Autore Emmanuel Bove
Titolo I miei amici
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015 [1991], UE Classici 8520 , pag. 156, cop.fle., dim. 13x20x1,2 cm , Isbn 978-88-07-88520-4
OriginaleMes amis [1924]
PrefazioneBeppe Sebaste
TraduttoreBeppe Sebaste
LettoreGiovanna Bacci, 2015
Classe narrativa francese












 

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Indice


        I MIEI AMICI

    9     I.

   23    II.  Lucie Dunois

   28   III.  Henri Billard

   65    IV.  Neveu, il marinaio

   80     V.  Monsieur Lacaze

  114    VI.  Blanche

  123   VII.  Un altro amico

  143  VIII.

  149         Postfazione
              di Beppe Sebaste
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Pagina 9

I



1
Quando mi sveglio, la mia bocca è aperta. I denti sono unti: lavarli la sera sarebbe meglio, ma non ne ho mai il coraggio. Agli angoli delle palpebre mi si sono asciugate delle lacrime. Le spalle non mi fan più male. Una ciocca di capelli induriti mi copre la fronte. Li butto all'indietro con le dita aperte. È inutile: come pagine di un libro nuovo, si raddrizzano e mi ricadono sugli occhi.

Quando abbasso la testa sento che la barba mi è cresciuta: mi punge il collo.

La nuca tiepida, resto lì sulla schiena con gli occhi aperti, le lenzuola tirate fino al mento perché non si raffreddi il letto.

Sul soffitto ci sono macchie di umidità: è così vicino al tetto. Sotto la carta da parati, in certi punti passa dell'aria. I mobili assomigliano a quelli esposti dai robivecchi lungo i marciapiedi. Il tubo della stufa è fasciato da uno straccio, come un ginocchio. In alto, sopra la finestra, un avvolgibile rotto pende di traverso.

Quando mi allungo, sento contro la pianta dei piedi le sbarre verticali del letto, come un equilibrista sulla corda.

I vestiti, che mi pesano sopra le gambe, sono tiepidi e piatti da una parte soltanto. I lacci delle scarpe sono senza punte.

Se piove la camera diventa fredda. È come se non ci avesse dormito nessuno. L'acqua, scivolando per tutta la superficie del vetro, corrode lo stucco e forma una pozzanghera per terra.

Quando il sole sfavilla da solo nel cielo, proietta la sua luce dorata al centro della stanza. Allora le mosche tracciano sul pavimento mille linee rette.


Ogni mattina, la mia vicina canta senza le parole mentre sposta i mobili. La sua voce è attutita dalle pareti. Ho l'impressione di essere dietro a un grammofono.

Spesso la incrocio nelle scale. Fa la lattaia. Alle nove torna per riordinare la casa. Il feltro delle sue pantofole è macchiato da gocce di latte.

Mi piacciono le donne in pantofole: le gambe hanno l'aria più indifesa.

In estate le si vedono le mammelle e le spalline della sottoveste, sotto la camicetta.

Le ho detto che l'amavo. Lei ha riso, sicuramente perché non ho un bell'aspetto e sono povero. Preferisce gli uomini che portano un'uniforme. L'hanno vista: aveva una mano sotto il cinturone di una guardia repubblicana.

Un vecchio occupa un'altra stanza. È ammalato gravemente: tossisce. Sulla punta del suo bastone c'è un pezzo di gomma. Le scapole gli fanno due gobbe sulla schiena. Ha una vena in rilievo che gli attraversa la tempia, tra l'osso e la pelle. La giacca non gli tocca più le anche: saltella come se le tasche fossero vuote. Il pover'uomo sale i gradini uno per volta, senza lasciare mai la ringhiera. Quando lo vedo inspiro quanta più aria possibile, per oltrepassarlo senza dover riprendere fiato.

La domenica viene a trovarlo sua figlia. È elegante. Le fodere del suo paltò sembrano le piume di un pappagallo. Sono così belle che mi chiedo sempre se non sia alla rovescia. Quanto al cappello, esso ha un grande valore perché, quando piove, lei viene sempre in taxi. Questa signora sa di profumo, di profumo vero, non quello che vendono nei flaconcini di vetro.

Gli inquilini della mia casa la odiano. Dicono che, invece di fare la bella vita, sarebbe meglio che togliesse il padre dalla miseria.

Anche la famiglia Lecoin abita sul mio pianerottolo.

La mattina presto fanno suonare una sveglia.

Al marito io non piaccio. Però con lui sono gentile. Ce l'ha con me perché mi alzo tardi.

Con gli abiti da lavoro avvolti sotto il braccio, tutte le sere torna a casa verso le sette, fumando una sigaretta inglese - ciò che fa dire alla gente che gli operai si guadagnano bene da vivere.

È alto e muscoloso. Basta un complimento per servirsi della sua forza. L'anno scorso ha portato giù il baule della signora del terzo piano, anche se a fatica, perché il coperchio non si chiudeva.

Quando qualcuno gli rivolge la parola si mette a fissarlo, perché immagina che voglia prenderlo in giro. Al minimo sorriso dice:

"Lei sa... quattro anni di guerra... io. I tedeschi non me l'hanno fatta... Non sarà mica lei a farmela...".

Un giorno, passandomi vicino ha detto sottovoce: "Fannullone!". Sono diventato pallido e non ho saputo che cosa rispondere. La paura di avere un nemico m'impedì di dormire per una settimana. Pensavo che mi volesse picchiare, che mi odiasse a morte.

Eppure, se solo il signor Lecoin sapesse come amo i lavoratori, come ho compassione della loro vita. Se sapesse quante privazioni mi costa la mia piccola indipendenza.

Ha due figlie che picchia soltanto con le mani, per il loro bene. Dietro le ginocchia hanno dei tendini. Il loro cappello è tenuto da un elastico.

Mi piacciono i bambini, così, quando incontro quelle due monelline, rivolgo loro la parola. Allora camminano all'indietro, e bruscamente, senza rispondermi, si mettono a scappare.

Ogni martedì la signora Lecoin lava le scale. Il rubinetto scorre tutto il giorno. Man mano che le brocche si riempiono cambia il rumore. La sottana della signora Lecoin è fuori moda. La sua crocchia è così stretta che si vedono tutte le forcine. Spesso fissa lo sguardo su di me, però io non mi fido, perché è molto probabile che voglia tendermi una trappola. D'altronde è senza petto.

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Pagina 65

IV
Neveu, il marinaio



Mi piace vagare sulla riva della Senna. I depositi di merci, le darsene, le chiuse mi fanno pensare a dei porti lontani in cui vorrei abitare. Vedo, con la fantasia, delle ragazze e dei marinai che danzano, delle bandierine, delle navi immobili con alberi senza vele.

Queste visioni non durano molto.

I lungosenna di Parigi mi sono troppo familiari: assomigliano solo per un istante alle città brumose dei miei sogni.


In un pomeriggio di marzo passeggiavo lungo il fiume.

Erano le cinque. Il vento mi sollevava i lembi del soprabito come se fosse una gonna, e mi costringeva a tenere il cappello con le mani. Ogni tanto, più rapide della corrente, passavano sull'acqua le vetrate di un vaporetto. Senza muovere la testa, si vedeva la torre della gare de Lyon, con gli orologi già illuminati. Quando cessava il vento, l'aria aveva l'odore di un torrente in secca.

Mi fermai e, coi gomiti appoggiati sul parapetto, guardai tristemente davanti.

Il fumaiolo dei rimorchiatori, prima dei ponti, cascava all'indietro. Dei cavi tesi collegavano al centro le chiatte abitate. Una lunga passerella di legno univa una zattera alla terraferma.

L'operaio che vi si avventurava sopra rimbalzava a ogni passo, come su un letto a molle.


Non avevo intenzione di morire, ma ispirare compassione mi è spesso piaciuto. Appena si avvicinava un passante, mi nascondevo la faccia nelle mani e tiravo su col naso, come qualcuno che ha pianto. La gente, allontanandosi, si voltava.

La settimana scorsa, per sembrare sincero, c'è mancato poco che mi buttassi nell'acqua.


Contemplavo il fiume, pensando a tutte le monetine galliche che dovevano trovarsi sul fondo, quando una pacca sulla spalla mi fece sollevare i gomiti, d'istinto.

Mi girai, un po' imbarazzato di avere avuto paura.

Di fronte a me c'era un uomo con un berretto da marinaio, un mozzicone sotto i baffi e una piastrina di riconoscimento arrugginita al polso.

Poiché non l'avevo udito arrivare gli guardai i piedi: calzavano delle espadrillas.

"Lo so che vuole morire," mi disse.

Non risposi: il silenzio mi rendeva interessante.

"Lo so."

Alzai gli occhi più in alto possibile, per farli piangere.

"Sì, lo so."

Visto che i miei occhi non piangevano, li chiusi. Ci fu un silenzio, poi mormorai:

"È vero, voglio morire".

La notte stava calando. I lampioni a gas si accesero da soli. Il cielo era illuminato solo da una parte.

Lo sconosciuto si avvicinò e mi disse in un orecchio:

"Anch'io voglio morire".

Pensai dapprima che scherzasse; ma, tremandogli le mani, ebbi improvvisamente il timore che fosse sincero, e che mi invitasse a morire con lui.

"Sì, voglio morire," ripeté.

"Su, andiamo!"

"Voglio morire."

"Bisogna sperare nell'avvenire."

Mi piacciono le parole "sperare nell'avvenire" e "avvenire", nel silenzio della mia mente, ma appena le pronuncio mi sembra che non abbiano più senso.

Pensai che il marinaio sarebbe scoppiato a ridere. Non batté ciglio.

"Bisogna sperare."

"No... no..."

Cominciai a parlare senza sosta per dissuaderlo dal morire.

Non mi ascoltò. Il corpo eretto, la testa abbassata e le braccia penzoloni, aveva l'aria di un banchiere in rovina.

Per fortuna sembrava avesse dimenticato che avevo avuto anch'io l'intenzione di uccidermi. Mi guardai bene dal ricordarglielo.

"Andiamo via," dissi, nella speranza di lasciare il lungosenna.

"Sì, andiamo sulla sponda."

Prima la pietra del parapetto mi aveva gelato i gomiti. Adesso il freddo mi pervadeva il corpo.

"Sulla sponda?" chiesi.

"Sì, bisogna morire."

"Adesso è troppo buio. Torneremo domani."

"No, oggi."

Scappare sarebbe stato vile. La mia coscienza me l'avrebbe rimproverato tutta la vita. Non si deve lasciare morire qualcuno. Il mio dovere era di salvare quell'uomo. Ma, restando lì, avrebbe pensato che volessi annegarmi, e se all'ultimo istante avessi rifiutato sarebbe stato capace di costringermi. I marinai sono abituati a tirare le barche con un cavo. Per loro, tirare un uomo col braccio doveva essere facilissimo.

"È meglio tornare a casa, amico mio."

Il disperato alzò la testa. Indossava una giubba da soldato inglese, senza bottoni. Sicuramente li aveva dati via. Sotto la giubba, un maglione col collo spianato gli faceva dei cuscinetti sul ventre. Al posto di un dente, ne aveva due. Dalle orecchie gli spuntavano dei peli, e si sarebbe potuto contarli. Una bottiglia da un litro, col tappo nuovo, gli sporgeva a metà da una tasca.

Mi prese per il braccio e mi trascinò verso una scaletta. Abbassando lo sguardo vidi l'argine del fiume, tra i gradini di ferro.

Scesi lentamente, appoggiando entrambi i piedi su ogni scalino prima di avanzare, come uno che ha la gamba di legno.

Mi tenevo alla ringhiera piatta e sottile e, per ritardare il suicidio, facevo finta di avere paura di cadere.

Le dita del marinaio affondavano tra il mio bicipite e l'osso. Ogni tanto, per liberarmi, alzavo il braccio: era inutile.

Sull'argine c'era un mucchio di sabbia appuntito, degli attrezzi del comune di Parigi, una garitta e una carriola legata con una catena. Vidi il disotto oscuro di un ponte, e il tetto degli autobus che passavano sul lungosenna. Delle correnti d'aria mi premevano la schiena.

"In due si muore più facilmente," osservò il mio vicino.

Senza alcun dubbio quel marinaio aveva deciso di annegarsi. Pensava che io lo avrei seguito. Avrei voluto che continuasse a crederlo: non è bello essere sospettati dalla gente di avere paura della morte.

Stavamo sul bordo della Senna come sul bordo di uno stagno. Non c'erano più parapetti. Il fatto di trovarmi così vicino al fiume mi stupì. Chi avrebbe pensato, vedendo scorrere la Senna tra le case, sotto i ponti di pietra, che si sarebbe potuto venirle così vicino.

Mio malgrado, come mi accade sempre quando vedo una distesa d'acqua, pensavo al fatto che non sapevo nuotare.

"Andiamo più lontano," disse lo sconosciuto, "la corrente ci porterebbe contro gli archi del ponte."

Approvai subito.

Un tram fece tremare la volta del ponte. Ebbi paura che crollasse. Tutte le volte che passo sotto un ponte provo lo stesso timore. La ghiaia scricchiolò sotto i nostri piedi come zucchero tritato.

"Ma perché ci tiene tanto a morire?" domandai.

"Sono tre giorni che non mangio. Non so dove dormire."

"Ci sono gli ospizi."

"Mi conoscono troppo bene. Non mi ci vogliono più."

Dei riflessi di luce si conficcarono a picco nella Senna. La superficie del fiume era agitata come se sott'acqua ci fossero delle foche. Sull'altra riva, a causa dell'ombra, le case davano l'impressione di scendere fino al fiume, come a Venezia.

"Coraggio, andiamo," disse il marinaio. "È un brutto momento da passare. Poi, però, il riposo eterno."

"Ne è sicuro?"

"Sì... andiamo... coraggio."

La sua mano, che mi stringeva sempre lo stesso punto, mi dava la stessa paura di un granchio invisibile che ci pizzichi un piede.

"Mi lasci, prima."

Io non volevo uccidermi, ma se mi fossi deciso a farlo non avrei voluto che qualcuno mi tenesse. Occorre tutta la propria indipendenza per uccidersi. Il suicidio non è la morte. Contrariamente a quello che mi aspettavo, lo sconosciuto ubbidì subito.

L'aria riprese a girarmi nei polmoni, come se invece di lasciarmi il braccio mi avesse lasciato la gola.

Il marinaio si chinò e, con due dita rigide, misurò la temperatura dell'acqua.

"Un po' fredda," disse asciugandosi.

"Bene, torneremo un'altra volta."

"No, bisogna farla finita."

Tutta la vita, per colpa della mia solitudine, mi sono trovato in situazioni analoghe. Vorrei che qualcuno si occupasse di me, che mi volesse bene. Siccome non conosco nessuno, cerco di attirare l'attenzione per strada, perché solo lì posso farmi notare.

Il mio caso assomiglia a quello di un mendicante che, in pieno inverno, canta su un ponte a mezzanotte. I passanti non offrono niente, perché trovano quel modo di chiedere l'elemosina troppo teatrale. Allo stesso modo, vedendomi appoggiato coi gomiti a un parapetto, triste e sfaccendato, i passanti intuiscono che sto recitando una commedia. Hanno ragione. Però, non pensate sia comunque una situazione ben triste quella di mendicare a mezzanotte sopra un ponte, o di appoggiarsi coi gomiti a un parapetto per interessare la gente?

Il marinaio si riempiva le tasche di sassi per andare a fondo più in fretta.

"Faccia come me," disse.

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Pagina 94

A mezzogiorno arrivai sui viali esterni. Avevo fame, e per essere ancora più affamato andavo apposta a zonzo.

Ogni cinquanta metri si susseguivano degli alberi esili, senza le foglie, senza corteccia, legati a un palo da una corda e piantati in un buco senza recinzione. Tra un albero e l'altro c'era una di quelle panchine marroni su cui si è costretti a rimanere dritti. Qua e là, una baracca Vilgrain vuota, dei gabinetti pubblici con manifesti d'anteguerra, uno straniero che apre una pianta della città oppure che consulta una guida turistica, riconoscibile dal bordo.

Mi fermai davanti a ogni ristorante, per leggere il menù ciclostilato incollato su un vetro.

Finalmente entrai in un ristorante mezzo nascosto da delle casse di arbusti.

A causa delle tovaglie non si vedevano le gambe dei tavoli. C'erano delle persone, degli specchi che si riflettevano gli uni negli altri fino a diventare troppo piccoli, dei cappelli obliqui sugli attaccapanni e una cassiera su uno sgabello troppo alto.

Mi sedetti. L'oliera, il menù in piedi tra due bicchieri, una caraffa di vetro sfaccettata e un cestino di pane mi stavano a portata di mano.

Di fronte a me, un signore che aveva pertanto un'aria rispettabile, disegnava delle donne nude per il piacere di annerirvi un triangolo nel mezzo. Più lontano, una signora si puliva i denti con una spilla; io, questo, non avrei mai potuto farlo.

"Rose, il conto," gridò un cliente che mi sembrava avesse una voce strana, di sicuro perché non l'avevo mai sentita.

La cameriera si avvicinò col suo grembiule bianco, la matita nei capelli e le forbici per l'uva.

La guardai. Le gambe le salivano su per la gonna. I seni erano troppo bassi. La gola le si schiariva sul bordo della camicetta. Quando si allontanò, portando con sé i piatti sporchi, il corpo mi sembrò più indifeso, la nuca più intima, perché la vedevo di schiena.

Finalmente si occupò di me; mi portò, in rapida successione, un litro di vino, una sardina senza la testa, una fetta di arrosto con un pezzo di spago, un purè rigato con la forchetta.

Un nuovo cliente mi si sistemò accanto. Dovetti mangiare coi gomiti stretti contro il corpo, il che è sgradevole. Ordinò una bottiglia d'acqua di Vichy. Scrisse il suo nome sull'etichetta, perché non la beveva tutta lo stesso giorno.

Un mendicante entrò nel ristorante, ma non ebbe il tempo di fare la questua, perché la cameriera lo cacciò con lo strofinaccio, come all'epoca in cui, ragazza di campagna, spaventava le oche gesticolando.

Il mio piatto, asciugato con la mollica, aveva dei riflessi di grasso.

Gridai, così come avevo sentito fare:

"Rose, il conto".

La cameriera scarabocchiò delle cifre sul retro di un menù, poi per darmi il resto tenne fra i denti la banconota che le avevo dato.

Anche se un po' brillo, uscii con la goffaggine di un uomo nudo.

Dopo aver comprato delle sigarette High Life, che malgrado il nome costano solo un franco, entrai in un bar.

Un vapore leggero scappava fischiando da una macchina da caffè nichelata. Un cameriere, avvolto in un grembiule bianco, asciugava con un panno l'impronta dei bicchieri sui tavoli tondi. I cucchiaini risuonavano contro le tazzine spesse come monete false.

Poiché non mi piace guardarmi di profilo, mi sedetti in modo da vedere in uno specchio un altro specchio che riflettesse la mia immagine.

Quattro donne che fumavano stavano sedute a un tavolo. Le loro camicette erano tinte a mano col colorante in bottiglia. Una di loro aveva uno di quei cappotti su cui si soffia per sapere se è di lontra.

Esattamente quella si alzò e, col cappotto aperto e la sigaretta tra le dita allungate, venne verso di me. I tacchi delle sue scarpe erano troppo alti. Avanzava come qualcuno che cammina sulla punta dei piedi.

Si sedette accanto a me.

La sua bocca sembrava disegnata sulla pelle, tanto il contorno era netto. La cipria, più granulosa vicino alle narici, aveva un buon odore. Sulle labbra aveva un po' dell'oro che ornava la punta della sua sigaretta.

Incrociò le gambe con disinvoltura, come un uomo. Notai che le sue calze bianche erano nere sull'osso della caviglia.

"Allora, che cosa mi offri, mio caro?"

Dopotutto, per una volta potevo dimenticare i miei dolori e divertirmi.

"Quello che vorrà."

Il cameriere, che non sembrava trovare strano l'atteggiamento della donna, si avvicinò.

"Un benedettino, Ernest."

"Bene, e lei, signore?"

"Niente... grazie... ho già preso un caffè," dissi mostrando la tazzina.

"Su, caro, andiamo... prendi qualcosa con me."

"Sì... se vuole... un benedettino."

Quando la mia vicina ebbe bevuto il suo liquore si alzò e, dopo aver cercato il cappello nel posto in cui era seduta prima, mi pregò di aspettarla.


Aspettai fino alle sei. Non tornò: mi aveva preso in giro.

Chiamai il cameriere e, mentre pagavo, senza che me lo avesse chiesto gli spiegai che un violento mal di testa mi aveva costretto a rimanere lì.

Poi uscii. Fu solo dopo essermi aggirato una mezz'ora attorno a quel bar che riuscii ad allontanarmi.

La notte stava calando. L'aria era pesante. Le strade avevano l'odore di catrame, come quando fanno dei lavori. Avevo la sgradevole sensazione di essermi alzato da tavola mentre la gente si preparava ad andarci.

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