Autore Rutger Bregman
Titolo Utopia per realisti
SottotitoloCome costruire davvero il mondo ideale
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2017, Serie Bianca , pag. 256, ill., cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-17325-7
OriginaleUtopia for Realists [2016]
TraduttoreGiancarlo Carlotti
LettoreFlo Bertelli, 2017
Classe lavoro , economia , politica , destra-sinistra , storia sociale , scienze sociali












 

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Indice


  9 1. Il ritorno dell'utopia

    L'utopia medievale, 12;
    Un paradiso triste, 17;
    Il progetto, 18;
    Il ritorno dell'utopia, 19;
    La morte della grande narrazione, 20;
    La generazione viziata, 22;
    Ancora il progetto, 24

 29 2. Perché dovremmo regalare soldi a tutti

    Corsi di giardinaggio, 30;
    Dati nudi e crudi, 30;
    Una rivoluzione al Sud, 32;
    Utopia, 35;
    Mincome, Canada, 35;
    Dall'esperimento alla legge, 37;
    Inutile, pericoloso e perverso, 41;
    Parla diverso, pensa diverso, 44

 49 3. La fine della povertà

    Perché i poveri commettono stupidaggini, 52;
    Il potere del contesto, 52;
    Dalla povertà non puoi prenderti una pausa, 53;
    Due esperimenti, 54;
    Larghezza di banda mentale interna lorda, 55;
    Soldi gratis, 57;
    La maledizione della disuguaglianza, 58;
    Quando la povertà era ancora normale, 62;
    Un tetto sulle nostre teste, 63;
    Come fu persa una causa degna, 64;
    Una bella lezione, 65

 69 4. La curiosa storia del presidente Nixon e
       della sua legge per un reddito di base

    L'ombra di Speenhamland, 70;
    Le ironie della storia, 73;
    Centocinquant'anni dopo, 76;
    Un sistema nefando, 78;
    Un mito pernicioso, 80;
    Le lezioni della storia, 81;
    Lo stato di sorveglianza, 82

 87 5. Nuove cifre per una nuova era

    Quel che si vede, 88;
    Quel che non si vede, 89;
    A ogni epoca le sue cifre, 92;
    Il parametro definitivo, 96;
    Alternative, 99;
    Il segreto del governo che si allarga, 101;
    Una plancia per il progresso, 103

107 6. Una settimana lavorativa di quindici ore

    Un futuro con tanto tempo libero, 108;
    "Una razza di guardiani di macchine", 110;
    George e Jane, 112;
    Il sogno dimenticato, 113;
    Capitalismo al cornflake, 116;
    La soluzione a (quasi) tutto, 118;
    Crampi da crescita, 121;
    Strategia nazionale, 122;
    La buona vita, 124

127 7. Perché fare il banchiere non rende

    Ricchi senza alzare un dito, 128;
    Quando l'ozio era diritto di nascita, 129;
    Quando scioperarono i bancari, 131;
    Un'altra forma di tassazione, 133;
    Lavori burla, 134;
    C'è un altro modo, 136;
    Osservatori dei trend, 139;
    New York, cinquant'anni dopo, 142

145 8. La corsa contro la macchina

    Il chip e la scatola, 146;
    Lavoro contro capitale, 149;
    Automazione del lavoro della conoscenza, 151;
    Quando le persone ancora contavano, 154;
    Questa volta è diverso, 156;
    La battaglia di Rawfolds Mill, 157;
    La ragione dei luddisti, 158;
    Rimedi, 160;
    Il futuro del capitalismo, 161

167 9. Oltre i cancelli della Terra dell'abbondanza

    C'era una volta un gruppo di controllo, 169;
    Un mucchio di soldi e un progetto valido, 171;
    Metodo miracoloso?, 172;
    Le tre I, 174;
    65.000.000.000.000 dollari, 176;
    I confini discriminano, 177;
    La nostra rendita di posizione, 179;
    Falsificare le falsità, 181;
    Datti una mossa, arricchisciti, 185;
    Aprite i cancelli, 187

191 10. Come le idee cambiano il mondo

    La sera del 20 dicembre 1954, 192;
    Quando le profezie non si avverano, 193;
    Quando il mio orologio ha battuto la mezzanotte, 194;
    Il potere di un'idea, 195;
    Lunga fu la notte, 197;
    I guerriglieri della resistenza capitalista, 199;
    La lezione del neoliberismo, 202

207 Epilogo

    La finestra di Overton, 207;
    Due consigli finali, 213


217 Note
243 Ringraziamenti
245 Indice analitico


 

 

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Pagina 7

Una carta del mondo che non contenga il
Paese dell'Utopia non è degna nemmeno
di uno sguardo, perché non prevede
l'unico Paese al quale l'Umanità approda
di continuo. E anche quando vi getta
l'àncora, la vedetta scorge un paese
migliore, e così l'Umanità fa di nuovo
vela. Il progresso altro non è che il farsi
storia delle utopie.
Oscar Wilde (1854-1900)

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Pagina 9

1
Il ritorno dell'utopia



Cominciamo con una piccola lezione di storia.

In passato andava peggio, tutto andava peggio.

Per circa il 99 per cento della storia del pianeta, il 99 per cento dell'umanità è stato povero, affamato, sporco, terrorizzato, stupido, malato e brutto. Ancora nel Seicento, il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) definiva la vita un'unica gigantesca valle di lacrime e scriveva: "L'umanità è grande perché si riconosce miserabile". In Gran Bretagna il suo collega Thomas Hobbes (1588-1679) era d'accordo: andando al sodo, la vita umana era "solitaria, povera, pericolosa, brutale e breve".

Ma negli ultimi due secoli le cose sono cambiate. In appena una frazione del tempo passato dalla nostra specie su questo pianeta, miliardi di noi sono diventati tutto d'un tratto ricchi, ben nutriti, puliti, sicuri, intelligenti, sani e ogni tanto addirittura belli. Se nel 1820 l'84 per cento della popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di povertà estrema, nel 1981 questa percentuale è crollata al 44 per cento, e oggi, pochi decenni più tardi, viaggia sotto il 10 per cento.

Se questa tendenza regge, la povertà assoluta, che è stata un aspetto costante dell'esistenza, sarà presto estirpata per sempre. Persino quelli che ancora oggi definiamo poveri godranno di un'abbondanza senza precedenti nella storia del mondo. Nel paese in cui vivo, l'Olanda, una persona senza fissa dimora che gode dell'assistenza pubblica ha oggi da spendere più dell'olandese medio del 1950, e quattro volte più di chi viveva nel mitico Secolo d'oro olandese, quando questa nazione ancora dominava i sette mari.

Per secoli il tempo è rimasto praticamente immobile. Ovviamente sono successi un bel po' di fatti con cui riempire i libri di storia, ma la vita non stava esattamente migliorando. Se infilassimo un contadino italiano del Trecento in una macchina del tempo e lo calassimo nella Toscana degli anni settanta dell'Ottocento non noterebbe grandi differenze.

Gli storici valutano che il reddito medio annuale in Italia attorno al 1300 fosse più o meno l'equivalente di 1600 dollari. Circa sei secoli più tardi, dopo Colombo, Galileo, Newton, Rivoluzione scientifica, Riforma protestante e Illuminismo, invenzione della polvere da sparo, della stampa e della macchina a vapore, era... ancora di 1600 dollari. Seicento anni di progresso, eppure l'italiano medio si trovava più o meno allo stesso punto.

Soltanto verso il 1880, più o meno quando Alexander Graham Bell inventava il telefono, Thomas Edison brevettava la lampadina elettrica, Karl Benz si gingillava con la sua prima automobile e Josephine Cochrane stava rimuginando su quella che forse è stata l'idea più brillante di sempre, la lavastoviglie, il nostro contadino italiano fu risucchiato dall'avanzata del progresso. Ed è stata una cavalcata tumultuosa. Gli ultimi due secoli hanno visto la crescita esplosiva in tutto il pianeta sia della popolazione sia della ricchezza. Il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850. L'italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. E l'economia globale? Oggi è duecentocinquanta volte quella precedente alla Rivoluzione industriale, quando quasi tutti, ovunque, erano ancora poveri, affamati, sporchi, terrorizzati, stupidi, ammalati e brutti.

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Pagina 18

Il progetto


Questo libro non è un tentativo di prevedere il futuro.

È un tentativo di aprire le porte del futuro. Di spalancare le finestre della nostra mente. Naturalmente le utopie rivelano sempre più cose sull'epoca in cui sono immaginate che non su quanto riserverà realmente il futuro. L'utopica Terra dell'abbondanza ci dice parecchio sulla vita nel Medioevo. Era grama. O meglio, ci dice che le vite di quasi tutti quasi ovunque sono quasi sempre state grame. Tutto sommato, ogni cultura ha le sue varianti di Terra dell'abbondanza.

I desideri semplici generano utopie semplici. Se hai fame, sogni un sontuoso banchetto. Se hai freddo, sogni un fuoco vivace. Di fronte alle sopravvenienti infermità, sogni l'eterna giovinezza. Tutti questi desideri si riflettono nelle vecchie utopie, concepite quando la vita era ancora sgradevole, brutale e breve. "La terra non produceva nulla di spaventoso, nessuna malattia," fantasticava il poeta greco Telecide nel Quinto secolo a.C., e se serviva qualcosa, eccolo spuntare dal nulla, semplicemente. "Ogni letto di torrente era colmo di vino. [...] I pesci ti entravano in casa, si arrostivano da soli e poi si mettevano in tavola."

Ma prima di procedere oltre, distinguiamo tra due forme di pensiero utopico. La prima è la più familiare, è l'utopia del progetto. Grandi pensatori come Karl Popper e Hannah Arendt e addirittura un'intera corrente filosofica, il postmodernismo, hanno cercato di contestare questa variante. Ci sono in gran parte riusciti, e la loro è ancora la parola definitiva sul paradiso progettato sulla carta.

Invece di proporre ideali astratti, i progetti consistono di regole immutabili che non tollerano il minimo dissenso. La città del sole (1602) del filosofo e poeta italiano Tommaso Campanella ce ne fornisce un ottimo esempio. Nella sua utopia, o sarebbe meglio dire distopia, la proprietà privata è rigorosamente proibita, tutti sono obbligati ad amare gli altri e le risse sono punibili con la morte. La vita privata è controllata dallo stato, procreazione compresa. Per esempio, le persone intelligenti possono andare a letto soltanto con quelle stupide, e le grasse con quelle magre. Ogni sforzo è indirizzato al conseguimento di una media favorevole. Come se non bastasse, tutti quanti sono controllati da una immensa rete di informatori. Se qualcuno trasgredisce, viene minacciato verbalmente fino a quando si convince della sua colpa, sottomettendosi liberamente alla lapidazione.

Chiunque legga oggi il testo di Campanella, con il beneficio del senno di poi, nota rabbrividenti tracce di fascismo, stalinismo e genocidio.




Il ritorno dell'utopia


C'è tuttavia un'altra linea di pensiero utopico, pressoché dimenticata. Se il progetto è una foto ad alta definizione, allora questo tipo di utopia è solo un disegnino appena abbozzato. Non offre soluzioni ma segnali stradali. Invece di infilarci dentro una camicia di forza, ci sollecita a cambiare. E sa che, come diceva Voltaire , la perfezione è nemica del bene. Come ha segnalato un filosofo americano, "qualsiasi serio pensatore utopico sarà innervosito dalla stessa idea di progetto".

È in questo spirito che il filosofo britannico Thomas More ha scritto il libro sull'utopia per antonomasia (e coniato il termine). Invece di essere un progetto da applicare con spietatezza, la sua utopia era più che altro un atto di accusa contro un'aristocrazia avida che chiedeva ancora più lussi mentre la gente normale viveva nella povertà assoluta.

More sapeva che l'utopia è pericolosa se la prendi troppo sul serio. "Devi essere in grado di credere appassionatamente e anche di notare l'assurdità delle convinzioni di una persona e riderne," osserva il filosofo e grande esperto di utopie Lyman Tower Sargent. Come l'umorismo e la satira, le utopie spalancano le finestre della mente. Ed è fondamentale. Invecchiando poco per volta, le persone e le società si abituano allo status quo, nel quale la libertà può diventare un carcere, e la verità una sfilza di menzogne. Il credo moderno o, ancor peggio, la convinzione che non rimanga nulla in cui credere ci rendono ciechi alla miopia e all'ingiustizia che ci circondano tutti i giorni.

Solo per fare qualche esempio: perché dagli anni ottanta del Novecento abbiamo lavorato sempre di più pur essendo ricchi come non mai? Perché milioni di persone vivono ancora in povertà quando siamo ricchi più che a sufficienza per eliminarla una volta per tutte? E perché più del 60 per cento del vostro reddito dipende dal paese in cui siete casualmente nati?

Le utopie non offrono risposte preconfezionate, non parliamo poi di soluzioni. Però pongono le domande giuste.

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Pagina 24

Ancora il progetto


È venuto il momento di tornare al pensiero utopico.

Ci serve una nuova stella polare, una nuova mappa del mondo che ancora una volta comprenda un lontano continente dimenticato dalle carte, "Utopia". Con questo non intendo gli inflessibili progetti che gli utopisti fanatici tentano di ficcarci in gola a forza, con le loro teocrazie o i loro piani quinquennali, roba che può solo sottomettere la gente ai loro fervidi sogni. Pensate una cosa: la parola "utopia" significa sia "bel posto" sia "nessun posto". A noi servono orizzonti alternativi che accendano l'immaginazione. E intendo orizzonti al plurale: tutto sommato, le utopie conflittuali sono la linfa della democrazia.

Come sempre, la nostra utopia partirà senza dare nell'occhio. Le fondamenta di quella che oggi chiamiamo civiltà furono gettate tanto tempo fa da alcuni sognatori che se la scrivevano ma se la cantavano anche. Il monaco spagnolo Bartolomé de Las Casas (1484-1566) invocava l'uguaglianza tra coloni e indigeni latinoamericani, e tentò di fondare una colonia in cui tutti potessero vivere comodamente. L'industriale Robert Owen (1771-1858) propugnava l'emancipazione dei lavoratori inglesi e possedeva una fortunata filanda i cui dipendenti incassavano una paga equa e dove le punizioni corporali erano proibite. E il filosofo John Stuart Mill (1806-1873) credeva addirittura che gli uomini e le donne fossero uguali. (Forse c'entrava qualcosa il dettaglio che fu la moglie a comporre metà delle sue opere.)

Però una cosa è certa: senza tutti questi sognatori con la testa in aria sparsi nei secoli, saremmo ancora tutti poveri, affamati, sporchi, spaventati, stupidi, malati e brutti. Senza l'utopia siamo perduti. Non che il presente sia tanto male, anzi. Però sarà dura se non avremo alcuna speranza di migliorare. "Per la sua felicità l'uomo ha bisogno non solo di godere di questo o quello ma di speranza e intraprendenza e cambiamento," ha scritto il filosofo britannico Bertrand Russell. E altrove aggiungeva: "Non è un'Utopia completa quello che dovremmo desiderare, ma un mondo in cui immaginazione e speranza siano attive e vive".

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Pagina 27

È meglio avere soldi che essere poveri,
non foss'altro che per motivi economici.
Woody Allen (1935-)

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Pagina 41

Inutile, pericoloso e perverso


"Si può fare! Sconfiggere la povertà in America entro il 1976," scrisse fiducioso il premio Nobel James Tobin nel 1967. In quei giorni il reddito minimo garantito era appoggiato da quasi l'80 per cento degli americani. Qualche anno dopo Ronald Reagan fece un famoso commento sarcastico: "Negli anni sessanta abbiamo dichiarato guerra alla povertà, e la povertà ha vinto".

In un primo momento, le grandi pietre miliari della civiltà hanno sempre un sapore di utopia. Secondo il noto sociologo Albert O. Hirschman , inizialmente le utopie sono sottoposte a tre tipi di critica: sono inutili (non sono fattibili), pericolose (i rischi sono troppo grandi) e inique (degenereranno nella distopia). Però Hirschman scrisse anche che appena l'utopia diventa realtà viene spesso considerata un perfetto luogo comune.

Non molto tempo fa, la democrazia sembrava ancora una simpatica utopia. Tante grandi menti, dal filosofo Platone (427-347 a.C.) allo statista Edmund Burke (1729-1797), ci avvertivano che la democrazia era inutile (le masse sono troppo sciocche per gestirla), pericolosa (il governo della maggioranza equivaleva a giocare col fuoco) e iniqua (l'"interesse generale" sarebbe stato presto corrotto dagli interessi di qualche generale astuto o di altri). Mettiamolo a confronto con le argomentazioni contro il reddito di base. Pare che sia inutile perché non possiamo permettercelo, pericoloso perché la gente smetterebbe di lavorare e iniquo perché in fin dei conti una minoranza finirebbe con il dover sgobbare più duro per mantenere la maggioranza.

Ma... un attimo.

Inutile? Per la prima volta nella storia siamo abbastanza ricchi da poter finanziare un reddito di base stabile. Possiamo fare a meno di tutta la trafila burocratica architettata per costringere chi gode di sussidio ad accettare lavori poco produttivi quale che sia l'emolumento, e possiamo contribuire a finanziare il nuovo sistema più semplice cestinando anche il dedalo di deduzioni e crediti d'imposta. Eventuali fondi ulteriori possono essere reperiti tassando asset, sprechi, materie prime e consumo.

Guardiamo le cifre. Sradicare la povertà negli Stati Uniti costerebbe solo 175 miliardi di dollari, meno dell'1 per cento del Pil. È circa un quarto della spesa militare statunitense. Vincere la guerra alla povertà sarebbe un affarone se paragonato alle guerre in Iraq e in Afghanistan, che uno studio di Harvard ha stimato costare l'impressionante cifra di 4-6 triliardi. In realtà, tutti i paesi sviluppati del mondo avevano già da anni i mezzi per eliminare la povertà.

Eppure un sistema che aiuti solo i poveri apre una spaccatura profonda tra loro e il resto della società. "Una politica per i poveri è una politica povera," ha ricordato Richard Titmuss, il grande teorico del welfare state britannico. È un riflesso condizionato della sinistra rendere dipendente dal reddito ogni progetto, ogni credito e ogni sussidio. Purtroppo questa tendenza è controproducente.

In un ormai famoso articolo pubblicato sul finire degli anni novanta, due sociologi svedesi dimostrarono che i paesi con i programmi statali più universali erano stati quelli che avevano avuto maggiore successo nella riduzione della povertà. In pratica, la gente è più disponibile alla solidarietà se può approfittarne personalmente. Più noi, la nostra famiglia e i nostri amici ci aspettiamo di guadagnare dalla previdenza pubblica, più siamo disposti a contribuirvi. Pertanto è logico pensare che un reddito minimo universale e senza contropartite avrebbe anche un appoggio quasi unanime. Tutto sommato, chiunque è nelle condizioni di approfittarne.

Pericoloso? Sicuramente alcune persone potrebbero decidere di lavorare di meno, ma è proprio questo il punto. Una minoranza di artisti e scrittori ("tutti coloro che la società disprezza finché sono vivi e onora quando sono morti", secondo Bertrand Russell) potrebbe sul serio smettere definitivamente di lavorare per uno stipendio. Ci sono prove schiaccianti che confermano che la stragrande maggioranza vuole comunque lavorare, che ne abbia bisogno o meno. In realtà, non avere un lavoro ci rende profondamente infelici.

Uno dei bonus del reddito di base è che libererebbe i poveri dalla trappola del welfare spronandoli a cercare un lavoro pagato con reali possibilità di crescita e avanzamento. Se il reddito di base è privo di contropartite, incondizionato, e non sarà tolto o ridotto in caso di assunzione con discreto stipendio, la loro vita può solo migliorare.

Iniquo? Al contrario, è il sistema previdenziale che è degenerato in un moloch fatto di controlli e umiliazioni. I burocrati tengono d'occhio tramite Facebook coloro che sono a carico dell'assistenza pubblica per verificare che spendano saggiamente i loro soldi, e guai a chi osi svolgere un lavoro volontario non approvato. Ci vuole un esercito di assistenti sociali per guidare la gente nella giungla di domande, approvazioni, requisiti necessari e procedure di recupero. Poi viene mobilitata un'armata di ispettori per sbrigare le scartoffie.

Il welfare state, che dovrebbe sostenere la sensazione di sicurezza e l'amor proprio della gente, è degenerato, diventando un sistema fatto di sospetto e vergogna. È un patto grottesco tra destra e sinistra. "La destra teme che la gente smetta di lavorare, e la sinistra non si fida che possano scegliere da soli," recrimina la professoressa Forget in Canada. Un reddito di base sarebbe un compromesso migliore. In termini di redistribuzione risponderebbe alle richieste di equità della sinistra e, limitando il regime di interferenze e umiliazioni, regalerebbe alla destra un governo più ridotto che mai.




Parla diverso, pensa diverso


È già stato detto.

Ci siamo accollati un welfare state proveniente da un'epoca passata in cui chi metteva il pane in tavola era di solito di sesso maschile e la gente trascorreva la vita intera a lavorare per la medesima azienda. Il sistema pensionistico e le regole per la protezione del lavoro sono ancora imperniati sulle persone abbastanza fortunate da avere un posto fisso, l'assistenza pubblica si basa sul preconcetto sbagliato che possiamo affidarci all'economia affinché generi abbastanza lavoro e i sussidi sono più una trappola che un trampolino.

Non c'è mai stata un'epoca tanto matura per l'introduzione di un reddito minimo universale e incondizionato. Basta guardarsi attorno. La maggiore flessibilità del posto di lavoro esige che si crei anche una maggiore sicurezza. La globalizzazione sta erodendo le buste paga del ceto medio. Il crescente divario tra chi ha e chi non ha la laurea rende essenziale dare un aiutino a chi ne è privo, anche perché lo sviluppo di robot sempre più in gamba potrebbe costare il posto persino ai laureati.

Negli ultimi decenni il ceto medio ha preservato la sua capacità di spesa affondando sempre di più nei debiti. Ma non è un modello fattibile, ormai l'abbiamo capito. Il vecchio adagio "chi non lavora non mangia" è ormai abusato, è diventato una licenza per la disuguaglianza.

Non equivocate, il capitalismo è una fantastica macchina per creare prosperità. "Ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche," scrivevano Karl Marx e Friedrich Engels nel loro Manifesto del Partito comunista. Eppure è proprio perché siamo ricchi come mai prima d'ora che oggi abbiamo i mezzi per completare il successivo passo nella storia del progresso: dare a chiunque la sicurezza di un reddito minimo. E quello che il capitalismo avrebbe dovuto cercare sin da subito. Consideratelo un dividendo del progresso propiziato dal sangue, dal sudore e dalle lacrime delle generazioni passate. In fin dei conti, soltanto una frazione della nostra ricchezza è dovuta ai nostri sforzi. Noi, gli abitanti della Terra dell'abbondanza, siamo ricchi grazie alle istituzioni, al sapere e al capitale sociale accumulati per noi dai nostri antenati. Questa ricchezza appartiene a tutti. E un reddito di base permette a tutti di condividerla.

Certo, non significa che dovremmo mettere in pratica questo sogno senza pensarci due volte. Sarebbe disastroso. Le utopie iniziano sempre su scala ridotta, con esperimenti che cambiano il mondo a passo di lumaca. È successo appena pochi anni fa nelle strade di Londra, con tredici senzatetto che incassavano 3000 sterline senza alcuna contropartita. Come ha detto un assistente sociale, "è abbastanza dura cambiare dalla sera al mattino il modo in cui abbiamo sempre affrontato il problema. Questi esperimenti pilota ci danno l'opportunità di parlare in modo diverso, pensare in modo diverso, descrivere in modo diverso il problema...".

Ed è così che parte il progresso.

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Pagina 47

E così abbiamo gli ispettori degli
ispettori e persone che producono gli
strumenti affinché gli ispettori possano
ispezionare gli ispettori. Il vero impegno
della gente dovrebbe consistere nel
tornare a scuola a pensare le cose a cui
pensavano prima che arrivasse qualcuno
a dirgli che dovevano guadagnarsi da vivere.
Richard Buckminster Fuller (1895-1983)

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Pagina 67

Chi non ricorda il passato
è condannato a ripeterlo.
George Santayana (1863-1952)

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Pagina 69

4.
La curiosa storia del presidente Nixon e
della sua legge per un reddito di base



La storia non è una scienza che serve in tavola comode lezioni predigerite di vita quotidiana. Certo, riflettere sul passato può aiutarci a porre nella giusta prospettiva i nostri problemi e le nostre tribolazioni, dal rubinetto che perde al debito pubblico. Tutto sommato, nel passato quasi tutto andava peggio. Ma ora che il mondo sta cambiando più veloce che mai, il passato ci sembra ancora più lontano. C'è un abisso sempre più ampio tra noi e quel mondo estraneo, un mondo che stentiamo a comprendere. "Il passato è una terra straniera. Lì fanno le cose in modo diverso," scrisse una volta un romanziere.

Anche così, credo che gli storici abbiano da offrirci molto più che un modo diverso di considerare i nostri guai attuali. La terra straniera che chiamiamo passato ci permette anche di guardare oltre l'orizzonte, oltre quel che abbiamo, per vedere che cosa potremmo avere. Perché perdere tempo a elaborare nuove teorie su un reddito universale di base quando possiamo risalire alla sua vera nascita, e morte, negli anni settanta del secolo scorso?

Che si tratti di cercare nuovi sogni o di riscoprire quelli vecchi, non possiamo procedere senza volgere lo sguardo al passato. È l'unico posto in cui l'astratto diventa concreto, in cui possiamo vedere che stiamo già vivendo nella Terra dell'abbondanza. Il passato ci impartisce una lezione semplice ma essenziale: Le cose potrebbero andare diversamente. Il modo in cui è organizzato il nostro mondo non è frutto di una qualche evoluzione assiomatica, indiscutibile. Il nostro attuale status quo potrebbe essere altrettanto facilmente il risultato di banali eppure critici andirivieni della storia.

Gli storici non credono alle leggi dure e pure del progresso o dell'economia. Il mondo non è governato da forze astratte bensì da persone che progettano la propria rotta. Di conseguenza, il passato non solo pone le cose nella giusta prospettiva, ma può anche scatenare la nostra immaginazione.




L'ombra di Speenhamland


Se c'è mai stato un episodio che dimostra come le cose potessero andare diversamente e come la povertà non sia un male necessario è quanto capitato a Speenhamland, in Inghilterra.

Era l'estate del 1969, l'ultimo anno del decennio che ci ha portato i figli dei fiori e Woodstock, il rock e il Vietnam, Martin Luther King e il femminismo. Erano giorni in cui tutto sembrava possibile, persino un presidente conservatore che rafforzava il welfare state.

Richard Nixon non era il candidato più probabile per realizzare il vecchio sogno utopico di Thomas More, ma va detto che certe volte la storia ha uno strano senso dell'umorismo. Lo stesso signore che fu costretto a dimettersi dopo lo scandalo Watergate nel 1974 era stato in procinto, nel 1969, di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Sarebbe stato un immenso passo avanti nella Guerra alla povertà, questa iniziativa che garantiva a una famiglia di quattro persone 1600 dollari all'anno, equivalenti a circa 10.000 del 2016.

Ci fu però chi cominciò a sospettare dove avrebbe portato tutto questo, cioè a un futuro in cui i quattrini sarebbero stati considerati un diritto fondamentale. Martin Anderson, consigliere del presidente, si batté con forza contro il progetto. Era un grande ammiratore della scrittrice Ayn Rand, la cui utopia era invece quella del libero mercato, e l'idea di un reddito di base andava contro gli ideali dello small government e della responsabilità personale condivisi da Anderson.

Pertanto partì all'attacco.

Lo stesso giorpo in cui Nixon si apprestava a rendere pubblico il suo piano, Anderson gli consegnò un promemoria. Nelle settimane seguenti questo documento di sei pagine, una relazione su quanto era successo in Inghilterra centocinquant'anni prima, ottenne l'impensabile: fece cambiare radicalmente idea a Nixon, e mutò il corso della storia.

Questo rapporto dal titolo Breve storia di un "sistema di sicurezza delle famiglie" era quasi interamente composto da citazioni tratte dal classico di Karl Polanyi La grande trasformazione (1944). Nel settimo capitolo, Polanyi descrive uno dei primi sistemi di previdenza sociale al mondo, noto come sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell'Ottocento inglese. Questo sistema aveva una somiglianza sospetta con il reddito di base.

Il giudizio di Polanyi su questa iniziativa era pesantemente negativo. Non solo essa invitava il povero a essere ancora più ozioso, riducendone la produttività e la paga, ma minacciava le basi stesse del capitalismo. "Introdusse un'innovazione economica e sociale assimilabile al 'diritto di vivere', e fino alla sua abolizione nel 1834 impedì, in pratica, l'implementazione di un mercato concorrenziale del lavoro," scriveva Polanyi. Alla fine Speenhamland sfociò nella "pauperizzazione delle masse" che, secondo Polanyi, "rischiarono di perdere la loro qualità umana". Un reddito minimo garantito non forniva una base, un limite inferiore, secondo Polanyi, bensì un soffitto, un limite superiore.

Apriva il documento presentato a Nixon una citazione dello scrittore ispanoamericano George Santayana: "Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo".

Il presidente rimase di stucco. Poi convocò i suoi principali consiglieri e ordinò di verificare con scrupolo che cosa fosse successo in Inghilterra un secolo e mezzo prima. Questi gli mostrarono i dati provvisori dei programmi pilota a Seattle e Denver, nei quali si capiva con chiarezza che la gente non aveva affatto cominciato a lavorare di meno. Inoltre segnalarono che Speenhamland somigliava piuttosto alla baraonda di spesa sociale che aveva ereditato Nixon, stanziamenti che in realtà intrappolavano la gente in un nocivo circolo vizioso di povertà.

Due dei principali consiglieri di Nixon, il sociologo e in seguito senatore Daniel Patrick Moynihan e l'economista Milton Friedman , sostennero che il diritto a un reddito già esisteva, anche se era "un diritto acquisito legale che la società è ugualmente riuscita a stigmatizzare". Secondo Friedman, povertà significava semplicemente essere a corto di soldi. Niente di più, niente di meno.

Ugualmente, Speenhamland proiettava un'ombra che si allungava ben oltre l'estate del 1969. Il presidente cambiò linea e si adagiò su una nuova retorica. Laddove il suo piano per il reddito di base non prevedeva all'inizio quasi alcuna misura per costringere la gente a lavorare, adesso Nixon cominciava a sottolineare l'importanza dell'occupazione redditizia. E se il dibattito sul reddito di base sotto il presidente Johnson era iniziato con gli esperti che segnalavano come la disoccupazione stesse diventando endemica, ora Nixon parlava della mancanza di lavoro come "scelta" e deplorava l'ascesa del big government, anche se il suo progetto avrebbe elargito assistenza monetaria a circa 13 milioni in più di americani (dei quali il 90 per cento erano working poors).

"Nixon stava proponendo un nuovo tipo di misura sociale per gli americani, ma non offrì loro un nuovo inquadramento concettuale per comprenderlo," scrive lo storico Brian Steensland. In realtà Nixon infarcì le sue idee progressiste di retorica conservatrice.

Forse vi state chiedendo che cosa stava combinando il presidente.

C'è un breve aneddoto che ce lo spiega. Il 7 agosto dello stesso anno Nixon disse a Moynihan che stava leggendo le biografie del primo ministro britannico Benjamin Disraeli e dello statista lord Randolph Churchill (il papà di Winston) e commentò: "Gli esponenti tory e le politiche progressiste sono ciò che ha cambiato il mondo". Il presidente, che ci teneva a passare alla storia, si vedeva offrire la rara possibilità epocale di bandire il vecchio sistema, salvare milioni di working poors e strappare una vittoria decisiva nella Guerra alla povertà. Per farla breve, Nixon riteneva che il reddito di base fosse il definitivo connubio tra politica conservatrice e progressista.

Gli sarebbe bastato convincere Camera e Senato. Per tenere buoni i compagni di partito repubblicani e gestire le apprensioni sul precedente di Speenhamland, decise di inserire una clausola ulteriore nel suo progetto di legge. Chi godeva del reddito di base senza avere un impiego doveva iscriversi presso il ministero del Lavoro. In realtà, nessuno alla Casa Bianca si aspettava che questa limitazione sortisse grandi effetti. "Non mi frega un accidente della necessità di lavorare," ammise Nixon a porte chiuse. "È quello il prezzo se vuoi i 1600 dollari."

Il giorno dopo il presidente presentò la sua legge durante un discorso televisivo. Se il "welfare" doveva essere proposto sotto foggia di "workfare" per far passare il reddito di base al Congresso, che fosse. Quello che Nixon non riuscì a prevedere fu che la sua retorica sulla lotta alla pigrizia tra i poveri e i disoccupati avrebbe alla fine spinto il paese a schierarsi contro il reddito di base e contro il welfare state nel suo complesso. Il presidente conservatore che sognava di passare alla storia come leader progressista si lasciò sfuggire un'incomparabile occasione per rovesciare uno stereotipo che risaliva all'Inghilterra dell'Ottocento: il mito del povero pigro.

Per smentire questo stereotipo dobbiamo rispondere a una semplice domanda di storia: che cos'è successo veramente a Speenhamland?

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Pagina 85

Il Prodotto nazionale lordo...
misura tutto...
tranne quello che rende la vita
degna di essere vissuta.
Robert F. Kennedy (1925-1968)

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Quel che non si vede


Il Prodotto interno lordo. Ma che cos'è realmente?

Be', è abbastanza facile: il Pil è la somma di tutti i beni e servizi prodotti da un paese, corretta secondo le fluttuazioni stagionali, l'inflazione e casomai il potere d'acquisto.

A questo Bastiat risponderebbe: avete dimenticato una grossa parte del quadro. Il volontariato, l'aria pulita, i giri di bibite offerti dalla casa, nulla di tutto ciò aumenta di una virgola il Pil. Se un'imprenditrice sposa il tipo che le fa le pulizie, il Pil cala dato che il maritino passa da un lavoro pagato a un altro non pagato. Oppure pensiamo a Wikipedia. Finanziata da un investimento di tempo e non di soldi, ha mandato a prendere polvere sugli scaffali l' Enciclopedia Britannica, e così facendo ha fatto calare di qualche tacca il Pil.

Alcuni paesi inseriscono una propria stima dell'economia in nero. Il Pil greco, per esempio, è rimbalzato del 25 per cento nel 2006, quando gli istituti di statistica hanno quantificato il sommerso nell'economia del paese, permettendo così al governo di ottenere alcuni pingui prestiti poco prima che scoppiasse la crisi europea del debito. L'Italia ha iniziato a includere la sua economia in nero già nel 1987, una decisione che ha gonfiato dalla sera al mattino il Pil del 20 per cento. Il "New York Times" riferì: "Gli italiani sono stati travolti da un'ondata di euforia dopo che gli economisti hanno ricalibrato le loro statistiche tenendo conto per la prima volta della poderosa economia sommersa del paese, fatta di evasori e lavoratori in nero".

E non stiamo ancora parlando del lavoro non pagato che non ha neppure i crismi per essere definito in nero, dal volontariato alla cura dei bambini alla cucina, e che nel complesso rappresenta più della metà del nostro agire. Ovviamente per una parte di queste incombenze possiamo ingaggiare qualcuno che fa le pulizie o il baby-sitter, nel qual caso figureranno nel Pil, ma il grosso lo facciamo ancora da soli. Se aggiungessimo tutto questo lavoro non pagato amplieremmo l'economia del 37 per cento circa (come in Ungheria) per arrivare fino al 74 per cento (in Gran Bretagna). Tuttavia, come ricorda l'economista Diane Coyle, "di solito gli uffici statistici ufficiali non si sono mai dati la pena di fare ciò, forse perché sono lavori svolti principalmente dalle donne".

Già che siamo in argomento, soltanto la Danimarca ha tentato di quantificare e inserire nel Pil il valore dell'allattamento al seno. E non è una quisquilia: negli Stati Uniti il potenziale contributo del latte materno è stato stimato dell'incredibile cifra di 110 miliardi di dollari l'anno, più o meno l'intero bilancio militare della Cina.

Il Pil non è nemmeno questa gran cosa quando si tratta di calcolare i progressi nella conoscenza. I nostri computer, videocamere e telefoni sono tutti più potenti, veloci ed eleganti che mai, ma costano meno, quindi incidono poco. Se trent'anni fa dovevamo ancora sganciare 300.000 dollari per un singolo gigabyte di memoria, oggi costa meno di 10 centesimi. Questi stupefacenti progressi tecnologici figurano nel Pil come se fossero spiccioli. I prodotti gratuiti possono addirittura far arretrare l'economia (come il servizio di chiamate Skype, che costa una fortuna alle compagnie di telecomunicazione). Oggi l'africano medio con un telefonino ha accesso a più informazioni di quante ne potesse avere il presidente Clinton negli anni novanta, eppure la fetta dell'economia relativa al settore informazione non s'è mossa nell'ultimo venticinquennio, da prima che arrivasse Internet.

Oltre a essere cieco verso tante cose buone, il Pil cresce grazie a tante sofferenze umane. Ingorghi, tossicodipendenza, adulteri? Una miniera d'oro per le pompe di benzina, per i centri di disintossicazione e per gli avvocati divorzisti. Se foste il Pil, il vostro cittadino ideale sarebbe uno scommettitore compulsivo con il cancro in una fase di un divorzio complicato che può reggere solo mandando giù manciate di Prozac, e si scatena nel Black Friday dando l'assalto ai grandi magazzini. Persino l'inquinamento fa il doppio lavoro: un'azienda guadagna un sacco di soldi prendendo qualche scorciatoia mentre un'altra viene pagata per ripulire il guaio. Di contro, un albero secolare non vale nulla fino a quando non lo seghi e lo vendi come legname.

Malattie mentali, obesità, inquinamento, criminalità, in termini di Pil più ce n'è meglio è. È anche per questo che il paese con il massimo Pil pro capite al mondo, gli Stati Uniti, è in testa anche nella classifica dei problemi sociali. Lo scrittore Jonathan Rowe sostiene: "Stando ai parametri del Pil, le peggiori famiglie americane sono quelle che funzionano sul serio come famiglie: cucinano quello che mangiano, escono a passeggio dopo cena e discutono invece di affidare i figli alla cultura commerciale".

Il Pil è altrettanto insensibile alle disuguaglianze, che sono in aumento in quasi tutti i paesi sviluppati, e ai debiti, che rendono allettante vivere a credito. Nell'ultimo trimestre del 2008, quando il sistema finanziario globale fu sul punto di implodere, le banche britanniche stavano crescendo a livelli record. Come percentuale del Pil, rappresentavano all'apice della crisi il 9 per cento dell'economia inglese, quasi quanto l'intera industria manifatturiera. E pensare che negli anni cinquanta del Novecento il loro contributo era ancora praticamente zero.

Fu durante gli anni settanta che gli statistici decisero che sarebbe stata una buona idea misurare la "produttività" delle banche in termini di propensione al rischio. Più alti i rischi, maggiore la loro fetta del Pil. Non deve quindi meravigliare che le banche gonfiassero continuamente i prestiti, incoraggiate dai politici convinti che il settore finanziario valesse in tutto e per tutto quanto l'intero settore manifatturiero. "Se l'attività bancaria fosse stata sottratta al Pil invece di essere aggiunta, è plausibile ipotizzare che non sarebbe mai scoppiata la crisi finanziaria," ha commentato di recente il "Financial Times".

[...]

L'idea che il Pil fornisca tuttora una valutazione accurata del benessere sociale è uno dei miti più radicati della nostra epoca. Persino i politici che si accapigliano su tutto il resto sono sempre concordi nell'affermare che il Pil deve crescere. La crescita è una cosa buona. Buona per l'occupazione, buona per acquisire potere, e buona per il nostro governo dato che gli regala più soldi da spendere.

Il giornalista moderno brancolerebbe nel buio senza il Pil, che consente di sventolare le più recenti cifre sulla crescita nazionale come una sorta di pagella del governo. Un Pil in calo indica recessione, o addirittura, se cala di brutto, depressione. In pratica offre quasi tutto quello che può desiderare un giornalista: cifre solide diffuse a intervalli regolari e l'opportunità di citare gli esperti. Ancora più importante, il Pil ci regala un chiaro parametro. Il governo sta facendo il suo dovere? Come ce la caviamo come paese? La vita è un po' migliorata? Tranquilli, abbiamo gli ultimi dati sul Pil, e ci diranno tutto quello che dobbiamo sapere.

Data questa nostra ossessione, è difficile credere che soltanto ottant'anni fa il Pil non esistesse nemmeno.

[...]

Eppure appena ottant'anni fa, quando il presidente statunitense Herbert Hoover si ritrovò fra le mani la patata bollente del compito di combattere la Grande depressione disponendo solo di un fritto misto di cifre che andavano dai valori azionari al prezzo del ferro sino al volume dei trasporti su strada, sembrava una missione impossibile. Persino il parametro più importante di cui disponeva, l'"indice altoforni", era poco più di un ingombrante costrutto che tentava di stabilire con precisione i livelli di produzione nelle acciaierie.

Se aveste domandato a Hoover come andava "l'economia" vi avrebbe risposto con un'occhiata di stupore, non solo perché non era uno dei numeri che aveva a disposizione ma perché non concepiva minimamente la nostra idea moderna del sostantivo "economia". Del resto l'"economia" non è una cosa reale, è un'idea, e quell'idea doveva ancora essere inventata.

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Pagina 96

All'inizio del Ventesimo secolo il governo statunitense aveva alle sue dipendenze la bella quantità di un unico economista, per essere esatti un "ornitologo economico", incaricato di studiare gli uccelli. Meno di quarant'anni dopo, il National Bureau of Economic Research stipendiava circa cinquemila economisti, nel senso che usiamo oggi per questo termine. Tra cui Simon Kuznets e Milton Friedman , a conti fatti due dei più importanti pensatori del secolo. In tutto il mondo gli economisti cominciarono a svolgere un ruolo di rilievo nella politica. Quasi tutti si erano formati negli Stati Uniti, la culla del Pil, dove gli esperti praticavano un nuovo tipo scientifico di economia che ruotava attorno a modelli, equazioni e cifre. Tante, tante cifre.

Era una versione di economia completamente diversa da quella che avevano imparato a scuola John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek. Quando la gente parlava di "economia" attorno all'anno 1900, di solito intendeva la "società". Ma gli anni cinquanta del secolo scorso videro salire alla ribalta una nuova generazione di tecnocrati che inventò un obiettivo totalmente nuovo: fare "crescere" questa benedetta "economia". Ancora più importante, ritenevano di sapere come si facesse.

Prima dell'invenzione del Pil, era raro che gli economisti fossero citati dalla stampa. Invece dopo la Seconda guerra mondiale diventarono una presenza fissa sulle pagine dei giornali. Erano riusciti a eseguire un trucco mai riuscito a nessun altro: gestire la realtà e prevedere il futuro. Sempre più spesso l'economia era vista come una macchina dotata di leve che i politici potevano spostare per promuovere la "crescita". Nel 1949 Bill Phillips, economista e inventore, costruì addirittura una vera macchina piena di scatole e tubi di plastica che rappresentava l'economia, in cui l'acqua scorreva in modo da rappresentare i flussi delle entrate federali.

[...]

Per calcolare il Pil occorre unire numerosi punti-dati e attuare centinaia di scelte totalmente soggettive riguardo a quello da conteggiare e quello da ignorare. Nonostante questa metodologia, il Pil è sempre presentato come se fosse un dato scientifico totalmente oggettivo, le cui oscillazioni frazionali possono decidere tra la rielezione e l'oblio politico. Ma questa apparente esattezza è una pia illusione. Il Pil non è un oggetto chiaramente definito che aspetta solo di essere "misurato". Misurare il Pil equivale a misurare un'idea.

Ammettiamolo, è un'idea fantastica.

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Il segreto del governo che si allarga


Risale tutto a Mozart.

Quando nel 1782 il genio della musica compose il suo quattordicesimo qúartetto in sol maggiore (K.387), gli servivano quattro persone per eseguirlo. Oggi, due secoli e mezzo dopo, ce ne vogliono ancora esattamente quattro. Se punti ad aumentare la produttività del tuo violino, il massimo che puoi fare è suonare un tantino più veloce. Detto altrimenti: alcune cose nella vita, come la musica, resistono a qualsiasi tentativo di ottenere una maggiore efficienza. Forse possiamo produrre macchine da caffè ancora più alla svelta e a minor costo, ma un violinista non può aumentare la velocità senza rovinare il brano.

Nella nostra corsa contro la macchina, è più che logico che si continui a spendere meno per prodotti che possono essere fabbricati senza difficoltà con maggiore efficienza, e a spendere di più per servizi ad alta intensità di lavoro e per passatempi come arte, salute, istruzione e sicurezza. Non è un caso che i paesi con un alto punteggio quanto a benessere, come Danimarca, Svezia e Finlandia, abbiano un vasto settore pubblico. I loro governi sussidiano i settori in cui la produttività non può essere manipolata. Diversamente dalla produzione di un frigo e di un'automobile, le lezioni di storia e i check-up dal dottore non possono essere banalmente resi "più efficienti".

La conseguenza automatica è che il governo ingurgita una fetta sempre più grossa della torta economica. Questo fenomeno, notato per primo dall'economista William Baumol negli anni sessanta del secolo scorso, ora noto come "malattia dei costi" o "effetto Baumol", sostiene in pratica che i prezzi nei settori ad alta intensità di lavoro come la sanità e l'istruzione aumentano più velocemente dei prezzi dei settori in cui gran parte del lavoro può essere automatizzata in maniera più estesa.

Ma aspettate un attimo.

Non dovremmo definirla una benedizione piuttosto che una malattia? In fondo, più diventano efficienti le nostre fabbriche e i nostri computer, meno devono diventare efficienti, nel senso di economiche, la sanità e l'istruzione, vale a dire, più tempo ci resta per seguire i vecchi e i malati e organizzare l'educazione su scala più personale. Fantastico, no? Secondo Baumol, il più grosso ostacolo allo stanziamento delle nostre risorse per questi nobili fini è "l'illusione che non possiamo permettercelo".

Come tutte le illusioni, questa è assai testarda. Quando sei ossessionato dall'efficienza e dalla produttività, è difficile capire il reale valore dell'istruzione e dell'assistenza. Motivo per cui tanti politici e anche tanti contribuenti ne vedono soltanto i costi. Non capiscono che più un paese diventa ricco più dovrebbe spendere per insegnanti e dottori. Invece di giudicare una benedizione questi aumenti, li riteniamo una malattia.

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Pagina 105

L'ultimo prodotto della civiltà dovrebbe
essere riuscire a impegnare il tempo libero
in maniera intelligente.
Bertrand Russell (1872-1970)

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Pagina 116

Capitalismo ai cornflake


È un posto "in cui il denaro è stato sostituito dalla bella vita," scrisse un poeta medievale nella sua entusiastica descrizione di Cuccagna, la mitica Terra dell'abbondanza, "e colui che dorme di più di più guadagna". A Cuccagna l'anno è un'infinita sequenza di vacanze, quattro giorni cadauna per Pasqua, Pentecoste, San Giovanni e Natale. Chiunque voglia lavorare viene rinchiuso in una gattabuia sotterranea. Persino pronunciare la parola "lavoro" è reato grave.

Ironia della sorte, nel Medioevo la gente era più vicina all'ozio placido della Terra dell'abbondanza di quanto sia oggi. Attorno al 1300 il calendario era ancora pieno zeppo di feste e ricorrenze. Juliet Schor , economista e storica di Harvard, ha valutato che le festività occupassero almeno un terzo dell'anno. In Spagna erano addirittura sui cinque mesi, e in Francia sfioravano i sei. Quasi tutti i contadini lavoravano il minimo necessario per campare. "Il ritmo della vita era lento," scrive Juliet Schor. "Forse i nostri antenati non erano ricchi, ma avevano una grande abbondanza di tempo libero."

Allora che ne è stato di tutto quel tempo?

È abbastanza semplice, in realtà. Il tempo è denaro. La crescita economica può garantire o più tempo libero o maggiori consumi. Dal 1850 fino al 1980 abbiamo avuto entrambe le cose, ma in seguito sono aumentati più che altro i consumi. Persino laddove il reddito reale è rimasto immutato ed è esplosa la disuguaglianza, la febbre del consumismo è continuata a salire, però a credito.

Ed è esattamente la spiegazione che è stata accampata contro la settimana lavorativa più corta: non possiamo permettercela. Avere più tempo è un ideale fantastico, ma è semplicemente troppo costoso. Se lavorassimo tutti di meno, il nostro standard di vita crollerebbe e con esso lo stato sociale, il welfare state.

Sul serio?

All'inizio del Ventesimo secolo, Henry Ford promosse una serie di esperimenti che dimostrarono come i suoi operai fossero più produttivi quando lavoravano quaranta ore alla settimana. Lavorare venti ore di più dava risultati per quattro settimane, ma poi la produttività calava.

Altri portarono queste sperimentazioni un passo più avanti. Il primo dicembre del 1930, con la Grande depressione al culmine, il magnate dei cornflake W.K. Kellogg decise di introdurre nel suo stabilimento di Battle Creek, nel Michigan, la giornata di sei ore. Fu un successo incontestabile: Kellogg poté assumere altri trecento dipendenti e il numero di incidenti crollò del 41 per cento. Inoltre i suoi salariati diventarono parecchio più produttivi. "Da noi non è solo una teoria," raccontò orgoglioso Kellogg a un giornale locale. "Il costo per unità della produzione è tanto calato che possiamo permetterci di pagare le sei ore quanto pagavamo prima le otto."

Per Kellogg, come per Ford, una settimana lavorativa più corta era solo questione di saper fare bene i conti. Ma per gli abitanti di Battle Creek era molto di più. Per la prima volta, stando a un giornale locale, avevano "vero tempo libero". I genitori avevano tempo per i figli, più ore per leggere, fare giardinaggio e sport. D'un tratto le chiese e i centri sociali e ricreativi erano pieni di cittadini che avevano tempo da dedicare alle attività comunitarie.

Quasi mezzo secolo dopo, anche il primo ministro britannico Edward Heath scoprì i vantaggi del capitalismo ai cornflake, pur senza rendersene conto. Era la fine del 1973 e non sapeva che pesci pigliare. L'inflazione stava toccando i massimi di sempre e le spese dello stato salivano vertiginosamente, mentre i sindacati erano tetragoni a qualsiasi compromesso. Come se non bastasse, i minatori decisero lo sciopero a oltranza. Perciò, visto che si era a corto di energia elettrica, i britannici abbassarono il livello dei termosifoni e indossarono i maglioni più pesanti. Quando arrivò dicembre, persino l'albero di Natale di Trafalgar Square rimase spento.

Heath fece una scelta coraggiosa. Il primo gennaio del 1974 impose la settimana lavorativa di tre giorni. I datori di lavoro non potevano utilizzare più dell'equivalente di tre giornate di energia elettrica fino a quando non fossero state ricostituite le riserve energetiche. I magnati dell'acciaio profetizzarono che la produzione industriale sarebbe crollata al 50 per cento. I ministri temettero il peggio. Quando nel marzo 1974 fu reintrodotta la settimana di cinque giorni, i burocrati iniziarono a calcolare la portata totale del calo della produzione. E non credettero ai loro occhi. Era calata del 6 per cento.

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Pagina 125

Il lavoro è il rifugio della gente
che non ha di meglio da fare.
Oscar Wilde (1854-1900)

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Pagina 133

Però dobbiamo chiarire una cosa. Fare soldi senza creare valore, nulla che valga, non è affatto facile. Sono necessari talento, ambizione e cervello. E il mondo delle banche è pieno da scoppiare di menti brillanti. "La genialità dei grandi speculatori è vedere quello che non vedono gli altri, o vederlo prima," spiega l'economista Roger Bootle. "È una dote. Ma lo è anche la capacità di stare in punta di piedi e restare in equilibrio su una gamba sola con una teiera piena sulla testa senza versarne una goccia."

In altre parole, il fatto che una cosa sia difficile non la rende automaticamente preziosa, di valore.

Negli ultimi decenni queste menti brillanti hanno concepito tutta una serie di complessi prodotti finanziari che non creano ricchezza ma la distruggono. Questi prodotti sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione. Chi credete che sia a pagare tutti quei completi su misura, le immense ville e gli yacht superlusso? Se i banchieri non generano per conto loro il valore sottostante, allora deve venire da qualche altra parte, o da qualcun altro. Il governo non è l'unico a redistribuire la ricchezza. Lo fa anche il settore finanziario, ma senza alcun mandato democratico.

Il succo della questione è che la ricchezza può anche essere concentrata da qualche parte, ma non significa che sia creata lì. Vale per gli antichi feudatari quanto per l'attuale amministratore delegato di Goldman Sachs. L'unica differenza è che i banchieri soffrono talvolta di una amnesia transitoria e si credono i valorosi creatori di tutta questa ricchezza. Il signorotto che andava tanto fiero di campare alle spalle dei contadini non aveva questa illusione.




Lavori burla


E pensare che le cose sarebbero potute andare in maniera molto diversa.

Come ricorderete, l'economista John Maynard Keynes profetizzò che entro il 2030 avremmo lavorato tutti quindici ore alla settimana. Che la nostra prosperità sarebbe stata quasi esagerata e saremmo stati disposti a cedere una porzione considerevole della nostra ricchezza in cambio di più tempo libero.

In realtà, non è andata proprio così. Siamo parecchio più agiati, ma non stiamo esattamente nuotando in un mare di tempo libero. Anzi. Stiamo tutti sgobbando più che mai. Nel capitolo precedente ho detto che abbiamo sacrificato il nostro tempo libero sull'altare del consumismo. Keynes questo di sicuro non l'aveva previsto.

Ma c'è ancora un tassello mancante nel rompicapo. Quasi nessuno prende parte alla produzione delle custodie per iPhone nella loro galassia di colori, degli shampoo esotici alle essenze botaniche, o del Mocha Cookie Crumble Frappuccino. La nostra dipendenza dal consumo è propiziata soprattutto dai robot e dagli schiavi salariati del Terzo mondo. E anche se la capacità produttiva in campo agricolo e manifatturiero è cresciuta in maniera esponenziale durante gli ultimi decenni, l'occupazione in entrambi i settori è crollata. Allora è vero che la nostra vita di superlavoro si riduce a un consumismo sfrenato?

David Graeber , un antropologo della London School of Economics, ritiene che ci sia sotto qualcos'altro. Qualche anno fa ha scritto un articolo interessante che affibbiava la colpa non alla roba che compriamo ma al lavoro che facciamo. Era intitolato, in maniera quanto mai azzeccata, Sul fenomeno dei lavori burla.

Secondo l'analisi di Graeber, un'infinità di persone passa l'intera vita lavorativa ricoprendo mansioni che ritiene inutili, tipo addetto al telemarketing, direttore delle risorse umane, social media manager, consulente di pubbliche relazioni e una sequela di posizioni amministrative in ospedali, università e uffici pubblici. Graeber li chiama "bullshit jobs", lavori burla, e sono quelli che le stesse persone che li svolgono ritengono, in fin dei conti, superflui.

Quando scrissi per la prima volta un articolo su questo fenomeno, scatenai un piccolo diluvio di confessioni. "Personalmente preferirei fare qualcosa che sia veramente utile," mi confessò un broker di Borsa, "ma non potrei permettermi una riduzione dello stipendio." Inoltre citava un suo "ex compagno di classe dal talento incredibile e con un dottorato in Fisica" che sviluppava tecnologie di rilevazione dei tumori e "guadagna tanto meno di me che mi fa star male". Ovviamente, che il tuo lavoro porti grandi benefici alla collettività e richieda tanto talento e perseveranza non significa automaticamente che stai nuotando nell'oro.

O viceversa. È forse un caso che la proliferazione di lavori burla ben pagati sia coincisa con un clamoroso boom dell'istruzione secondaria e con un'economia che ruota attorno alla conoscenza? Non dimenticate che fare soldi senza creare alcunché di valore non è facile. Tanto per cominciare, dovete memorizzare un gergo dall'aria molto pomposa ma privo di significato. (Essenziale quando partecipate alle riunioni strategiche intersettoriali per fare il brainstorming sulla creazione di valore aggiunto nella società connessa.) Quasi tutti sono capaci di raccogliere il pattume, ma una carriera nelle banche è riservata a pochi eletti.

[...]

È una situazione esacerbata dalla disuguaglianza.

Maggiore è la ricchezza concentrata al vertice, maggiore è la domanda di avvocati aziendali, lobbisti e trader ad alta frequenza. La domanda non vive in un vuoto, tutto sommato. È l'esito di un continuo negoziato influenzato dalle leggi e istituzioni di un paese e, ovviamente, dalla gente che regge i cordoni della borsa.

Forse questo ci fornisce anche la chiave per capire come mai le innovazioni degli ultimi trent'anni, un periodo di disuguaglianza in forte crescita, non abbiano raggiunto le aspettative. "Volevamo le auto volanti, invece abbiamo avuto i 140 caratteri," ironizza Peter Thiel, sedicente filosofo ufficiale della Silicon Valley. Se il periodo post-bellico ci ha dato favolose invenzioni come la lavatrice, il frigorifero, lo space shuttle e la pillola, ultimamente abbiamo avuto solo le repliche lievemente migliorate dello stesso telefono che abbiamo comprato un paio d'anni prima.

In realtà è diventato sempre più proficuo non innovare. Pensate quanto progresso ci siamo persi per colpa delle migliaia di menti brillanti che hanno sprecato il loro tempo a escogitare prodotti finanziari supercomplessi che alla resa dei conti sono solo distruttivi. O hanno passato i migliori anni della loro vita duplicando farmaci già esistenti con differenze infinitesimali ma bastanti a garantire a un avvocato scaltro una nuova richiesta di brevetto in modo che un brillante settore pubblicitario potesse lanciare una campagna di marketing nuova di zecca per il farmaco non tanto nuovo di zecca.

Pensate come sarebbe se tutto questo talento fosse investito non nello spostamento della ricchezza ma nella sua creazione. Chi lo sa, forse avremmo già i jet pack, avremmo già costruito le città sottomarine o trovato la cura per il cancro.

Tanto tempo fa, Friedrich Engels descrisse la "falsa coscienza" di cui erano preda le classi lavoratrici dei suoi tempi, il "proletariato". Secondo Engels, l'operaio della fabbrica ottocentesca non insorgeva contro i latifondisti perché la sua visione del mondo era accecata dalla religione e dal nazionalismo. Forse oggi la società è prigioniera della medesima mentalità, solo che questa volta avviene in cima alla piramide. Forse la visione di certuni è stata offuscata da tutti quegli zeri e tutti quegli assegni, dai bonus pingui e dai dorati piani pensione. Forse un grosso rotolo di bigliettoni innesca lo stesso tipo di falsa coscienza: la convinzione che stai producendo qualcosa di grande valore perché guadagni un sacco.

Quale che sia la causa, le cose non stanno come dovrebbero. La nostra economia, le nostre tasse e le nostre università possono essere tutte quante ripensate in modo da fare vera innovazione e da retribuire come si deve la creatività. "Non dobbiamo aspettare pazienti un lento cambiamento culturale," ha dichiarato il cavallo pazzo dell'economia William Baumol più di vent'anni fa. Non dobbiamo limitarci ad aspettare che le scommesse con i soldi degli altri diventino meno proficue, che i netturbini, gli agenti di polizia e gli infermieri abbiano uno stipendio decente e che i genietti della matematica ricomincino a sognare le colonie su Marte invece di fondare il proprio hedge fund.

Possiamo fare un passo avanti in direzione di un mondo diverso, e possiamo cominciare, come succede spesso con questo genere di passi avanti, con le imposte. Persino le utopie necessitano di una copertura fiscale. Per esempio, potremmo partire con una tassa sulle transazioni per porre un freno al settore finanziario. Nel 1970 in America bisognava tenersi le azioni per una media di cinque anni, quarant'anni dopo sono soltanto cinque giorni. Se imponessimo una tassa sulle transazioni, costringendo a pagare una quota ogni volta che compri o vendi un'azione, quei trader ad alta frequenza che contribuiscono poco o nulla alla ricchezza sociale non trarrebbero più alcun profitto dal comprare e vendere asset finanziari in una frazione di secondo. E risparmieremmo le spese futili che aiutano e nutrono il settore finanziario. Per esempio, il cavo a fibre ottiche per velocizzare le trasmissioni tra i mercati finanziari di Londra e New York posato nel 2012. Cartellino del prezzo: 300 milioni di sterline. Guadagno in tempo: ben 5,2 millisecondi.

Andando al sodo, queste tasse ci renderebbero tutti più ricchi. Non solo darebbero a chiunque una fetta più equa della torta, ma la torta sarebbe più grande. E allora i genietti emigrati a Wall Street potrebbero diventare insegnanti, inventori e ingegneri.

Negli ultimi decenni è successo l'esatto contrario. Una ricerca svolta a Harvard ha scoperto che i tagli alle tasse dell'era Reagan favorirono una svolta di massa nella carriera delle menti più brillanti del paese, da insegnanti e ingegneri a banchieri e commercialisti. Laddove nel 1970 il numero di laureati maschi a Harvard che sceglievano una vita dedicata alla ricerca era ancora il doppio di quelli che preferivano le banche, vent'anni dopo il rapporto s'era invertito, e gli ex allievi occupati nel settore finanziario erano una volta e mezzo più numerosi.

L'esito è che siamo diventati tutti più poveri. Per ogni dollaro che una banca guadagna, si stima che venga distrutto l'equivalente di 60 centesimi in altri punti della catena economica. Di converso, per ogni dollaro che guadagna la ricerca, viene restituito all'economia un valore di almeno 5 dollari, e spesso molto di più. Le tasse più alte per i redditi più alti servirebbero, per parlare in harvardese, "a riallocare gli individui di talento dalle professioni che causano esternalità negative a quelle che causano esternalità positive".

Parlando come mangiamo: le tasse più alte spingono più persone a fare lavori utili.

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Osservatori dei trend


Se mai c'è stato un posto da cui dovrebbe partire la ricerca di un mondo migliore è l'aula scolastica.

Anche se è possibile che abbia incentivato il fenomeno dei lavori burla, l'istruzione è stata anche una fonte di nuova e tangibile prosperità. Dovendo stilare una lista delle professioni più influenti, l'insegnante figurerebbe probabilmente in cima alla classifica. Non perché i professori accumulino riconoscimenti come soldi, potere o status sociale, ma perché insegnare influenza qualcosa di assai più grosso: il corso della storia dell'umanità.

Forse suona melodrammatico, ma prendiamo un normale maestro delle elementari. Quarant'anni alla guida di una classe di venticinque bambini significa influenzare la vita di centinaia di persone. Inoltre questo docente plasma gli allievi a un'età in cui sono malleabili al massimo. Tutto sommato, sono ancora bambini. Il maestro o la maestra non solo li equipaggiano per il futuro ma così facendo hanno un'influenza diretta su quel futuro.

Pertanto, se c'è un posto in cui possiamo intervenire in un modo che dia dividendi per la società negli anni, quello è l'aula scolastica.

Eppure non succede quasi mai. Tutti i grandi dibattiti sull'istruzione vertono sul format. La fornitura. La didattica. L'istruzione è sempre presentata come uno strumento per adattarsi, come un lubrificante che ti aiuterà a scivolare senza sforzo nella vita. Nel circuito dei convegni sull'istruzione vediamo una sfilata incessante di trend watcher, che forniscono profezie sulle capacità future ed essenziali nel Duemila, e le parole d'ordine sono "creativo", "adattabile" e "flessibile".

L'interesse verte costantemente sulle competenze, non sui valori. Sulla didattica, non sugli ideali. Sulla "capacità di risoluzione dei problemi", ma non su quali problemi bisogna risolvere. Ineluttabilmente tutto ruota attorno alla domanda: di quali competenze e conoscenze hanno bisogno gli studenti di oggi per essere assunti nel mercato del lavoro di domani, il mercato del 2030?

È esattamente la domanda sbagliata.

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L'obiettivo del futuro è la piena non occupazione,
perché si possa giocare.
Arthur C. Clarke (1917-2008)

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Chiunque voglia continuare a cogliere i frutti del progresso dovrà trovare una soluzione più radicale. Così come ci siamo adattati alla Prima rivoluzione delle macchine con una rivoluzione dell'istruzione e della previdenza sociale, la Seconda rivoluzione delle macchine richiederà misure drastiche. Misure come una settimana di lavoro più corta e un reddito universale di base.




Il futuro del capitalismo


È ancora difficile immaginare una società del futuro in cui il lavoro salariato non sia l'alfa e l'omega della nostra esistenza. Ma l'incapacità di immaginare un mondo in cui le cose sono diverse è prova di scarsa fantasia, non dell'impossibilità del cambiamento. Negli anni cinquanta non prevedevamo che l'avvento dei frigoriferi, degli aspirapolvere e, soprattutto, delle lavatrici avrebbe aiutato le donne a entrare nel mercato del lavoro in quantità record, eppure è successo.

Comunque la tecnologia non decide da sola il corso della storia. Alla fine siamo noi umani a scegliere come vogliamo plasmare il nostro destino. La disuguaglianza radicale che si sta profilando negli Stati Uniti non è la nostra unica opzione. L'alternativa è che a un certo punto di questo secolo si respinga il dogma di dover lavorare per vivere. Più ricca diventa una società, meno efficace sarà il mercato del lavoro nella distribuzione della prosperità. Se vogliamo tenerci stretti i benefici della tecnologia, alla fine ci resta una sola scelta, ed è la redistribuzione. Redistribuzione massiccia.

Redistribuzione di soldi (reddito minimo), di tempo (settimana di lavoro più corta), di imposte (sul capitale invece che sul lavoro) e ovviamente di robot. Ancora nell'Ottocento, Oscar Wilde non vedeva l'ora che tutti potessero approfittare delle macchine intelligenti, "proprietà di chiunque". Il progresso tecnologico può rendere una società più ricca in aggregato, ma non esiste legge economica che affermi che tutti possono trarne vantaggio.

Non molto tempo fa, l'economista francese Thomas Piketty ha fatto scalpore con la sua affermazione che se continuiamo lungo questa strada presto ritorneremo alla società rentier della Gilded Age, l'ultimo trentennio dell'Ottocento negli Stati Uniti. Allora quelli che possedevano il capitale (azioni, case, macchinari) godevano di uno standard di vita assai più alto di chi si limitava a sgobbare. Per secoli il rendimento del capitale è stato attorno al 4-5 per cento mentre la crescita economica arrancava sotto il 2 per cento annuo. In mancanza di un ritorno della forte crescita inclusiva (abbastanza improbabile), di un'elevata tassazione del capitale (altrettanto improbabile) o di una Terza guerra mondiale (speriamo di no), la disparità potrebbe evolvere di nuovo verso proporzioni spaventose.

Tutte le opzioni classiche, più scolarità, regolamenti, austerità, sarebbero una goccia nel mare. Alla fine, l'unica soluzione è una tassa mondiale e progressiva sulla ricchezza, sostiene il professor Piketty, anche se ammette che è soltanto un'"utile utopia". Eppure il futuro non è scolpito nella pietra. Per tutta la storia dell'umanità la marcia verso l'uguaglianza è sempre stata intrisa di politica. Se una legge del progresso comune non riesce a prendere forma da sola, nulla ci impedisce di crearla noi. In realtà, l'assenza della suddetta legge potrebbe mettere a repentaglio il mercato. "Dobbiamo salvare il capitalismo dai capitalisti," conclude Piketty.

Questo paradosso è simpaticamente riassunto da un aneddoto degli anni sessanta del secolo scorso. Quando il nipote di Henry Ford fece fare al leader sindacale Walter Reuther un giro del nuovo stabilimento automatizzato dell'azienda, chiese per scherzo: "Walter, come convincerai quei robot a pagare la quota sindacale?". Reuther rispose senza perdere un colpo: "Henry, e tu come li convincerai a comprare le tue auto?".

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Il futuro è già qui...
solo che non è equamente distribuito.
William Gibson (1948-)

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La difficoltà non sta nelle nuove idee
ma nella possibilità di fuggire
da quelle vecchie.
John Maynard Keynes (1883-1946)

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L'utopia è all'orizzonte. Mi avvicino di
due passi, e lei si allontana di due passi.
Faccio altri dieci passi e l'orizzonte si
allontana di altri dieci. Per quanto io
possa avanzare, non lo raggiungerò mai.
Allora che senso ha l'utopia? Il senso è:
continuare ad avanzare.
Eduardo Galeano (1940-2015)

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Stiamo assistendo in diretta a un colossale cambiamento. Storicamente, la Politica è sempre stata riserva di caccia della sinistra. "Siate realisti, chiedete l'impossibile!" era il grido di battaglia dei dimostranti parigini nel 1968. La fine dello schiavismo, l'emancipazione delle donne, l'avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e "irrazionali" ma alla fine accettate come cose di comune buon senso.

Purtroppo oggi la sinistra sembra essersi dimenticata l'arte della Politica. Ancor peggio, tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti. Ho cominciato a definire questo atteggiamento il fenomeno del "socialismo perdente".

È un fenomeno internazionale che possiamo osservare in tutto il pianeta in intere legioni di ideologi e movimenti di sinistra, dai sindacati ai partiti politici, dagli editorialisti ai docenti universitari. L'idea portante del socialista perdente è che i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche, pertanto alla sinistra rimangono soltanto le emozioni. Il suo cuore è nel posto giusto. Il socialista perdente ha un sovraccarico di compassione e trova profondamente ingiuste le politiche correnti. Vedendo che il welfare state si sta sbriciolando, corre in soccorso come può. Ma quando il gioco si fa duro, il socialista perdente si piega alle tesi dell'opposizione, accetta sempre la premessa su cui si svolge il dibattito.

"Il debito nazionale è fuori controllo," ammette. "Però possiamo fare qualche altro interventino di sostegno del reddito."

"Combattere la povertà è tremendamente costoso," elaborano i socialisti perdenti. "Però è dovere di una nazione civile."

"Le tasse sono alte," lamentano. "Però a ognuno secondo le sue capacità."

Il socialista perdente dimentica che il vero problema non è il debito pubblico ma le imprese e le famiglie sovraesposte. Dimentica che lottare contro la povertà è un investimento che ripaga con gli interessi. E dimentica che intanto i banchieri e gli avvocati stanno facendo porcherie sottaciute a spese di infermieri e netturbini.

L'unica missione che rimane ai socialisti perdenti è tenere a freno l'opposizione. Contro le privatizzazioni, contro il sistema, contro l'austerity. Dato che sono contro tutto, ti viene da chiederti a che cosa sono favorevoli i socialisti perdenti.

Come sempre, si schierano accanto agli sfortunati della società: la povera gente, gli emarginati, i richiedenti asilo, i disabili e i discriminati. Contestano l'islamofobia, l'omofobia e il razzismo. Ti ossessionano sulla proliferazione dei "divari" tra operai e impiegati, povertà e ricchezza, gente comune e 1 per cento, e tentano vanamente di "ricollegarsi" a un elettorato che ha fatto da tempo le valigie.

Ma il più grosso problema del socialista perdente non è che si sbaglia. Il suo più grosso problema è che è noioso. Barboso. Non ha una storia da raccontare, nemmeno un linguaggio per narrarla.

E sin troppo spesso hai l'impressione che chi sta a sinistra ami perdere. Come se tutti i fallimenti, le apocalissi e le atrocità servissero soprattutto a dimostrare che aveva sempre avuto ragione. "C'è una forma di attivismo che serve più a rafforzare l'identità che a ottenere risultati," nota Rebecca Solnit nel suo libro Speranza nel buio. Una cosa che capisce molto bene Donald Trump è che quasi tutti preferiscono stare dalla parte del vincitore. ("Vinceremo un bel po'. Vi stancherete di vincere.") Quasi tutti sono irritati dal buonismo e dal paternalismo del Buon samaritano.

Purtroppo, il socialista perdente s'è scordato che la storia della sinistra dovrebbe essere una narrazione fatta di speranza e progresso. Con questo non intendo una narrazione che stuzzichi qualche fighetto che si eccita filosofando di "postcapitalismo" e "intersezionalità" dopo aver letto un tomo ponderoso purchessia. Il più grave peccato della sinistra accademica è essere diventata fondamentalmente aristocratica, scrivere in un gergo bizzarro che rende vertiginosamente complesse le questioni semplici. Se non riesci a spiegare il tuo ideale a un dodicenne di intelligenza media, allora probabilmente è colpa tua. A noi serve una narrazione che sappia parlare a milioni di persone qualsiasi.

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