Copertina
Autore Jorge Luis Borges
Titolo Testi prigionieri [1936-1940]
EdizioneAdelphi, Milano, 1998, Biblioteca 362 , Isbn 978-88-459-1386-0
OriginaleTextos cautivos [1996]
CuratoreTommaso Scarano
TraduttoreMaia Daverio
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe critica letteraria , narrativa argentina
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Indice


TESTI PRIGIONIERI                        9

Note                                   337

«Ce vice impuni, la lecture »
   di Tommaso Scarano                  341

Indice degli autori citati             355

 

 

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Pagina 11

1936

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Pagina 14

[2]
«DER ENGEL VOM WESTLICHEN FENSTER»
DI GUSTAV MEYRINK


Questo romanzo, più o meno teosofico - L'angelo della finestra d'Occidente -, non è bello quanto il suo titolo. L'autore, Gustav Meyrink, deve la sua fama al romanzo fantastico Il Golem, libro straordinariamente visivo, che combina piacevolmente la mitologia, l'erotismo, il turismo, il «colore locale» di Praga, i sogni premonitori, i sogni di vite altrui o precedenti, e perfino la realtà. A quel libro fortunato ne sono seguiti altri un po' meno gradevoli. In questi si coglieva l'influsso non più di Hoffmann e di Edgar Allan Poe ma delle diverse sette teosofiche che pullulavano (e pullulano) in Germania. Si sentiva che Meyrink era stato «illuminato» dalla saggezza orientale, con il funesto risultato che in tali visitazioni è di rigore. A poco a poco ha finito per identificarsi con il più ingenuo dei suoi lettori. I suoi libri si sono trasformati in atti di fede, e anche di propaganda.

L'angelo della finestra d'Occidente è una cronaca di miracoli confusi, riscattata a tratti da una piacevole atmosfera poetica.

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Pagina 16

[5]
VIRGINIA WOOLF


Virginia Woolf è stata definita «il primo romanziere d'Inghilterra». La gerarchia esatta non ha importanza, perché la letteratura non è una competizione, ma si tratta indiscutibilmente di una delle intelligenze e delle fantasie più delicate fra quante stanno tentando felici esperimenti con il romanzo inglese.

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Pagina 18

[6]
«HALF-WAY HOUSE» DI ELLERY QUEEN


Nella storia del genere poliziesco - che inizia nell'aprile del 1841, data di pubblicazione dei Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe - i romanzi di Ellery Queen segnano un cambiamento di rotta, o un piccolo progresso. Mi riferisco alla sua tecnica. Di norma il romanziere suggerisce una spiegazione banale del mistero per poi disorientare i lettori con una soluzione ingegnosa. Ellery Queen suggerisce, come gli altri, una spiegazione per niente interessante, lascia intravedere (alla fine) una soluzione bellissima, di cui il lettore si innamora, la confuta e ne svela una terza, che è quella giusta: sempre meno strana della seconda, ma del tutto imprevedibile e soddisfacente.

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Pagina 29

[14]
BENEDETTO CROCE


Benedetto Croce, uno dei pochi scrittori importanti dell'Italia contemporanea - l'altro è Luigi Pirandello -, nacque a Pescasseroli, un paesino della provincia dell'Aquila, il 25 febbraio 1866. Era ancora bambino quando i genitori si stabilirono a Napoli. Ricevette un'educazione cattolica, molto attenuata dalla indifferenza dei suoi maestri se non addirittura dalla loro incredulità. Nel 1883 un terremoto che durò novanta secondi scosse il Sud dell'Italia. In quel terremoto morirono i suoi genitori e sua sorella, ed egli stesso rimase sepolto sotto le macerie. Dopo due o tre ore lo trassero in salvo. Per sfuggire a una disperazione totale, decise di pensare all'Universo, procedura comune a tutti gli infelici, e che a volte funge da balsamo.

Esplorò i metodici labirinti della filosofia. Nel 1893 pubblicò due saggi: uno sulla critica letteraria, l'altro sulla storia. Nel 1899 si accorse, con una sorta di timore simile talora al panico, talora alla felicità, che i problemi metafisici si stavano organizzando in lui e che la soluzione - o una soluzione - era ormai imminente. Smise allora di leggere, dedicò giorni e notti alla veglia, e camminò per la città senza vedere nulla, taciturno e intento a spiare se stesso. Aveva compiuto trentatré anni: l'età, secondo i cabalisti, che aveva il primo uomo quando fu plasmato dal fango.

Nel 1902 inaugurò la sua Filosofia dello Spirito con un primo volume: l' Estetica. (In questo libro, sterile ma brillante, nega la differenza tra materia e forma e riduce tutto all'intuizione). La Logica apparve nel 1905, la Pratica nel 1908, la Teoria della storiografia nel 1916.

Dal 1910 al 1917 Croce fu senatore del Regno. Quando venne dichiarata la guerra e tutti gli scrittori si abbandonarono ai piaceri lucrativi dell'odio, Croce rimase imparziale. Dal giugno del 1920 fino al luglio del 1921 ricoprì la carica di ministro della Pubblica Istruzione.

Nel 1923 l'università di Oxford lo nominò dottore honoris causa.

La sua opera supera ormai i venti volumi e comprende una storia d'Italia, uno studio sulle letterature europee del XIX secolo e monografia su Hegel, Vico, Dante, Aristotele, Shakespeare, Goethe e Corneille.

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Pagina 39

[22]
«THE FEAR OF THE DEAD
IN PRIMITIVE RELIGION»
DI SIR JAMES GEORGE FRAZER


Non è impossibile che le idee antropologiche del dottor Frazer vengano un giorno irreparabilmente superate, o che già siano in pieno declino; quel che è impossibile, inverosimile, è che la sua opera cessi di suscitare interesse. Respingiamo pure tutte le sue ipotesi, respingiamo tutti i fatti che le confermano, e l'opera resterà immortale: non più come lontana testimonianza della crudeltà dei primitivi, ma come documento diretto della credulità degli antropologi allorché si parla loro di primitivi. Credere che sul disco della luna appariranno le parole che si scrivono con il sangue su di uno specchio è solo lievemente più strano del credere che qualcuno lo creda. Nel peggiore dei casi l'opera di Frazer rimarrà come una enciclopedia di notizie meravigliose, uno «zibaldone di varie letture» redatto con singolare eleganza. Rimarrà come rimangono i trentasette libri di Plinio e l' Anatomia della malinconia di Robert Burton.

Il presente volume tratta del timore dei morti.

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Pagina 42

[24]
ENRIQUE BANCHS HA CELEBRATO
QUEST'ANNO LE NOZZE D'ARGENTO
CON IL SILENZIO
(...)

Lawrence, nel 1918, capeggia la ribellione degli arabi; nel 1919 compone I sette pilastri della saggezza, forse l'unico libro degno di memoria fra quanti ne abbia prodotti la guerra; verso il 1924 cambia nome, perché non dobbiamo dimenticare che è inglese e che la fama lo infastidisce. James Joyce, nel 1922, pubblica l' Ulisse, che può equivalere a un'intera e complessa letteratura che riunisca molti secoli e molte opere; oggi pubblica dei giochi di parole che senza dubbio equivalgono al silenzio più assoluto. Nella città di Buenos Aires, nell'anno 1911, Enrique Banchs pubblica L'urna, il migliore dei suoi libri, e uno dei migliori della letteratura argentina; poi, misteriosamente, tace. Tace ormai da venticinque anni.

(...)

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Pagina

(...) L'urna, invece, non impone patti al lettore né benevole complicazioni. E' passato un quarto di secolo dalla sua apparizione - un ampio lasso di tempo umano, certo non estraneo a profonde rivoluzioni poetiche, per non parlare di quelle di altro tipo - e L'urna è un libro contemporaneo, un libro nuovo. Un libro eterno, per meglio dire, se osiamo pronunciare questa parola portentosa o vuota. Le sue due doti essenziali sono la limpidezza e la trepidazione, non l'invenzione scandalosa né l'esperimento carico di futuro. Si sa bene che ai critici interessa meno l'arte che non la storia dell'arte; meno l'effettivo conseguimento di una bellezza che non la sua perigliosa ricerca. Un libro il cui valore fondamentale è la perfezione può suscitare meno commenti di un libro che mostra le stimmate dell'avventura o del semplice disordine...

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Pagina 46

[25]
OSWALD SPENGLER


E' lecito osservare (con la leggerezza e la brutalità tipiche di simili osservazioni) che, mentre ai filosofi inglesi e francesi interessa l'universo in sé, o qualche aspetto dell'universo, quelli tedeschi sono propensi a considerarlo un semplice motivo, una pura causa materiale dei loro enormi edifici dialettici: sempre privi di fondamenta, ma sempre grandiosi. Ciò cui anelano è la perfetta simmetria dei sistemi, non la loro eventuale corrispondenza con l'universo impuro e disordinato. L'ultimo di questi illustri architetti germanici - valido successore di Alberto Magno, Meister Eckhart, Leibniz, Kant, Herder, Novalis, Hegel - è stato Spengler.

(...)

Nell'estate del 1918, Il tramonto dell'Occidente uscì a Vienna.

Schopenhauer ha scritto: «Non esiste una scienza generale della storia; la storia è il racconto insignificante dell'interminabile, pesante e sconclusionato sogno dell'umanità». Spengler, nel suo libro, si propose di dimostrare che -la storia poteva essere qualcosa di più che una pura e ciarliera enumerazione di fatti particolari. Volle determinarne le leggi, gettare le basi di una morfologia delle culture. Le sue pagine virili, redatte nel periodo che va dal 1912 al 1917, non furono contaminate dall'odio tipico di quegli anni.

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Pagina 47

[26]
«GUIDE TO PHILOSOPHY»
DI C.E.M. JOAD


Di solito la storia della filosofia rallenta in modo incredibile la speculazione filosofica. Questo rallentamento è inevitabile, se si tiene presente che la filosofia non è altro che la discussione imperfetta (se non il solitario monologo) di alcune centinaia, o migliaia, di uomini perplessi, distanti nel tempo e nel linguaggio: Berkeley, Spinoza, Guglielmo di Occam, Schopenhauer, Parmenide, Renouvier... Si può discutere, tuttavia, se sia opportuno che ogni nuovo studente riviva, nel suo sviluppo cronologico, il processo ancestrale e percorra le tappe infinite che separano Talete di Mileto dal dottor Whitehead. Il dottor Joad, autore di questo nuovissimo manuale, nega che lo sia. Delle seicento pagine del suo libro, le prime trecento discutono i problemi essenziali della filosofia. Le rimanenti espongono con chiarezza - una chiarezza minuziosa - i sistemi di Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Karl Marx, Bergson e Whitehead.

La sdegnosa omissione di Schopenhauer, il cui nome non compare neppure una volta, non mi ha provocato minore sorpresa dell'inclusione, decisamente anomala, di Karl Marx. (Tale ospitalità è quanto mai misteriosa, tanto più se si considera che il materialismo dialettico è stato invitato da C.E. Joad al solo fine di poterlo mettere alla porta).

Leggo a p.11: «Che io sappia, non vi è alcun motivo perché l'universo sia facilmente comprensibile per una intelligenza del XX secolo». Dire che questo volume (o qualsiasi altro) ci fa comprendere l'universo è dire troppo; dire che si tratta di una encomiabile discussione dei difficili chiarori e delle difficili notti della filosofia significa non dire altro che la verità.

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Pagina 48

[27]
«THE LIBRARY OF PICO DELLA MIRANDOLA»
DI PEARL KIBBE


Quali libri comprendeva la biblioteca di quello straordinario ragazzo biondo che a ventitré anni formulò novecento tesi e sfidò tutti gli uomini sapienti d'Europa a discuterle con lui? Il dibattito non ebbe mai luogo, i libri andarono perduti in un incendio; ma ci rimane il manoscritto del catalogo, e l'orgoglioso elenco delle novecento questioni. Pearl Kibbe, della Columbia University, ha pubblicato uno studio sul rapporto fra quella biblioteca bruciata e l'enciclopedico dibattito che non ebbe luogo.

Il totale dei volumi - enorme per quell'epoca - ammontava a millecentonovantuno. Nel 1496, due anni dopo la morte di Giovanni Pico della Mirandola, il cardinale Grimaldi li acquistò per cinquecento ducati d'oro. Il catalogo registrava settecento volumi in latino, centocinquantasette in greco, centodicci in ebraico e altri in caldeo e in arabo. Vi figuravano Omero, Platone, Aristotele, Filone di Alessandria, Averroè, Raimondo Lullo, Avicebron e Abenare. Una delle tesi che Pico della Mirandola aveva promesso di dimostrare era la seguente: «Nessuna scienza meglio della magia e della cabala dà prova della divinità di Gesù Cristo». In effetti il catalogo comprende numerosi titoli di libri su quelle «scienze». Un'altra tesi diceva: «Il teologo non può studiare senza pericolo le proprietà delle linee e delle figure». Una versione araba degli Elementi di Euclide e un esemplare della Geometria di Leonardo Pisano dimostrano che lo stesso Pico aveva affrontato, sia pure momentaneamente, quel rischio.

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Pagina 51

1937

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Pagina 53

[30]
LA DINASTIA DEGLI HUXLEY


Se le vaste catastrofi militari vaccinate da Aldous Leonard Huxley non sopprimeranno l'abitudine o il compito di scrivere libri, gli uomini del prossimo futuro scriveranno senza dubbio la storia della dinastia degli Huxley. «Non si finisce mai di scrivere libri» dice l'Ecclesiaste con la solita amarezza. Ammettiamo che il fatto sia reale e cerchiamo di immaginare le possibili forme che assumerà questa «Huxley Saga», o - per riprendere il reboante titolo di Emilé Zola - questa « Storia Naturale e Sociale della Famiglia Huxley». Suppongo che il primo storico scriverà in funzione di Aldous Leonard, ora il più illustre, e vedrà nel nonno Thomas, nel padre Leonard e nel fratello Julian semplici varianti o vane approssimazioni dell'autore di Punto contro punto. Non esiste libro che non racchiuda un controlibro, che ne è il rovescio: a quella interpretazione alquanto «evoluzionistica» della famiglia seguirà un'altra storia che subordinerà il nipote francesizzato al nonno battagliero. Poi un libro che sottolineerà le differenze fra le tre illustri generazioni. Seguito, naturalmente, da un altro che ne sottolineerà le somiglianze e che forse, alla maniera di quelle fotografie «generiche» ottenute per sovrapposizione da Francis Galton, concentrerà i diversi Huxley in un unico individuo senza tempo, o per lo meno longevo. Quel volume (se l'autore non è meno geniale di questa previsione) avrà nel frontespizio una di quelle fotografie platoniche di cui ho parlato, e come epigrafe questo brano di Julian: «La continua corrente vitale chiamata genere umano si frantuma in piccoli pezzi isolati chiamati individui. Ciò accade con tutti gli animali superiori, ma non è una necessità: è un espediente. La materia viva deve svolgere due attività: una relativa al suo immediato commercio con il mondo esterno; l'altra al suo futuro perpetuarsi. L'individuo è un artificio che consente a una porzione di materia viva di cavarsela e svilupparsi in un determinato ambiente. Dopo un certo periodo di tempo esso viene respinto e muore. Contiene tuttavia una riserva di sostanza immortale, che trasmette alle generazioni future».

Il tono del brano è pacato; il concetto, desolante. «Scriverò degli omini come se scrivessi di solidi, di superfici piane e di linee» si propose Spinoza. Questo sdegno astronomico, questa imparzialità quasi divina caratterizza tutti gli Huxley. Definirla inumana è assurdo: se vi è qualcosa di umano, nel senso proprio del termine, è la capacità di affrontare il nostro stesso destino, le nostre vergogne e le nostre gioie più intime, come se capitassero a qualcuno che è morto. Il sentimento di fondo degli Huxley è il pessimismo.

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Pagina 57

[31]
PAUL VALERY


Elencare i fatti della vita di Valéry equivale a ignorare Valéry, a non alludere nemmeno a Paul Valéry. I fatti, per lui, valgono solo come stimolanti del pensiero: il pensiero, per lui, vale solo in quanto possiamo osservarlo; anche l'osservazione di questa osservazione lo interessa...

Paul Valéry nacque nel paesino di Sète nel 1871. Sdegna o trascura - è un classico - i ricordi d'infanzia. Sappiamo solo che una mattina, davanti al mutevole mare, avvertì la naturale aspirazione a fare il marinaio.

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Pagina 58

[32]
«ABSALOM, ABSALOM!»
DI WILLIAM FAULKNER


Conosco due tipi di scrittore: l'uomo la cui prima preoccupazione sono i procedimenti verbali, e l'uomo la cui prima preoccupazione sono le passioni e le fatiche dell'uomo. Di solito si denigra il primo tacciandolo di «bizantinismo» o lo si esalta definendolo «artista puro». L'altro, più fortunato, riceve gli epiteti elogiativi di «profondo», «umano», «profondamente umano» o il lusinghiero vituperio di «barbaro». Il primo è Swinburne o Mallarmé; il secondo, Céline o Theodore Dreiser. Altri, eccezionali, esercitano le virtù e i piaceri di entrambe le categorie. Victor Hugo osserva che Shakespeare contiene in sé Góngora; possiamo aggiungere che contiene anche Dostoevskij... Tra i grandi romanzieri Joseph Conrad è stato forse l'ultimo cui interessavano in egual misura le tecniche del romanzo e il destino e il carattere dei personaggi. L'ultimo fino alla straordinaria comparsa di Faulkner.

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Pagina 65

[35]
JAMES JOYCE


(...)

I primi libri di Joyce non sono importanti. Per meglio dire, lo sono unicamente quali anticipazioni dell'Ulisse o in quanto possono agevolarne la comprensione. Joyce lavorò all'Ulisse negli anni terribili che vanno dal 1914 al 1921. (Nel 1904 era morta sua madre; nel 1904 aveva sposato Miss Nora Healy, di Galway). Lasciando volontariamente la patria, giurò che avrebbe forgiato un libro duraturo, «con le tre armi che mi rimangono: il silenzio, l'esilio e l'acutezza». Consacrò otto anni a mettere in atto questo giuramento. Per terra, per aria e per mare l'Europa si andava assassinando, non senza gloria; Joyce, nel frattempo - negli intervalli della correzione dei compiti di inglese o dell'improvvisazione di articoli in italiano per «Il Piccolo della Sera» -, andava componendo la sua grande ricostruzione di un solo giorno a Dublino: il 16 giugno 1904. Più che l'opera di un solo uomo, I'Ulisse sembra lo sforzo di molte generazioni. A prima vista è caotico; il libro esplicativo di Gilbert - L'«Ulisse» di James Joyce, 1930 - ne rivela le leggi rigide e nascoste. La delicata musica della sua prosa è incomparabile.

La fama conquistata dall' Ulisse è sopravvissuta allo scandalo. Il libro successivo di Joyce, Work in Progress, è, a giudicare dai capitoli pubblicati, un tessuto di languidi giochi linguistici in un inglese venato di tedesco, italiano e latino.

Attualmente James Joyce vive in un appartamento a Parigi, con la moglie e i due figli. Va con loro all'opera, è molto allegro e chiacchierone. E' cieco.

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Pagina 83

[44]
DAVID GARNETT


David Garnett, rinnovatore del racconto d'immaginazione, nacque nel 1892 in un luogo d'Inghilterra del cui nome il dizionario biografico non vuole ricordarsi. La madre, Constance, ha maestosamente tradotto in inglese l'opera completa di Dostoevskij, Cechov e Tolstoj; per parte di padre era figlio, nipote e pronipote di uomini di lettere. Richard Garnett, il nonno, fu bibliotecario del British Museum e autore di una famosa Storia della letteratura italiana. La secolare frequentazione di tante generazioni di libri aveva finito per stancare i Garnett: una delle prime cose che proibirono a David fu l'esercizio della prosa e del verso. Sino a oggi non ha mai praticato il secondo.

Il primo interesse di Garnett fu la botanica. Dedicò cinque anni a quella passione tranquilla ed errabonda, e scoprì una sottospecie di funghi, estremamente rara: l'ormai immortale e velenoso fungus garnetticus. Era il 1914. Nel 1919 aprì una libreria a Garrard Street, nel quartiere ispanoitaliano di Soho. Il suo socio, Francis Birrell, gli insegnò a fare i pacchetti: arte di cui dominò i princìpi fino al 1924, allorché chiusero la libreria.

La signora trasformata in volpe, il primo racconto di Garnett, è del 1923. Rinnova totalmente il genere fantastico. A differenza di Voltaire e di Swift, Garnett evita ogni intenzione satirica; a differenza di Edgar Allan Poe, la réclame dell'orrore che sta proponendo; a differenza di H.G. Wells, le giustificazioni razionali e le ipotesi; a differenza di Franz Kafka e di May Sinclair, ogni contatto con l'atmosfera tipica degli incubi; a differenza dei surréalistes, il disordine. Il successo fu quasi immediato: Garnett ne vendette nella sua libreria un'infinità di copie. Nel '24 pubblicò Un uomo allo zoo. Nel '25, Il ritorno del marinaio. (Sono libri magici, ma assolutamente tranquilli e, talora, atroci). Nel '29, il romanzo realista Niente amore e una versione inglese di Viaggio al paese degli Articani di Maurois.

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Pagina 98

[51]
«EDGAR ALLAN POE»
DI EDWARD SHANKS


E' naturale che questo volume sia una apologia di Poe; è anormale (dirà il lettore sudamericano o francese) che l'autore se ne scusi. Ci si potrà ribattere che un vero letterato britannico non può fare l'apologia di uno yankee senza scusarsene. (Si rilegga l'articolo che Stevenson dedicò, con magnanimità, a Walt Whitman). L'osservazione è giusta, ma dietro il libro di Mr Shanks vi è qualcosa di diverso da uno sdegno accademico. Vi è la piena consapevolezza che Poe fu un inventore o un immaginatore prodigioso, ma anche un cattivo esecutore delle proprie invenzioni. Donde il favore che gli fanno i traduttori, per mediocri che siano: la gente attribuisce a loro il disordine e le inutili enfasi della sua prosa. (...)

Rimane la sua teoria poetica, alquanto superiore alla sua pratica. Rimangono nove o dieci racconti indiscutibili: Lo scarabeo d'oro, I delitti della Rue Morgue, Il barile d'Amontillado, Il pozzo e il pendolo, La verità sul caso di M. Valdemar, La lettera rubata, Una discesa nel Maelstróm, Manoscritto trovato in una bottiglia, Hop-Frog. Rimane l'ambiente particolare di quelle narrazioni, inconfondibile come un volto o come una musica. Rimangono Il racconto di Gordon Pym. Rimane l'invenzione del genere poliziesco. Rimane Paul Valéry. Tutto ciò basta a giustificare la sua gloria, nonostante le ridondanze e le debolezze di cui soffre ogni sua pagina.

Il libro di Mr Edward Shanks si compone di otto capitoli. I primi quattro studiano la vita miserabile di Poe; il quinto e il sesto, la sua opera; gli ultimi, la sua eterogenea influenza sulle letterature del mondo.

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Pagina 117

[61]
GEORGE SANTAYANA


Il poeta e filosofo Santayana (è questo l'ordine delle sue attività) nacque alla fine del 1863 a Madrid. Nel 1872 i genitori lo portarono in America. Erano cattolici: Santayana deplora la fede perduta, «quello splendido errore che così bene si accorda con gli impulsi e le ambizioni dell'anima». Uno scrittore nordamericano ha detto: «Santayana crede che Dio non esista e che la Vergine sia la madre di Dio».

Si laureò a Harvard nel 1886. Otto anni più tardi pubblicò il primo libro: Sonetti e altri versi. Poi, nel 1906, i cinque volumi della sua famosa biografia della ragione: La ragione nel senso comune, La ragione nella società, La ragione nella religione, La ragione nell'arte, La ragione nella scienza. Oggi è un po' pentito di questi volumi: non della dottrina, ma del metodo.

Sebbene affascinato dalla musica dell'inglese, Santayana - da buono spagnolo, in fin dei conti - è materialista. «Sono un materialista convinto, forse l'unico. Non pretendo di sapere che cosa sia la materia. Lascio ai fisici il compito di spiegarla. Qualunque cosa sia, la chiamo materia e basta, come chiamo Smith o Jones i miei conoscenti pur senza essere al corrente dei loro segreti». E ancora: «Il dualismo è l'oscena congiunzione di un automa e di uno spettro». Quanto all'idealismo, può essere o non essere nel vero, ma poiché da alcune migliaia di anni il mondo si comporta come se le nostre percezioni combinate fossero esatte la cosa più prudente è rispettare quella sanzione pragmatica e avere fiducia nel futuro.

Il cristianesimo, dice altrove, è una cattiva interpretazione letterale di metafore ebraiche.

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Pagina 120

[63]
E.M. FORSTER


Edward Morgan Forster nacque nel 1879 nel Sud dell'Inghilterra. Studiò all'Università di Cambridge. Dall'età di dieci o undici anni non prese in considerazione altro futuro che quello dì romanziere. A questo compito si dedicò con fervore - con un tranquillo fervore - appena terminati gli studi. Il primo romanzo, Monteriano, apparve nel 1905. Ne seguirono poi altri tre: Il cammino più lungo (1907), Camera con vista (1908) e La fine (1910). In quegli anni già lo assillava il problema che fece immaginare agli gnostici una divinità in decadenza o stanca, costretta a improvvisare questo mondo con materiale impuro: il problema dell'esistenza dei male.

Durante la guerra, Forster fu destinato ìn Egitto. In quel paese scrisse il più impersonale dei suoi libri: Alessandria. Una descrizione e una storia (1923). Alcuni amici musulmani lo convinsero a visitare l'India. Forster visse là tre anni perplessi. Tornato in Inghilterra, pubblicò Passaggio in India.

E' stato più volte detto che questo romanzo è uno dei più importanti del nostro tempo. La frase non è felice - forse perché i superlativi valgono ben poco; forse perché i due concetti di «importanza» e di «nostro tempo» non esercitano alcuna attrattiva -, ma deve essere vera. L'intensità, la lucida amarezza, l'onnipresente grazia di Passaggio in India sono indiscutibili. Come pure la piacevolezza della lettura. So di lettori molto austeri i quali hanno detto che nessuno potrà mai convincerli dell'importanza di un libro così ameno.

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Pagina 127

[68]
T.S. ELIOT


Inverosimile compatriota dei blues di Saint Louis, Thomas Stearns Eliot nacque nell'energica città che porta quel nome, nel mese di settembre del 1888, sulle rive del mitologico Mississippi. Figlio di una famiglia benestante, mercantile ed ecclesiastica, studiò a Harvard e a Parigi. Nell'autunno del 1911 tornò in Nordamerica e si dedicò al fervido studio della psicologia e della metafisica. Tre anni dopo si trasferì in Inghilterra. In quell'isola (non senza qualche iniziale diffidenza) trovò moglie, patria e nome; in quell'isola pubblicò i primi saggi - due articoli tecnici su Leibniz; le prime poesie: Rapsodia su una notte di vento, Il signor Apollinax, Il canto d'amore fi J.A. Prufrock. In questi preludi, l'influenza di Laforgue è evidente, e talora fatale. La costruzione è debole, ma la chiarezza di certe immagini è insuperabile. Per esempio:
Avrei potuto essere un paio
            di ruvidi artigli
che corrono sul fondo
            di mari silenziosi.

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Pagina 140

[77]
«LAST AND FIRST MEN»
DI OLAF STAPLEDON


Questo vasto romanzo di tipo profetico - trecento pagine che inglobano la storia futura dell'umanità nell'arco di venti milioni di secoli - è ora accessibile nell'edizione dei «Pelican Books», al prezzo impercettibile e commovente di sessanta centesimi, Se elencassi qui alcuni particolari - uomini di un remoto domani dotati di visione circolare, non semicircolare come è adesso; razze gassose che venerano la materia e che hanno per dèi i duri diamanti; eserciti di automi che devastano a man salva i continenti; generazioni che ricercano e adorano il dolore fisico; crociate per riscattare il passato; subumani ridotti in schiavitù da superscimmie; comunità in cui l'essenziale è la musica; enormi cervelli collocati in torri di metallo; specie umane concepite e realizzate da quei cervelli sedentari; fabbriche di animali e di piante; occhi capaci di vedere le masse stellari -, correrei il rischio di far credere ai miei lettori che I primi uomini e gli ultimi sia una pura e semplice intemperanza o stravaganza, fatta di grossolane sorprese, come l'insopportabile Metropolis di Fritz Lang. Incredibilmente, non è così.

L'opera di Stapledon lascia un'impressione finale di tragedia, e anche di severità, non di irresponsabile improvvisazione. Non è mai, o quasi mai, satirica: non ha nulla a che vedere con Il mondo nuovo di Aldous Huxley, il cui supposto futuro è una New York - o meglio, Hollywood - un po' ipertrofica e semplificata.

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Pagina 143

[80]
«THE TRIAL» DI FRANZ KAFKA


Edwin e Willa Muir hanno appena tradotto in inglese questo libro allucinatorio (scritto nel 1919, pubblicato postumo nel 1927, tradotto in francese nel 1932). L'argomento, come per tutti i racconti di Kafka, è di una terribile semplicità. L'eroe, travolto senza sapere perché da un assurdo processo, non riesce ad appurare di quale delitto è accusato, né a presentarsi di fronte all'invisibile tribunale che deve giudicarlo; questo, senza previo giudizio, finisce per farlo decapitare. In un altro romanzo di Kafka, l'eroe è un agrimensore che viene convocato in un castello, e che non riesce mai né a entrarvi né a farsi riconosceredalle autorità che lo governano.

In un altro, un messaggio imperiale non arriva mai a destinazione a causa delle persone che intralciano il percorso del messaggero; in un altro, un uomo muore senza essere riuscito a visitare un paese vicino...

(...)

L'intensità di Kafka è indiscutibile. In Germania abbondano le interpretazioni teologiche della sua opera. Non sono immotivate - ci risulta che Franz Kafka fosse devoto di Pascal e di Kierkegaard -, ma neppure necessarie. Un amico mi segnala un precursore delle sue storie di impossibili sconfitte e di ostacoli minimi e infiniti: l'eleatico Zenone, inventore dell'interminabile gara tra Achille e la tartaruga.

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Pagina 152

[86]
«AN ENCYCLOPAEDIA OF PACIFISM»
DI ALDOUS HUXLEY


Nella seconda parte della Anatomia della malinconia - anno 1621 -, che studia i rimedi contro questo male, l'autore elenca la contemplazione di palazzi, fiumi, labirinti, fontane, giardini zoologici, templi, obelischi, mascherate, fuochi d'artificio, incoronazioni e battaglie. Quel candore ci diverte; in un elenco di spettacoli salutari, nessuno includerebbe oggi una battaglia. (D'altro canto nessuno è riuscito, paradossalmente, a non farsi ammaliare dalla verosimile carica alla baionetta dell'impetuoso film pacifista All'Ovest niente di nuovo...)

In ciascuna delle centoventotto pagine di questa densa Enciclopedia del pacifismo, Huxley combatte freddamente la guerra. Non cade mai nell'invettiva o nella semplice eloquenza: le tentazioni sentimentali che offre l'argomento non esistono per lui. Come nel caso di Benda o di Shaw, il crimine della guerra lo indigna meno dell'insensatezza della guerra, della complessa imbecillità della guerra. I suoi ragionamenti sono di tipo intellettuale, non patetico. Tuttavia, è troppo intelligente per nascondere che il pacifismo da lui predicato richiede più coraggio della semplice obbedienza dei soldati. Scrive: «Resistere senza violenza non vuole dire non fare nulla. Significa compiere l'enorme sforzo necessario per vincere il male attraverso il bene. Tale sforzo non richiede muscoli forti né armamenti diabolici: richiede il valore morale, la padronanza di sé e la coscienza incancellabile e tenace che non c'è uomo al mondo (per quanto brutale, per quanto personalmente ostile possa essere) che sia privo di un innato fondo di bontà, di amore per la giustizia, di rispetto per il vero e per il bene, che chiunque usi i mezzi adeguati è in grado di attingere».

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Pagina 162

[94]
«AUTOBIOGRAPHY»
DI G.K. CHESTERTON


Osservare in tutta serietà che fra i libri di Chesterton l'unico non autobiografico è l'autobiografia non è un memorabile paradosso: significa dire quasi la verità. Padre Brown o la battaglia navale di Lepanto o il libro che fulminava coloro che lo aprivano hanno offerto a Chesterton più opportunità di essere Chesterton di questa fatica autobiografica. Non censuro l'opera - la mia prima reazione è di piacere e a tratti anche di incanto -, ma la ritengo meno tipica di altre, e credo che per essere gustata appieno richieda e presupponga le altre opere. Non è il libro che raccomanderei a chi desideri fare la conoscenza di Chesterton.

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Pagina 165

[96]
LA MACCHINA PER PENSARE
DI RAIMONDO LULLO


Raimondo Lullo (Ramón Llull) inventò alla fine del XIII secolo la macchina per pensare; Athanasiús Kircher, suo lettore e commentatore, inventò, quattrocento anni dopo, la lanterna magica. La prima invenzione è al centro dell'opera intitolata Ars magna generalis; la seconda, della non meno inaccessibile Ars magna lucis et umbrae. I nomi di entrambe le invenzioni sono generosi. Nella realtà, nella pura evidente realtà, né la lanterna magica è magica né il meccanismo ideato da Raimondo Lullo è capace di un solo ragionamento, sia esso rudimentale o sofisticato. In altre parole: rapportata al proposito iniziale, giudicata in base all'illustre proposito dell'inventore, la macchina per pensare non funziona. Per noi il fatto è secondario. Non funzionano nemmeno gli apparecchi per il moto perpetuo i cui disegni conferiscono mistero alle pagine delle più dettagliate enciclopedie; non funzionano nemmeno le teorie metafisiche e teologiche che ci dicono chi siamo e che cosa è il mondo. La loro palese e ben nota inutilità non ne riduce l'interesse. E così è, io credo, anche dell'inutile macchina per pensare.
L'invenzione della macchina

Ignoriamo e ignoreremo per sempre (perché è azzardato sperare che l'onnisciente macchina lo riveli) come nacque la macchina. Fortunatamente, uno dei disegni della famosa edizione di Magonza (1721-1742) ci permette di congetturarlo. E' vero che Salzinger, l'editore, ritiene che quel disegno sia la semplificazione di un altro più complesso; io preferisco pensare che sia il modesto precursore degli altri. Esaminiamo questo antenato (fig. 1). Si tratta di uno schema o diagramma degli attributi di Dio. La lettera A, al centro, rappresenta il Signore. Sulla circonferenza, la B sta a indicare la bontà, la C la grandezza, la D l'etemità, la E il potere, la F la saggezza, la G la volontà, la H la virtù, la I la verità, la K la gloria. Ognuna di queste nove lettere è equidistante dal centro ed è unita a tutte le altre da corde o diagonali. Il primo dato indica che tutti gli attribuú sono inerenti ad A; il secondo che si articolano fra loro in modo tale che non è eterodosso affermare che la gloria è eterna, che l'eternità è gloriosa, che il potere è veridico, glorioso, buono, grande, eterno, potente, saggio, libero e virtuoso, o benevolmente grande, grandemente eterno, eternamente potente, potentemente saggio, saggiamente libero, liberamente virtuoso, virtuosamente veridico, eccetera eccetera.

Voglio che i miei lettori colgano appieno tutta la grandezza di quell'eccetera. Comprende, anzitutto, un numero di combinazioni di gran lunga superiore a quelle di cui può dar conto questa pagina. Il fatto che siano del tutto inutili - per noi, dire che la gloria è eterna è insignificante quanto dire che l'eternità è gloriosa - riveste interesse secondario. Quel diagramma immobile, con le nove lettere maiuscole distribuite in nove caselle e collegate da una stella e da alcuni poligoni, è già una macchina per pensare. E' naturale che il suo inventore - uomo, non dimentichiamolo, del XIII secolo - l'abbia alimentata con materie che oggi ci sembrano ingrate. Ormai sappiamo che i concetti di bontà, grandezza, saggezza, potere e gloria non sono in grado di produrre una rivelazione significaúva. Noi (in fondo non meno ingenui di Lullo) la caricheremmo in maniera diversa. Senza dubbio con le parole Entropia, Tempo, Elettroni, Energia potenziale, Quarta dimensione, Relatività, Protoni e Einstein. O anche: Plusvalore, Proletariato, Capitalismo, Lotta di classe, Materialismo dialettico, Engels.

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Pagina 173

[99]
FRANZ KAFKA


I fatti della vita di questo autore non presentano altro mistero se non quello del loro non indagato rapporto con la sua straordinaria opera. Kafka nacque nel quartiere ebraico della città di Praga nel 1883. I genitori erano abbastanza agiati. Kafka studiò giurisprudenza, si laureò e lavorò in una compagnia di assicurazioni. Della sua giovinezza conosciamo due cose: un amore sfortunato e la passione per i romanzi d'avventura e per i libri di viaggi. Era tubercoloso: trascorse buona parte dei suoi giorni nei sanatori del Tirolo, dei Carpazi e degli Erzgebirge. Il primo romanzo - America - è del 1913. Nel 1919 si stabilì a Berlino; nell'estate 1924 morì in un sanatorio nei pressi di Vienna. L'infame blocco degli alleati (scrive il suo traduttore inglese, Edwin Muir) ne affrettò la morte.

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Pagina 174

[100]
«BRYNHILD» DI H.G. WELLS


Non è inverosimile che gli esegeti di un lontano futuro attribuiscano le opere di Wells a sei uomini diversi: 1) il narratore fantastico (La macchina del tempo, L'uomo invisibile, I primi uomini sulla Luna, L'isola del dottor Moreau, La storia di Plattner); 2) l'utopico moralista (Mondi nuovi in luogo dei vecchi, Il futuro in America, Dio, il re invisibile, Anticipazioni, La cospirazione aperta); 3) il romanziere psicologico (La moglie di Sir Isaac Harmah, I luoghi nascosti del cuore, L'anima di un vescovo, Gianna e Piero); 4) l'umorista inglese (Storia di un uomo che digeriva male, L'amore e il signor Lewishani, La ruota del caso, Kipps); 5) l'improvvisatore di enciclopedie (La scienza della vita, Lineamenti di storia, Breve storia del mondo); 6) il giornalista (La Russia nell'oscurità, Washington e la speranza della pace, Un anno profetico).

Verrà inoltre dimostrato che altri libri derivano da una collaborazione. Tono Bungay, per esempio, è opera di 3 e di 4; La forma delle cose a venire e Uomini come dei, di 1 e di 2. (O meglio, di 2 reso un po' più leggero da 1).

Di Brynhild posso affermare che vi hanno lavorato in uguale misura Wells umorista e Wells psicologo. L'unione è stata felice: ho letto il libro - circa trecento pagine - in due sere.

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Pagina 176

[101]
OLAF STAPLEDON


Dice Olaf Stapledon: «Sono un inetto congenito, protetto (o rovinato?) dal sistema capitalista. Solo ora, dopo mezzo secolo di sforzi, sto imparando a cavarmela. La mia infanzia durò quasi Venticinque anni: la plasmarono il canale di Suez, il paesino di Abbots-holme e l'università di Oxford. Tentai diverse carriere, fuggendo ogni volta di fronte all'imminente disastro.

(...)

La banale metafora dell'ultima riga è un buon esempio della rozzezza (o indifferenza) letteraria di Stapledon, non certo della sua quasi illimitata immaginazione. Wells alterna i suoi mostri - i suoi marziani con i tentacoli, il suo uomo invisibile, i suoi seleniti macrocefali - a uomini insignificanti e quotidiani: Stapledon costruisce e descrive mondi immaginari con la precisione e con una buona dose dell'aridità di un naturalista. Non permette ai contrattempi umani di interrompere lo spettacolo delle sue fantasmagorie biologiche. Avidamente, i suoi libri vogliono racchiudere l'universo e l'eternità. Le opere di Olaf Stapledon sono: I primi uomini e gli ultimi, Ultimi uomini a Londra, Lo strano John, Nuova teoria dell'etica, Un mondo che si desta, Il costruttore di stelle.

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Pagina 187

1938

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Pagina 194

[113]
ISAAC BABEL'


Nacque nelle catacombe irregolari del digradante porto di Odessa alla fine del 1894. Irreparabilmente semita, Isaac era figlio di un rigattiere di Kiev e di una ebrea moldava. Tutta la sua vita è trascorsa in un clima di catastrofe. Negli incerti intervalli fra i pogrom imparò non solo a leggere e a scrivere, ma anche ad apprezzare la letteratura e a gustare l'opera di Maupassant, Flaubert e Rabelais.

(...)

All'inizio del 1921, Babel' si arruolò in un reggimento di cosacchi. Naturalmente, quei guerrieri rumorosi e inutili (nessuno, nella storia universale, ha subito più sconfitte dei cosacchi) erano antisemiti. La sola idea di un ebreo a cavallo sembrava loro ridicola, e il fatto che Babel' fosse un bravo cavaliere non servì che a rafforzare il loro disprezzo e il loro livore. Grazie a un paio di prodezze appariscenti e bene amministrate, Babel' riuscì a ottenere che lo lasciassero in pace.

Per la fama, se non per i cataloghi, Isaac Babel' è ancora un homo unius libri.

Questo libro senza pari s'intitola L'armata a cavallo.

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Pagina 219

[130]
«EXCELLENT INTENTIONS»
DI RICHARD HULL


Uno dei progetti che mi accompagnano, che in qualche modo mi giustificheranno davanti a Dio, e che non prevedo di realizzare (perché il piacere consiste nell'intravederli, non nel condurli a termine), è quello di un romanzo poliziesco un po' eterodosso. (Quest'aspetto è importante, perché ritengo che il genere poliziesco, come tutti i generi, viva della continua e delicata infrazione delle sue leggi).

L'ho concepito una sera, una di quelle sere sprecate del 1935 o del 1934, mentre uscivo da un caffè del Barrio del Once. Questi poveri dati circostanziali dovranno bastare al lettore: ho dimenticato gli altri, li ho dimenticati al punto di non sapere se li ho davvero inventati. Ecco il mio piano: costruire un romanzo poliziesco del tutto usuale, con un indecifrabile assassinio nelle prime pagine, una lenta discussione in quelle intermedie e una soluzione nelle ultime. Poi, quasi all'ultima riga, aggiungere una frase ambigua - per esempio: «E tutti credettero che l'incontro di quell'uomo e di quella donna fosse stato casuale» - che suggerisca o lasci supporre che la soluzione era falsa. Il lettore, inquieto, andrebbe a rivedere i capitoli attinenti e troverebbe un'altra soluzione, quella vera. Il lettore di quel libro immaginario sarebbe più perspicace del detective... Richard Hull ha messo insieme un libro gradevolissimo. La sua prosa è scaltra, i suoi personaggi sono convincenti, la sua ironia è quanto mai garbata. La soluzione finale, tuttavia, è così poco sorprendente che, non riesco a liberarmi dal sospetto che questo libro reale, pubblicato a Londra, sia quello che ho immaginato a Balvanera tre o quattro anni fa. In questo caso, Le migliori intenzioni celerebbe un argomento segreto. Povero me o povero Richard Hull! Non riesco a vedere da nessuna parte questo argomento segreto.

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Pagina 221

[131]
GUSTAV MEYRINK


I fatti della vita di Meyrink sono meno problematici della sua opera. Nacque nel 1868 in una città della Baviera. Sua madre era attrice. (Sarebbe troppo facile constatare che la sua opera letteraria è istrionica). Monaco, Praga e Amburgo si divisero gli anni della sua giovinezza. Sappiamo che fu impiegato di banca e che aborrì quel lavoro. Sappiamo anche che tentò due rivincite o due forme di evasione: lo studio confuso delle confuse «scienze occulte» e la composizione di scritti satirici. In questi attaccò l'esercito, le università, la banca, l'arte regionale. («Arte» scrisse «da cui è assente ciò che è artistico e in cui il regionale è falsificato»). Dal 1899 la famosa rivista «Simplizissimus» pubblicò i suoi scritti. Risale a quell'epoca la traduzione di alcuni romanzi di Dickens e di alcuni racconti di Poe. Verso il 1910 raccolse una cinquantina di racconti sotto il titolo parodistico La cornucopia del filisteo tedesco, nel 1915 pubblicò Il Golem.

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Pagina 238

[143]
«THE UNVANQUISHED»
DI WILLIAM FAULKNER


E' norma generale che i romanzieri non presentino una realtà ma il suo ricordo. Scrivono fatti veri o verosimili, ma già modificati e riordinati dalla memoria. (Tale processo, ovviamente, non ha nulla a che vedere con i tempi verbali che si usano). Faulkner, invece, cerca talora di ricreare il presente puro, non ancora semplificato dal tempo né sgrossato dall'attenzione. Il «presente puro» non è che un ideale psicologico; ed è per questo che alcune scomposizioni di Faulkner risultano più confuse - e più ricche - dei fatti originari.

(...)

Williain Faulkner è stato paragonato a Dostoevskij. L'accostamento non è ingiusto, ma il mondo di Faulkner è così fisico, così carnale che accanto al colonnello Bayard Sartoris o a Temple Drake l'omicida esplicativo Raskolnikov ha l'inconsistenza di un principe di Racine... Fiumi dall'acqua scura, fattorie sconvolte, negri schiavi, guerre di cavalleria, svogliate e crudeli: il mondo particolare degli Invitti è consanguineo a questa America e alla sua storia, è anch'esso criollo.

Vi sono libri che ci toccano fisicamente, come la vicinanza del mare o del mattino. Gli invitti - per me - è uno di quelli.

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Pagina 276

[169]
«ENCICLOPEDIA PRATICA BOMPIANI»


Tralasciando alcune spacconate e un certo terrorismo stilistìco, i primi due volumi di questa enciclopedia popolare sono piuttosto apprezzabili. Il primo contiene una storia della cultura; è prevedibile che alla luce di tale storia il fiore della cultura sia l'attuale regime italiano. Il secondo contiene una rispettosa descrizione di quel regime. (Le illustrazioni, eccellenti, raffigurano macchine da guerra, ovazioni unanimi, entrate trionfali in città etiopiche, statue laboriosamente truci, medaglie celebrative e altre apoteosi del genere). Un articolo sull'araldica elenca le tasse che lo Stato percepisce per ogni titolo nobiliare. I visconti devono pagare diciottomila lire, i conti trentamila, i marchesi trentaseimila, i principi sessantamila. A questo curioso articolo seguono brevi dizionari geografici, biografici, mitologici ed economici, una tavola dei logaritmi e un panorama delle grammatiche latina, tedesca, inglese e francese.

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Pagina 282

[174]
UN COPIOSO MANIFESTO DI BRETON


Vent'anni fa pullulavano i manifesti. Quei documenti autoritari rinnovavano l'arte, abolivano la punteggiatura, evitavano l'ortografia e spesso approdavano al solecismo. Se erano opera di letterati, si compiacevano nel denigrare la rima e nel giustificare la metafora; se di pittori, nel difendere (o ingiuriare) i colori puri; se di musicisti, nell'adulare la cacofonia; se di architetti, nel preferire un sobrio gasometro all'eccessiva cattedrale di Milano. Ogni cosa, tuttavia, ha il proprio momento. Quelle carte ciarlatanesche (di cui avevo una raccolta che ho gettato nel fuoco) sono state superate dal foglio che André Breton e Diego Rivera hanno appena diffuso.

Quel foglio si intitola con ostinazione Per un'arte rivoluzionaria indipendente. Manifesto di Diego Rivera e André Breton per la liberazione definitiva dell'Arte. Il testo è ancora più ampolloso e balbettante. Comprende circa tremila parole che dicono esattamente due cose (che sono incompatibili). La prima, degna del capitano La Palisse o dell'assiomatico Perogrullo, è che l'arte deve essere libera e che in Russia non lo è.

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Pagina 284

[175]
L'ULTIMO ROMANZO DI H.G. WELLS


Fatta eccezione per il sempre sorprendente Libro delle mille e una notte (che gli inglesi, con un titolo altrettanto bello, chiamano Le notti arabe), credo che non sia azzardato affermare che sono proprio le opere più celebri della letteratura mondiale ad avere i titoli peggiori. Per esempio: sarebbe difficile concepire un titolo più opaco e più cieco di Il fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia, anche se devo ammettere che I dolori del giovane Werther e Delitto e castigo sono, a modo loro, quasi altrettanto esecrabili... (Per la poesia, basterà ricordare un solo titolo, davvero imperdonabile: I fiori del male). Cito questi illustri esempi perché il mio lettore non mi dica che un libro con l'assurdo titolo A prosito di Dolores deve essere, di necessità, illeggibile.

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Pagina 291

1939

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Pagina 295

[182]
UNA MEMORABILE OPERA PRIMA


H.G. Wells preferisce attualmente la divagazione politica o sociologica alla rigorosa invenzione di fatti immaginari. E' vero che finge ancora di scrivere romanzi fantastici del tipo dei Primi uomini sulla Luna o dell' Uomo invisibile, ma i suoi attuali esercizi, a ben vedere, non vanno al di là della satira o dell'allegoria.

Fortunatamente, due acuti continuatori compensano le astrazioni del maestro. Il primo, Olaf Stapledon, è autore di I primi uomini e gli ultimi, Utimi uomini a Londra e Il costruttore di stelle. In lui sono degni di nota soprattutto la vasta ma non dettagliata immaginazione e il pressoché totale disprezzo per gli artifici del romanziere. Stapledon è capace di inventare mille e un mondo chimerici, tutti diversamente affascinanti, ma anche di presentarli ciascuno in una sola pagina insipida piena di vaghezze e aridità da manuale di geografia o di astronomia.

L'altro continuatore è C.S. Lewis. Il suo recente romanzo Lontano dal pianeta silenzioso è il motivo di questa nota. Lewis racconta di una incursione sul pianeta Marte e delle avventure di un terrestre fra gli intelligenti mostri benevoli che lo abitano. L'opera è di tipo psicologico; le tre curiose «umanità» e la geografia vertiginosa di Marte sono meno importanti per il lettore della reazione del protagonista, che inizialmente le trova atroci e quasi intollerabili e finisce poi per identificarsi con esse.

L'immaginazione di Lewis è limitata. Se riassumessi la sua concezione del pianeta Marte, il lettore di Wells o di Poe non la troverebbe poi molto sorprendente. Quel che è apprezzabile è l'infinita onestà di quella immaginazione, la coerente e minuziosa verità del suo mondo fantastico.

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Pagina 322

[202]
QUANDO LA FINZIONE VIVE
NELLA FINZIONE


Devo la mia prima nozione del problema dell'infinito a un grande barattolo di biscotti che portò mistero e vertigine nella mia infanzia. Su un lato di quell'oggetto anomalo vi era una scena giapponese; non ricordo i bambini o i guerrieri che la componevano, ma ricordo bene che in un angolo di quella immagine ricompariva lo stesso barattolo di biscotti con la stessa figura, e in questa figura la stessa figura, e così (almeno potenzialmente) all'infinito... Quattordici o quindici anni dopo, verso il 1921, scoprii in una delle opere di Russell una invenzione analoga di Josiah Royce. Questi immagina una mappa dell'Inghilterra disegnata su una porzione del suolo d'Inghilterra: tale mappa - per essere precisa - deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito... Tempo prima, al Museo del Prado, avevo visto il famòso quadro di Velázquez Las meninas: sullo sfondo compare lo stesso Velázquez mentre esegue il ritratto di Filippo IV e della moglie, che sono fuori della tela ma che uno specchio riflette. Sul petto del pittore brilla la croce di Santiago; si dice che l'avesse dipinta il re per farlo cavaliere di quell'ordine... Ricordo che la direzione del Prado, per continuare quelle magie, aveva sistemato di fronte al quadro uno specchio.

(...)

Il romanzo Il Golem di Gustav Meyrink (1915) è la storia di un sogno: in quel sogno vi sono dei sogni; in quei sogni (credo), altri sogni.

Ho ricordato molti labirinti verbali; nessuno è più complesso della nuovissima opera di Flann O'Brien: Una pinta d'inchiostro irlandese. Uno studente di Dublino scrive un romanzo che racconta di un oste di Dublino che scrive un romanzo sui frequentatori della sua taverna (fra i quali c'è lo studente), che a loro volta scrivono romanzi in cui compaiono l'oste e lo studente, e altri scrittori di romanzi in cui si racconta di altri romanzieri. Il libro è costituito dai diversissimi manoscritti di quelle persone reali o immaginarie, abbondantemente annotati dallo studente. Una pinta d'inchiostro irlandese non è solo un labirinto: è una discussione sui molti modi di intendere il romanzo irlandese e un repertorio di esercizi in versi e in prosa, che illustrano o parodiano tutti gli stili irlandesi. La magistrale influenza di Joyce (anch'egli architetto di labirinti, anch'egli Proteo letterario) è innegabile, ma non opprimente, in questo libro molteplice.

Arthur Schopenhauer ha scritto che i sogni e la veglia sono pagine di uno stesso libro e che leggerle in ordine significa vivere, e sfogliarle sognare. Quadri dentro quadri, libri che si sdoppiano in altri libri ci aiutano a intuire quella identità.

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Pagina 326

[203]
L'ULTIMO LIBRO DI JOYCE


E' finalmente uscito Work in Progress, che ora si intitola La veglia di Finnegan, e che costituisce, ci dicono, il maturo e lucido frutto di sedici attivissimi anni di fatica letteraria. L'ho esaminato con una certa perplessità, ho decifrato senza incanto nove o dieci calembour, e ho scorso i timorosi elogi che gli dedicano la «Nouvelle Revue Francaise» e il supplemento letterario del «Times». Gli acuti autori di quei plausi dicono di avere scoperto la legge di un così complesso labirinto verbale, ma si astengono dall'applicarla o dal formularla, e non tentano neppure l'analisi di una riga o di un periodo... Ho il sospetto che condividano la mia sostanziale perplessità e le mie impressioni inservibili, parziali. Ho il sospetto che siano clandestinamente in attesa (io lo sono pubblicamente) di un trattato esegetico di Stuart Gilbert, interprete ufficiale di James Joyce.

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Pagina 330

[206]
JOHN WILKINS, PREVEGGENTE


La stampa inglese annuncia senza ulteriori commenti l'ampliamento dell'Aerodromo militare di Heston e la conseguente demolizione del vicino villaggio di Cranford, la cui rettoria in pietra grigia risale al XIV secolo. In quella rettoria visse intorno al 1640 John Wilkins, che fu tra coloro che prefigurarono e anticiparono il volo meccanico.

Pochi uomini meritano la curiosità che merita Wilkins. Sappiamo che fu vescovo di Chester, rettore del Wadham College di Oxford e cognato di Cromwell. Questi privilegi di ordine familiare, accademico ed ecclesiastico hanno purtroppo distratto il suo unico biografo - il signor P. Wright Henderson -, che ha il candore (o l'impudenza) di dichiarare d'aver scorso la sua opera «solo in modo affrettato, e anche negligente». Eppure, è proprio l'opera che ci interessa. Consta di molti libri, alcuni di carattere dottrinale, quasi tutti utopici. Il primo risale al 1638 e si intitola Scoperta di un mondo nella luna, ovvero Discorso che intende dimostrare che in quel pianeta può esservi un mondo abitabile. (La terza edizione, che è del 1640, ha un capitolo aggiuntivo, che prospetta - e sostiene - la possibilità di un viaggio sulla luna). Mercurio, o il messaggero segreto e rapido (1641) è un manuale di criptografia. Magia matematica (1648) consta di due libri che si intitolano Archimede e Dedalo. Il secondo racconta che un certo monaco inglese dell'XI secolo volò «dalla torre più alta di una cattedrale spagnola, sorretto da ali meccaniche». Il Saggio circa un carattere reale e un linguaggio filosofico (1668) propone un catalogo ragionato dell'universo e da tale catalogo desume una rigorosa lingua internazionale. Wilkins divide l'universo in quaranta categorie, designate con nomi monosillabici di due lettere. Queste categorie sono suddivise in generi (designati con una consonante) e i generi in specie, designate con una vocale. Quindi de significa «elemento»; deb, «fuoco»; deba, «fiamma»...

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