocare con soddisfazione in un racconto significativo, perché il senso è per sua natura riferito al soggetto che si pone la domanda. A me, se parlo di me, o a uno degli altri me del mondo, che portano e allo stesso tempo cercano una specifica Individuazione. Θ una sorta di naturalizzazione dell'individualità, di una sua collocazione e di una pacificazione fra i dati della percezione e le istanze della coscienza, fra testo e commento, fra natura e cultura, e per ciò stesso non può non fare parte dell'epopea del sacro. Di un'epopea, abbiamo detto, e non di una banalizzazione dello stesso: l'esistenza e il sacro come ricerca, insomma, e non come scontato punto di partenza.

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Tutto lo scandalo della teoria dell'evoluzione biologica – anche trascurando la rivoluzione che si è verificata di recente nel campo della cosmologia, cioè dello studio dell'origine e dell'evoluzione del cosmo stesso — s'incentra sul fatto che la vita non è stata creata tutta in una volta da un agente consapevole, ma si è formata e plasmata e riplasmata da sé per la spinta di fattori casuali. In questa maniera si perde proprio il senso della vita stessa e del suo procedere, e non fa meraviglia che una concezione come questa, nata e sviluppatasi in ambienti scientifici, se non naturalistici, sia stata così male accolta dai sacerdoti di ogni confessione e dal grande pubblico. Anche oggi, a distanza di centocinquant'anni, permangono enormi difficoltà per la sua accettazione, e anzi si moltiplicano gli scenari non scientifici proposti per spiegare le stesse osservazioni che la teoria originale di Charles Darwin si riproponeva di spiegare.

Se le persone di stretta osservanza religiosa tendono ad aderire al cosiddetto Creazionismo, la proposta secondo la quale le vicende della comparsa della vita sul pianeta e della sua evoluzione si sarebbero svolte più o meno come ci dice l'Antico Testamento, esiste poi tutta una varietà di convinzioni che rifiutano la spiegazione darwiniana perché priva di una finalità e quindi di un senso, e che prevede una natura che si presenti come passiva e ostaggio delle forze del caso. L'insieme di tali concezioni, che non corrispondono esattamente né al Creazionismo né al darwinismo, prende spesso il nome collettivo di Intelligent Design, come dire Disegno (o Progetto) Intelligente o Disegno (o Progetto) Intelligibile.

I sostenitori del Progetto Intelligente non fanno altro che alludere a un'ipotetica spiegazione «diversa» del tutto, facendo leva sulla difficoltà psicologica di ciascuno di noi nell'accettare in pieno la visione evoluzionistica e risuscitando considerazioni e argomentazioni che sono in circolazione dai tempi di Darwin, se non da prima ancora. Non è possibile, dicono in sostanza costoro, che tutta la perfezione degli esseri viventi sia il frutto di una serie di eventi casuali che sono il risultato di spinte e controspinte ugualmente cieche e prive di un programma, se non di una vera e propria regia. Perché ciò non sia possibile, non ce lo dicono, ma si limitano a fare appello alla nostra difficoltà ad accettare una spiegazione così parsimoniosa come quella darwiniana e neodarwiniana.

I fautori di questa visione affermano che esisterebbero argomenti scientifici per smontare tutto l'apparato concettuale del neodarwinismo. Θ stato fatto così l'inventario delle più piccole «crepe» concettuali nell'edificio della teoria evolutiva, si è inserito in ciascuna di esse una sorta di «piede di porco» e si è tentato di allargarle fino a mettere a repentaglio l'intera costruzione e a minarne la credibilità, nel quadro di una logica fondamentalistica secondo la quale «se qualcosa non è perfetto, allora è tutto sbagliato». D'altra parte già Darwin aveva osservato, nell' Origine dell'uomo: «Sono quelli che sanno poco, e non quelli che sanno molto, che affermano con certezza che questo o quel problema non sarà mai risolto dalla scienza».

Tali crepe, o punti deboli, del resto esistono, dal momento che stiamo parlando di una teoria scientifica. Se spiegasse tutto, senza alcun punto debole, infatti, non si tratterebbe di una teoria scientifica, ma di una professione di fede. Θ proprio perché non spiega tutto, ed è anzi alla continua ricerca di nuovi dettagli e di nuovi approfondimenti, che la teoria neodarwiniana dell'evoluzione biologica mostra di essere una grande teoria scientifica, la quale tra l'altro non ha mai goduto di tanta salute come oggi.

Il problema, nel caso di queste critiche a Darwin, è che si tratta di preconcetti velleitari, non di una proposta alternativa: al momento di definire scientificamente tale controproposta, le risposte sono varie, non univoche, e nella maggior parte dei casi l'unica affermazione evidenziabile si riduce a: «Non può essere come dite voi». Molti dei concetti dei propugnatori dell' Intelligent Design sono vetusti e già riscontrabili negli scritti stessi di Darwin, ma vantano un padre nobile: il vescovo Paley , autore, all'inizio dell'Ottocento, della Teologia naturale, un'opera che il giovane Darwin apprezzò moltissimo. In questo celebre trattato si descrivono le meraviglie del creato e viene illustrato il famoso argomento dell'orologiaio: un prodotto — soprattutto se di grande complessità — implica necessariamente l'esistenza di un progettista.

[...]


Da notare che anche il noto filosofo americano Thomas Nagel, che non può certamente venire accusato di essere uno sprovveduto, nel suo recente Mente e Cosmo , ha preso decisamente posizione contro l'evoluzionismo e ha timidamente tentato di difendere l'idea dell' Intelligent Design, pur non dichiarandosene affatto un assertore convinto. In cambio di cosa? Di un'impostazione teleologica del sapere – di tutto il sapere, anche fisico e cosmologico – propria, come abbiamo visto, dei popoli primitivi. Dobbiamo pensare, sostiene Nagel, a un «universo fondamentalmente incline a generare la vita e la mente». E scusate se è poco.

[...]


Ancora un punto per quanto riguarda la storia della vita. Esistono molti scienziati che non se la sentono di chiamare in ballo un Creatore, ma sono intimamente convinti che la vita non abbia potuto fare quello che ha fatto, per così dire, da sola. Prima si parlava di una sorta di Principio Vitale – e si parlava di conseguenza di vitalismo – che permeava tutta la materia vivente, la guidava e la «teneva in riga». Oggi a questa posizione non crede più nessuno, ma si parla di Autopoiesi , di Auto-organizzazione e di altri fantomatici principi fisico-chimico-informatici generali che non potevano che portare alla vita e farla evolvere. Se questi principi esistono veramente, non potremmo che rallegrarcene tutti, ma occorre provare che esistono e descrivere in dettaglio attraverso quali meccanismi e azioni concertate possano lavorare, e spiegare la nascita e l'evoluzione della vita meglio di quanto sappiamo fare oggi. Finché questo non accade, però, non possiamo discostarci dalla migliore spiegazione scientifica che possediamo di questi processi mirabili e a loro modo autenticamente portentosi.

In effetti, quello che più ci preme non è, forse, il senso del tutto ma, molto più umanamente, il senso della nostra vita. La questione non è tuttavia separabile da quella di carattere generale. La nostra vita non può avere un senso diverso da quello che può offrire il tutto, a parte il fatto che noi il tutto non lo vediamo e non lo possiamo abbracciare, mentre il significato e la pertinenza della nostra vita costituiscono un problema che ci tocca più da vicino e sul quale possiamo interrogarci quotidianamente. Trovo saggio pensare che questo ognuno se lo trovi da sé, cercando dove e come vuole.

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Nessuno sa come, da questo punto di vista, la situazione potrà effettivamente evolvere. Circola da tempo però un'altra istanza, almeno in certi ambienti intellettuali e sociali occidentali: il ripudio di una morale religiosa, con l'obiettivo di abbracciare una morale autenticamente laica. Molti sono oggi convinti, incluso me, che si possano seguire i precetti di un'etica laica, figlia della cultura e della ragione, e svincolata da ogni imposizione di natura religiosa. Questa posizione, decisamente più moderna ed evoluta, anche se non sappiamo quanto diffondibile, mostra diversi vantaggi di natura ideale ma anche pratica. Dal punto di vista ideale, non si vede perché una persona non si dovrebbe comportare bene indipendentemente da comandi e da minacce occulte, facendo del proprio retto comportamento un valore in sé, di statura morale e intellettuale assolutamente eccezionale, con un'assunzione di responsabilità personali che non hanno uguali nella storia. Dal punto di vista pratico, tale linea di condotta potrebbe ovviare ai contrasti spesso stridenti che caratterizzano morali religiose diverse, soprattutto circa questioni sulle quali queste divergono. Così facendo la morale, tanto pubblica quanto privata, ritornerebbe a essere una forza sociale unificante, invece che dirompente.

Θ chiaro che non è semplice mettere d'accordo tutti su un'unica morale laica, ma a mio avviso una strategia mista, basata su una variazione sul tema dell'imperativo categorico kantiano per quanto riguarda il comportamento individuale e una sorta di etica della responsabilità per quanto riguarda gli aspetti sociali, potrebbe rivelarsi una scelta molto saggia. Soprattutto se, come la conoscenza scientifica, sarà sottoposta nel tempo ad adattamenti e migliorie.




            Quando ti metterai in viaggio per Itaca
            devi augurarti che la strada sia lunga,
            fertile in avventure e in esperienze.
            I Lestrigoni e i Ciclopi
            o la furia di Nettuno non temere,
            non sarà questo il genere di incontri
            se il pensiero resta alto e un sentimento
            fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
            In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
            né nell'irato Nettuno incapperai
            se non li porti dentro
            se l'anima non te li mette contro.

                        — Constantinos Kavafis, Itaca

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Il confinamento della Razionalità



                       «Nel nostro linguaggio è depositata un'intera mitologia.»

                                                             Ludwig Wittgenstein



Il senso del sacro è profondamente radicato in noi e la sua necessità e portata storica, come abbiamo visto, possono essere comprese considerandole da molteplici punti di vista, incluso quello del suo profondo significato evolutivo. Si direbbe che del sentimento del sacro il nostro animo non possa proprio fare a meno. Ciononostante, non credo sia vero che «il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza», come abbiamo sentito affermare a Mircea Eliade all'inizio del libro, non fosse altro perché oggi noi sappiamo che tutto ha una storia: l'uomo, la vita, la materia e la cognizione di tutto questo. Anche se, quando parlano di storia, lo storico intende al massimo migliaia di anni, il biologo milioni e il fisico miliardi. Possiamo tracciare una storia dell'idea del sacro e delle sue variazioni nello spazio e nel tempo, e verificare che molte delle implicazioni di tale idea sono vive e operanti anche oggi, in alcuni casi palesemente, in altri più subdolamente. Il fenomeno di una progressiva secolarizzazione che stiamo vivendo, almeno in Occidente, da una parte ha notevolmente depotenziato l'effetto della costellazione d'idee che a essa si richiamano, dall'altra ne ha spostato il punto d'applicazione dall'atteggiamento religioso vero e proprio a quello più propriamente morale, civile e politico, soprattutto laddove si scontrano etiche diverse, con le problematiche bioetiche in primo piano. Il ricorso alle affermazioni centrate intorno alla cosiddetta «sacralità della vita» rappresenta un chiaro esempio di un atteggiamento che tenta di sostituire l'apriori all'argomentare con serenità e mente aperta. Proprio poiché i temi della famiglia e della procreazione, e in genere di quella che qualcuno definisce biopolitica, costituiscono argomenti capitali, occorrerebbe, penso, mantenersi il più lucidi possibile intorno a essi.

Rispetto ai tanti motivi e sollecitazioni che costituiscono le positività del sacro, le considerazioni sulla sua negatività sono poche, ma d'importanza capitale. Tutte ruotano intorno alla constatazione che il ricorso a concetti e valori sacri, cioè intoccabili, condiziona e restringe di molto l'uso della razionalità, essenzialmente perché sacro significa spesso indiscutibile, e soprattutto indiscutibile apriori: un atteggiamento questo che è proprio l'opposto dell'uso della razionalità. Tenere in considerazione il sacro, di qualsiasi tipo si tratti, non fa altro che accentuare l'apriorismo di un'argomentazione, così da dare spesso per scontate, prima ancora di partire, le conclusioni della stessa. Probabilmente non si può vivere senza qualcosa di sacro – come non si può vivere senza un qualche apriori –, ma sarebbe sano farvi ricorso il meno possibile e con la minore violenza, anche solo verbale, possibile. La mia vuole essere quindi una requisitoria contro gli apriorismi inconsapevoli e i fondamentalismi consapevoli, di oggi come di ieri.

Il senso del sacro una volta rappresentava anche un'economia di pensiero e un certo schermo contro la preoccupazione e l'ansia. Tutto questo oggi sembra non valere più, per una nutrita serie di motivazioni, e per un nostro progressivo allontanamento proprio dal sentimento del sacro e dai vissuti a questo correlati. Ma non è sempre così, o meglio non è per tutti così. Il sacro è ancora molto vivo, come abbiamo visto, e casomai ha espanso il suo campo d'azione, essenzialmente perché da una religiosità stretta e chiusa si è passati a un ventaglio di «fedi» di tutti i tipi che si estendono agli argomenti più diversi, con le più varie sfumature di significato e d'impellenza. Il sacro conserva però il suo originale asservimento all'irrazionalità, al terrore e all'ignoranza e la sua vocazione all'apriorismo. Tutto questo ha fondamenti biologici molto profondi, anche se non per questo ineliminabili.

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Qualunque sia stato il cammino, filogenetico e ontogenetico, che ha condotto al possesso di una corteccia cerebrale vasta e complessa come la nostra, a una certa età della vita ce la ritroviamo, e dobbiamo farci i conti. Quali sono le sue proprietà che più ci pesano e dalle quali cerchiamo più o meno istintivamente di liberarci? Almeno due, direi. La prima è che la nostra corteccia ha essenzialmente un ruolo inibitorio, e la seconda è che quella ci costringe sempre a pensare a un sacco di cose, confrontarle tra di loro e soppesarle in una sorta d'involontario vortice valutativo.

La natura prevalentemente inibitoria della corteccia viene da noi spesso associata a termini come ragione, razionalità, riflessione, meditazione, coscienza o anche repressione o neutralizzazione delle spinte istintuali. Ciò non è ovviamente sempre vero, ma in questo quadro qualcosa di reale c'è. Per esempio, non è vero, come si sente dire spesso, che noi non abbiamo istinti. Ne abbiamo, e anche più numerosi di quelli che caratterizzano altri animali, ma non sempre concediamo loro un potere assoluto e incondizionato; riusciamo anzi spesso a venire a patti con essi. L'esempio più clamoroso è rappresentato forse dalla paura del fuoco, che condividiamo con tutti gli altri esseri viventi. Non solo riusciamo spesso a dominarla, ma anche a usare il fuoco per moltissime cose – il riscaldamento e la cottura in testa – e qualcuno riesce pure a fare il mestiere di pompiere. Lo stesso dicasi per la paura del vuoto e per l'istinto di «far fuori» immediatamente chi ci dà fastidio. Certo, non tutti gli istinti si possono reprimere con lo stesso successo e la stessa facilità, ma spesso ce la facciamo, e a volte anche molto bene. Dunque, chi s'impegna in tale mediazione e tenta di controllare tutti i «bollenti spiriti» è soprattutto la nostra corteccia.

Il problema è che ogni cosa ha un suo prezzo. Quest'operazione di vigilanza, di comparazione e di valutazione da parte della nostra corteccia cerebrale ci accompagna in ogni ora della nostra vita, perché non possiamo disattivarla a nostro piacimento. E ciò ci pesa molto. In continuazione. Costringendoci a volte anche a prendere coscienza di tutto questo lavorio e di questa tensione. La nostra consapevolezza, la nostra cosiddetta resipiscenza, e la nostra stessa rappresentazione del reale dipendono da questo lavoro di sorveglianza e di attenta ricognizione. Che comporta incredibili vantaggi – i quali costituiscono poi il nucleo delle cose delle quali noi uomini andiamo orgogliosi –, ma anche qualche svantaggio di natura essenzialmente esistenziale. Il nostro malessere, la nostra scontentezza di fondo, il senso di inadeguatezza, la noia, lo spleen, il male di vivere, il tedio leopardiano, o come li vogliamo chiamare, sono tutti conseguenze dirette o indirette di questo continuo esercizio di autocontrollo. Per non parlare dell'ansia, del disagio psichico o dell'angoscia vera e propria, il tutto condito con la consapevolezza di dovere prima o poi morire.

C'è chi tutto ciò lo sente di più e chi meno, ma si tratta di una faccenda che ci riguarda tutti. E tutti più o meno consapevolmente cerchiamo di scrollarci di dosso un tale peso, cerchiamo cioè metaforicamente di «staccarci» la corteccia dal resto del cervello. Con mille trucchi: bere, drogarsi, infatuarsi di questo o di quello, gettarsi a capofitto in qualcosa, appassionarsi e dedicarsi a questo o a quell'impegno. O magari semplicemente divertirsi, possibilmente a perdifiato. Abbiamo tutti un bel daffare a cercare di sbarazzarcene, e ciascuno sceglie la sua modalità preferita, con maggior, o minor, successo. Noi siamo fondamentalmente questo.

Non abbiamo però soltanto una corteccia con una vocazione fondamentalmente raziocinante. Abbiamo anche emozioni, affetti, passioni e sentimenti. E si fanno notare. Sappiamo al di là di ogni dubbio che la razionalità rappresenta solo una minima parte della nostra vita mentale, mentre le emozioni ne costituiscono la vastissima maggioranza, tanto in termini di tempo che di importanza. E per quanto possa sembrare strano, sappiamo molto di più della localizzazione e del funzionamento della nostra parte emotiva che di quella razionale o quasi razionale. Θ strano il destino che ha subito nel tempo la valutazione sociale del rapporto fra emotività e razionalità. Mentre in età classica, e fino all'altro ieri, si soleva apprezzare molto la razionalità e c'era una propensione a vedere di malocchio le emozioni e la seduzione da esse esercitata, da qualche tempo, prevalentemente sotto l'influenza della psicologia del profondo e delle considerazioni diffuse dai media sul benessere fisico e psichico, il pendolo è oscillato nell'altra direzione. Oggi non si fa altro che raccomandare di abbandonarsi alle emozioni e di lasciare un po' perdere le raccomandazioni della razionalità.

Ovviamente non è del tutto sano né l'uno né l'altro atteggiamento, non fosse altro perché noi abbiamo bisogno tanto delle emozioni quanto della ragione.

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