Autore T. Coraghessan Boyle
Titolo Gli amici degli animali
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014, I Narratori , pag. 464, cop.fle., dim. 14x22x3 cm , Isbn 978-88-07-03116-8
OriginaleWhen the killing's done [2011]
TraduttoreAndrea Buzzi
LettoreDavide Allodi, 2015
Classe narrativa statunitense , mare












 

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Indice


     Parte I — Anacapa

 15  Il naufragio del Beverly B.
 36  Rattus rattus
 58  Il naufragio del Winfield Scott
 92  Il Paladin
122  Boiga irregularis
154  Coches Prietos

     Parte II — Santa Cruz

181  Scorpion Ranch
213  Ovis aries
240  Sus scrofa
265  Prisoners' Harbor
293  Il Black Gold
326  Willows Canyon
352  El Tigre
387  Crotalus viridis
407  Il naufragio dell'Anubis
430  La zona di separazione
448  Scorpion Ranch

461  Ringraziamenti

 

 

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Il naufragio del Beverly B.



Immaginiamocela nell'angusta cucina di bordo dove non si poteva neanche stare diritti senza battere la testa, la mano destra arrossata e ancora dolorante per l'ustione col caffè, che lei diligentemente – e stupidamente – aveva cercato di preparare per tenerli su, gran divertimento, sempre un gran divertimento, sebbene non più tardi di mezz'ora prima si fosse svegliata vomitando nella cuccetta. Addosso aveva un maglione a trecce troppo grande, pescato a caso dall'armadietto del marito perché in cabina faceva freddo, che le pizzicava dappertutto come se nel sonno qualcuno l'avesse scorticata. Non si era pettinata. E nemmeno lavata i denti. Si reggeva in piedi a fatica, chiedendosi se da quelle parti il mare fosse sempre così agitato, ma aveva paura di domandarlo a Till o anche a Warren. Non sapeva assolutamente nulla su come si manovra una barca o su come ci si comporta col mare grosso o anche sulla lettura delle carte nautiche, come tutti e due non perdevano occasione di ricordarle, e Till le aveva detto di mettersi tranquilla e godersi la navigazione. Il suo posto era ai fornelli. Nella cucina di bordo. Doveva pulire il pesce e friggerlo e quando fosse uscito il sole (ammesso che fosse uscito) avrebbe steso un telo sopra la cabina, avrebbe spalmato sulle gambe un po' di olio per bambini e di tintura di iodio e si sarebbe sdraiata a crogiolarsi, gli occhi chiusi, fino a quando non avessero preso una bella tinta uniforme.

Soltanto adesso, con la barca che rollava e beccheggiava e la mano destra intorpidita dal dolore, si rese conto di avere i piedi bagnati, le calze zuppe e incollate e le scarpe da tennis nuove che da bianche erano diventate grigio scuro. E come mai aveva i piedi bagnati? Perché sul pavimento della cucina c'era dell'acqua. Non caffè – quello l'aveva tirato su alla bell'e meglio con uno straccio – ma acqua. Acqua salata. Un velo sottile che si ispessiva e correva verso di lei ogni qual volta la barca entrava nel cavo di un'onda. Le toccava allora lasciarsi cadere sulla panca che si sollevava sotto di lei aggrappandosi con tutte e due le mani al bordo del tavolo, come se fosse legata a uno di quei traballanti vagoncini del luna park che Till sembrava amare tanto e che invece a lei davano la sensazione che il suo stomaco avesse ingoiato se stesso come in quel cartone animato dove il serpente inghiotte la propria coda.

Aveva i risvolti dei jeans bagnati – si erano infradiciati in un istante –, la barca che tornava a impennarsi e l'acqua che rotolava verso di lei, ora molta di più, una fredda frustata alle caviglie. Cercò di gridare, ma la gola era contratta e chiusa. L'acqua fuggì via dall'altra parte del ponte poi tornò, più alta, più fredda. Fa' qualcosa! si diceva. Alzati. Muoviti! Lottando contro la nausea, si trascinò una mano dopo l'altra dalla parte opposta del tavolo per sbirciare su dai tre gradini dove Till stava al timone, il braccio invalido rigido come un bastone, mentre Warren, suo fratello, l'ex marine, prepotente, so-tutto-io, lo strattonava furiosamente, contendendogli la ruota. Voleva avvertirli, avvisarli dell'acqua in cucina perché facessero qualcosa, la fermassero, rimediassero, rimettessero le cose a posto, ma Warren stava urlando, le vene sul collo gonfie, gli spruzzi che esplodevano a poppa, dietro le sue spalle, come la coda impazzita di una cometa sott'acqua. "Dannazione, dannazione, maledetto! Tieni la prua verso quelle onde del cazzo!" L'imbarcazione si inclinò da una parte, fremendo da un'estremità all'altra. "Vuoi proprio che questa bagnarola di merda finisca a fondo...?"

Già. La storia era questa. Fu così che andò. E sebbene avesse raccontato mille volte la propria versione di quanto era accaduto alla nonna tra le acque fredde e agitate del canale di Santa Barbara in tempi talmente lontani che doveva socchiudere gli occhi per evocare quell'immagine – più nitida e precisa di quella che aveva sua madre, che in realtà non era veramente lì, né più né meno di quanto ci fosse lei –, Alma riduceva sempre la voce a un sussurro per l'epilogo, la battuta finale, la rivelazione: "Quando la barca affondò Nana era incinta di due mesi".

Poi faceva una pausa e alzava lo sguardo, che stesse raccontando la storia da dietro il tavolo della sala da pranzo a una delle compagne di stanza ai tempi del college o a un perfetto estraneo accanto a lei in aereo. "Incinta di due mesi. E nemmeno lo sapeva." Poi faceva un'altra pausa per lasciar decantare il significato della cosa. Non fosse stato per la forza – fisica, d'animo e di spirito – della donna che lei ricordava solo quando ormai era fragile e decrepita, sua madre sarebbe morta nel ventre, buttata a riva dalle onde, cibo per i pesci, e non sarebbe mai nata nemmeno lei, non sarebbe stata seduta lì con i capelli ancora bagnati dopo la doccia o raccolti nella coda di cavallo che spuntava da sotto il berrettino da baseball, non avrebbe mai rievocato tutte le sfumature e le implicazioni esistenziali della vicenda che era la storia del mondo prima di lei.

Ovviamente, pensava anche al caso indifferente e dispettoso che inghiottiva i deboli e gli sfortunati mentre altri si moltiplicavano. E se ci fossero state generazioni e generazioni di naufragi nella stessa famiglia, i suoi discendenti avrebbero sviluppato branchie e pinne o avrebbero semplicemente imparato a starsene sulla terraferma ignorando quelle isole seducenti e selvagge che luccicavano laggiù all'orizzonte? Era viva, al crocevia della creazione, insieme a tutto ciò che prendeva vita nell'istante stesso in cui lo diceva, e un giorno anche lei avrebbe avuto dei figli, avrebbe dato il proprio contributo alla somma delle cose, aggiungendo un altro scalino al Dna. Il padre di sua madre era morto. Insieme al fratello. E la madre di sua madre avrebbe dovuto essere morta pure lei. I fatti erano questi, no?

Il mese era marzo, l'anno il 1946. Il nonno di Alma – Tilden Matthew Boyd – era tornato a casa sei mesi prima dalla guerra nel Pacifico che gli aveva lasciato un braccio inabile e rinsecchito dal gomito in giù, soltanto una cicatrice che pareva una frittata bruciata avvolta attorno all'osso. Sua nonna, giovane di belle speranze, la chioma scura e folta, come la sua, ruppe una bottiglia sulla prua del Beverly B. mentre Till, restituitole dalla voragine della guerra come un dono miracoloso più reale e concreto di tutte le cattedrali sulla faccia della terra, stava al timone, i gabbiani volteggiavano in alto nel cielo e le nubi si rincorrevano spinte da una brezza di nordovest inseguendo il sole sull'acqua. Beverly era felice perché Till era felice e mangiarono panini bevendo spumante scadente nei bicchieri di carta, in cabina perché il vento era forte e il mare gelido e increspato. C'era anche Warren quel primo giorno, il giorno del varo, un dittafono ambulante di consigli non richiesti, che snocciolava luoghi comuni e critiche interminabili. Però bevve lo spumante e si fece vedere per due weekend di fila dando una mano a Till a mettere a punto i motori, montare gli armadietti di teak e sistemare i parapetti che Till aveva fatto nel garage della loro casa in affitto, che avrebbe avuto bisogno di una mano di vernice, zanzariere alle finestre e grondaie per evitare che d'inverno la pioggia scendesse giù dal tetto innaffiando una poveretta che si trovasse davanti alla porta con le chiavi in mano e le stanche braccia cariche di sacchetti del droghiere. Ma Till non aveva nessuna voglia di mettere a posto la casa – tanto non era loro. Il Beverly B., invece, quello era tutto un altro paio di maniche.

Era un cabinato in legno di ventotto piedi, di solida costruzione, con paratie in noce americano e finiture in teak, una vera bellezza, che però era rimasto in secco in stato di abbandono per tutti gli anni della guerra, da cui il suo proprietario, arruolato in marina, non era mai tornato. Till aveva intravisto la barca tutta inclinata fra le erbacce nel retro di un cantiere navale, aveva rintracciato i genitori del marinaio, che lo piangevano silenziosamente – il figlio era morto bruciato in una chiazza di petrolio a causa di un kamikaze che si era lanciato sulla St. Lo durante la battaglia del Golfo di Leyte – ed era andato a trovarli nel loro salotto, con il cappello in bilico su un ginocchio passando in rassegna fotografie e medaglie, tutto ciò che restava del figlio. Era rimasto lì due ore buone, a sorseggiare tè Lipton tiepido con una fettina di limone amaro che ci girava lentamente sopra, prima di accennare alla barca, e quando alla fine si era deciso a farlo lo avevano fissato tutti e due come se fosse uscito dalle pagine dell'album di famiglia per andare ad appollaiarsi sui cuscini di velluto del divano di legno d'acero in quel soggiorno ovattato e male illuminato in cui vivevano come fantasmi da tempo immemore. La madre – più o meno sui cinquanta, robusta ma con caviglie e polsi delicati come quelli di una ragazza e un viso soffuso di sdegno e dolore in parti uguali – aveva buttato indietro la testa e domandò in una specie di jodel: "Quella bagnarola?". Poi aveva guardato il marito e abbassato la voce. "Non credo che Roger ne abbia più bisogno, no?"

Per tutto l'autunno e l'inverno Till si dedicò all'impresa di rimettere in sesto la barca, bazzicando il cantiere navale e l'emporio di forniture marinare, trafficando con i motori tanto che era sempre così sporco di gasolio che Beverly andava in giro a dire a tutti che sembrava truccato da negro in uno di quei vecchi spettacoli di paese. Era la sua battuta. Till truccato da negro. E la propinava alla signora Viola giù al negozio, a Warren e alla sua ragazza del momento, Sandra, dal labbro sussiegoso e i maglioncini così attillati da disegnare perfettamente il reggiseno, spalline, coppe e tutto quanto. Meticoloso, ecco com'era Till. Meticoloso, preciso e infallibile. Non ne parlava mai, non si lamentava mai, ma aveva dato il braccio destro per il paese e il sinistro era deciso a tenerlo tutto per sé. E per lei. Soprattutto per lei.

Aveva dovuto imparare a fare a meno del braccio, del polso e della mano destra per bucare i biglietti sulla linea per il Santa Monica Boulevard sotto gli sguardi impazienti delle persone che cercavano di mostrarsi educate, a parte un grugnito con cui comunicavano che se n'erano accorte, il braccio invalido che teneva fermo il blocchetto dei biglietti e quello divenuto dominante che faceva il lavoro, aveva imparato a usare quella mano per piegare in due l'assegno con cui lo pagavano e a porgerlo a lei come un biglietto, un biglietto per una festa mobile a cui era invitata lei, e solo lei. Di sera, tardi, dopo la cena e la radio, le passava la mano sopra il corpo nudo come se non avesse nessun impedimento, ed era bello, andava bene così perché adesso era mancino e lo sarebbe stato fino all'ultimo dei suoi giorni. E quando vararono il Beverly B. fu delicato e cauto con la barca come lo era con lei sul letto matrimoniale, il braccio destro che rigidamente entrava in gioco quando il timone girava mosso dal sinistro. Le prime volte non si allontanarono troppo dal porto. Till diceva che voleva fare un po' di pratica, rodarsi, sentire cosa aveva da dire il due motori Chrysler quando spingeva a fondo il gas e vedeva il contagiri salire fino a 2800 rpm.

Poi arrivò quel venerdì sera alla fine di marzo in cui lei, Till e Warren lasciarono il porto diretti verso la più vicina delle Channel Islands settentrionali, verso Anacapa, e quell'altra più grande poco oltre, Santa Cruz, perché lì c'era il pesce, merluzzi lunghi come un braccio, molluschi che bastava staccare dallo scoglio e più numerosi degli scogli stessi, aragoste così collaborative che si arrampicavano sulla cima dell'ancora e si tuffavano in pentola da sole. A Till ne aveva parlato un tale al lavoro. Chiunque poteva andare a Catalina – che diavolo, ci andavano tutti, escursionisti in giornata, marinai della domenica e via dicendo –, ma se volevi qualcosa che somigliasse a un territorio vergine, allora le isole a nord, su al largo di Oxnard e Santa Barbara, erano il posto giusto. Si erano portati dietro le due ghiacciaie più grandi che avevano trovato da Sears, da cui spuntavano i colli lisci e scuri delle bottiglie di birra che, le aveva assicurato Warren, sarebbero scomparse prima che tutti quei filetti di pesce e aragoste bollite venissero adagiati sotto la coltre di ghiaccio per farsi un bella dormita durante il viaggio di ritorno a casa.

"Avremo pesce per una settimana, almeno una settimana," continuava a ripetere Till. "E quando lo finiamo possiamo tornar qui tutte le volte che vogliamo." La guardò. Era al timone, il tempo sereno, sull'acqua davanti a loro aleggiava la foschia serale con i suoi colori opalescenti, dietro il porto che si allontanava nella scia, la birra in mano, non certo un ingombro, e lui appollaiato lì come un capitano uscito da un racconto di Jack London. "Il che," aggiunse, sapendo quanto lei fosse sensibile rispetto ai soldi profusi per la barca, "dovrebbe dimezzare le nostre spese alimentari, almeno dimezzarle."

Aveva preparato i panini a casa – salsiccia di fegato, pane bianco con tanta senape e maionese, pane di segale col prosciutto, insalata di tonno – e quando si erano sistemati in cabina a mangiare famelici innaffiando il tutto con la birra, talmente fredda che andava giù come acqua di fonte alpina, era stato come cadere fuori dal mondo. Dopo cena era rimasta a lungo sul ponte di poppa, l'aria mite e pura, tutto calmo a parte il pulsare dei motori, regolare e sicuro, sembrava il battito di un cuore, il cuore al centro del Beverly B., costante e certo. C'erano delfini, interi banchi, rosa e argento, che guizzavano nell'acqua nuotando accanto allo scafo per sentirne l'elettricità. Sembrava che le sorridessero, le dessero il benvenuto, felici nel loro elemento tanto quanto lei lo era nel suo. Com'era quella storia che aveva letto (sul giornale o sul Reader's Digest?), quella del ragazzo sulla tavola da surf portato al largo dalla corrente e attorniato dagli squali, finché non erano arrivati i delfini sorridendo e li avevano cacciati via, perché i delfini sono mammiferi, animali a sangue caldo nel mare freddo, e disprezzano gli squali in quanto freddi agenti di morte? Chissà se avevano guidato la tavola da surf del ragazzo fuori dalla corrente e l'avevano riportato a riva, scortandolo come angeli custodi. Forse, forse sì.

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Ma ecco la scialuppa, sciolta dagli ormeggi e libera, portata in alto dai flutti, e loro dentro, Warren che balzava ai remi, niente giubbotti di salvataggio perché i giubbotti di salvataggio, nonostante fossero nuovi di zecca e pratici, e nonostante la promessa di tenere uomini, donne e bambini a galla a tempo indeterminato anche col mare grosso, erano ordinatamente riposti sotto la panca a poppa del Beverly B. e il Beverly B. affondava. In stallo. Colava a picco.

Pesante come un tronco impregnato d'acqua in un fiume in piena, la barca si allontanava da loro. Avevano dipinto lo scafo di bianco in contrasto con il legno naturale della cabina, un bianco candido freddo e immacolato, il bianco della carta e dei garofani, e ora quel bianco spiccava come l'immagine fantasma sul negativo di una fotografia che nessuno avrebbe mai sviluppato. Le onde si schiantavano contro gli oblò della cabina senza trovare ostacoli, poi il vetro si ruppe e il Beverly B. si spostò pigramente, sprofondò e tornò su di nuovo. Adesso i ponti erano sommersi, si vedeva solo la parte superiore della cabina, pallida contro la luce incerta del primo mattino e gli spruzzi sollevati dal vento come un sudario.

Beverly era li e vedeva tutto, fradicia e rannicchiata a rabbrividire sulla prua della scialuppa, con Till accanto, ma lei non gli si aggrappava, non si aggrappava a niente, irrigidita dal bisogno di venir fuori da quella storia, di andarsene, di tornare a terra. Nessun rimpianto. Che il mare si prendesse la barca e tutto il tempo e i soldi che ci avevano profuso, purché li risparmiasse, purché l'isola fosse lì nell'oscurità e si facesse loro incontro in un turbine di schiuma e nera roccia sanguinante. Scavalcarono due ondate, tre, adesso erano lanciati in una corsa folle, più folle di qualsiasi attrazione il luna park avesse mai osato proporre, e tutto a un tratto si ritrovarono in un profondo avvallamento circondati da muri di vetro color verde smeraldo, per uno sfavillante momento il mondo intorno restò sospeso, poi le pareti si chiusero addosso a loro. Sentì che stavano precipitando, sentì la violenza della caduta, e tutto a un tratto si ritrovò in mare a nuotare, inchiodata dal freddo; l'istinto la fece allontanare dalla scialuppa e dirigersi verso il Beverly B. in cerca di qualcosa a cui appigliarsi, e infatti eccola lì, la barca, che si impennava e ricadeva giù, con lei sopra. Il vento le strappava le palpebre. Il sale le bruciava la gola.

Non vedeva Warren, non vedeva dov'era finito, ma d'altronde lei si era girata e lui poteva essere ovunque. E Till, ricordava di averlo visto venire verso di lei, il braccio buono che tagliava la nera coltre d'acqua, e poi non c'era più. Dov'era? Le ondate erano come bastioni e non riusciva a vedere niente. La stava chiamando, ne era sicura, l'eco flebile e distante di una voce rotta e intermittente, la voce di Till, portata via dal vento che poi a un tratto sparì. "Dove sei?" gridava. "Till? Till?"

Le onde le toglievano il fiato. Aveva le ossa a pezzi. I denti battevano irrefrenabilmente. Trascorse del tempo, non avrebbe saputo dire quanto, senza che nulla cambiasse. Era lì aggrappata al cadavere fluttuante del Beverly B. perché il Beverly B. era tutto ciò che restava. A un certo punto mise la testa sott'acqua, si tolse le scarpe da tennis che la impacciavano e le abbandonò nel nulla. Poi si liberò dei blue jeans, ormai pesanti come piombo.

Quando alla fine il Beverly B. si inclinò su un'onda grande come un continente e poi sprofondò scomparendo alla vista, annaspò per sottrarsi al vortice che aprì dietro di sé e si ritrovò ancora una volta a macinare acqua. Le onde la afferravano e la lasciavano cadere, la sollevavano e la lasciavano cadere. Era sola. Abbandonata. La barca era andata, Till e Warren erano andati. Sentiva dentro di sé come un battito d'ali, il panico, il suo stesso panico che la sferzava con un colpo al petto bruciante e improvviso, che sparì altrettanto rapidamente, e poi di nuovo a macinare acqua e continuò a macinare acqua per qualche istante di eternità finché le braccia non ebbero più forza. Il maglione di Till la trascinava giù. Era troppo, troppo pesante, e in cambio non le dava niente, né calore, né conforto, né Till e neanche il suo tocco o il suo odore. Se lo sfilò, prese fiato e lo abbandonò guardandolo affondare e allontanarsi come l'esoscheletro di una creatura appena formatasi, fatta di acqua, sale e di quel freddo pungente.

Provò a mettersi sul dorso ma il vento le spingeva il mare nel naso e in bocca e si raddrizzò tossendo e sputando. Si era assopita? Stava affogando? Stava per arrendersi? Con le braccia stremate, battendo debolmente le gambe stremate, scacciò la paura che le montava dentro. Dopo un po' perse la sensibilità di braccia e gambe e andò sotto con i polmoni pieni d'aria e l'aria la riportò a galla, una volta, due volte, tre volte. Tastava l'acqua in cerca di un appiglio, di qualsiasi cosa, qualcosa che avesse consistenza, ma di solido non c'era niente in tutto quel liquido in movimento dove i delfini sorridevano e i pesci volanti volavano e gli squali andavano e venivano a loro piacere.

E Till? Dov'era Till? Magari era lì, a pochi metri di distanza, e lei non lo sapeva. Chiuse gli occhi, prese una boccata d'aria, si lasciò andare, prima giù poi di nuovo su. Ancora una volta. Ce l'avrebbe fatta la prossima? Non aveva mai conosciuto la disperazione, che ora l'avvolgeva più gelida dell'acqua, le saliva torpida dai piedi, le caviglie, le gambe e il busto, la sopraffaceva, la vinceva un pezzettino dopo l'altro. Acqua, acqua dappertutto. Proprio quando stava per mollare, per aprirsi, spalancarsi e abbandonarsi alla corrente implacabile e incessante, che la trascinasse giù dove le onde non avrebbero più potuto toccarla, l'oceano le restituì qualcosa: un contenitore, un contenitore termico, che fluttuava a pelo d'acqua sotto il peso di ciò che custodiva. Un coso argentato, come la pancia del suo pesce. Sears. Garantito a vita. Ne prese possesso e, anche se non riusciva a salirci sopra, era lì a tenerla su mentre il vento la mordeva e il sole spuntava dal buio a bruciarle le labbra e scottarle la maschera bianca e tirata della faccia rivolta al cielo.

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Di nuovo il battito d'ali del panico. Dietro di lei le gambe erano un richiamo, una provocazione, un'esca, e lei non le vedeva, riusciva sì e no a sentirle. Se fossero arrivati gli squali, quando fossero arrivati, lei non avrebbe avuto scampo. Era prigioniera di un incubo infantile, un sogno arcaico dei tempi in cui non c'era ancora la terra, quando le creature nuotavano libere fra la miriade di fauci scintillanti che stavano per inghiottirle. Cercava di tenere la mano in alto, fuori dall'acqua. Cercava di non pensare a quello che c'era sotto di lei, dietro di lei, che proprio in quel momento si staccava dagli abissi tranquilli come una mongolfiera che sale nel cielo al crepuscolo. Invece doveva pensarci. Doveva tenersi stretta la paura per rimanere in vita.

Perché da quando aveva trovato il contenitore termico si era affannata a montarci a cavalcioni come un fantino serrandolo fra le cosce mentre quello oscillava, spingendolo in basso per poi salirci con i piedi e appollaiarsi incerta su quel precario guscio instabile, sdraiandosi sopra con il coperchio fra l'addome e il seno, la schiena inarcata e le gambe divaricate in cerca di equilibrio. Adesso cercò di rannicchiarsi, inginocchiandosi sopra con il peso delle braccia e del busto come se stesse pregando (e in effetti stava pregando, lo stava proprio facendo), sforzandosi di tenere la mano ferita fuori dall'acqua e bilanciandosi come un'acrobata in bilico su un cavo teso, ma le onde non glielo consentivano. Continuava a scivolar giù mentre la ghiacciaia veniva sospinta nuovamente a galla e si allontanava da lei costringendola a nuotare per riacciuffarla in un accesso incandescente di terrore, pensando soltanto a una sagoma muta che veloce balzava fuori dagli abissi per afferrarla nella chiostra dei denti.

In vita sua aveva visto uno squalo solo una volta. Era stato sul molo di Santa Monica, poco dopo il ritorno a casa di Till d'oltremare. Avevano camminato sulla spiaggia per ore e poi passeggiato sottobraccio fino all'estremità del molo, le pallide assi scrostate che oscillavano dolcemente sotto i loro piedi e la brezza marina deliziosamente fresca sulla pelle. Si sentiva così viva in quel momento, così in sintonia con Till e la sua trasformazione dall'uomo che ricordava a quello reale, in carne e ossa, il suo braccio attorno alla vita e la sua voce che le mormorava nell'orecchio, ogni minima cosa la faceva fremere come una novità, come se prima di allora nessuno le avesse nemmeno mai concepite. Un cono di carta con lo zucchero filato, di un rosa così intenso da sembrare una creatura aliena, che se gliel'avesse messo in mano un marziano dallo spazio infinito le sarebbe parso meno strano. Idem per il tipo tatuato che si esibiva in costume da bagno sperando in qualche spicciolo e per la reginetta di bellezza ottantenne in due pezzi, e anche il gusto dell'hamburger con fettine di cipolla e tanto ketchup, che mangiarono in piedi riparandosi dal sole a picco sotto il tendone del baracchino ai piedi del molo, era diverso da tutti gli altri hamburger che aveva mangiato in vita sua. I piedi non toccavano terra. Erano lì in carne e ossa, tutti e due, lei e Till, a fare quattro passi insieme come una coppia qualsiasi, che poteva tornare a casa e andarsene a letto quando ne aveva voglia, giorno e notte, o bere qualcosa e ascoltare il juke-box nell'angolo di qualche localino o prendere la macchina e lentamente, tranquillamente scendere giù per Ocean Boulevard con i finestrini abbassati e il vento fra i capelli. Per lei era un sogno che diventava realtà. E in quel momento, proprio nel mezzo di quel sogno, ecco lo squalo.

C'era un gruppetto di persone raccolte in fondo al molo e loro si erano avvicinati distrattamente, per blanda curiosità, gente che andava da una parte all'altra, bambini che sgusciavano fra le gambe per vedere meglio, ed ecco lì un'altra novità, il primo squalo che avesse mai visto a parte i libri illustrati. Era sospeso per la coda a un grosso intreccio di cime che lo sorreggevano, gocciolante, sopra le assi sbiadite della banchina. Il pescatore (un nero, e anche quella era un'altra novità, un pescatore nero sul molo di Santa Monica) se ne stava ritto alla sinistra mentre il suo amico, un altro nero, gli faceva una foto con una vecchia Kodak. "Adesso fermo," diceva il secondo uomo. "Sorridiamo. Forza, facci un bel sorriso."

Una donna accanto a lei emise un suono gutturale, a metà fra il disgustato e l'affascinato. "Che cos'è?" chiese la donna. "Un pesce spada?"

Il primo uomo, il pescatore, fece un largo sorriso e la macchina scattò. "Lei vede una spada?" domandò retorico.

"Io non vedo nessuna spada."

"È un delfino," disse qualcuno.

"Non è un delfino," ribatté il pescatore, godendosela un mondo. "E nemmeno un tonno." Si chinò sull'animale, verso la mezza luna della branchia e l'occhio vitreo, poi chiuse la mano a coppa sulla mascella abbandonata e la tirò verso l'alto. "Li vedete i denti?"

Ed eccoli in effetti, improvvisamente scoperti, tutto un paesaggio di denti fitti e aguzzi che si perdevano nella terra incognita delle fauci scure, e lei capì che si trattava di uno squalo, il flagello dei mari, l'unico che predava tutti gli altri, che sbucava fuori da una coltre di spuma per azzannare una foca o mutilare un surfista fornendo materia per titoli cubitali da La Jolla a Redondo Beach, che poi tutti dimenticavano nel giro di una settimana.

"Che cos'è questo, cos'è che avete davanti agli occhi? Si tratta di un grosso squalo bianco, due metri e ventotto di lunghezza. Micidiale come non mai. E questo è poco più di un cucciolo. Diavolo, quando la madre li partorisce sono già un metro e mezzo."

La folla si fece più vicino. Till aveva gli occhi che brillavano, quella era una delle cose che apprezzava, una cosa da uomini, micidiale come non mai. C'era soltanto un'ultima domanda, e lei sentì che le tremava la voce mentre la faceva: "E dove l'ha preso?".

Pausa. Sorriso. Altro scatto della macchina fotografica. "Diamine, qui, alla fine della banchina."

L'immagine le era rimasta impressa per un bel pezzo. Aveva interrogato Till in proposito, com'era possibile quello che aveva detto l'uomo, vicino alla banchina, proprio là dove lei nuotava fin da quando era bambina, e lui aveva cercato di rassicurarla. "Credo che possano spuntar fuori ovunque," le disse, "ma qui è raro. Molto raro." Le dette una strizzatina, tirandola verso di sé. "Il posto dove se ne trovano davvero tanti," indicò col dito la striscia di foschia appena sopra l'orizzonte, "è là fuori. Al largo delle isole."

Si moriva per i morsi degli squali. Si moriva di sete. Di ipotermia. Aveva addosso soltanto reggiseno e mutande, immersa nell'acqua e l'acqua le succhiava il calore minuto dopo minuto; aggrappata lì, a rabbrividire, sentiva che la forza di volontà la stava abbandonando. Vengano pure gli squali, pensava, sognava, cullata dal freddo che la faceva sentire come il personaggio di quell'altro racconto di Jack London, che non essendo in grado di accendere un fuoco si coricò e morì. Be', nemmeno lei era in grado di accendere un fuoco visto che l'acqua non brucia e in quel mondo non c'era niente che non fosse acqua.

Si riscosse sputacchiando, si svegliò perché non respirava, un pugno gelido nella gola. Stava tossendo – tosse, conati, vomito – con tale violenza che tornò in sé. Sole, mare, vento, onde. Sole. Mare. Vento. Onde. Il contenitore andava su e giù e lei pure. Poi, tutto a un tratto, c'era qualcos'altro vicino a lei, qualcosa di nuovo, un essere vivente che ruppe la superficie in un improvviso ribollire che la annichilì, lo squalo, lo squalo venuto finalmente a deporre il sudario. Strinse le palpebre, girò la faccia. Non tirò su le gambe perché ormai non aveva senso, il sipario stava calando, il primo urto dilaniante delle mandibole, lo sconforto che si allargava dentro di lei come una chiazza sull'acqua, sconforto per Till, per i suoi, per quello che avrebbe potuto essere... ma l'attimo passò e così pure quello successivo e lei era ancora lì, tutta intera, su e giù, su e giù insieme al contenitore.

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Ai manovali piaceva il cibo piccante, gli intingoli speziati, gusti che aveva acquisito anche lei, soprattutto se c'era vino rosso in abbondanza per mandarlo giù e pane o tortillas per assorbirlo, e girò la manovella del macinapepe sopra la pentola una buona cinquantina di volte, poi si girò verso il tagliere e il mucchietto di peperoni verdi arrostiti. Tagliò in due i serranos e lí spazzò giù dal legno tutto tagliuzzato dentro l'imboccatura della pentola, poi spelò i peperoni arrostiti, li tagliò a striscioline e li aggiunse al resto. Quindi fu la volta della salvia del loro orto, la paprica, il prezzemolo, una manciata di foglie di alloro e per finire cinque cuori di finocchio, che cresceva ovunque non arrivassero le pecore, tenace come la gramigna, tritati e mescolati all'intruglio che sobbolliva in modo da lasciare un leggerissimo retrogusto di liquirizia in fondo al palato. Quando ebbe finito, prese l'ammaccata ciotola di alluminio con i resti e gli scarti, gli avanzi della colazione e uscì nel mattino slavato dalla pioggia a buttare íl tutto nel compost.

Stranamente, sembrava che facesse più caldo fuori che dentro; le nuvole correvano verso sud dietro la cresta delle montagne, livide come tanti pugni, pregne di umidità tropicale. Ai suoi piedi, teneri germogli lucidi di pioggia e la terra, improduttiva da lungo tempo, che esalava nuvole di vapore incolore come se avesse trattenuto il fiato fino a quel momento. La pioggia la colpì come tante punture di spillo sulla faccia, sulla testa, sull'asse rigido della mano destra tesa che sbucava dalla manica rivoltata del maglione di lana tenendo la ciotola per il bordo, e se la sua mano le sembrava estranea, come la mano di qualcun altro, ruvida, segnata dal lavoro, ben poco avvezza ai tasti della chitarra, be' le cose stavano così e così sarebbero rimaste perché adesso lei era una pecoraia e fiera di esserlo.

C'era stato un tempo in cui dormiva fino alle due o le tre del pomeriggio, restava sveglia tutta la notte a suonare e andava in giro come se avesse le mani avvolte nel cellofan. Poi era uscito il loro primo album e tutti avevano pensato che il mondo si sarebbe dischiuso davanti a loro come una strenna avvolta nella carta d'argento sotto l'albero di Natale, poi era arrivata Anise e fecero il secondo album prima che tutto crollasse, che andasse tutto in fumo, e lei con Toby e Anise se ne vennero sulla costa occidentale, dove la vita correva, correva davvero, o così diceva Toby, poi però non era andata così e lei aveva dovuto cominciare ad alzarsi presto come tutti gli altri schiavi stipendiati, sempre a caccia di un lavoro di merda via l'altro.

Tutto questo era avvenuto tanto tempo prima e l'ambizione di allora, di uscire dal proprio buco e proiettarsi nel mondo fuori, si era depositata sul fondo dell'animo, volgendosi verso l'interno dove ardeva come l'ultimo inestinguibile tizzone nella stufa. Che cosa amava? I suoi: Anise, Bax, Francisco. Quel posto, dove la natura si dava così com'era, immediata, disabitata, dove la vita si viveva nell'attimo. Il gregge. Sterminato. E la musica. Ancora musica. Sempre musica. Solo che adesso quando suonava lo faceva per sua figlia, per il suo uomo e per i lavoranti segnati dalle intemperie e dalla fatica, i denti rovinati e l'alito che sapeva di vino.

Alle sue spalle, i muri della casa erano rigati di pioggia, nere vene pulsanti contro la pallida pelle dell'intonaco; dalla finestra della cucina la luce era un rettangolo sulla parete sotto il rettangolo più piccolo della lampada di lettura di Bax accesa al piano di sopra. Lui era lassù, sotto le coperte e la grande trapunta di piuma d'oca, e lei qua fuori. Sotto l'acqua. Con davanti una giornata piena, sorvegliare e sovrintendere. Non che fosse importante, si disse, purché lui stesse meglio. E in un certo senso, per quanto brutto potesse sembrare, il suo incidente era per lei una benedizione insperata, un'opportunità di mettersi alla prova, di occuparsi della nascita degli agnelli mentre gli altri erano in giro sulle colline a riparare staccionate e assicurare la percorribilità delle strade già pensando a quando, alla fine di febbraio, avrebbero dovuto radunare gli animali, compresi quelli sfuggiti l'anno precedente, per il taglio della coda e la castrazione. Non c'era alcun bisogno che rimanessero a bighellonare lì intorno quando su in alto c'era tanto da fare. E in verità, la nascita degli agnelli non era poi un grosso impegno, facevano tutto le pecore. Bastava un'occhiata nelle prime ore critiche per evitare qualsiasi disturbo alle bestie, che fuggissero prese dal panico abbandonando i piccoli anche soltanto un minuto, perché i corvi non aspettavano altro per farsi avanti.

Quell'anno lei e Anise avevano piantato cartelli Vietato l'accesso sulla spiaggia della Scorpion Bay e di Smugglers' Cove, a sud-est dall'altra parte delle montagne, chiudendo il ranch a tutti i visitatori durante il periodo della nascita degli agnelli in modo che non ci fossero interferenze, intenzionali o meno, come era successo l'anno prima, quando due deficienti con un fuoribordo erano entrati in rada, sparando a casaccio su tutto quello che si muoveva; i colpi di fucile rimbombavano per tutto il canyon in un assordante crescendo che aveva disperso il gregge ai quattro venti. Era stato un disastro. Nel giro di un'ora avevano perso qualcosa come cinquanta agnellini appena nati, cinquanta agnelli che non avrebbero potuto crescere, diventare grandi ed essere mandati al mercato, il che significava un bel po' di profitto in meno. Per settimane, non era riuscita a pensare ad altro che a vendicarsi, a mettere quegli idioti sorridenti in piedi contro il muro della casa e sparargli con i loro stessi fucili, per vedere se gradivano. Era la sua fantasia, come una scena uscita da un film di John Ford, ma anche nei momenti peggiori di rabbia, sapeva benissimo che era solo una fantasia. L'unica arma da fuoco che avesse mai preso in mano in vita sua era un fucile calibro 22 che Bax teneva dietro la porta di casa per scoraggiare i corvi e le grandi aquile reali che si portavano gli agnelli nel nido e poi, quando avevano fatto quello che dovevano fare, buttavano giù la pelle vuota come un sacco, ma non l'aveva mai usata e non era nemmeno sicura di saperlo fare.

Si fermò un attimo e alzò la faccia al cielo. Le nuvole erano cupe e fitte, la pioggia rimbalzava sulla sua pelle: non c'era da aspettarsi turisti giornalieri, non con un tempo simile. Rovesciò la ciotola di avanzi sul cumulo di pacciame, poi si fermò un minuto a rimestarlo col forcone, perché bisognava rimestarlo e lei era ben decisa a non concedere ai corvi nemmeno quegli avanzi. In quel momento, con la pioggia che sfrigolava e il calore che si sprigionava dal centro del cumulo producendo un pennacchio di condensa e un tanfo umido e acido di marcio, percepì un movimento con la coda dell'occhio, si girò e vide la volpe, dietro la jeep, una zampa a mezz'aria, il passo sospeso.

Era un animale che poteva tranquillamente ignorare, troppo piccola per infastidire le pecore e sempre a caccia dei topi che infestavano la casa principale, escrementi ovunque, sparsi come tanti piccoli regalini scuri portatori di sporcizia e malattie. Schioccò le labbra e guardò la volpe rizzare le orecchie. Poi, molto lentamente, si chinò sul cumulo frugando tra gli avanzi freschi finché non trovò un pezzetto di osso e cartilagini umido e rosso e glielo lanciò. Atterrò vicino alle zampe con un tonfo sordo sul terreno bagnato, e la bestia lo prese circospetta, come farebbe un cane, ma senza paura né apprensione: le persone non rappresentavano una minaccia per lei. Era qui da molto più tempo di loro e continuava a mangiare topi, insetti, occasionalmente qualche uccello, e se qualcuno lasciava in giro del cibo (ma anche la pipa di radica di Francisco, scomparsa dal portico una sera, una candela mezzo bruciata, calzini sudati appesi alla staccionata ad asciugare e a concentrare gli umori corporei), era grata per l'ampliamento della sua dieta. Rimase a guardare la volpe che prendeva l'osso in bocca, lo teneva fra le zampe e lo spolpava con i denti, il pelo lucido di pioggia e gli occhi che neanche la guardavano come se lei non contasse niente, poi rientrò in casa a controllare lo stufato e infornare il pane.

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Sua madre la viziava, la bambina? Assolutamente sì. Interminabili pomeriggi in spiaggia con un secchiello di plastica rossa e la paletta, la collezione di conchiglie e le stelle marine essiccate, spedizioni per dar da mangiare alle anatre nei canali, coni e coppette in gelateria, un'infinità di giocattoli, vestitini e scarpe. I bambini sono fatti per essere viziati, così la pensava sua madre. E se Kat voleva sentire una storia nel bel mezzo della cena, be', la spuntava. E una all'ora di andare a letto e poi ancora a colazione. All'inizio erano le filastrocche che Beverly aveva appreso dalle labbra materne, quand'era bambina, Il papero pasticcione, Il piccolo Jack Horner e Mary aveva un agnellino, gli stessi vecchi libri che aveva tenuto su uno scaffale apposito nella sua camera finché, ormai grande, non erano diventati motivo di imbarazzo e così li aveva relegati nel garage, poi erano arrivati i raccontini che non finivano mai e i tre porcellini e i tre orsetti, e tutte le sere dopo cena, prima di accendere la radio (e negli anni seguenti la tv), lei e la madre passavano da un libro all'altro, ma regolarmente Kat ne voleva ancora. Dopo le filastrocche fu la volta di Dick e Jane e Winnie the Pooh, e via discorrendo fino a quando Kat, già all'epoca in cui cominciò l'asilo, non fu in grado di leggere da sola.

La scuola per lei fu una rivelazione. Era una scolara volonterosa, diligentissima nei compiti che le venivano assegnati, per quanto ripetitivi e frustranti apparissero agli occhi dei suoi compagni. Le sue pagelle erano brillanti. E quando venne il momento degli esami di quinta e poi delle medie, ottenne voti nettamente sopra la media. Era una bambina felice. Florida. Cresceva. Poi arrivò l'adolescenza, che si presentò con la forza improvvisa di un meteorite; il giorno prima Kat era una ragazzina con la molletta di Minnie nei capelli e un attimo dopo si era arrotondata e c'erano ragazzi che le ronzavano attorno tutti i giorni dopo la scuola, versioni più giovani degli uomini che avevano frequentato la casa prima di loro, ma Kat sembrava non cedere alle lusinghe dell'uno o dell'altro e mai, nemmeno per un giorno, nemmeno per la festa di fine anno scolastico, trascurò i compiti. Beverly cominciò a sognare l'università, magari una borsa di studio, perché era convinta che non ci fossero limiti a quello che poteva fare sua figlia.

Per questo metteva da parte un po' di soldi dalla paga settimanale. Lei non aveva avuto l'opportunità di laurearsi, aveva preso il diploma di scuola superiore in piena Depressione e poi durante la guerra era andata a lavorare in un'industria bellica, ma aveva seguito un corso da segretaria che aveva dato i suoi frutti. Quando Kat era in prima elementare aveva cominciato a lavorare presso la sede della Scuola distrettuale unificata Santa Monica-Malibu, un lavoro stabile e garantito, e dato che viveva con sua madre e che sua madre aveva una casa libera e vuota, quello che avrebbe dovuto finire in affitto finiva invece in un apposito libretto di risparmio. E non stiamo parlando di metter via qualche spicciolo alla settimana per i regali di Natale, lì erano soldi veri. Un fondo per il college. Per Kat. Kat era la sua speranza. Kat, con la madre segretaria e il padre morto annegato nelle acque irrequiete dell'Anacapa Passage, sarebbe stata la prima in famiglia ad andare al college e quindi ad avere accesso a tutte le professioni che una laurea le apriva, legge, medicina, l'insegnamento, la scienza.

Quando la presero all'Ucla con una borsa statale che comprendeva le tasse e un modesto sussidio per mantenersi, festeggiarono (tutte e tre, anche se ormai la madre di Beverly faceva fatica a camminare e non usciva di casa da mesi) con una cena a base di aragosta in un hotel sull'Ocean Boulevard con vista sul mare. Il primo anno Kat rimase a vivere in casa, poi dal secondo andò in un pensionato studentesco e la vedevano solo nei fine settimana. Dopo un po' cominciò a saltare un fine settimana ogni tanto, poi due di fila, dando la colpa al carico di lavoro. A volte passava un mese intero prima che tornasse a casa, e quando arrivava si portava dietro una sacca di panni sporchi che Beverly era felicissima di lavare, piegare e prepararle in bell'ordine, cercando intanto di non preoccuparsi, di non assillarla. Perché Kat era troppo magra, aveva i capelli lunghi con la riga in mezzo, come gli hippie di cui si leggeva sui giornali e che si vedevano alla tv, e come gli hippie portava jeans a vita bassa scoloriti, con le stelline e i fiorellini cuciti sopra, e camicette che lasciavano la pancia scoperta e che chiunque, non solo sua madre, considerava provocanti. E la droga? La marijuana? Faceva uso di marijuana?

Kat non diceva mai una parola in proposito. Non parlava mai nemmeno dei suoi voti, anche se quando arrivavano i resoconti di fine semestre Beverly, che non si sarebbe mai sognata di aprire la posta della figlia, non poteva fare a meno di interrogarsi in proposito. Andava tutto bene? Sì, assicurava Kat, tutto bene. E soggiungeva in un tono che a Beverly non piaceva, Piantala di tormentarmi. Arrivata all'ultimo anno cominciò a uscire parecchio con i ragazzi. Era innamorata, o così diceva alla madre per telefono e nei rari weekend in cui tornava a casa, ma lui chi era? Come si chiamava? Com'era la famiglia? Qual era il suo corso di laurea? Perché era uno studente, vero? Non è che fuma marijuana o altro, no? Cosa fa suo padre? Di dov'è la famiglia? E così per tutto il weekend, dal venerdì sera a cena fino a domenica mattina a colazione, mentre la lavatrice andava nel portico verandato e un sole pallido e stanco si spandeva ovunque per la cucina come una macchia di unto. "Non puoi dirmi nemmeno il nome?" chiese Beverly mettendole davanti un piatto di frittelle e due uova al tegame. "A tua madre? Insomma, cosa c'è di tanto segreto? Cos'è, un nano o qualcosa del genere" – fece una risatina – "o un comunista? O magari è per causa nostra. Di tua nonna e mia. Ti vergogni di noi, è così?"

"Greg," disse Kat alla fine, il volto tutto a un tratto atteggiato a un'espressione stizzita. "Si chiama Greg. Va bene?"

Sua madre, che le stava addosso da venerdì sera quando aveva messo piede in casa, prese l'aria di una che era stata schiaffeggiata e Kat, suo malgrado, se ne pentì subito. "Senti," disse, "mi dispiace, mamma. Sono solo terribilmente sotto pressione, tutto qui. A scuola. Ho solo bisogno dei miei spazi, okay?"

A tavola, le dita nodose e la testa china su ciò che stava facendo, la nonna sgusciava i gamberetti come se per tutta la vita non avesse fatto altro. I gamberetti, grigi e nudi, finivano in una ciotola di vetro mentre i gusci trasparenti si accumulavano su una pagina del "Times". Non alzò gli occhi, sebbene ci fosse aria di tempesta.

Sua madre le dette uno sguardo risentito, le labbra strette su una strisciolina di peperone verde che continuava a spostare da una parte all'altra della bocca come uno stuzzicadenti. "Non voglio insistere, però..." disse.

"Allora non farlo."

Alla successiva visita a casa, per le vacanze di Natale, sua madre uscì dalla cucina nell'attimo stesso in cui la chiave girava nella porta d'ingresso. Si stava pulendo le mani in una salvietta, con un largo sorriso di benvenuto che si spense mentre attraversava la stanza per baciare Kat sulla guancia, voltandosi poi verso il tavolino dell'ingresso per prendere una busta e porgergliela. "Ieri è arrivata questa per te," disse guardandola fissa negli occhi.

Era di Greg, Kat lo capì alla prima occhiata. Quella settimana aveva dato un ultimo esame di psicologia infantile, mentre lui aveva finito prima ed era tornato a casa a Santa Barbara per trascorrere le vacanze con i suoi. Sarebbe venuto a prenderla in macchina il giorno dopo Natale per passare qualche giorno in campeggio a Ensenada; ci stavano pensando da un mese, sei giorni tutti soli sulla spiaggia e di notte in tenda, nello stesso sacco a pelo come (la battuta era di Greg) Robert Jordan e il suo Coniglietto. Prendendo la busta, piegandola e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, doveva essere arrossita. Non disse niente, ma sua madre la scrutava con tale intensità che pareva volesse segarla in due con il laser come nella scena di Goldfinger.

"Take-sue," disse sbagliando la pronuncia del nome, "è ungherese? O di qualche paese d'oltre cortina? O di dove? La nonna e io non riusciamo proprio a immaginarcelo."

Lei aveva voglia di rispondere Non vi sforzate, ma invece, per il gusto di vedere che faccia faceva sua madre, disse: "Takesue. Tre sillabe. E l'ultima si pronuncia sui, come in chop suey.

"Chop suey?" ripeté sua madre con aria perplessa. Dalla strada, dietro il vetro della finestra, saliva un suono di voci, ubriachi che tornavano dai bar sul lungomare. Fece una risatina nervosa. "Vuoi dire...? Non sarà mica cinese, no?"

Era il momento che aspettava dal giorno in cui Greg le era apparso davanti alla mensa, i capelli lunghi, folti e lucenti, più lunghi di quelli di George Harrison, più lunghi di quelli di chiunque avesse mai visto, si era chinato sul tavolo a cui era seduta con la sua amica Pattie e le aveva chiesto: Ma tu il semestre scorso non frequentavi le lezioni di Bieler?

"No, mamma," rispose ancora in piedi nell'ingresso, la lettera al sicuro, la borsa a tracolla e il giaccone aperto, "non è cinese." Fece un attimo di pausa, lasciando scivolar giù la borsa e guardando sua madre dritto in faccia. "Takesue non è un nome cinese, è giapponese."

Quindi, prima che sua madre potesse fiatare, grugnire, urlare o girare la testa di scatto sopra la spalla e gridarle Giapponese? Stai con un giap? Dopo quello che hanno fatto a tuo padre?, era già dall'altra parte della stanza, poi in fondo al corridoio e stava chiudendo con decisione la porta della sua stanza dietro di sé.

A Santo Stefano, quando Greg si presentò sulla soglia di casa, le braccia cariche di pacchetti incartati e la Dodge Charger bordeaux del padre parcheggiata accanto al marciapiede dietro di lui che sembrava una nave spaziale a riposo, sua madre aprì la porta e si trovò davanti uno splendore, solo che lei non la pensò così. "Greg!" gridò Kat volando fra le sue braccia dall'altra parte della stanza mentre la madre vacillava per lo choc, perché Greg non solo era un hippie, con un poncho psichedelico, pantaloni a righe color argento, scarponi logori e un cappello a tesa larga con una penna d'aquila che spuntava fiera dal nastro, ma in più era un orientale. Peggio che orientale: giapponese. Con un paio di baffi alla Fu Manchu che gli incorniciavano la mandibola in due ciuffetti di peli chiari spioventi. Kat lo prese per mano, lo portò nell'ingresso e disse: "Mamma, ti voglio...". Ma la madre era sparita, si era ritirata in camera da letto dall'altra parte della casa.

Lei aveva cercato di prepararlo (Mia madre è un po' strana, sai, la guerra e tutto il resto, cioè, la Seconda guerra mondiale), ma lo conosceva abbastanza bene da capire che era rimasto sconcertato, sconcertato e ferito. Che lo prendessero in giro gli anziani, ignoranti e gretti, con quei loro faccioni bianchi e il taglio di capelli da cinque dollari, per come si vestiva e per il fatto che era un hippie, a lui non faceva né caldo né freddo. Ma il razzismo era un altro paio di maniche. Lui era di quinta generazione, americano come chiunque altro, di famiglia benestante, con un'azienda di frutti di mare fuori Santa Barbara, ed era intenzionato a prendersi il suo posto nella società americana che la cosa piacesse o non piacesse, e se scendeva nelle strade a protestare contro la guerra in Vietnam, erano fatti suoi oltre che un suo diritto. E così pure il modo in cui sceglieva di vestirsi, la musica che ascoltava sul suo stereo e le droghe che introduceva nel suo corpo con tutta la libertà del mondo. Greg era così. E così la pensava. E se il mondo era una lotta continua, amen. Lei era infuriata. I pensieri rimbalzavano da una recriminazione all'altra, come un grillo su un marciapiede bollente. "Vieni," gli disse prendendolo per mano e spingendolo avanti.

Le spalle curve, gli occhi bassi, la seguì rigido in sala dove la nonna stava seduta in poltrona a guardare una delle sue soap opera.

Gli prese i pacchi di mano e li mise sul divano. Poi alzò la voce per farsi sentire dalla nonna e disse: "Ti presento mia nonna. Nonna, questo è Greg".

Nel corso dell'ultimo anno la nonna era caduta in uno stato confusionale, il volto immobile, lo sguardo vacuo, le mani irrequiete in grembo. Con uno sforzo, alzò gli occhi e sollevò il mento tremulo. Greg si protese in avanti e le porse la mano. "Piacere di conoscerla," mormorò, ma lei si limitò a osservare la mano senza aprire bocca.

"Greg è il mio fidanzato, nonna... Ti ricordi che te ne ho parlato?" disse sentendo tutto a un tratto freddo, gelo, la casa come un ghiacciaio che si era appena spaccato in due, irrimediabilmente, per sempre. Si girò verso di lui e disse: "La nonna è un po' dura d'orecchio" – sorriso – "non è vero, nonna? Mia madre, invece, sarà andata a cambiarsi... O che so. Aspetta. Vado a cercarla".

La sua risposta fu laconica (anche lui era nella morsa del ghiacciaio). "Lascia perdere," disse.

Le piaceva pensare di essere rimasta incinta di Alma durante la vacanza in Messico, ma era impossibile, perché Alma era arrivata a ottobre, quindi doveva essere stato dopo il ritorno all'università. In ogni caso, a prescindere dal fatto che prendeva la pillola e che a livello conscio non aveva il minimo desiderio di restare incinta, o almeno non ancora, era successo, e quella gravidanza la rinchiuse nel ghiacciaio fino a quando non si spaccò di nuovo. Non poteva tornare a casa. E non ci tornò. Si laureò (con sua madre in lacrime alla cerimonia senza sapere esattamente per che cosa piangeva, o fino a che punto piangeva per quello) e andò a vivere con Greg, a Santa Barbara, dove lui cominciò a lavorare sulle barche del padre, pescando aragoste e molluschi dietro Santa Cruz.

All'inizio vissero dai genitori di Greg in una casa sulla mesa, subito sopra la marina, ma la casa – un grosso cottage sconclusionato con un portico al piano di sotto, uno al piano di sopra e finestre a est e a sud che si affacciavano sul mare – nonostante la grandezza, era affollata. C'erano i cinque fratelli di Greg, tutti più giovani di lui e sempre alle prese con eterne lotte intestine, il padre della madre, due zii scapoli e una quantità di cani, gatti e gabbie di uccelli che schiamazzavano rumorosamente. Nonostante avessero una stanza tutta per loro, Kat non riusciva a sentirsi a casa propria. La suocera respingeva ogni suo tentativo di dare una mano, non le lasciava tagliare le verdure, lavare i piatti e nemmeno portar fuori la spazzatura, e tutte le volte che si sedeva sul divano o entrava in cucina si sentiva un'intrusa, come di fatto era. E sebbene si ritenesse del tutto libera da pregiudizi, era comunque strano trovarsi a vivere in una famiglia giapponese, o giapponese-americana, come lei stessa si correggeva costantemente.

Non che fossero poi così diversi da chiunque altro, mangiavano bistecche, hamburger, hot dog eccetera, magari un po' più di pesce visto che l'azienda di famiglia trattava di quello, ma la realtà era che qualsiasi casa, qualsiasi altra famiglia, foss'anche quella accanto all'abitazione di sua madre a Venice, le sarebbe sembrata disorientante, soprattutto nel suo stato. Era abituata al silenzio e all'ordine, a una casa in cui avevano vissuto e lavorato in pace tre generazioni di donne senza la presenza molesta di uomini, bambini, animali. Qui invece c'era il caos, c'era l'altro, nuovi legami e una nuova organizzazione. Erano diversi gli odori, i piccoli rituali che accompagnavano i pasti, il posto in cui si sedevano le persone, il rumore e la confusione dei bambini e della torma dei loro amici – persino i cani, una coppia di Akita, non somigliavano a nessun altro cane che lei avesse mai visto, la testa larga e piatta come quella di un orso e abitudini misteriose, ma dove facevano i loro bisogni? Di tanto in tanto li sorprendeva nel suo letto e un paio di volte trovò le coperte umide in maniera sospetta.

Nel giro di un mese cominciò a dare il tormento a Greg perché si trovassero un posto tutto per loro – un po' di privacy, non chiedeva altro, niente contro la sua famiglia – e quando arrivò Alma, che lei allattava tutto il giorno chiusa nella sua stanza per non doversi sorbire l'ennesima paternale della suocera su come si allevano i figli, la cosa si fece imperativa. Nella primavera dell'anno seguente, il 1969, la spuntò. Una sera umida e ventosa Greg tornò a casa dal lavoro, si scostò i capelli dalla faccia e con una voce che faticava a contenere l'entusiasmo annunciò che si trasferivano al porto, a vivere in una barca che aveva acquistato per 3.600 dollari, un terzo subito e il resto da versare nel corso dell'anno. Non fosse stato per la bambina, gli avrebbe buttato le braccia al collo. Date le circostanze, lo circondò con un braccio continuando a cullare Alma con l'altro e ballarono tutti e tre per la stanza finché Billy, lo zio di Greg che lavorava di notte e dormiva nella camera sotto la loro, venne su dalle scale a lamentarsi del baccano.

Il Black Gold era una barca da lavoro, un dieci metri, un cabinato convertito con un ponte posteriore aperto in vetroresina al posto dell'originale rivestimento in legno e sotto un gavone per il pescato; la cabina principale e la zona notte erano a poppa. C'era una cucina grande come una ghiacciaia, una ghiacciaia grande come una cassetta d'arance, una tavolo a scomparsa che quando non serviva (non succedeva mai) veniva ripiegato, una piccola bara verticale con una testata e un'asse di compensato, un materassino di gommapiuma sbriciolata e un sacco a pelo che diffondeva nell'aria sotto la prua un pot-pourri di fetori misti. Alla marina c'erano docce, bagni, lavanderie. Kat diceva sempre per scherzo che la barca ridefiniva il concetto di umido. Gli indumenti, i pannolini, le salviette sembravano delle spugne, e l'unico sollievo era quando splendeva il sole e si alzava il vento e si potevano stendere i panni ad asciugare. Cioè, i giorni in cui erano in porto. E quei giorni erano rari, almeno all'inizio.

Si svegliava col buio e Alma che strillava, la portava nel loro letto per la poppata, poi si alzava e preparava la colazione a Greg, riso saltato, quattro uova, sgombro, molluschi o bacon canadese rosolato in padella, formaggio alla piastra, caffè a volontà. Poi, quando arrivava il suo socio Mickey Mans con l'aria di uno che la sera prima aveva bevuto troppo, affamato e ubriaco in ugual misura, lei prendeva la bambina e saliva su in collina dalla suocera per tutto il giorno, oppure andava a piedi alla biblioteca di Anacapa Street dove restava a scartabellare e giocare con Alma finché non sentiva che la noia la stava soffocando. Ma vivevano contando i centesimi, avevano la loro privacy e tutte le sere, quando la barca entrava scoppiettando nella bocca del porto, lei lo aspettava al molo con le borse della spesa. Era diventata il genio della cucina rapida ma nutriente, per lo più verdure in padella, cavolfiori, cavolo cinese, funghi, piattoni, germogli di soia – tutto ciò che aveva un bell'aspetto al mercato – arricchiti con halibut, aragoste, granchi e scorfani che comprava per due soldi dai pescatori al loro rientro.

E uni, anche se lei non era mai riuscita a farseli piacere. Greg e Mickey andavano in cerca esclusivamente di uni perché la pesca dei molluschi era crollata a causa della raccolta eccessiva, le popolazioni di pesce di fondale e di aragoste stagionali erano calate e il padre di Greg aveva trovato una nicchia di mercato per i ricci di mare, che vendeva a un commerciante di Los Angeles il quale poi li spediva in Giappone via nave. Erano stati fra i primi a sfruttare la risorsa, ma il vero boom era arrivato alla fine degli anni settanta, quando Alma frequentava la quarta, la quinta e poi la sesta e pensava che vivere su una barca fosse la cosa più naturale del mondo. I ricci di mare, in passato considerati una specie nociva, improvvisamente erano diventati l'articolo più ricercato sul mercato. I giapponesi ne richiedevano grandi quantità. Quello che gli interessava erano le uova, o per meglio dire le gonadi, organi color arancio disposti a stella all'interno del guscio spinoso, che venivano estratte dal grossista, confezionate in ghiaccio e inviate a Tokyo con voli notturni. Oro nero, era così che la gente chiamava i ricci di mare, anche se in realtà al sole il loro colore andava dal rosso al porpora, e i guadagni erano buoni, i guadagni erano entusiasmanti, favolosi, troppo bello per essere vero.

Quando Alma fu in sesta comprarono una casa loro in una viuzza laterale a pochi minuti a piedi dal porto, e l'umidità, la muffa, l'alloggio angusto e l'odore di pesce così forte che sembrava di stare nella mota in fondo al mare, divennero un ricordo. Non tutto era perfetto (per i primi mesi Alma ebbe sonni interrotti, si svegliava in lacrime perché il letto non si muoveva e il pavimento non oscillava, non traballava, non dondolava, e per dormire si metteva sul tappeto sotto íl letto, come se fosse ancora rannicchiata nella sua cuccetta di prua), ma per Kat era stato come passare dalla notte al giorno. Avere una casa lontano dall'acqua dove c'era un po' di spazio per muoversi, non doversi preoccupare tutta la notte che la figlia cadesse fuori e annegasse e poter camminare sul pavimento della cucina senza sguazzare nell'acqua era una benedizione, una rivoluzione, una liberazione, per non parlare degli effetti sulla loro vita sessuale: non ricordava più quante volte lei e Greg avevano dovuto sgattaiolare fuori dalla cabina rabbrividendo dal freddo per fare l'amore sul ponte o sul piccolo sedile di pelle del pozzetto per non farsi sentire da Alma. Poi c'era il piccolo miracolo della signora Meehan, la donna che avevano trovato perché badasse ad Alma dopo la scuola, consentendo a Kat di lavorare sulla barca insieme a Greg e Mickey.

Kat divenne il loro mozzo, il che permetteva a loro di dedicare più tempo alla raccolta dei ricci e meno a trafficare con l'attrezzatura, e il cambiamento la riportò alla vita dopo gli anni passati a fare la spola fra la biblioteca, casa Takesue e i lavoretti part time che prendeva per ammazzare la noia quando Alma iniziava la scuola. I primi giorni furono duri, ma ingranò alla svelta – Greg era paziente con lei anche se il suo socio, soprattutto al mattino prima di cominciare le immersioni, tendeva a essere un orso – e nel giro di un mese la sua fiducia in sé cominciò a crescere, insieme ai muscoli delle braccia e delle spalle, e anche se un corpo di acciaio non era esattamente femminile, lei si sentiva bene. E così pure essere lontani dalla costa, all'aria aperta, sotto il cielo.

Il mozzo su una barca per ricci ha il compito di occuparsi di tutte quelle cose che chi si immerge preferisce non dover fare personalmente, come calare e sistemare l'ancora in un punto promettente, mettere ad asciugare mute e manichette, manovrare il verricello per issare a bordo il pescato, tener d'occhio il compressore d'aria quando i sub sono a dieci metri di profondità nei mulinelli di acqua gelida e preparargli un buon pasto caldo perché riprendano le forze dopo le immersioni pomeridiane. Nonché tirar fuori le birre fredde per il viaggio di ritorno verso casa. Mentre loro erano in acqua, in genere per turni di trenta minuti (trenta minuti mediamente bastavano a riempire di ricci la sacca rinforzata da nervature d'acciaio), lei impiegava il tempo come meglio poteva, leggendo romanzi e pile di vecchie riviste che le passava un amico di Greg che lavorava da un dentista, schizzando a matita i promontori dell'isola o semplicemente lasciando vagare lo sguardo nel vuoto e sognando, un occhio attento alle spire delle manichette gialle che bucavano la superficie del mare scomparendo verso il fondo. Finalmente la vita sembrava assecondare i suoi desideri. Non era mai stata più felice di così.

Poi arrivò una mattina d'agosto, calma e serena, davanti alla barca un filo di nebbia a pelo d'acqua che si dissolveva mentre l'attraversavano, lei timonava rilassata come un camionista sulla statale mentre di sotto Greg e Mickey dormivano. Ormai erano sei mesi, sei mesi proprio quel giorno (al ritorno, quella sera, lei e Greg avrebbero festeggiato andando a cena fuori e poi al cinema), e aveva raggiunto una sicurezza tale da potersi occupare praticamente da sola di condurre la barca, andata e ritorno, perché che senso aveva che i suoi sub dovessero sprecare le forze quando potevano crollare nelle cuccette nel viaggio di andata e accasciarsi sulla loro birra in quello di ritorno? Risparmia le forze, diceva a Greg dopo il primo mese strizzandogli il braccio all'altezza del bicipite mentre erano in cabina, con la sua migliore interpretazione di uno sguardo allusivo, e lui ricambiava lo sguardo, la baciava appassionatamente e le passava una mano sul seno, poi alzava anche l'altra e la teneva lì. Certo, diceva, perché no? Ormai sai fare tutto benissimo. Basta che tieni d'occhio le spie e sorvegli il motore, non c'è bisogno di altro. Ed era proprio così. Nessun problema. E se qualcosa non funzionava, a bordo c'erano due meccanici e lei lasciava che se la sbrigassero loro. Una tazza di caffè al mattino per tenersi sveglia, una sola birra e solo alla sera dopo aver oltrepassato le rotte delle navi. Un'occhiata all'ecoscandaglio. Fissa un punto e non deviare mai perché andare a zig zag serve solo a sprecare carburante. La cosa più semplice del mondo.

Quel mattino erano diretti verso la punta occidentale dell'isola, verso i banchi di alghe brune alla Forney's Cove dove il giorno prima avevano scoperto un giacimento di ricci. Alma si trovava a Venice con nonna Boyd per tre giorni, gli screzi su Greg ormai acqua passata, perché quando finalmente Kat aveva portato a casa la figlia di quattro mesi (solo lei, solo per un giorno) la madre si era sciolta, e su giap, gialli o orientali non venne più detta una parola, almeno non quando c'era Alma. Ultimamente la pesca era stata eccezionalmente buona, ricci di prima qualità – ne prendevano mediamente un migliaio al giorno – e quasi numerosi quanto le pietre vulcaniche che tappezzavano il fondale. Arrivavano sempre più barche, ma loro non riuscivano a immaginare nemmeno lontanamente un crollo della pesca, non ancora. Non con tutta quella abbondanza. Finché ce n'è, tu prendi, pensava lei. Paga il mutuo. Risparmi per il domani.

Greg riemerse da sotto, stropicciandosi gli occhi, non appena sentì mettere in folle e il motore che calava di giri. "Siamo già qui, eh?" disse stiracchiandosi e sbirciando fuori dall'oblò dove le alghe allungavano le loro fronde sull'acqua come mani tese.

"Certo," ribatté lei, "bella la vita quando si dorme sempre."

"Come vanno i peperoncini?" Era il nomignolo che dava alle alghe, perché avevano esattamente la stessa consistenza e colore dei piccoli peperoni piccanti che si potevano vedere nella vaschetta degli antipasti al bancone della gastronomia.

"Non so," rispose lei. "Ce n'è un sacco."

Salì sul ponte per dare un'occhiata (cercava foglie smangiucchiate, segno che là sotto si stava svolgendo un party di ricci), poi dopo un minuto agitò il braccio e le fece cenno di calare l'ancora. In quel momento Mickey strisciò fuori dal cucinotto, un berrettino da baseball che un tempo era stato bianco calato sugli occhi e la mano che stringeva una tazza di caffè come una sagola di salvataggio. Anche lui, al pari di Greg, portava un paio di pantaloncini e una felpa con macchie di vernice, olio di motore e vari fluidi interni di questa o quella creatura marina. Era di costituzione tozza e robusta, già quasi calvo a trent'anni, un irresistibile sorriso sdentato che gli dava l'aria del primo della classe, cioè esattamente quello che era stato. A sentir lui. Sfortunatamente non elargiva mai il suo sorriso né niente di simile prima delle dodici, le dodici come minimo, e quando spuntò dalla cabina un attimo dopo era ingrugnito come al solito. "Ragazzi, io stamattina non me la sento di buttarmi in quell'acqua," disse sporgendosi oltre il parapetto e fissando con sguardo vacuo la scia di alghe cullate dolcemente dalle onde. "Perché non te la metti tu la muta, Kat? E io me ne sto qua a prendere il sole. E a leggere... cos'è, 'Cosmopolitan'? O 'Better Homes and Gardens'. È quello che vorremmo tutti, no? Case migliori, giardini migliori."

"Mm-mmm," fece lei. "Ci serve una pesca migliore." Gli sorrise, poi guardò ostentatamente l'orologio. "E questo vuol dire che è ora di accendere il compressore e mandare i miei sub laggiù dove ci sono tutti quegli animaletti pieni di spine." Il compressore – l'aveva montato Greg – era fissato sul ponte appena dietro la cabina sul fianco destro, sotto la falchetta che lo proteggeva dal vento e dagli spruzzi. Lei odiava tirare la corda e avviare quell'aggeggio, che col suo baccano – un petulante scappamento che scoppiettava senza posa come un intero plotone di soffiafoglie da giardino al lavoro sul mare – rovinava la pace mattutina e anche quella pomeridiana. Non appena i ragazzi si immergevano, lei si metteva i tappi nelle orecchie, che però riuscivano solo ad attutire il frastuono, per cui ogni parola che leggeva in uno dei libri sgualciti o nelle riviste scolorite dal sole sembrava risuonare due volte, una sulle sue labbra e l'altra nei meandri dissociati e fluttuanti del cervello. Bisognava cambiare il silenziatore, questo era sicuro, lei continuava a dirlo a Greg che faceva le solite promesse, ma andavano avanti a raccogliere finché la raccolta era buona, e alla fine della giornata si sentivano come se avessero fatto la maratona e nessuno aveva voglia di pensare alla manutenzione; la manutenzione era riservata ai giorni di burrasca in gennaio o febbraio, quando i ricci deponevano le uova e passavano settimane e settimane ad avvitarsi nel nulla.

Il motore partì al primo colpo, Vrrrr-rap-rap-rap, e dovettero urlare per parlarsi mentre lei faceva scorrere le manichette e Greg e Mickey si infilavano muta, pinne, maschera e zavorre. Quindi saltarono fuori bordo in un ribollire di acqua scura, restando sospesi una frazione di secondo sull'abisso opaco prima di scomparire. Per abitudine (per noia, perché cos'altro aveva da fare?) rimase lì a guardare le bollicine salire alla superficie, poi ognuno dei due se ne andò per conto proprio verso le colonie di echinodermi neri e spinosi, da staccare dalla roccia e infilare nella sacca a rete che si trascinavano dietro, per la bella somma di cinquantasei centesimi al chilo.

Si era alzato un po' di vento e lei si sporse oltre il parapetto, sognando, lasciando vagare lo sguardo sulla superficie fino alla bianca mezzaluna della spiaggia, cinquecento metri più in là, e alle colline bruciate dal sole che si levavano subito dietro. La barca girava all'ancora. Un frangente – punteggiato di bianco, spumeggiante – corse davanti al vento e cancellò le bollicine d'aria. Il motore a scoppio che faceva andare il compressore perse un colpo, tossicchiò, poi si riprese con un gemito acuto, scorreggiando i suoi gas di scarico attraverso la marmitta bucherellata dall'aria salmastra. Il vento gelido risucchiava il freddo dalle onde come un gigantesco condizionatore d'aria, e lei scese in cabina a prendere la felpa. Mentre risaliva, passò dalla cucina e si fermò a farsi la terza tazza di caffè e a prepararsi un sandwich di pane nero con prosciutto ed emmenthal, una fettina di cipolla dolce e tanta senape, che scaldò appena in padella per far amalgamare il tutto per bene, come piaceva a lei, poi tornò sul ponte. Erano scesi da venti minuti – perfetto – quindi aveva tutto il tempo di gustarsi il sandwich e indugiare sul suo caffè prima che loro risalissero e lei dovesse issare le sacche sul ponte con il verricello. Quella parte era divertente, rompeva la monotonia, gli animaletti timidi e schivi che, prima che lei li rinchiudesse nel buio della stiva, rotolavano sulle assi, gli aculei frementi e raggruppati come per valutare la minaccia di un'atmosfera aliena, composta da aria velenosa invece che da liquida acqua. L'operazione richiedeva cura: le punture degli aculei, anche se superficiali, si infettavano sempre, e se uno penetrava sotto la pelle e si rompeva, era meglio cominciare a preparare venticinque dollari perché per tirarlo fuori e disinfettare la ferita serviva un medico. Erizos del mar, ricci di mare, così li chiamavano i messicani. Oppure talvolta semplicemente heriditas, feritine.

La barca prese a rollare un po', niente di serio, niente di men che ordinario, il tempo da queste parti è quanto mai mutevole, ma seduta al sole con la felpa addosso stava bene, il sandwich era buono e il caffè ancora caldo. Allo scadere dei trenta minuti né Greg né Mickey erano ancora riemersi, segno che il bottino era un po' più magro di quanto speravano o che laggiù le correnti li stavano sballottando, e quindi la cosa andava per le lunghe più del solito. Divorò il sandwich morso dopo morso, lasciandosi la parte centrale per ultima, poi si leccò le dita, rimpiangendo di non aver preso un pezzo di carta da cucina o un tovagliolino e finendo per pulirsi le mani sui pantaloncini, che tanto erano da lavare. Dopo trentacinque minuti si alzò e andò a guardare se sei metri più in là, lungo la linea delle manichette che spuntavano dall'acqua, c'erano bollicine, ma non vedeva niente a parte gli spruzzi di schiuma sull'acqua sferzata dal vento. Se non fossero risaliti nei successivi cinque minuti avrebbe dato un paio di strattoni alle manichette per chiedergli di tornar su.

Quello che non sapeva era che il compressore, montato alla bell'e meglio, muovendosi aveva cominciato piano piano a staccarsi dalla lastra d'acciaio a cui l'aveva fissato Greg. Questo fece aumentare le vibrazioni, il che a sua volta provocò il distacco del silenziatore dal raccordo di una frazione di centimetro, ma i gas di scarico cominciarono a rifluire verso la presa d'aria. Poiché la barca era girata contro vento e il compressore si trovava nello spazio fra la paratia della cabina e la falchetta, venne a crearsi un ristagno di monossido di carbonio che finì per infiltrarsi nella presa d'aria. Greg non stava respirando ossigeno. E nemmeno Mickey.

Alla fine, trascorsi quaranta minuti, dette due robusti strattoni alla manichetta di Greg e un attimo dopo sentì che tirandolo a sé il tubo veniva su, dunque tutto bene, nessun motivo di allarme; probabilmente la sacca era piena fino all'orlo e lui faceva fatica a manovrarla, quindi lei lo aiutava a risalire evitando che la manichetta si impigliasse. Scrutava intenta l'acqua, aspettandosi di vedere le bollicine, le sue gambe che battevano mentre riemergeva dal fondo con il canestro che lei avrebbe dovuto agganciare e tirare a bordo, quando a un tratto lo vide venire a galla come un pezzo di legno. Greg, suo marito, il suo amante, i lunghi capelli serici non più trattenuti dal cappuccio aperti a raggiera attorno a lui come alghe e, cosa strana, niente sacca in vista. Cosa ancora più strana, le pinne non si muovevano e lui non sollevò la testa per sorriderle dietro la maschera appannata con il pollice alzato. Anzi, non si muoveva affatto.

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