Copertina
Autore Ray Bradbury
Titolo Lo zen nell'arte della scrittura
SottotitoloLibera il genio creativo che è in te
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2006 [2000], Narrativa 15 , pag. 128, cop.fle., dim. 133x200x8 mm , Isbn 978-88-89969-08-3
OriginaleZen in the Art of Writing [1986]
TraduttorePaolo Nori, Salim Catrina
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe libri , fantascienza , scrittura-lettura
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Indice

Introduzione                                             7
Ringraziamenti                                          11

La gioia di scrivere                                    13
Corri forte, tieni duro, o la cosa in cima alle scale,
o nuovi fantasmi da vecchi cervelli                     19
Come trovare una musa e nutrirla                        32
Ubriaco, e con la responsabilità di una bicicletta      45
Investire gli spiccioli: Fahrenheit 451                 59
Questa parte di Bisanzio: Dandelion Wine                65
La lunga strada per Marte                               73
Sulle spalle di giganti                                 78
La mente segreta                                        86
Tirando Haiku in un barile                              95
Lo zen nell'arte della scrittura                       103
Sulla creatività                                       115


 

 

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Pagina 6

                Come scalare
                l'albero della vita, tirare dei sassi
                a se stesso
                e tornare giù
                senza rompersi
                le ossa o il morale.
                Un'introduzione con un titolo
                non molto più lungo del libro.



Introduzione



A volte sono sbalordito di come, a nove anni, ho saputo capire che ero in gabbia e sono riuscito a scappare.

Com'è possibile che quel ragazzo che ero nell'ottobre del 1929 potesse, per le critiche dei suoi compagni di quarta, strappare i suoi fumetti di Buck Rogers e un mese dopo giudicare i suoi amici dei deficienti e ricominciare a collezionarli?

Da dove venivano quel giudizio e quella forza? Che razza di processo ho sperimentato che mi portasse a dire: sto morendo. Chi mi sta uccidendo? Di cosa soffro? Qual è la cura?

Ovviamente ero capace di rispondere a tutte le domande. Diedi un nome alla malattia: il fatto di aver strappato i fumetti. Trovai la cura: rimettermi a collezionare, non importa cosa.

E lo feci. E fu ben fatto.

Ma ancora. A quell 'età? Quando eravamo abituati a subire una tale pressione?

Dove ho trovato il coraggio di ribellarmi, di cambiare la mia vita, di vivere da solo?

Non voglio sopravvalutare tutto questo, ma, porca miseria, mi piace quel ragazzino di nove anni, chi accidenti fosse. Senza di lui, non sarei arrivato a scrivere l'introduzione a questi saggi.

Una parte della risposta, senz'altro, sta nel fatto che io ero così innamorato di Buck Rogers che non potevo vedere il mio amore, la mia vita, il mio eroe distrutti. È quasi semplice. Era come vedere il tuo migliore amico, amatissimo, fratello, centro della vita, sparire, o essere colpito da un fucile da caccia. Agli amici, quando vengono uccisi così, non si può evitare il funerale. Buck Rogers, ho capito, poteva conoscere una seconda vita, se gliel'avessi data. Così ho soffiato nella sua bocca e op, è saltato su e si è messo a camminare e ha detto, cosa?

Grida. Salta. Gioca. Lascia perdere questi figli di puttana. Non vivranno mai nel modo in cui vivi tu. Vai e fallo.

Solo, non ho mai detto Figli di puttana. Erano parole che non si potevano dire. Eck! era più o meno quello che mi veniva concesso. Stai al mondo!

Così ho fatto collezione di fumetti, mi sono innamorato delle fiere e delle esposizioni universali e ho cominciato a scrivere. E cosa ci insegna, mi chiederete voi, il fatto di scrivere?

Prima di tutto ci ricorda che siamo vivi, e che questo è un dono e un privilegio, e non un diritto. Dobbiamo guadagnarci la vita, una volta che ci è stata concessa. La vita chiede in cambio delle ricompense per averci concesso l'animazione.

Quindi mentre la nostra arte non può, come vorremmo potesse, liberarci dalle guerre, dalle privazioni, dall'invidia, dall'avidità, dalla vecchiaia o dalla morte, ci può rivitalizzare nel mezzo di tutto questo.

Secondariamente, vivere è sopravvivere. Ogni arte, ogni buon lavoro, naturalmente, lo è.

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Pagina 61

Recentemente, con lo Studio Theatre Playhouse di Los Angeles, ho chiamato tutti i personaggi di F. 451 fuori dall'ombra. Cosa c'è di nuovo, ho detto a Montag, Clarisse, Faber, Beatty, da quando ci siamo visti l'ultima volta, nel 1953?

Io ho domandato. Loro hanno risposto.

Hanno scritto nuove scene, rivelato lati bizzarri delle loro anime e dei loro sogni ancora da scoprire. Il risultato è stato un dramma in due atti, messo in scena con buoni risultati e, soprattutto, con ottime recensioni.

Beatty fu quello che la prese più da lontano, in risposta alla mia domanda. Da dove è cominciata? Perché hai deciso di diventare capo dei pompieri e di bruciare libri? La sorprendente risposta di Beatty viene data in una scena in cui invita a casa, nel suo appartamento, il nostro eroe, Guy Montag. Entrando, Montag è sconvolto dalla scoperta che migliaia e migliaia di libri coprono le pareti della biblioteca nascosta del capo dei pompieri. Montag si gira e grida al suo superiore:

«Ma lei è il capo dei pompieri! Non può avere libri in casa sua!».

Al che, il capo dei pompieri con un secco e luminoso sorriso, risponde:

«Il crimine non è possedere libri, Montag, è leggerli. Sì, è vero. Possiedo dei libri, ma non li leggo».

Montag, scioccato, si aspetta da Beatty una spiegazione.

«Non vedi la bellezza, Montag? Non li leggo mai. Non un libro, non un capitolo, non una pagina, non un paragrafo. Sono ironico, non è vero? Avere migliaia di libri e non aprirne mai uno, girare la schiena e dire: No. È come avere una casa piena di belle donne e, sorridendo, non toccarne... neanche una. Così, come vedi, non sono per niente un criminale. Se dovessi mai pescarmi a leggerne uno, allora sì, mettimi dentro! Ma questo posto è puro come la stanza estiva bianco crema di una vergine dodicenne. Questi libri muoiono sugli scaffali. Perché? Perché ho deciso così. Non gli do sostentamento, non gli do speranza, né con le mani né con gli occhi né con la lingua. Non sono altro che polvere».

Montag esclama «Non vedo come lei non possa essere...».

«Tentato?» grida il capo dei pompieri. «Oh, questo succedeva molto tempo fa. La mela è stata mangiata ed è sparita. Il serpente è tornato sul suo albero. Il giardino è pieno di erbacce e di ruggine».

«Un tempo...» Montag esita, poi continua «Un tempo lei deve aver amato molto i libri».

«Touché» risponde il capo dei pompieri. «Sotto la cintura. Al mento. Al cuore. Con le budella lacerate. Oh, mi guardi, Montag. L'uomo che amava i libri, no, il ragazzo che era folle di loro, pazzo di loro, che si arrampicava su per gli scaffali come uno scimpanzé impazzito per loro».

«Io li ho mangiati come l'insalata, i libri sono stati il mio sandwich a pranzo, il mio pasto, la mia cena e il mio spuntino di mezzanotte. Ho strappato le pagine, le ho mangiate col sale, le ho condite con salsa piccante, ne ho morso le rilegature, ho voltato i capitoli con la lingua! Libri a dozzine, a ventine, a miliardi! Ne ho portati a casa così tanti che avevo scorte per anni. Filosofia, storia dell'arte, politica, scienze sociali, la poesia, i saggi, la grande commedia, scegline uno. Li ho mangiati tutti. E poi... e poi...». La voce del capo dei pompieri si affievolisce.

E Montag, prontamente: «E poi?».

«Be', la vita mi è venuta addosso». Il capo dei pompieri chiude gli occhi per ricordare. «La vita. La solita. La stessa. L'amore che non era proprio quello giusto, il sogno che si è inacidito, il sesso che andava a pezzi, la morte che è andata troppo presto dagli amici che non lo meritavano, l'omicidio di qualcuno o qualcun'altro, la pazzia di qualcuno vicino, la morte lenta di una madre, il suicidio improvviso di un padre, una carica di elefanti, un attacco di malattie. E da nessuna parte, da nessuna parte il libro giusto per quel momento, da infilare nel muro pericolante della diga che crolla per mandare indietro il diluvio, dare o prendere una metafora, perdere o trovare una similitudine. E al confine lontano dei trenta e vicino all'orlo dei trentuno, mi sono tirato su, tutte le ossa rotte, ogni centimetro della mia carne scorticato, ammaccato, sfregiato. Mi sono guardato allo specchio e ho trovato un vecchio perso dietro la faccia spaventata di un giovane, ho visto l'odio per tutto e per tutti, così lo chiami tu, che vada in malora, e ho aperto le pagine dei libri della mia bella biblioteca e cosa ho trovato, cosa? cosa?».

Montag suppone «Le pagine erano vuote!».

«Perdinci! Vuote! Oh, c'erano le parole, sì sì, ma correvano sui miei occhi come olio bollente, non significavano niente. Non davano nessun aiuto, nessun sollievo, nessuna pace, nessun rifugio, nessun vero amore, nessun letto, nessuna luce».

Montag pensa al passato «Trenta anni fa... l'ultima biblioteca bruciata...».

«Centro». Beatty annuì. «Ero senza lavoro, ero un romantico fallito, o che diavolo, decisi di diventare un pompiere di prima classe. Primo ai corsi, primo in biblioteca, primo nella fornace bruciante del cuore di questo campagnolo sempre in fiamme, immergetemi nel kerosene, passatemi la mia torcia!».

«Fine della lezione. Ora vai, Montag, fuori di qui!».

Montag se ne va, più curioso dei libri che mai, sulla buona strada per diventare un bandito, per essere presto perseguitato e quasi distrutto dal Cane Meccanico, il mio robot, clone della grande bestia dei Baskerville di Conan Doyle.

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