Copertina
Autore Stefano Boni
Titolo Vivere senza padroni
SottotitoloAntropologia della sovversione quotidiana
Edizioneeleuthera, Milano, 2006, caienna , pag. 140, cop.fle., dim. 110x180x9 mm , Isbn 978-88-89490-16-7
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe politica , sociologia
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Indice

INTRODUZIONE                                             7

UNO                                                     16
La condivisione: reti di convivenza e dono

DUE                                                     42
L'evasione: il lavoro e il consumo

TRE                                                     64
Lo scontro: forme di resistenza a istituzioni repressive

QUATTRO                                                 86
La politica: quotidianità e rappresentazione

CINQUE                                                 114
«Noi»: un circuito antagonista

CONCLUSIONI                                            126

 

 

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Pagina 7

Introduzione



Il movimento della sinistra antagonista e libertaria e la sua cultura: questo è il tema discusso in questo libro. Il movimento è la sua cultura: questa è la proposta che voglio esporre e sostenere. In ciò che segue mi soffermo sulle pratiche di vita quotidiana di chi tende a sovvertire l'ordinamento attuale. Sostengo che è proprio nel vissuto quotidiano di chi porta avanti una critica radicale alle forme di dominio contemporaneo, piuttosto che nei grandi eventi mediatici del movimento, che si pratica e si costruisce l'antagonismo.

Individuare e descrivere un ambito di prassi eversiva significa sovvertire due letture egemoniche del movimento. La prima è quella prevalente nel mondo normale, della cultura dominante. La cronaca dei mass media e il senso comune si interessano del circuito di persone che descrivo di seguito quasi esclusivamente quando si tratta di condannare qualche azione di protesta violenta. La diversità tra i manifestanti e la società civile spesso si riduce alla dicotomia semplicistica tra chi rompe le vetrine e chi lavora per ripararle. Inoltre, l'attenzione dei professionisti dell'informazione viene invariabilmente rivolta a espressioni eclatanti, estreme, spettacolari: manifestazioni, scontri, grandi raduni, espropri o danneggiamenti. Il racconto mediatico di questi contesti spesso banalizza la differenza tra ribellione e normalità presentandola come una questione di simboli e mode o come una scelta tra rispettabilità e vandalismo.

La seconda rappresentazione distorta è quella ufficiale del movimento. L'autorità di spiegare cosa sia veramente il movimento e la sua gente è riservata ai leader. Anche in questo caso, ci si sofferma su eventi o fenomeni che hanno un richiamo mediatico, anche se si esalta la piazza piuttosto che demonizzarla. Spesso queste autorappresentazioni si dilungano sulle grandi motivazioni ideologiche e assumono la forma della retorica militante, della propaganda e della teorizzazione politica. È un discorso gestito da quei personaggi carismatici che riescono a monopolizzare l'accesso ai media per sostenere che il movimento è una collettività rispettabile e legalitaria, una disubbidienza civile. L'opposizione radicale viene così ridotta a un elenco di partiti, associazioni e gruppi, ignorando il fatto che queste sigle comprendono solo una parte relativamente piccola di chi manifesta. Nell'ottica di questa rappresentazione, l'antagonismo appare degno di essere raccontato solo quando si riunisce, si compatta, si mostra e si scontra. Viene così cancellato il legame tra mobilitazioni di piazza e modalità di gestione del quotidiano. Ci si sofferma sull'incidente, ci si limita alla cronaca giornalistica mentre quello che mi sembra più rilevante è proprio ciò che è misconosciuto: l'esistenza di una configurazione culturale, intesa come un ambiente sociale in cui certi valori specifici sono quotidianamente tradotti in vissuto. I mass media, ma – sorprendentemente – anche chi gestisce la rappresentazione autorizzata interna al movimento, occulta ciò che c'è di politico nel vissuto della gente che sostengono di rappresentare.

In ciò che segue, mostro la limitatezza delle due prospettive e illustro la distanza tra queste e il vissuto di chi quotidianamente sovverte l'ordine. Lo scopo di una descrizione dello stile di vita del movimento, ossia di questa trasmutazione in testo della quotidianità, non è quello di prendere posizione, di dare giudizi morali o politici, né tanto meno di prendere le distanze da quelli che vengono etichettati come estremismi. Raccontare questo circuito, ora, ha due scopi, differenziati per lettori.

In primo luogo, questo lavoro è pensato per chi vive l'ambiente che mi appresto a descrivere. Cerco di offrire una descrizione e un'analisi credibile e approfondita di un mondo che viene sistematicamente ridotto a uno stereotipo semplicistico nel momento in cui viene rappresentato. La prassi di un'esistenza al di fuori dei canoni della normalità tende a essere ignorata, trivializzata e criminalizzata dai media e non è stato fatto, dall'interno di questo mondo, uno sforzo per raccontarsi nella quotidianità. Eppure fermarsi – come di fronte a uno specchio – a ragionare su se stessi, sulla propria modalità di fare le cose e di vedere il mondo senza cadere nella banalizzazione mediatica mi sembra uno sforzo salutare. La riflessione sul proprio quotidiano è un modo per rafforzare la coscienza su quali sono le norme sociali interiorizzate, anche se spesso recepite e praticate inconsapevolmente. Pensarsi come parte di un circuito è anche un modo per rivendicare un'identità propria, irriducibile a immagini stereotipate e semplicistiche.

In secondo luogo, questo testo è un aprirsi alla normalità. Se chi appartiene al mondo qui descritto potrebbe riconoscersi nel testo, chi non ne fa parte potrebbe trovare degli stimoli per cercare di comprendere meglio i propri figli, i propri vicini, i propri fratelli o semplicemente un frammento di umanità. Per chi è esterno a questo mondo, la prima operazione – essenziale – è ascoltare la diversità che si racconta in questo libro: cercare di capire modalità diverse di stare al mondo partendo dai fatti e dai racconti, liberando la lettura – per quanto possibile – da schemi mentali precostituiti, da stereotipi e pregiudizi. Non chiedo di sospendere il giudizio; chiedo di rinviarlo, di farlo seguire alla comprensione.

Uno stesso testo per due categorie di lettori. L'obiettivo è quindi quello di facilitare un dialogo con una diversità culturale vicina ma che si tende a condannare e svalutare prima ancora di cercare di capirla. Vista la difficoltà che la normalità ha nel rapportarsi in maniera aperta e dialogante con quella che si può inizialmente chiamare la diversità antagonista, il libro può essere uno strumento che permette di sostituire relazioni che stentano a crearsi, anche se – in realtà – il testo può essere solo un surrogato della conoscenza diretta. Esaminare l'interazione tra la cultura dominante e chi vuole sovvertirla è anche un modo per cercare di capire le ragioni di uno scontro.

In queste pagine viene rappresentato un ambiente culturale, così come l'ho vissuto e come me l'hanno raccontato, senza censure. Ho scelto di trattare temi sconvenienti – spesso occultati – come espressioni di un circuito di vita. Il ruolo delle mie idee sul testo è innegabile ma il libro è una raccolta di vicende, racconti, vissuti che – in una certa misura – si narrano da soli ed esprimono se stessi. Ho registrato nei primi cinque anni del nuovo millennio queste opinioni e questi eventi, li ho trascritti e commentati. Ma le voci qui riportate raccontano, anche se non sempre consapevolmente, un sé sociale: narrano un particolare senso del mondo che straborda e trascende la mia sistematizzazione. Qui ripropongo queste voci. Il mio ruolo è stato quello di rendere esplicite le regolarità nel pensiero e nella condotta di quest'area, ossia i valori e le azioni comuni e ricorrenti. Il testo sostiene che esiste un insieme di ideali e di pratiche condivise e caratterizzanti un circuito culturale: un'idea egualitaria e partecipativa della socialità; una riduzione del consumo che consente una minimizzazione del lavoro; tensioni nel rapporto con le istituzioni; un quotidiano e variegato fare politica.

Nel raccontare questo mondo trascuro le divergenze interne all'ambiente antagonista e libertario, i compromessi con le logiche dominanti e le incongruenze che sono pur molteplici e palesi. Ho scelto, invece, di soffermarmi su quelli che mi sembrano i principali caratteri distintivi della quotidianità, ossia su come il vissuto si distingue da quello prevalente. L'immagine che offro di questo mondo è libera da interessi e non si allinea alle logiche dei gestori dell'immagine del movimento. A volte gli esempi riportati sembreranno estremi, frutto di scelte minoritarie e quindi non rappresentative del circuito nel suo complesso. Il caso limite può però indicare un'accentuazione di dinamiche diffuse. La critica indomita dell'esistente costituisce la premessa per la pensabilità degli atti descritti in seguito: certi vissuti, anche se non comuni, sono resi immaginabili e possibili da un immaginario condiviso.

Gli avvenimenti narrati di seguito hanno avuto luogo principalmente a Siena, nell'ambiente in cui ho vissuto in questi ultimi anni. Le testimonianze riportate qui sono frutto di osservazioni e conversazioni informali con un centinaio di persone. Non è mai stato fatto uso del registratore: mi sono annotato nella memoria le espressioni e le ho trascritte quando ne ho avuto occasione. La convivialità senese, che ha generato le pratiche che sono diventate l'oggetto di questa riflessione, è relativamente ristretta e legata, per molti versi, a un ambiente rurale. Per alcuni aspetti è innegabilmente diversa dalle socialità sovversive metropolitane. Potrebbe quindi essere considerato uno studio rappresentativo della quotidianità del movimento solo in un contesto particolare. La critica ha probabilmente una sua fondatezza, ma il circuito senese è inserito in una rete di frequentazioni con chi condivide valori analoghi altrove. Inoltre le pubblicazioni (sia quelle cartacee che telematiche) e i momenti di incontro tra diverse realtà hanno permesso di verificare che la pratica sovversiva ammette variabili regionali, presenta delle discrepanze tra città e campagna ma, al contempo, condivide alcuni tratti, alcuni valori fondanti.

Cosa intendo quando parlo di circuito culturale antagonista apparirà più chiaramente man mano che scorrerà il testo e che saranno descritte vicende, persone, idee e luoghi. Il tentativo di caratterizzare il gruppo e le norme che descrivo come un circuito culturale pone seri problemi. Le pratiche che racconto sono realtà identificabili nella prassi quotidiana ma sono, allo stesso tempo, difficilmente definibili e delimitabili al di fuori del loro dispiegarsi concreto: non hanno un nome né confini chiari. Il tentativo di discuterne in astratto è però necessario, se non altro come introduzione.

In prima approssimazione quello che mi appresto a descrivere è la cultura del movimento. Il passaggio cruciale che propongo è quello dall'eclatante all'ordinario, dalla retorica dei partiti alle assemblee di piccoli gruppi, dalle grandi manifestazioni alla quotidianità, dalle posizioni di principio ai valori effettivamente messi in opera, dai leader alle persone dimenticate dalla televisione. Mi soffermo sui modi di sentire, di pensare e di agire che accomunano diversi individui appartenenti a un ambiente culturale definibile come antagonista o sovversivo. I termini «antagonismo» e «sovversione» non si riferiscono quindi a una classificazione criminologica o poliziesca bensì a un'ideologia diffusa associata a pratiche che, di fatto, tendono a stravolgere importanti aspetti del vivere prevalente.

La cultura dell'eversione, intesa come l'effettivo – seppur parziale – rovesciamento dell'ordinamento ideologico e organizzativo, propone una quotidiana opposizione alla normalità. Il concetto di «normalità» verrà usato per contrastare i modelli dominanti nella società italiana con chi li sconvolge praticamente. Quelli che definisco modelli «normali» sono sicuramente variegati: il mondo contemporaneo stimola la moltiplicazione delle identità ma queste – per alcuni versi – mostrano spiccate somiglianze tra loro.

Racconto quindi un frammento del variegato mondo del movimento, quello della sinistra antagonista e dell'ambiente libertario. La collocazione politica di questo circuito non è riducibile a sigle. L'area comprende alcuni degli iscritti, simpatizzanti e votanti di Rifondazione Comunista ed ex-membri di associazioni quali ATTAC e i Social Forum. Le persone che generano lo stile di vita descritto di seguito, però, più frequentemente collaborano saltuariamente con gruppi extra-parlamentari, più o meno attivi, delle aree dell'(ex?) autonomia e dell'anarchia o non fanno politica in gruppi strutturati. È difficile quantificare, misurare questa popolazione perché la sua composizione è mutevole e i suoi confini incerti. Quest'area ha infatti rapporti stretti con ambienti affini, anche se pratica percorsi privilegiati di convivialità interna che definiscono un'identità e generano una pratica distintiva.

È utile sgombrare il campo da fastidiosi fraintendimenti e da rappresentazioni fuorvianti. Il circuito culturale osservato all'inizio del terzo millennio, è un prodotto storico che ha le sue radici più evidenti nei movimenti di contestazione che si sono sviluppati soprattutto dal 1968 in poi. I semi gettati negli ultimi decenni si sono però trasformati, mischiati, aggiornati, dispersi e sarebbe approssimativo e semplicistico identificare la pratica antagonista contemporanea come un residuo, una sopravvivenza, di movimenti e stili di vita degli anni Sessanta o Settanta. Non si tratta neanche di una cultura giovanile, appellativo abusato e spesso connotato come un semplice momento di passaggio, parte del ciclo della vita. Le culture giovanili sono, per definizione, una fase che porta, con la maturità, a prendere le distanze, spesso pentendosi, degli errori di gioventù. Le modalità descritte, anche se in buona parte praticate da giovani, non possono essere ridotte a fenomeno giovanile. Una parte cospicua dei protagonisti del testo ha figli e ha passato i trent'anni impenitente. Inoltre, le varianti giovanili della cultura trattata – ad esempio il mondo degli studenti universitari – tendono a essere, per diversi aspetti e in particolare per quel che riguarda l'economia, meno distintive e a mostrare una peculiarità più estetica che pratica. Non si tratta neanche della cultura di una classe subalterna di lavoratori sfruttati. O meglio, questa caratterizzazione sembra inadeguata perché, come vedremo, il lavoro non prevede certamente né posizioni dirigenziali, né carriere partitiche di vertice, né l'avvio di grandi attività imprenditoriali, ma è ugualmente restio all'impiego salariato proletario.

A differenza da quanto sostenuto in modo più o meno strumentale, l'apparenza non sembra un elemento distintivo in grado di poter predire l'appartenenza all'ambiente in questione. Ci possono essere ricorrenze nel mostrarsi all'esterno: certi stili nel vestiario, l'utilizzo di certi simboli espressamente politici (magliette con l'icona standard del Che, scritte antifasciste o slogan movimentisti), una tendenza al piercing e ai dread. Questi segni sono, però, elementi non caratterizzanti, nel senso che oltre a non appassionare tutti i membri della socialità sovversiva, vengono spesso impiegati da gente che vive la propria quotidianità in modo distante dall'ambiente descritto di seguito. Inoltre, l'utilizzo dei simboli e la gestione dell'apparenza non vengono considerati centrali nello stabilire appartenenze di gruppo. Il vestito in realtà ammette una grande variabilità (vecchi, usati, etnici, autoprodotti, riadattati) anche se minimizza gli abiti alla moda e costosi. Se esiste un'identità nell'apparenza, questa va cercata in quella che viene in genere letta dal mondo prevalente come una certa trasandatezza, che è, per chi la pratica, il rifiuto, e in alcuni casi l'esplicito e impenitente sovvertimento, di quelli che sono i canoni dominanti di abbigliamento. È nel vissuto quotidiano che si scontrano due modi di vedere e vivere il mondo ed è quindi fuorviante limitare le divergenze ad aspetti estetici e coreografici quali le modalità di vestirsi.

Per designare il circuito antagonista viene, a volte, usato un «noi». Il «noi» indica una soggettività plurale, un senso di appartenenza attivo. È un «noi» indefinito e spesso nascosto negli stessi discorsi dei protagonisti. Indefinito perché il «noi» lascia aperte diverse interpretazioni su dove tracciare quel confine tra chi sta dentro e chi sta fuori. Si fa riferimento in continuazione a una collettività, scarsamente definita, non omogenea ma segnata da azioni e modi di fare condivisi, coordinati e finalizzati. Questo «noi» viene riproposto, nella sua indeterminatezza, come designatore dell'ambiente qui discusso.

Nei capitoli che seguono esamino alcuni ambiti in cui questo «noi» si distingue dalla normalità: le modalità di socializzazione, l'uscita dal mondo del lavoro e del consumo, gli attriti con le istituzioni, la dimensione politica. La prassi sovversiva va cercata nella complessa interazione tra questi diversi atteggiamenti e nei valori che esprimono. Un singolo fattore non sarebbe sufficiente a caratterizzare il «noi»: solo nella loro totalità i vari aspetti compongono, come frammenti di un mosaico, un'identità dotata di senso. Solo l'accostamento di molteplici elementi caratterizzano, nel loro insieme, un'appartenenza che è comunque diversificata e aperta a soluzioni molteplici.

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