Copertina
Autore Nicolas Bouvier
CoautoreThierry Vernet [disegni]
Titolo La polvere del mondo
EdizioneDiabasis, Reggio Emilia, 2004, Al Buon Corsiero 17 , pag. 278, cop.fle., dim. 160x230x18 mm , Isbn 978-88-8103-356-0
OriginaleL'usage du monde
EdizionePayot, Paris, 1998
TraduttoreGiuseppe Martoccia
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe viaggi
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Indice

  7 Premessa

  9 Un odore di melone
 57 La strada d'Anatolia
 81 Il leone e il sole
 86     Tabriz - Azerbaigian
123     I turbanti e i salici
137     Tabriz II
148     Shahrah
196 Intorno al Saki Bar
225 Afghanistan
225     La strada di Kabul
236     Kabul
244     L'Indukush
257     Il castello dei pagani
263     La strada del Khyber

269 Postfazione
    «E ritrovando il vento delle strade.»
    Alcune riflessioni sulle orme
    di Bouvier viaggiatore

 

 

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Pagina 7

Premessa


Ginevra, giugno 1953. Passo di Khyber, dicembre 1954

Avevo lasciato Ginevra da tre giorni e avanzavo senza alcuna fretta quando a Zagabria, fermo posta, trovai questa lettera di Thierry:


Travnik, Bosnia, 4 luglio

«Stamattina, sole splendente, afa; sono salito tra le colline per disegnare. Margherite, freschi campi di grano, calme ombre. Ritornando, incrocio un contadino sopra un pony. Scende e m'arrotola una sigaretta che fumiamo accovacciati sul bordo della strada. Con le mie poche parole di serbo riesco a capire che sta riportando a casa dei pani, che ha speso mille dinari per una visita a una ragazza con grosse braccia e grossi seni, che ha cinque figli e tre vacche, che bisogna stare attenti al fulmine che ha ucciso sette persone l'anno scorso.

Dopo sono andato al mercato. Θ giornata: sacchi fatti con la pelle intera d'una capra, falci a farti venir voglia d'abbattere ettari di segale, pelli di volpe, papriche, fischietti, scarpe, formaggio, gioielli di latta, setacci di giunchi ancora verdi in mano a tipi baffuti per gli ultimi ritocchi, e su tutto ciò la galleria degli storpi, dei monchi, dei tracomatosi, dei vecchi tremolanti e delle stampelle.

A sera, scappo a bere un goccio sotto le acacie per ascoltare gli tzigani che, davvero, superano se stessi. Sulla via del ritorno, compro una grossa pasta di mandorle, rosa e oleosa. L'Oriente insomma!»

Diedi un'occhiata alla carta. Era una cittadina situata in un circo di montagne, nel cuore della Bosnia. Da lì, egli contava di risalire verso Belgrado dove l' Associazione dei pittori serbi lo invitava a esporre. Avrei dovuto raggiungerlo negli ultimi giorni di luglio con il bagaglio e la vecchia Fiat che avevamo rimesso a posto, per continuare poi verso la Turchia, l'Iran, l'India, e forse ancora più in là... Avevamo davanti a noi due anni e soldi per quattro mesi. Il programma era vago, ma in casi simili, l'essenziale è partire.

Θ la contemplazione silenziosa degli atlanti, su un tappeto, a pancia in giù, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto. Ci si ritrova a pensare a regioni come il Banato, il Kashmir, o il Caspio; alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che si incontrano, alle idee che vi aspettano... Quando poi il desiderio resiste ai primi attacchi del buon senso, si inventano delle scuse. Ma non ne trovate che da quattro soldi. La verità è che non sapete come chiamare ciò che vi spinge. Qualcosa in voi cresce e molla gli ormeggi, fino al giorni in cui, senza tante sicurezze, partite per davvero.

Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi sfa.

... Sul retro della busta c'era anche scritto: «la mia fisarmonica, la fisarmonica, fisarmonica!»

Buon inizio. Anche per me. Stavo lì in un caffè nella periferia di Zagabria, senza alcuna fretta, davanti a un bicchiere di vino bianco col selz. Guardavo cadere la sera, svuotarsi una fabbrica, passare un funerale – piedi nudi, scialli neri e croce in ottone. Due ghiandaie litigavano tra le foglie d'un tiglio. Coperto di polvere, con un peperone mezzo rosicchiato nella destra, ascoltavo in fondo a me stesso il giorno precipitare gioiosamente come una scogliera. Mi stiracchiavo, seppellendo a litri l'aria nei polmoni. Pensavo alle proverbiali nove vite dei gatti; e avevo proprio l'impressione d'entrare nella seconda.

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Pagina 27

Era quasi notte quando raggiungemmo Bogoiévo. Il villaggio, ricco e silenzioso, s'arroccava attorno a una pesante chiesa imbiancata di fresco a calce. Non c'erano luci, tranne nella locanda, dalla quale pervenivano i colpi smorzati d'un'ultima partita di bigliardo. Nella sala, tre contadini vestiti di nero, senza scambiarsi parola, combinavano colpi rapidi, abili, e la loro ombra danzava ingigantita sul muro bianco. Di fronte al crocifisso un vecchio ritratto di Lenin – Lenin con una cravatta alla lavallière – pendeva attaccato sopra la cassa. A un tavolo, tutto solo, un pastore con un cappotto di pelliccia, intingeva del pane nella minestra. L'insieme era nel complesso assai singolare, ma non v'era traccia di zingari. C'eravamo sbagliati di Bogoiévo; c'erano due villaggi vicini: Bogoiévo-dei-contadini e Bogoiévo-degli-zingari. Un lato Ramuz e un lato Stravinski che oltretutto non sembrava andassero tanto d'accordo. I tre giocatori interrogati sulla soglia ci indicarono con un gesto vago un meandro del Danubio che brillava a un tiro di schioppo. Il nostro sbaglio li avviliva. Il tempo di prendere l'unica camera dell'albergo ed eravamo ripartiti.

Dietro l'argine del fiume, Bogoiévo-degli-zingari dormiva già; ma, a pochi passi dal campo, sul limitare d'un ponte spezzato in due, in una capanna coperta di vilucchio, vi scoprimmo qualcuno dei suoi uomini che passava la notte a bere e a cantare. Dalla cucina illuminata da un lume a petrolio saliva una musica d'una gioiosità canaglia. Ci spingemmo più vicino per sbirciare dalla finestra: vicino al lume, un pescatore sventrava delle anguille, mentre una grossa contadina roteava a piedi nudi tra le braccia d'un soldato. Seduti in fila dietro una tavola ingombra di litri mezzo vuoti, cinque zingari sulla quarantina, cinque zingari sudici, vestiti di stracci, dall'aria scaltra, distinti, grattavano i loro strumenti rattoppati e cantavano. Facce con larghi zigomi, capelli neri, lisci, lunghi sulla nuca. Facce asiatiche, ma familiari a tutte le strade e stradine d'Europa, di quelle che nascondono un asso di fiori assieme a una via di fuga in fondo ai loro feltri tarlati. Θ raro sorprendere degli zingari nel loro rifugio; questa volta non potevamo proprio lamentarci, era davvero la tana.

Appena comparsi sulla porta, la musica cessò di colpo. Avevano posato gli strumenti e ci fissavano stupefatti e diffidenti. Noi eravamo i nuovi arrivati in quelle campagne dove non succedeva mai nulla; dovevamo mostrarci in regola. Ci sedemmo dunque al loro tavolo che rifornimmo di vino, di pesce affumicato, di sigarette. Quando il soldato scomparve assieme alla ragazza si misero di nuovo a loro agio, comprendendo che così tra di noi eravamo tutti di specie vagabonda, e si misero con civetteria a ripulire i piatti. Tra un boccone e l'altro, parlavamo: in francese a Mileta, che si rivolgeva in serbo all'oste, che traduceva in ungherese agli zingari; e ritorno. L'atmosfera era ridiventata cordiale. Avviai il registratore e la musica ricominciò.

Di solito gli zingari suonano melodie proprie al folklore della provincia in cui si trovano; zardas in Ungheria, oros in Macedonia, kolo in Serbia. Prendono in prestito la musica così come tante altre cose, e la musica è senza dubbio la sola tra queste che poi restituiscono. Si sa però che esiste un repertorio propriamente tzigano sul quale sono assai riservati e che si sente raramente. Ma quella sera, nel loro covo e su quegli strumenti rattoppati alla meglio, era proprio la loro musica che suonavano. Vecchie nenie lamentose che i loro cugini di città hanno dimenticato da un pezzo. Canzoni consunte, eccitate, vociferanti che raccontano in lingua romani i casi della vita quotidiana: piccoli furti, colpi di fortuna, cieli stellati e pance vuote...

Jido helku peru rosu
Fure racca siku kosu
Jido helku peru krec
Fure racca denkucec

Jano ole! Jano ule!
Supilecu pupi sore...

L'ebreo dalla zazzera rossa
Ruba un gallo rosso e un'anatra
L'ebreo rosso coi suoi riccioli,
Ruba un'anatra in un angolo.

Tu gli hai già spiumato le zampe
Per tua madre che le mangerà,
Più tenere che il cuore di rose rosse.
Olé Janos! Olé...

Ascoltavamo. E mentre Janos scompariva con i suoi volatili spiumati, e gli zingari ne ritmavano la fuga su quei violini improvvisati con una turbolenza di ragazzini, un mondo antico usciva dall'ombra. Notturno e rustico, rosso e blu. Pieno d'animali succulenti e sagaci. Mondo d'erba medica, di neve e di capanne disunite dove il rabbino in caffetano, gli zingari vestiti di stracci e il pope dalla barba caprina si sussurravano le loro storie attorno al samovar. Un mondo di cui con disinvoltura i nostri suonatori variavano le sfumature, passando senza avvertimenti da una gaiezza canaglia a colpi d'archetto strazianti.

Tote lume zisi mie, Simiou fate de demkonsie... – eppure tutti m'avevan consigliato: sposa la figlia del vicino...

La fresca sposa è forse stata con un altro? Era forse meno vergine di quanto s'assicurava? Poco importava la storia; a un tratto sentivano d'essere tristi e qualsiasi tema sarebbe stato adatto. Il tempo di qualche sigaretta, e avrebber fatto gemere le loro corde per il semplice gusto di rivoltarsi l'anima.

Languore assolutamente provvisorio. L'istante successivo, i due più accaniti, che noi avevamo con ogni riguardo relegato – a causa della registrazione – dietro i loro colleghi, attaccavano con un ritmo infernale. Un ritorno a questo modo più focoso era da temere e si produsse in effetti quando noi stavamo per andarcene, senz'alcun riguardo per il pescatore e proprietario della capanna che sbadigliava in un angolo, con le mani sugli occhi.

Era tardi quando le campane della messa domenicale rapidamente ci svegliarono suonando a distesa. I colombi becchettavano nel cortiletto della locanda, il sole era alto. Sulla piazza, un caffelatte, preso in larghe tazze dal bordo dorato, osservando le donne che camminavano verso la chiesa, tutta tappezzata d'orifiamme. Indossavano scarpette, calze di filo bianco, gonne ricamate e allargate come corolle, gonfie di sottane di pizzo, corpetti coi lacci e, in cima allo chignon, un fiotto di nastrini fissati a una calottina. Belle e slanciate, d'un solo getto.

– Si serrano tanto la vita, ci sussurrò il locandiere, che ogni domenica si contano due o tre svenimenti prima dell'Elevazione.

E abbassava la voce con rispetto. Occorre davvero che una civiltà contadina sia nel fiore del suo sviluppo per parlarvi delle donne con questo tono di mistero. Con le sue ragazze abbronzate, la biancheria fresca inamidata, i cavalli al pascolo e la vicinanza degli zingari a far da lievito a questa pasta, Bogoiévo-dei-contadini aveva certo di che essere felice.

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Pagina 236

Kabul


Quando il viaggiatore venuto dal sud scorge Kabul, la sua cinta di pioppi, le montagne viola fumiganti d'un sottile strato di neve e gli aquiloni che si librano nel cielo autunnale sopra il bazar, pretende di essere arrivato in capo al mondo. Ne ha invece appena raggiunto il centro, ed è ciò che afferma persino un imperatore.


«Il principato di Kabul è situato nel quarto clima e si trova perciò nel centro del mondo abitato... Le carovane che provengono dal Kashgar, da Fergana, dal Turkestan, da Samarcanda, da Bukkara, da Balkh, dal Badakhshan raggiungono tutte quante Kabul... Kabul è il punto di mezzo tra l'Hindustan e il Khorasan, e ospita uno dei più vantaggiosi mercati di queste zone. Quand'anche suoi commercianti facessero il viaggio del Cathay o del Ruin (della Cina o dell'Asia Minore) non riuscirebbero a realizzare profitti migliori... ci sono a Kabul molti mercanti che non si contentano d'un guadagno di trenta o quaranta su dieci.

I frutti a Kabul città e nei villaggi del circondario sono l'uva, le melagrane, le albicocche, le mele, le mele cotogne, le pere, le pesche, le susine, le mandorle; abbondano le noci. I vini danno subito alla testa... Il clima di Kabul è delizioso e non c'è altro paese del mondo sotto tale aspetto che possa esserle comparato. Samarcanda e Tabriz sono rinomate per lo stesso motivo, ma ogni tanto vi fa anche freddo...

La popolazione del principato di Kabul è molto varia: nelle vallate e nelle pianure ci sono turchi, aimak e arabi. Nelle città, in maggioranza si trova la popolazione dei sarti; in altri villaggi del distretto vivono anche tagichi bereki, afghani. Si parlano, nel principato, circa undici o dodici lingue, come l'arabo, il persiano, il turco, il mongolo, l'hindi, l'afghano... in nessun altro paese del mondo si ritrova una simile diversità di popolazioni e d'idiomi...»


Già che c'è, l'imperatore Bàbur enumera anche le trentatré specie di tulipani selvatici che crescono sulle colline attorno alla città, e i numerosi ruscelli ch'egli stima in termini di "mulino", mezzo-mulino, un quarto di mulino. Ma non si ferma neppure a tanto, e il suo minuzioso inventario prosegue su almeno altre dieci pagine delle Memorie ch'egli redasse in turco giakatai dopo essersi rifugiato nel paese di Kabul (1501) ed esservisi imposto quasi senza colpo ferire. A quel tempo non aveva ancora vent'anni, e la vita non era stata certo generosa con lui: alcuni parenti l'avevano spogliato dell'appannaggio di Fergana; i principi uzbeki di Samarcanda gli davano la caccia; lui stesso si logorava ormai da anni a ordire sterili e infruttuosi intrighi, a radunar partigiani, battersi, fuggire senza posa, dormire all'addiaccio sotto il fiato dei cavalli e con la compagnia di pochi fedelissimi.

A Kabul, per la prima volta, poté dormire tranquillamente. La città gli piacque subito moltissimo. Egli ne riparò la cinta muraria, vi sistemò dei giardini, aumentò il numero dei bagni turchi, fece scavare delle fontane – in ossequio alla passione musulmana per l'acqua corrente – e piantare nuove vigne per quelle bevute che tanto gli piacevano.

Dovette trascorrere lunghe giornate a cavalcare, col falcone sul pugno, in quei frutteti del Kabulistan pieni di pernici e di tordi; e delle serate ancora più deliziose, seduto sopra un melo o sul tetto piatto d'una piccionaia, a fumare hascisc aspettando la notte, scambiare indovinelli ed epigrammi con il più sveglio dei suoi compagni, o a inventare con qualche fatica dei bei versi – in virtù di quel gusto persiano del "saper ornato" così caro ai Timuridi – per non dover arrossire davanti al suo vicino, il principe d'Herat, la cui corte era tanto letterata «che non ci si poteva metter piede senza pestare le natiche di un poeta». Tal genere di ricordi legano intensamente a un luogo; e quando Bàbur si fu ritagliato nell'India un impero alla sua altezza, le rendite di due miliardi e cinquecento milioni di rupie – e qui noi spalanchiamo tanto d'occhi – non lo consolarono d'aver lasciato Kabul. Tutti i suoi soldati, e lui per primo, ne avevano nostalgia. Si affrettò del resto a inviarvi due cavalieri incaricati di misurare la distanza esatta che divideva Kabul da Agra, e organizzare, lungo tutto il percorso, un cambio di cavalli e di cammelli che permettessero di percorrerlo più velocemente. Per anni si fece dunque istradare verso la nuova capitale del vino d'Afghanistan, e dei meloni il cui profumo lo faceva «piangere proprio sul serio». Ma troppe questioni lo trattenevano in India perché egli potesse rivedere mai Kabul. Non vi ritornò che da morto. La sua tomba è situata in un giardino ad ovest del bazar, all'ombra di giganteschi platani.

Θ un privilegio per una città l'ammaliare così un uomo di tal sorta. Fino all'irragionevolezza. Lui, di solito così circospetto, riporta candidamente nel suo scritto tutte le favole e le leggende che la riguardano: Caino l'avrebbe costruita con le sue mani, Lemek, padre di Noè, vi sarebbe sepolto, Faraone l'avrebbe popolata con la sua discendenza...

Ma quanto al «centro del mondo», dobbiamo proprio dargli ragione. Questa pretesa, formulata in ogni dove, per una volta si trovava ad essere giustificata. Per secoli la provincia di Kabul, che domina i valichi dell'Indukush e quelli che discendono verso l'India, ha funzionato da setaccio tra le culture dell'India, dell'Iran ellenizzato e, attraverso l'Asia centrale, della Cina. Non è certo un caso che i Diadochi, che vi si sono trattenuti così a lungo, tributassero un culto all' "Θcate-a-tre-teste" che è la dea degli incroci; e quando all'alba dell'era cristiana, Hermaios, l'ultimo reuccio greco d'Afghanistan, incide il diritto delle sue monete in scrittura indi e il rovescio in cinese, questo crocevia pare sul serio diventare quello del "mondo abitato".

D'altronde, quale movimento, e quanta gente di passaggio, dal tempo dei macedoni di Alessandro, che inneggiano a "Dioniso" a ogni arpento di vigna incontrato e credono già di esser tornati a casa! I cinquecento elefanti che Seleuco Nikator ha comprato in India per battere i suoi rivali dell'ovest; carovane cariche d'avorio lavorato, di vetri di Tiro, di profumi e cosmetici iraniani, di dozzinali statuette di Sileno o di Bacco fabbricate in serie e provenienti dagli atelier dell'Asia Minore; cambiavalute, usurai, zingari; il Re Mago Gaspare, forse - un re indo-parto del Punjab di cui i redattori degli Atti di san Tommaso avrebbero storpiato il nome; nomadi sciiti o kushan, scacciati dall'Asia centrale, che arrivano a briglie sciolte e s'affrettano, per la gioia degli archeologi e dei numismatici, a seppellire disperatamente i loro gruzzoletti. Altri mercanti. Un semplice curioso come ce ne saranno in ogni tempo, seguito da un domestico e che prende appunti (che un giorno forse saranno ritrovati). Nessuno storico, purtroppo. Buddisti cinesi che, borbottando, tornano a casa dal loro pericoloso pellegrinaggio in India, coi bagagli zeppi di testi sacri. Altri nomadi, degli Unni questa volta, che fanno l'effetto di bruti ai primi, che nel frattempo si sono civilizzati...

Poi l'Islam rigido e senza memoria. Correva il VII secolo. In seguito, questo crocevia ne vedrà passare molti altri; ma io mi fermo qui. Che il viaggiatore di oggi, conscio di arrivare dopo tutta questa gente, si presenti dunque con la dovuta modestia, e senza sperare di stupire nessuno. In questo modo sarà ricevuto con ogni riguardo dagli afghani, la maggior parte dei quali, del resto, ha completamente dimenticato la propria storia.

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