Copertina
Autore Jorge Luis Borges
Titolo Una vita di poesia
Sottotitoloda Tokio (marzo 1984) a Milano (dicembre 1985)
EdizioneSpirali, Milano, 2007 [1986] , pag. 670, ill., cop.ril.sov., dim. 17,5x24,7x5 cm , Isbn 978-88-7770-789-5
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe biografie , storia letteraria
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Indice

CONGRESSO INTERNAZIONALE IL SECONDO RINASCIMENTO.
LA SESSUALITÀ: DA DOVE VIENE L'ORIENTE, DOVE VA L'OCCIDENTE
Tokio, Hotel New Otani  3 - 6 aprile 1984

El segundo renacimiento y el Ragnarök                        10
Il secondo rinascimento e il Ragnarök                        11

Sólo puedo ofrecer a este generoso congreso mi esperanza     38
Soltanto la mia speranza posso offrire a questo generoso
    congresso                                                39

Cuando descubrí el Japón                                     44
Quando ho scoperto il Giappone                               45

Siempre con alegría, siempre con gratitud                    50
Sempre con allegria, sempre con gratitudine                  51

Je ne suis qu'un poète sud-américain                         66
Io sono soltanto un poeta sudamericano                       67

Moi, j'ai quatre-vingt-quatre ans: je suis fatigué de Borges 68
Io ho ottantaquattro anni: sono stanco di Borges             69

Conozco muy poco la literatura latinoamericana               80
Conosco pochissimo la letteratura latinoamericana            81

Je pense que ce congrès est plein d'espoir,
    c'est un congrès très généreux                           86
Penso che questo congresso sia pieno di speranza,
    sia un congresso molto generoso                          87

Dolce color d'oriental zaffiro                               94
Dolce color d'oriental zaffiro                               95

Grace à vous monsieur Verdiglione, maintenant nous faisons
    partie de sette anima mundi qui reve à l'avenir         108
Grazie a Lei, Armando Verdiglione, noi ora facciamo parte
    di quell'anima mundi che sogna l'avvenire               109

[...]


 

 

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Pagina 11

Il secondo rinascimento e il Ragnarök



Ragnarök è una parola islandese della mitologia scandinava; è stata tradotta in inglese twilight of the gods, in tedesco Götterdämmerung e in italiano è il "crepuscolo degli dèi", e si riferisce a una sorta di apocalisse. Questa parola si incontra nel più esteso poema Edda maggiore e nella breve esposizione, di Snorri Sturluson, Edda minore o prosaica. Significa qualcosa come l'apocalisse, con miti distinti, giacché si tratta della battaglia finale tra le forze del bene e le forze del male.

Si parla di mitologia germanica; alcuni giungono a parlare di mitologia tedesca, ma è scorretto: quello che rimane è la mitologia scandinava, salvata per noi dall'Islanda. Per questo io ho detto che l'Islanda è la memoria di Germania. Nel secolo XIII si salvò quella che non so se dire religione, o mitologia, scandinava, più o meno simile a quella che si professava nei Paesi Bassi, in Olanda, in Germania, in Inghilterra.

In inglese non rimane niente. Alcuni nomi di dèi: per esempio Woden, che è Odino, rimase in Wednesday, Thor rimase in Thursday; e sono per noi rispettivamente mercoledì, il giorno di Mercurio, e giovedì, il giorno di Giove. Ma niente di più.

Tra i molti miti si salvò il Ragnarök, forse influenzato dall'Apocalisse, ma che ci mostra un'apocalisse distinta, con distinti nomi. E alla fine, dopo la distruzione del mondo, rimane sempre una certa speranza.

I due dèi princiali sono Thor, che in inglese doveva essere Punor, e Odino, che in sassone doveva essere Woden e in tedesco Wotan. E poi c'è Loki, che è il demonio, lo spirito del male.

Il ciclo si differenzia dall' Apocalisse cristiana per altri aspetti: per esempio, c'è un'imbarcazione, Naglfar, fatta con le unghie dei morti, e con la quale le forze del male attraversano l'arcobaleno e lo spezzano.

Però quello che più ci tocca in questa battaglia è che non esiste il libero arbitrio: tutto è stato già previsto. Per esempio è già noto che Odino affonderà la sua spada nella gola del lupo Fenrir, il male, e che il lupo farà tre passi e poi cadrà morto. Tutto sta scritto esattamente così da sempre, e si può ben dire che qui non si crede nel libero arbitrio, bensì in un destino prestabilito fino nei minimi dettagli. Gli eventi stanno scritti da qualche parte e gli dèi conoscono la sorte che devono subire e che devono accettare.

In quel poema non si parla degli uomini. È più terribile: si parla semplicemente della morte degli dèi, del bene e del male, però dopo, una volta distrutti gli dèi e gli uomini, sorge un'isola, e in quell'isola giungono gli dèi e trovano i pezzi della scacchiera con cui giocavano prima; ossia, torna un'altra volta il mondo.

Questo ricordo di un antico poema scandinavo non è casuale, oggi che sentiamo quel medesimo timore di un crepuscolo, non degli dèi, che forse non esistono, bensì degli uomini. Tutti temiamo una terza guerra, che potrebbe essere il suicidio dell'umanità. L'umanità, e specialmente i politici, sono tanto insensati che il suicidio dell'umanità non è impossibile. Rimarrebbero Adamo e Eva, ma in un'altra comunità.

Ho menzionato gli scandinavi. Ora menzionerò Spinoza: disse che sappiamo e sentiamo di essere immortali. Spinoza pensava all'immortalità divina: una sostanza infinita dotata di infiniti attributi. Però ciascuno di noi vive come se fosse immortale. Io personalmente vivo come se fossi immortale, anche se desidero... e a volte mi sento impaziente della morte. Però vivo verso il futuro, è l'unico modo di vivere. Frattanto possiamo organizzare il futuro: è questo che il congresso vuole fare.

Perché non organizzare il futuro? È un modo di dimenticare le miserie del presente, forse la mediocrità del presente.

Una difficoltà, essenziale, è il fatto che ignoriamo il presente. Per esempio, sappiamo qualcosa del passato, ma il presente è molto difficile, sopra tutto a causa dei giornali, che danno essenzialmente notizie frivole. Però chissà che il XXI secolo non possa sapere qualcosa del XX; noi ne sappiamo ben poco. Nel passato la gente si ignorava. Sceglierò un esempio molto evidente: Shakespeare e Cervantes sono morti nello stesso anno, il 1616; nessuno dei due aveva sentito parlare dell'altro. Blake e De Quincey erano contemporanei; c'è soltanto un riferimento a Blake in De Quincey: lo chiama "the mad painter Blake", il pittore folle Blake, ma non dice niente di più. Come dire che, quando si parlerà della nostra epoca, quando si parlerà di grandi scrittori del XX secolo, si menzioneranno nomi che oggi nessuno di noi conosce.

Non so se ci sarà un secondo rinascimento. Se ci sarà, si distinguerà molto da quello che pensiamo, senza dubbio. Però ciò può applicarsi a ogni opera. Quello che uno si propone è il meno. Per esempio: io mi propongo un argomento, poi lo svolgo e, se il mio svolgimento somiglia all'argomento, il racconto è riuscito male. Di modo che, possiamo pensare molte cose sull'avvenire. Spengler credeva che sarebbe venuta la cultura delle steppe, una cultura religiosa; noi potremmo dire che verranno le scienze, gli strumenti. Non è impossibile. Tutto è possibile. Frattanto, conviene organizzare l'avvenire, anche se questo avvenire non somigliasse alla nostra previsione; in ogni caso è lodevole farlo, e tutti dobbiamo collaborare in questo compito. Quando un uomo e una donna generano un figlio, non sanno chi generano; possono generare Shakespeare, Macbeth, Caino: non è questo che importa. Nostro gradito dovere è organizzare l'avvenire, sapendo che sarà molto distinto, perché le epoche non si somigliano. Però io non posso parlare con autorevolezza, giacché sono carente di ogni senso storico. Forse il maggiore dei miei difetti è la carenza di senso storico. Per esempio, io non posso pensare al medioevo; posso pensare alle mie remote origini, alla mia cultura gotica, alla Divina Commedia, alla Chanson de Roland, alle saghe. Non posso pensare al medioevo, non posso pensare nemmeno al barocco, però posso pensare alla musica di Vivaldi. Esempi concreti. Ma mi consolo pensando che un sommo filosofo come Schopenhauer non credeva nella storia. Ho studiato il tedesco per leggere in tedesco Il mondo come volontà e rappresentazione. Schopenhauer diceva che cercare un senso nella storia è come cercare nelle nuvole forme di leoni o di montagne. Uno le trova, quando le cerca, però sono arbitrarie. Vi faccio una confidenza: io vedo la storia come un lungo sogno, un lungo sogno arbitrario e, quello che forse è più strano, è che è un sogno che sogna se stesso. Un sogno senza sognatore. Forse questo mi allontana dal cristianesimo e mi avvicina al buddismo.

Mi càpita lo stesso con la letteratura. Per esempio, prendo un'immagine, un'immagine qualsiasi: nessuno scende due volte nel medesimo fiume. Questo lo disse Eraclito di Efeso e Bergson lo ha ripetuto. Non credo nelle storie della letteratura; il movimento romantico non m'interessa, però m'interessano certe pagine di Novalis, questo sì. Credo negl'individui; credo che le società, le scuole, siano convenzioni della critica. E non sono neanche sicuro di credere negl'individui.

Walt Whitman disse: so pochissimo o niente sulla mia vita e per saperne qualcosa scrivo questi versi. E Victor Hugo disse la stessa cosa, con parole più memorabili: sono un uomo velato a me stesso, soltanto Dio sa il mio vero nome. Come dire che forse la credenza nell'individuo è fallace quanto la credenza nelle società, nei paesi, nelle epoche, nelle scuole. Che evidentemente è falsa.

Ho imparato dopo anni, dopo molti anni, che conviene che uno scrittore non intervenga nella sua opera; sopra tutto che non intervengano le sue opinioni: le sue opinioni si riferiscono a casi effimeri, e non importano. Penso... forse la cosa più sensata che ho detto sull'arte sono state quelle due parole del pittore americano Whistler, che disse "Art happens", l'arte succede, l'arte occorre. Dimentichiamo le radici, le scuole, le generazioni: tutto questo è vano. L'arte è un miracolo, un miracolo forse minimo ma frequente, e nel mio caso si dà in questo modo: sento all'improvviso che qualcosa sta per occorrermi e allora la mia anima, la mia coscienza, stanno in atteggiamento passivo, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io. Così come devo decidere l'epoca che conviene, la sintassi che conviene usare.

Credo che si debba diffidare delle teorie estetiche. Quando ero giovane, credevo, per esempio, che la metafora fosse l'elemento essenziale della poesia, o credevo, erroneamente, che il verso libero fosse più facile del verso classico. Ora tento d'intervenire il meno possibile nella mia opera scritta: lascio che tutto rimanga a carico di qualcosa che gli antichi chiamavano musa, gli ebrei ruah, spirito, e il poeta irlandese Yeats "la grande memoria", la memoria dei nostri maggiori, vale a dire la memoria del genere umano. Di fatto, ciò che la nostra fede o mitologia — per me è lo stesso — chiama subconscio. Ma io preferisco l'idea dello spirito: mi piace di più, anche se pare un po' ambiziosa. Quando lo spirito ci visita, allora riceviamo qualcosa. Quando non interveniamo troppo, quando non permettiamo che le nostre opinioni interferiscano, questo qualcosa può essere, se siamo felici, un sonetto, un haiku, un tanka o, nel mio caso, un cuento. Di altri generi non posso parlare; non posso parlare di romanzi perché ho letto pochi romanzi, all'infuori delle saghe, all'infuori di Conrad, all'infuori dei russi, all'infuori del Don Chisciotte.

Quanto alle teorie estetiche, mi domando: che teoria avevano gli indù, i persiani e gli arabi che scrissero una delle opere capitali della letteratura, Le mille e una notte? Evidentemente, nessuna. Si abbandonarono al piacere di raccontare. Credo che uno scrittore debba abbandonarsi al piacere di sognare, di scrivere; anche se ciò fosse imprudente. Però chissà che la massima felicità non sia la lettura. Una volta ho scritto: si vantino altri delle pagine che hanno scritto; quanto a me, m'inorgogliscono quelle che ho letto. La mia lettura è molto più importante della mia scrittura. Questo è un assioma.

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Le spirali di quei versi
che traggono infinitamente verso l'infinito



A quindicimila chilometri dalla sua casa in Calle Maipú a Buenos Aires, all'interno di un grande albergo romano, Jorge Luis Borges parla. Con una voce tesa che spezza le parole in acuti quarti di tono, il più grande scrittore argentino — e uno dei massimi scrittori al mondo — si rivolge ora al saggista milanese Domenico Porzio (suo anfitrione per conto della Fondazione Balzan che gli ha attribuito il "Premio internazionale per la letteratura" nel 1980) ora alla giovane collaboratrice Maria Kodama che lo guida nel suo terzo viaggio in Italia del 1981. Attraverso i rami di un platano che si appoggiano contro i vetri di un'alta finestra, la luce di questo mattino di primavera scende immobile sul viso magro dalla pelle gualcita, sugli occhi chiari. Sono gli occhi di un cieco. Dei colori, dice, non mi resta che il giallo, con leggere screziature d'ombra e intanto manda in giro quei suoi occhi aperti con una curiosità tattile, quasi febbrile, che contrasta con i gesti moderati, di una contenuta affabilità da anglosassone. Fra i temi dell'incontro, Dante.


JORGE LUIS BORGES Devo anzitutto ammettere un debito. Siamo a Roma, e civis romanus sum: ecco, ho un debito verso Virgilio, sia Virgilio come autore dell'Eneide sia Virgilio come guida di Dante.

MARCELLO STAGLIENO Che cosa La colpisce di più nell'autore della Divina Commedia?

BORGES Il soffio metafisico, i simbolismi animistici tinti d'ironia nella cornice di schemi metrici: è enorme la difficoltà tecnica che Dante ha superato, la difficoltà di oltrepassare la gabbia metrica. Pensate per esempio alla simbologia del tre: nella Commedia, i versi sono terzine, il primo verso rima con il terzo e il secondo con il primo della terzina che segue. Ci vuole un talento straordinario per non trovarsi incuneati in un tale schema, che continua lungo tutta questa gigantesca opera. Infatti, tre sono le parti del poema, tre le fiere (la lonza, la lupa e il leone) che Dante incontra nell'uscire dalla selva. Si potrebbe continuare. Forse scrivendo un racconto — non l'ho mai scritto, potrei scriverlo, forse non lo scriverò mai — in chiave cabalistica, una disciplina che Dante probabilmente conosceva, come conosceva la magia. E poi come non ammirarlo in quanto narratore?

STAGLIENO In che senso?

BORGES La Commedia ha una grande struttura narrativa. Bisogna rammentare che è la summa di tutta la cultura del tempo; ho cercato di darne il senso per il nostro tempo, ma ispirandomi a Dante, con L'Aleph, che è il luogo geometrico dell'universo in cui tutto esiste, senza sovrapposizione o trasparenza. Ho costruito questo absurdum in poche brevi pagine, poiché è quello il mio temperamento. Dante invece ha costruito un edificio enorme e ha dovuto risolvere problemi di narrazione su più piani. C'è Dante che descrive l'inferno, e c'è Virgilio che spiega al lettore quello che Dante non vuole o non può dire in prima persona. E poi ci sono personaggi che parlano di sé al presente ma raccontano anche azioni compiute nel passato. Ci sono dunque almeno tre piani di narrazione, ma il lettore ha l'impressione che si svolgano tutti in un presente storico, indefinito e magico. Così come il grande Conrad, per esempio, parecchi secoli dopo, ha introdotto il narratore nel racconto, cioè Marlow, in quel viaggio agl'inferi che è Cuore di tenebra. Qui si capisce la modernità di Dante, anche sul piano tecnico.

STAGLIENO Sta scrivendo un libro su Dante?

BORGES Sì. Per essere più precisi, riunisco tutti i saggi che ho accumulato da trent'anni sulla Divina Commedia e su Dante. Il libro uscirà simultaneamente in Italia e in Spagna, spero, nel corso dell'anno. Credo di avere già molto materiale, anche se molti saggi devono essere riscritti. Ho già incominciato, ma il tempo è contro di me, sono vecchio. Tuttavia l'impresa mi entusiasma. Ci sono nella Commedia passi bellissimi. "Soli eravamo e sanza alcun sospetto" quale musicalità, quale equilibrio in questo verso su Paolo e Francesca. E anche in quello che significa. Il "sospetto" non è né il timore né l'inquietudine. Ossia: senza dubitare di essere tanto innamorati. Straordinario, vero? E più avanti: "Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante". Dante dice "riso" e non "bocca", per meglio esprimere la felicità degli amanti, la gioia sensuale... Se mi si domandasse di salvare un solo libro, sceglierei la Commedia senza esitare, anche se non sono cristiano. Non credo nella mitologia della Commedia, ma credo nei suoi versi. Con questo voglio dire che non è necessario credere, o essere cattolico, per apprezzare questa mirabile opera che è uno specchio appassionato, talvolta ragionevole e freddo, della materia interiore dell'uomo, in cui il presente si mescola al passato, nell'incubo della storia, ma sempre con la tentazione dell'assoluto. Non è straordinario tutto questo?

STAGLIENO Quante volte l'ha letta?

BORGES Almeno dieci volte. Mi ricordo benissimo quando il caso, tra i meandri della biblioteca paterna, mi mise in mano per la prima volta la Commedia. Mio padre aveva una biblioteca composta di autori inglesi, e io credevo che l'italiano — che non conoscevo, oggi ancora lo conosco pochissimo — fosse molto differente dallo spagnolo. A casa mia nessuno sapeva l'italiano. È così che ho letto Dante, la Commedia di Dante, in inglese. Con passione, seguendo anche le note, che formavano una specie di enciclopedia del Medioevo, molto seducente per me, che amo tanto le enciclopedie. Poi dalle note tornavo al testo; avevo l'impressione di scivolare dentro labirinti, tra scacchiere, specchi, magie. Sì, credo davvero che Dante fosse un appassionato di occultismo. Ma René Guénon ha torto quando afferma che Dante apparteneva ai Rosacroce. Il fatto è che i discepoli di questa setta vogliono inventarsi un passato, e dicono per esempio che anche Shakespeare fosse appassionato di occultismo, cosa falsa: ha introdotto le streghe in Macbeth unicamente per fare piacere a re Giacomo I, autore di un trattato di demonologia.

STAGLIENO Ritorniamo a Dante, alla Commedia...

BORGES Sì, alla mia prima lettura. Quando arrivai al Purgatorio, riuscii a trovare un'edizione bilingue inglese/italiano. Mi fu utilissima, al punto che mi accorsi subito che potevo fare a meno della traduzione e riuscii a leggere direttamente in italiano i versi più belli del mondo. Dopo, come ho detto, ho letto la Commedia ancora almeno altre nove volte, e in edizioni critiche differenti.

STAGLIENO Quali?

BORGES Quando ho insegnato letteratura inglese, per vent'anni, ho avuto fra le mani numerose edizioni di classici inglesi, ma nessuna edizione critica soddisfacente sulla Commedia in quella lingua. Ho consultato anche le edizioni italiane, per esempio quella di Momigliano, quella di Petrazzini e quella di Sapegno.

STAGLIENO Qual è l'edizione migliore?

BORGES Quella di Momigliano.

STAGLIENO E la peggiore?

BORGES Quella di Sapegno.

STAGLIENO Cosa pensa delle edizioni illustrate?

BORGES Conosco alcuni disegni di Blake suggestivi e visionari. Ma preferisco le illustrazioni di Doré, che è straordinario, ha una capacità d'invenzione formidabile. Basti pensare a quello che ha fatto per Don Chisciotte: le sue illustrazioni per il capolavoro di Cervantes non hanno nulla a che vedere con il testo. Quello che interessava a Doré era il paesaggio, non Cervantes. Cervantes era come un cieco dinanzi ai paesaggi e Doré con i paesaggi ha arricchito il libro. Nella Commedia di Dante, invece, ci sono molti paesaggi, e che paesaggi: Doré ha saputo coglierli sul piano plastico, ma anche magico.

STAGLIENO Pensa di farsi leggere ancora la Commedia?

BORGES La rileggo a mente, a voce alta o senza pronunciare una parola, lasciandomi scivolare nelle spirali di quei versi che traggono infinitamente verso l'infinito. Alla mia età, avrei il diritto di essere stanco. Ma, leggendo Dante, scivolo in un tempo senza tempo, e la mia immaginazione — impercettibilmente, a momenti — coglie l'eterno. Forse significa che l'Eterno esiste. Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine.

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