Copertina
Autore Aldo Bonomi
Titolo Milano ai tempi delle moltitudini
SottotitoloVivere, lavorare, produrre nella città infinita
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008, Ricerca , pag. 400, ill., cop.fle., dim. 14,4x21x2,3 cm , Isbn 978-88-4242-104-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe citta': Milano , sociologia
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Indice

 IX Prefazione
    di Carlo Sangalli

  1 Introduzione.
    La città corpo tra nuda vita e vita nuda


    1. Neoborghesia dei flussi

 15 La secessione dolce dei benestanti tra cosmo e luogo
 17 Lo scenario evolutivo delle nuove élite
 20 Dalla borghesia alla postborghesia globale
 22 Un modello intermedio per il capitalismo italiano:
    la neoborghesia dei flussi
 24 Il punto di partenza: crisi e trasformazione della
    borghesia famigliare milanese
 27 La terziarizzazione come bacino di nuove élite
 30 Milano tra città-flusso e città-luogo
 35 La rilevanza del luogo nello spazio dei flussi globali.
    Milano città-per-il-mondo e città-del-mondo
 36 Global player e città imprenditoriale
 41 Milano come città-del-mondo tra identità di città europea
    e reti internazionali
 45 Potere senza luoghi. Milano città "fuori squadra"
 48 La postborghesia cosmopolita milanese:
    radicamento o diaspora?
 54 Le nuove élite globali tra mobilità sociale e difficoltà
    di affermazione
 57 Dai "leoni" alle "volpi": l'arrivo della terza
    modernizzazione della borghesia a Milano
 61 Conclusioni
 61     Il fantasma della borghesia
 64     Dopo il ridimensionamento delle grandi famiglie:
        possibili scenari per le nuove élite
 66     La rappresentanza nel processo di
        riterritorializzazione delle élite globali


    2. La vetrinizzazione della bottega. Il commercio a Milano

 69 Classi medie e contratto sociale
 72 Ceto medio, commercio e trasformazioni di Milano.
    La nuova composizione sociale
 75 Il commercio e Milano. Breve profilo storico
 76     Milano: la città delle botteghe
 77     Dalla bottega artigiana alla metropoli fordista
 79     Il sorgere di una nuova struttura dei consumi
 80     Gli anni '90 e la selezione nel piccolo commercio
 85     Quale equilibrio tra evoluzione della città e
        cambiamento del commercio?
 87 Il commercio di Milano si racconta
 87     Una tipologia dei tanti commerci a Milano
 91     Il commercio radicato
 93     L'impatto dei flussi di modernizzazione nella
        percezione del commercio radicato
 94     Il cambiamento del tessuto sociale
 97     Viale Monza e Viale Padova. Quando il flusso dei
        migranti si fa luogo
101     Cambiamenti nella clientela e strategie di
        adattamento del piccolo commercio radicato
105     Il commercio esperienziale. L'adattamento del
        commercio dalla merce alla situazione
110     La grande distribuzione e il commercio massificato
113     Il commercio low cost
117 Conclusioni. La risorsa del capitale territoriale


    3. La città invisibile

123 La città come nuova questione sociale
129 Milano globale e la lunga transizione terziaria
131 Il cambiamento della città visto dagli attori.
    La polarizzazione alla prova
137 I nuovi lavori servili tra precariato e capitalismo
    personale
140 Il neoproletariato dei servizi. Giovani, migranti e
    naufraghi del fordismo
141     Immigrazione e lavoro dequalificato
144     I naufraghi del fordismo
148     Gli imprenditori di margine
154 Immigrazione ed economia informale
165 Quando sono le famiglie a dare lavoro.
    Badanti e lavoro domestico
175 Lavoro e pena
179 Immigrazione e città
190 Casa e lavoro
190     La prima accoglienza
192     La seconda accoglienza
194 L'autorganizzazione della marginalità
207 Conclusioni. Le vie d'uscita dalla città invisibile
208     Lavoro, territorio e legame sociale
210     L'esodo dalla città invisibile è possibile?


    4. I capitalisti personali della creatività al lavoro

217 La creatività al lavoro tra locale e globale
222 La Milano terziaria: tante opportunità senza regia
238 L'apertura internazionale dell'economia
242 Il nuovo paradigma tecnosociale
244 La centralità dell'utente-cliente
250 La scomposizione del diamante del lavoro
254 Trasformazione delle filiere e percezione dei soggetti
255     L'informazione e la comunicazione
261     Il design
268     La filiera dell'ICT
275     La moda
282 I capitalisti personali al lavoro
284     La creatività come relazione
291     Il lavoro tra rischi e opportunità
293     Il rischio della nuda vita al lavoro
299     Forma dell'impresa e gestione della conoscenza
306 Reti, capitale sociale, capitale reputazionale


    5. Il melting pot postfordista

322 Dal capitalismo di territorio al capitalismo delle reti
325 I caratteri identitari del sistema manifatturiero
327     L'eredità del modello fordista
330     L'atterraggio delle multinazionali dell'elettronica
333     L'eredità del modello della piccola impresa a
        specializzazione flessibile
340     La nuova dimensione competitiva e la centralità
        della media impresa
351 Il governo delle reti e le piattaforme produttive
351     Le reti fisiche per la mobilità
355     Il ruolo delle multiutilities
357     Le reti bancarie e della finanza
361     Il sistema fieristico
365     La rete dei saperi formali
369 La governance del territorio
370     I flussi di transizione nei modelli di governance
        territoriale
373 Le aspettative delle imprese nei confronti del sistema
    istituzionale locale
378     La transizione dei modelli di governance
        nel nord est milanese

389 Note

395 Bibliografia

 

 

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Pagina 1

Introduzione

La città corpo tra nuda vita e vita nuda


Città infinita, città globale, città europea e giù giù fino a città-regione e così via. Nel proliferare delle denominazioni è il significato stesso della città che rischia di perdersi. La città diviene universo tutto orientato alle grandi funzioni economiche e poco o nulla all'abitare dei soggetti. Nel loro diffondersi e divenire infinite sembrano trasformarsi in enormi non-luoghi o in iper-luoghi dove la massa si trasforma in moltitudine.

Oggi che tutto è città, in cui oltre il 50% dell'umanità si concentra in grandi conurbazioni, sembra che la città stessa stia perdendo la propria natura di luogo. In molte letture del mainstream sociologico, la città intesa come società organizzata e strutturata secondo forme storiche di convivenza civile si è persa, sciolta in un indistinto diffuso.

Questa immagine un po' apocalittica e molto "americana" delle città contemporanee è applicabile a Milano, la più globale delle città italiane?

Milano è per antonomasia la città italiana in cui i diversi passaggi della civilizzazione capitalistica, dalla prima industrializzazione al fordismo fino all'ipermodernità del postfordismo, si sono presentati nella loro dimensione più pura. Milano ha sempre giocato nell'immaginario nazional-popolare il ruolo di simbolo del movimento, della trasformazione, della modernità.

E tuttavia questa città non ha mai dismesso la sua capacità di memoria, di connessione con la sua storia. Lo testimonia il lavoro di un autore, per molti versi "anomalo", come Giovanni Testori, il quale descriveva l'Apocalisse culturale prodotta dall'industrializzazione fordista raccontando il "Fabbricone" dalla prospettiva della comunità originaria di Novate Milanese, allora comune ella periferia di Milano oggi pezzo della città infinita. Oppure come negli anni '30 un altro grande lombardo Carlo Emilio Gadda, osservando l'irrompere del gene egoista dell'impresa nell'antropologia della borghesia, scriveva che «negli illuminati salotti della borghesia pacchianissima, si udivano lodi dell'attività pratica, inni allo scaldabagno, ditirambi verso le maniglie di ottone stampato».

Allora, con il fordismo e l'industrialismo quando il problema era evitare l'anomia, cioè l'incapacità di trasformare in valori socialmente condivisi la modernità che avanzava, l'impatto era stato temperato dalla costruzione della comunità operaia e da un tessuto associativo e rappresentativo diffuso.

Finita quella fase, oggi l'interrogativo che si pone è in fondo simile, ovvero se Milano riesca ancora a trasformare in valori socialmente condivisi la nuova modernità globale che avanza. Questa la grande sfida che sta davanti alla città. Chiuso il "Fabbricone" di cui parlava Testori e andati in crisi i grandi protagonisti della vita pubblica cittadina, la classe operaia e la borghesia industriale con le loro istituzioni e luoghi della rappresentazione, qual è, oggi, la nuova Apocalisse culturale che aspetta la città nell'impatto con la globalizzazione? È in grado la città di metabolizzare i grandi flussi umani e culturali oltre che economici e finanziari che, come un magnete, essa attira, incorpora e diffonde nel territorio circostante? Nello scontro con i grandi flussi globali che trasformano ciò che era abituale in spaesamento, impattano sul territorio, lo riplasmano non soltanto nella sua morfologia ma anche nei corpi e nelle identità dei soggetti che lo vivono, come reagisce la città?

Per rispondere siamo partiti dall'assunto che all'interno della dinamica fondamentale dell'ipermodernità, il rapporto tra flussi e luoghi, l'esito della grande partita globale non è scontato e le società urbane (soprattutto nel contesto europeo) possiedono ancora cospicue riserve di risorse organizzative, istituzionali e identitarie, per interpretare la globalizzazione in modo attivo. Accanto alle pressioni omologanti, la globalizzazione comporta per le città la possibilità di approfittare della ritirata dello Stato-nazione per praticare una loro iniziativa politica, loro modelli di regolazione dell'impatto dei flussi, dell'economia, delle forme di convivenza sociale.

Ma perché questa opportunità sia colta, la città deve affrontare un dilemma fondamentale: mentre è spinta a connettersi sempre più allo spazio dei flussi globali, ad estroflettersi, a divenire nodo di una rete globale, così facendo si apre ed è come "invasa". È sul difficile crinale di questo doppio movimento, in bilico tra la centrifuga dei flussi e la resistenza delle identità e dei luoghi, che la città e le sue classi dirigenti giocano le loro carte.

È all'interno di questa dinamica, inoltre, che andrebbero lette le ormai innumerevoli tipologie di città (città globali, città europee, città-regioni, ecc.) che la sociologia urbana ha elaborato nei decenni: intendendole, cioè, non tanto come modelli chiusi e statici di città, quanto dinamicamente come differenti modalità di mediazione del fondamentale dualismo tra flussi e luoghi. Le forme urbane e i diversi assetti della composizione sociale che le caratterizzano, infatti, non si sviluppano nel vuoto. Ogni città è parte di una particolare formazione geografica, economica, sociale, culturale e politica, esito sincretico dell'intreccio tra i flussi modernizzatori del mercato globale e l'azione delle lunghe derive storiche che caratterizzano ogni luogo. Lo spazio dei flussi che connette centri direzionali, piazze finanziarie, reti di conoscenza situate nelle principali città, e che vive in una dimensione di simultaneità a distanza non è uno spazio continuo e virtuale, ma discreto, discontinuo, organizzato e strutturato da differenti modelli di capitalismo caratterizzati da differenti assetti istituzionali, rapporti sociali e soprattutto forme urbane.

Solo per restare in Europa al capitalismo anglosassone finanziarizzato e terziarizzato e caratterizzato dal modello urbano tutto verticale della città globale, sede di accumulazione di capitali e poteri e nodo di network ubiquitari e sconnessi rispetto ai loro retroterra locali, si affianca un capitalismo anseatico caratterizzato da una forma urbana meticcia, proiezione globale della città europea ed esito di un modello produttivo fortemente terziarizzato ma che alla specializzazione finanziaria sostituisce quella nella logistica e nella gestione delle grandi reti commerciali globali, nonché nel campo della cultura e dell'innovazione tecnologica. Vi è poi un capitalismo renano centrato sulla triangolazione tra grande impresa, grande banca e grande sindacato, che seppur oggi in difficoltà, si è a lungo caratterizzato per una forma urbana industriale successivamente evoluta in grande conurbazione. Una struttura caratterizzata storicamente da figure sociali operaie e di un ceto medio fatto di professioni impiegatizie e tecniche, espressione delle grandi organizzazioni di fabbrica e del welfare pubblico.

In questo contesto la realtà italiana si configura come un modello di capitalismo territorializzato capace di mantenere caratteri di distintività e di adattamento alle trasformazioni. Uno specifico modello di sviluppo capitalistico incentrato sullo straordinario impasto tra capitale economico, capitale sociale e capitale culturale che si intrecciano in una miriade di sistemi produttivi localizzati. Storia di una industrializzazione senza fratture (Giorgio Fuà) tra famiglia, territorio e impresa. Tra agricoltura, manifattura, turismo ed economia dei servizi. Con tre cicli storici che hanno prodotto modelli ed egemonia: la grande impresa privata della prima industrializzazione; la grande impresa pubblica; il capitalismo molecolare diffuso della piccola impresa dei distretti. Oggi è un modello che si è evoluto in quello che è stato definito un "quarto capitalismo" fatto di medie imprese che affondano la loro storia e capacità produttiva nei territori. È un modello che, sotto la spinta feroce e selettiva della globalizzazione, si sta alzando dal localismo per addensarsi in enormi piattaforme produttive per le quali diviene essenziale la gestione di quella che è la nuova forma postfordista dell'antico conflitto tra città e campagna, la connessione tra il capitalismo manifatturiero e le grandi funzioni urbane del capitalismo delle reti.

È, quindi, un modello che sta conoscendo una profonda transizione della sua forma urbana. Storicamente ad un modello della company town e della metropoli industriale presente soprattutto nel Nord Ovest del paese e nelle poche città investite dai flussi della grande industria pubblica, si affiancava il tessuto delle cosiddette città medie con forti tradizioni civiche, forte coesione sociale, organizzate in un tessuto fitto, ben collegate tra loro e capaci di distribuire sul territorio funzioni cittadine a livello di città-regione. Questi due modelli di società urbana si caratterizzavano entrambi, oltre che per il peso consistente della classe operaia e dei ceti impiegatizi e tecnici prodotti dalla fabbrica fordista e dagli apparati pubblici, per un vasto ceto medio tradizionale formato da piccoli imprenditori, artigiani e commercianti. Anche dal punto di vista delle élite economiche il territorio ha giocato un ruolo importante. Se, infatti, i grandi gruppi hanno sempre operato sopra un oceano di piccola impresa, dominante al di fuori del triangolo industriale, questo ha fatto sì che con l'eccezione di poche grandi famiglie metropolitane, quella società stretta raccontata dal Leopardi, la borghesia italiana, si sia configurata come esito di un proliferare di una società larga, provinciale e poco incline ai grandi scenari.

Questo modello è in transizione, sfidato dall'alto e dal basso da processi che stanno trasformando le città compatte, grandi e medie, in città infinite e diffuse. Dal punto di vista delle funzioni urbane la grande questione in Italia è la costruzione della città-regione, ovvero il precipitare delle forme urbane tradizionali, la company town e la città media, in un modello capace di realizzare la connessione tra metropoli e piattaforme produttive. Ovvero, nei nostri termini, tra capitalismo manifatturiero e delle reti. Ma questi processi, in cui l'espansione della città tende a travolgere ogni antica persistenza ai suoi confini, non connotano soltanto forma e funzioni urbane, ma mutano in profondità anche la sua composizione sociale. E allora, è lecito chiedersi ad esempio, che cosa resti del dilemma leopardiano quando la città si fa infinita e perde la nettezza dei suoi confini. Mutano la stessa fisicità della città. Ed è proprio attraverso la suggestione letteraria della città-corpo e delle sue trasformazioni che possiamo cogliere le due dimensioni fondamentali che stanno trasformando la morfologia sociale di Milano.


La città corpo tra nuda vita e vita nuda

Possiamo dire che la città, Milano nel nostro caso, possiede un corpo, una sua fisicità e vita autonome? Esiste una "partita invisibile" fatta di processi, crescite, crisi, che agiscono in modo sotterraneo rispetto alle istituzioni e ai formalismi delle agenzie di regolazione formale e incomprimibili ad essa? Il quesito fondamentale che siamo chiamati a discutere non è soltanto quale corpo abbia oggi la città, ma più radicalmente se Milano costituisca ancora un corpo sociale.

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Pagina 8

Città di schegge, schegge di città: i cinque cerchi di Milano

Nella transizione in uscita dall'industrialismo fordista, la città si è frammentata. Non solo nella sua geometria urbana, ma anche per il moltiplicarsi di confini interni tra le schegge della sua composizione sociale. Vi è una sincronia tra la centrifugazione urbana della città, dai confini sempre più debolmente riconoscibili, e la creazione di barriere interne di tipo quasi antropologico tra i diversi frammenti del suo corpo sociale. Un'eterotopia negativa, fatta di convivenza apparente tra pezzi di città "nuda", senza diritti e senza rappresentazione, persi, esclusi, lasciati spesso ai margini, fianco a fianco alle comunità chiuse dei ghetti volontari per ricchi, per l'élite della nuda vita.

La sottile linea rossa lungo la quale questo libro scava è il racconto di queste schegge di città per non arrendersi all'idea della loro incomunicabilità. Attraverso il racconto dei soggetti diventa possibile pensare i grandi cambiamenti in una dimensione pubblica, tentando di metabolizzarne gli impatti. Sono convinto che Milano, pur sotto stress, rimanga città raccontabile.

Sono cinque i frammenti di composizione sociale raccontati in questo libro. Abbiamo utilizzato la metafora dei cerchi per nominarli.

Il primo cerchio ci svela come sono cambiate le élite. Per usare le parole del Novecento i "padroni". La vecchia borghesia dei Falck e dei Pirelli o non c'è più o è salpata dalla città deterritorializzandosi sui flussi della grande finanza globale. Cresce invece una neoborghesia dei flussi e delle reti il cui orizzonte spaziale di riferimento è profondamente mutato: non più tanto la vocazione nazionale o la città, in cui peraltro in molti casi non risiedono più, quanto una più estesa dimensione internazionale. L'impresa è solo ancorata a Milano. Si salpa la mattina con l'aereo, si va nel mondo, si torna. Ma non è detto che si viva a Milano, nemmeno per il weekend. Il potere è dato dalla mobilità e dalla deterritorializzazione praticata su scala globale. Per quelli che ci lavorano, la lingua inglese, la mobilità, la flessibilità ad andare per il mondo sono prerequisiti. Mentre le vecchie élite accanto alla fabbrica costruivano il territorio, i suoi asili e le case, oggi il grande problema è la (ri)territorializzazione della nuova borghesia. Essa è infatti un'élite ormai tendenzialmente globale, che controlla il potere della mobilità potendo praticare la deterritorializzazione su scala estesa. Sono più di 3mila le imprese straniere che hanno il loro headquarter in provincia di Milano, più del 40% del totale italiano. Tra le 150 più grandi transnazionali mondiali, 58 (40 non finanziarie e 18 finanziarie) hanno la loro sede a Milano. Presidiano attività fondamentali che modellano la città come porta da e per il globale. È il capitalismo delle reti. Ad alto valore aggiunto come la finanza, la logistica, il segmento alto della consulenza internazionale, le utilities dei servizi, la comunicazione, l'intrattenimento.

Ma visto che qualcuno le merci dovrà pur venderle, il secondo cerchio che abbiamo analizzato è il commercio. Nel decennio di fine secolo per la pressione della grande distribuzione, le unità locali del commercio a dettaglio si sono ridotte di 12mila unità. La perdita secca è avvenuta nei quartieri, tra le botteghe tradizionali che si dimezzano passando da 9.865 nel '91 a 5.379 nel 2001. Lasciando un vuoto. Riempito in parte da mega-centri commerciali, ma anche da un nuovo commercio esperienziale. È un commercio moderno ma poco capace di creare comunità: basti vedere a Milano il quadrilatero della moda in cui si concentra, ridotto a grande parco a tema del consumo elitario, ma svuotato dei suoi abitanti. Ma il vuoto è riempito sempre più anche da attività commerciali low-cost gestite da immigrati: nel 2005 erano 5.598 le ditte commerciali individuali con titolare un immigrato. Quelle dei cinesi sono 2.561 e il 70% sono concentrate nel Comune di Milano. È il difficile rapporto tra classi medie e globalizzazione quello che in filigrana traspare dai racconti dei commercianti milanesi, ceto perennemente in bilico tra conservazione e adattamento alla modernità.

Abbiamo poi raccontato un terzo cerchio della nuova Milano, il punto della città dove la globalizzazione produce una moltitudine di lavori servili e dequalificati. A cavallo del nuovo secolo, l'occupazione operaia muta con l'esplosione dei lavoratori occupati nel terziario di manutenzione, distribuzione, ristorazione collettiva, grandi appalti di pulizie. Gli addetti erano 54.574 nel '91, dieci anni dopo sono più di 70mila. In questo neoproletariato dei servizi sono al lavoro gli immigrati. Erano il 5% della forza lavoro, oggi sono più del 25%. Nell'edilizia che trasforma la città, gli operai extracomunitari sono passati da poco più del 7% del '96 al 40% nel 2006. Nelle nostre case le badanti sono, secondo le stime più recenti, più di 53mila. Il lavoro, il commercio, i servizi alle persone hanno incluso molti. Fuori dalle mura delle case e delle imprese, ma dentro le mura della città, nel terzo cerchio ci sono aree dismesse occupate, insediamenti temporanei, campi nomadi. È una città degli invisibili dove forme economiche pre-capitalistiche (l'economia informale, relazioni di scambio e di dono fondate sulla reciprocità, ecc.), che una concezione della modernità pesante aveva considerato in via di estinzione, tornano attuali.

Il quarto cerchio si compone di una variegata platea di operatori della società dello spettacolo e della creatività. Quella che un tempo era la "Milano da bere", ha qui la sua fabbrica diffusa. Da Cologno Monzese con Mediaset e Sky, alla Bovisa con la Triennale, il Politecnico e Telelombardia, passando per i creativi di via Tortona, si arriva allo Iulm con i suoi corsi di laurea e master in comunicazione. Nel corso di un decennio gli addetti al terziario, che abbiamo chiamato avanzato, sono passati da 158.866 ai 312.958 del 2001. Si sono duplicati numeri e lavori. Aumentano le imprese individuali che dall'ultimo censimento risultano raggruppare il 22% degli addetti con punte avanzate nel campo delle professioni: attività di architettura e ingegneria, attività immobiliari, studi legali, creatività e design, comunicazione, pubblicità ed editoria. Questo variegato insieme di tribù professionali, riconducibili comunque all'alveo del terziario avanzato, costituisce un elemento centrale delle nuove forme della produzione immateriale, chiamate ad accompagnare la transizione del capitalismo di territorio.

Infine, il quinto cerchio della città fuori le mura dove ci sono mezzo milione di imprese, due milioni di addetti, il maggior numero di centri commerciali, sportelli bancari, sale cinematografiche. È il territorio della manifattura delocalizzata al di fuori del core metropolitano, rappresentata soprattutto dalla coorte delle piccole e medie imprese industriali. Qui è centrale il rapporto tra sistemi territoriali e funzioni terziarie pregiate metropolitane, dove la città si pone come città-regione. Ora il capitalismo si è fatto personale e la persona si è fatta impresa, e la mitica classe operaia ha i suoi problemi di visibilità e rappresentazione. Per trovarla, raccontarla, rappresentarla occorre andare nel quinto cerchio, fuori dalle mura della città, nell'anello manifatturiero della Pedemontana lombarda. Non più concentrata nelle grandi imprese, ma nella diaspora del sistema manifatturiero organizzato in filiere di medie e piccole imprese e subfornitura artigiana. È un anello periferico, ma per nulla debole, né per numeri né per ruolo nell'economia globale. Le imprese organizzate in gruppi industriali sono più di 5mila, svariate migliaia le piccole. Gli addetti del settore industria e servizi sono più del 43%, il 36% nel manifatturiero. La classe operaia non è scomparsa. Chi ne ha nostalgia impari a cercarla e a raccontarla, capannone per capannone, nei meandri carsici della città infinita.

Un'ultima notazione introduttiva. Il tema della nuova composizione sociale, letto attraverso la metafora dei cinque cerchi, è stato affrontato tenendo al centro una distinzione fondamentale, quella tra i concetti di spazio di posizione e spazio di rappresentazione. Una distinzione che, a ben vedere, riguarda però anche altri gruppi sociali e comunque l'insieme degli spazi in cui si articola il contesto urbano.

Il primo – lo spazio di posizione – considera gli assetti territoriali a cui si riferiscono i comportamenti sociali, i problemi e le prospettive degli attori che volta a volta vengono presi in considerazione. Di conseguenza, potrà essere uno spazio più o meno allargato a seconda del grado di apertura degli operatori, a seconda quindi del loro sistema delle relazioni e della pluralità dei soggetti cui fanno riferimento.

Lo spazio di rappresentazione, invece, riveste più esplicitamente caratteri simbolici. Comprende infatti quegli aspetti di riconoscimento che provengono dall'insieme degli altri attori, oltre che da se stessi. Riconoscimento e auto-riconoscimento costituiscono infatti le principali fonti di formazione dell'identità.

Naturalmente, i due spazi non sono da considerare come reciprocamente separati. Al contrario, sono l'uno lo specchio dell'altro, l'altra faccia della stessa medaglia. Non si può infatti considerare i comportamenti sociali senza al contempo considerare l'identità di coloro che li praticano, il grado di apertura di un sistema di relazioni senza le condizioni identitarie che lo rendono ora esteso ora limitato. In altre parole, spazio di posizione e spazio di rappresentazione sono due categorie analitiche, categorie cioè adottate dal ricercatore, non entità inscritte nella realtà delle cose.

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Resistenza, Rendita, Rivolta. Le tre R del cambiamento

Se questo è il quadro, se la città di schegge si riflette nel racconto dei cinque cerchi della società, il tema per l'agenda futura di Milano è presto detto: come rimettere insieme i cocci di una società sottoposta a stress da sconnessione? È mia modesta opinione che su questo fronte inseguire mitologie forzose da città globale, rischia di produrre più danni di quanti non ne ripari. Molto meglio, a mio parere, una strategia di accompagnamento verso una globalizzazione leggera, che pur nell'apertura sia capace di riconnettere i filamenti di un tessuto sociale oggi a rischio di lacerazione.

Ma questa scelta implica un passaggio culturale prima ancora che politico o economico: dobbiamo tornare a ragionare su categorie del conflitto adeguate ai tempi moderni. La città, le sue classi dirigenti, debbono tornare a ragionare su queste categorie. Perché la malattia di Milano è proprio questa, che la città è ferma, non assume parole a fronte di una Apocalisse culturale che viene avanti. È in questo vuoto che rischiano di proliferare le comunità "maledette" che si sono ritrovate attorno ai fuochi di Opera o del campo di San Dionigi, dove – attraverso l'opposizione feroce alla costruzione di un campo di accoglienza – per 70 Rom la comunità perduta si è ritrovata nel chiudersi rispetto all'altro da sé.

La coscienza collettiva della città tende così ad esprimersi soprattutto attraverso le tre formule della "resistenza", della "rendita" e della "rivolta". La resistenza è il propulsore di chi si è visto entrare nel cortile di casa una globalizzazione che non ha potuto capire e che è parsa piombare sulla città dall'alto. Dall'invettiva contro la marginalità e le tribù metropolitane degli invisibili, fino a chi difende l'ultimo spazio verde minacciato, i linguaggi sono diversi ma la sindrome è molto spesso simile. Ma il problema è che il concetto di resistenza deve mutare, perché in sé appare incapace di immaginare una visione di futuro, in avanti; è difesa di un tempo precedente più che di una visione attuale.

L'equivalente conflittuale della resistenza è la rendita che progetta unicamente per quel segmento della nuova élite terziaria, della vita nuda, che pur operante nella città è tentata di isolarsene chiudendosi nell'omogeneità sociale delle moderne gated connmunities. Gli spazi lasciati vuoti dalla crisi del precedente modello industriale vengono così riutilizzati unicamente per l'élite, creando nel resto degli abitanti la sensazione di subire processi incontrollabili ma potenti nel mutare il territorio. Il rischio è che la città si blocchi sulla linea del conflitto, a tratti sordo, più spesso manifesto, tra rendita e resistenza. Non accorgendosi che un esito possibile che appare all'orizzonte è la rivolta delle moltitudini, delle nuove "classi pericolose". In assenza di una visione di inclusione capace di progettare la futura società dell'immigrazione, questo è il rischio.

Dunque, credo che il punto nodale sia recuperare una visione capace di incorporare la terza R, la rivolta, dentro un progetto di riterritorializzazione della responsabilità delle classi dirigenti. Esiste a Milano un tessuto di interessi e istituzioni che rappresenta tuttora un bacino importante perché gli spezzoni di nuova borghesia che stanno emergendo ricominciano ad occuparsi di queste cose, della città, e di avere contemporaneamente una visione locale e globale.

Occorre ricordare il futuro, accompagnando il rancore dei residenti, indirizzando la rendita verso le funzioni della globalizzazione leggera, includendo la rivolta delle moltitudini. Solo attraverso una strategia che metabolizzi le grandi trasformazioni la città può ricominciare a mangiare futuro.

È anche per questo che la metodologia utilizzata per questa ricerca si è imperniata sull'ascolto dei soggetti attraverso lo strumento dell'intervista in profondità, più che sulla misurazione delle performance delle grandi funzioni economiche. La scelta, dunque, è stata di volgere l'attenzione alle soggettività che nella città si muovono e si ridefiniscono; alle loro domande verso le istituzioni, nella convinzione che se la transizione delle funzioni sia ormai avviata, è sul fronte dei soggetti e della loro rappresentanza che la strada da percorrere sembra essere più difficoltosa.

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