Copertina
Autore Philippe Breton
Titolo Elogio della parola
SottotitoloIl potere della parola contro la parola del potere
Edizioneeleuthera, Milano, 2004, , pag. 176, cop.fle., dim. 125x190x10 mm , Isbn 978-88-85060-94-4
OriginaleÉloge de la parole
EdizioneLa Découverte, Paris, 2003
TraduttoreGuido Lagomarsino
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe scienze sociali , comunicazione
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Indice

      Introduzione                                     7

      I MECCANISMI DELLA PAROLA

   I. A monte della comunicazione                     15
  II. La parola in conflitto con le sue tecniche      31
 III. Uno spazio per la crescita della persona        45
  IV. Un operatore dell'azione                        59
   V. Un'alternativa alla violenza                    75

      LA PAROLA SCOMMESSA DI CIVILTÀ

  VI. La prima parola                                 93
 VII. Una rottura di civiltà                         111
VIII. La mia parola vale la tua:                     125
      la sfida della simmetria democratica
  IX. Dalla violenza alla mitezza:                   135
      la promessa del processo di civiltà
   X. Interiorità, individualismo e parola singolare 151

      Conclusione                                    165

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



È talmente normale per noi l'uso della parola, che forse finiamo per dimenticarci la sua importanza. Eppure è lei che scandisce la nostra esistenza quotidiana, che ci accompagna quasi in ogni istante, e il silenzio stesso, così raro ormai nelle società moderne, acquista senso in rapporto a lei.

È la parola che ci lega agli altri, è a lei che ricorriamo per rivolgerci a loro direttamente o per mezzo di vari strumenti di comunicazione. È sempre lei che ci lega a noi stessi: noi non smettiamo mai, infatti, di parlarci. Ci svegliamo al mattino e subito cominciamo a parlare, ci addormentiamo e così si interrompe un dialogo interiore, proprio quello che tende un po' troppo a imporsi quando stentiamo a prendere sonno. Sommati insieme, il dialogo interiore e la comunicazione con gli altri occupano la parte essenziale del tempo in cui siamo coscienti.

La parola è al centro della nostra vita sociale e professionale. Non c'è dubbio che una delle grandi evoluzioni del mondo moderno rimandi proprio al posto centrale che essa occupa: prendere la parola ci permette di esprimerci, di argomentare, di informare, ed essa si è affermata come uno dei principali strumenti per agire sugli altri e sul mondo. La parola, per noi in quanto individui, è diventata il legame privilegiato con il reale. Oggi si manifesta attraverso vari mezzi di comunicazione, orale come scritta, ma anche con immagini e con supporti forniti dalle nuove tecnologie. Grazie alla comunicazione – certe volte nonostante essa – la parola è ormai onnipresente. In questo senso è un concetto ben più vasto della dimensione orale alla quale è spesso ridotta. La comunicazione è il mezzo, la parola il fine.


Il potere della parola contro la parola del potere


Non sottovalutiamo forse il ruolo che occupa la parola nella nostra vita? Siamo davvero consapevoli di tutti i poteri che cela in sé? Non lasciamo in parte inutilizzate le sue immense potenzialità? Offriamo abbastanza resistenza a tutto ciò che contrasta la sua piena affermazione? Ci battiamo a sufficienza, per esempio, contro la paura che ci prende proprio nel momento in cui dobbiamo prendere la parola davanti agli altri, soprattutto in pubblico? Non cediamo sovente alla violenza, quando la parola ne sarebbe l'antidoto più sicuro? Spesso, troppo spesso, restiamo insoddisfatti dalle risposte a tutte queste domande, che pure sono essenziali.

Dopo essermi occupato a lungo delle sfide della comunicazione e dopo avere scritto parecchio sull'argomento, sono arrivato personalmente alla conclusione che la questione della parola, molto più della comunicazione e delle sue tecniche, si riveli un tema centrale e nello stesso tempo un punto cieco per le società moderne.

Certo, sarebbe davvero troppo facile e troppo riduttivo affermare che il ricorso alla parola rappresenti una soluzione universale, valida per quasi tutti i problemi conosciuti dal mondo attuale. Resta comunque il fatto che molte delle difficoltà che incontriamo siano legate a un'assenza di parola o, peggio ancora, a un suo impiego violento e autoritario. Ora, uno dei poteri della parola è appunto quello di opporsi alla parola del potere.

L'elogio della parola è allora, prima di tutto, la valorizzazione di quella che si potrebbe chiamare, senza paura di usare questo termine, la «parola giusta», nel senso in cui Levinas ci dice, per esempio, che «il commercio della parola» implica «proprio l'azione senza violenza [in cui] chi agisce, in quello stesso momento, rinuncia a ogni dominio, a ogni sovranità e si espone all'azione altrui, in attesa della risposta».

Questo elogio si inserisce in una lunga tradizione di opere che in vario modo, da una riflessione teorica sul linguaggio fino al più modesto manuale di conversazione, ricordano che questo potere della parola è alla base di relazioni più giuste tra gli esseri umani. C'è forse stata, nel corso del tempo, da quando la tradizione retorica ha avviato una riflessione sulla parola, una specie di saggia confraternita di autori che non hanno esitato a rivolgersi ai propri lettori per ricordare loro del potere di cui dispongono e del quale non sempre sospettano la portata? C'è una dimensione quasi religiosa di questo elogio reiterato, come suggerisce il filosofo Georges Gusdorf quando ci dice che «esiste anche una sorta di religione della parola tra gli uomini lontani da ogni religione propriamente detta, quasi che un certo uso del linguaggio facesse le veci dell'escatologia»? È possibile, e voglio ammettere subito che io non mi sento molto lontano da questi autori, che qui saranno abbondantemente citati.

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Le nuove tecnologie sono al servizio della parola?



Il dibattito che si è aperto sulle possibilità delle nuove tecnologie della comunicazione non riprende forse, a suo modo, questi antichi interrogativi? Si sa che Internet ha alimentato l'aspettativa, in gran parte utopica, di una comunicazione migliore. In realtà questa rete favorisce largamente la comunicazione indiretta, e infatti la sua promozione si è basata a lungo su un'apologia della comunicazione indiretta (potete fare tutto per conto vostro, senza nemmeno uscire di casa) e al contempo su una svalutazione dell'incontro diretto. Le nuove tecnologie vanno bene, per ripetere una formula che abbiamo utilizzato in uno studio precedente, per una società «carente nell'incontro e forte nella comunicazione».

Ci troviamo, comunque, nel pieno di un'utopia, le cui proposte si spingono addirittura più in là. Grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, non solo la parola sarebbe «migliorata», ma la violenza, legata al contatto personale, al faccia a faccia, si sarebbe ridotta. Siamo al colmo dell'illusione, perché al centro dell'utopia si cela una convinzione di natura quasi religiosa che potremmo riassumere così: la comunicazione, l'impiego crescente dei mezzi di comunicazione, santifica la parola così trasportata.

La realtà di Internet è più modesta. Infatti la rete ha tre funzioni ben distinte, ognuna delle quali è un'estensione di un mezzo di comunicazione più antico. L'e-mail riprende le vecchie funzioni della posta, con maggiore efficienza ma senza cambiamenti strutturali sulla parola che viene scambiata. Qui siamo davanti agli stessi problemi che si incontrano nell'impiego generale della scrittura. La quale può solo aspirare al rango di complemento o di sostituto dell'incontro diretto e della parola faccia a faccia, con la sua realtà piena e intera. C'è anzi chi sostiene che l'uso della posta elettronica possa arrivare a esasperare la violenza delle comunicazioni in quanto priva gli interlocutori di tutte le regole proprie all'incontro personale.

I siti web hanno certo aumentato le nostre possibilità di accesso all'informazione, ma resta sempre il problema della qualità, della validità e della pertinenza delle informazioni online. L'informazione migliore resta insomma quella garantita dal mediatore più attendibile, quello che sta più vicino, del quale ci si fida. Risulta anche qui essenziale il concetto di prossimità.

I forum e le chat line che organizzano scambi indiretti non offrono tutta quell'apertura della comunicazione che ci si aspettava all'inizio. Servono soprattutto a comunità già costituite, mentre sono di minimo aiuto (come potrebbero esserlo del resto?) se si mira ad ampliare gli spazi della parola. Secondo alcuni specialisti, è soprattutto la funzione argomentativa della parola che verrebbe sacrificata, in quanto si innesta una successione di «dialoghi sdoppiati» nei quali ognuno si esprime senza ascoltare necessariamente l'altro.

In effetti non è facile ragionare a distanza con persone che non si conoscono; e per dire che cosa, d'altra parte? Non basta disporre di un mezzo di comunicazione, ci vuole anche una parola da trasmettere. Il feticismo che negli ultimi tempi ha circondato la comunicazione e le sue tecniche non deve farci perdere di vista questa fondamentale realtà: la parola è il fine della comunicazione.


Tre sensi diversi


Il termine parola è oggi utilizzato in tre sensi diversi. Il primo e più corrente nelle nostre società audiocentriche è quello della «parola orale», l'espressione verbale, come nel proverbio «le parole volano, gli scritti restano». Il secondo è più ampio, più generale: qui la parola designa ogni enunciato portatore di significato. «La parola è propria dell'uomo» dirà chi vuole distinguere l'animale dall'uomo, l'unico essere vivente conosciuto che utilizza un linguaggio significante, che sia orale, scritto o dei segni.

In questi due sensi il termine parola è una categoria descrittiva che definisce una realtà umana e sociale: gli esseri umani, in quanto individui che vivono in società, parlano, sono dotati di parola. E una categoria assai utile per designare tutti i fenomeni in cui «si prende la parola», un oggetto di studio privilegiato delle scienze umane data la sua importanza come fenomeno sociale.

Questa categoria serve a definire tutti gli usi che facciamo della lingua e dei mezzi di comunicazione, usi che possono avere come fine il dominio, l'esercizio del potere, la violenza, la manipolazione, ma anche la negoziazione, la cooperazione, la condivisione. La parola si suddivide così nelle tre grandi forme che servono a esprimere, a convincere, a informare, ma che permettono anche di mentire, di manipolare, di disinformare.

Un terzo impiego del termine parola si svincola progressivamente dai primi due, distinguendosene per il fatto che è una valorizzazione di certi aspetti della parola stessa. Questo nuovo senso definisce una parola pacificata e pacifica, più temperata, più autentica, che si basa sul rispetto dell'altro, che implica una certa simmetria nella relazione e che presuppone anche un certo pudore. Una parola in qualche modo più giusta, di un uomo più umano. È questo il senso in cui è usata da coloro che abbiamo chiamato gli «attivisti della parola».

Tale parola più giusta ruota intorno a tre potenzialità che definiremo subito nei capitoli che seguono, dove vedremo come essa sia, di volta in volta, una fonte essenziale per la crescita della persona, una modalità fondamentale dell'azione cooperativa e, infine, un'alternativa alla violenza.

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Esercitare una forza senza generare dominio


Anche qui ritroviamo quella ripartizione che è uno dei nostri fili conduttori: la parola contiene una possibilità di violenza, ma è anche il mezzo, se lo si vuole, per tirarsene fuori e formare una parola più giusta, definibile sia come alternativa alla violenza sia come antidoto per eliminare ogni violenza da sé.

Gli «attivisti della parola», che vogliono riservare al termine quest'ultimo significato, sostengono che la violenza è strutturalmente estranea al linguaggio. Così fa, per esempio, Levinas quando afferma che «ragione e linguaggio sono esterni alla violenza», o ancora che «il fatto banale della conversazione si distacca, per un verso, dall'ordine della violenza». Quel fatto banale, aggiunge, è «la meraviglia delle meraviglie». Ma questa esteriorizzazione, se è possibile e se in certe situazioni si realizza davvero, presuppone comunque un punto di partenza in cui la violenza è così intimamente legata alla parola da concorrere alla sua definizione.

L'interrogativo che ci si pone è duplice: che cosa, nella natura stessa della parola umana, può servire da punto d'appoggio per immaginare di distaccarsi dall'«ordine della violenza», e quali condizioni lo permettono? Uno dei principali ostacoli che si incontrano quando si tenta di separare la parola dalla violenza è una rappresentazione profondamente radicata nelle nostre culture ancora segnate dalla brutalità.

In questa rappresentazione la forza è esclusivamente associata al dominio. Non ci sarebbero altri mezzi per esercitare una forza, un'energia, di pesare sul corso degli eventi, se non ricorrendo alla violenza come modalità d'azione. La forza e la violenza sarebbero due varianti inscindihili di uno stesso comportamento. La sua assenza è associata invece alla passività o all'inattività.

La questione che pongono gli attivisti della parola è però quella di sapere se essa non possa appunto costituire l'istanza che ci permette di esercitare una forza senza generare dominio. Non si tratta perciò di una posizione «quietista» che comporterebbe la rinuncia a qualsiasi azione. Si tratta anzi di riflettere sui mezzi che la parola offre concretamente per disgiungere l'esercizio della forza da quello della violenza, con il rischio di privare la parola di qualsiasi capacità di fungere da principale operatore dell'azione, come abbiamo visto nel capitolo precedente, insomma di toglierle vitalità.


La violenza: una realtà difficile da cogliere


Per capire meglio come la parola possa essere un'alternativa alla violenza, conviene forse chiarire subito che cosa intendiamo con questo termine. Esso designa infatti realtà multiformi che sarà meglio distinguere. È più facile riconoscere e individuare la violenza che definirla con precisione. Proponiamo prima di tutto di distinguere tra la violenza che è, per un verso, un'azione destinata a portare un attacco a una persona o a distruggerla, nella sua integrità psichica o fisica, o nei suoi beni, o ancora nelle sue appartenenze simboliche, e per l'altro la violenza che è inerente al cambiamento, allo sconvolgimento delle abitudini, alla trasformazione dei contesti familiari.

La violenza secondo quest'ultima accezione può provocare un senso di disagio o persino essere vissuta come una sofferenza, ma resta in ultima analisi una violenza costruttiva. C'è violenza nello sforzo e nel lavoro, ma rimane produttiva. Ce n'è anche nel desiderio. Che distrugga o che costruisca: ecco la distinzione essenziale. In generale si riserva il termine al senso di violenza distruttrice.

La violenza, inoltre, è in grande misura dipendente dalla norma sociale che la inquadra. Alcune delle sue manifestazioni sono considerate socialmente legittime in una data società, mentre altre non solo risultano contrarie alle regole, ma sono condannate per legge. L'omicidio nel corso di un duello per una questione d'onore, per esempio, è stato considerato un reato a tutti gli effetti solo alla fine del XIX secolo. Uccidere qualcuno perché ha commesso un crimine è ancora una norma in vari Paesi, come in molti degli Stati Uniti. Esiste quindi una violenza legittima e una che non lo è.

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La parola primitiva


Il termine «primitivo» porta in sé questa ambiguità, al punto che molti sono ormai imbarazzati a usarlo per indicare società umane diverse da quelle moderne. Il suo impiego non dovrebbe costituire un problema, se non fosse per il nostro senso di colpa occidentale che venera l'eufemismo. Si può addirittura supporre, come fa l'antropologa inglese Mary Douglas, che «quando evitiamo la parola 'primitivo', questa nostra sensibilità professionale [Douglas si riferisce agli antropologi, ma la cosa è generalizzabile] deriva dall'essere segretamente convinti della nostra superiorità». Il termine «primitivo» richiama in effetti alla mente una specie di ritardo e può addirittura connotare inferiorità (e non siamo poi molto lontani dal razzismo).

Ma quando si parla, per esempio, di «arte primitiva», si vuole soprattutto evocare una dimensione «autenticamente essenziale» dell'arte, dalla quale non avremmo fatto altro che allontanarci ogni giorno di più. Bisognerebbe perciò abituarsi al fatto che «primitivo» non significa né prima né poi, né meno né più, né inferiore né superiore: le società «primitive» sono semplicemente diverse dalle nostre, perché vi si presentano altre modalità dello stare insieme e, soprattutto, perché c'è verosimilmente un altro rapporto con la parola.

Comunque sia, e a causa di questa stessa ambiguità, si è ritenuto che in quelle società la parola avesse uno statuto cruciale, che si sarebbe degradato nel corso del tempo e che la modernità avrebbe in gran parte annullato. È quindi necessario osservare la realtà delle società primitive con un occhio più obiettivo e meno romantico. L'osservazione che abbiamo fatto riguardo alla preistoria vale anche in questo caso: la capacità di attivare il linguaggio e i mezzi di comunicazione, di espandere la parola, è identica per gli uomini e le donne di queste società e per quelli delle società moderne. Ci troviamo davanti a un caso di invarianza antropologica. La parola è appunto la realtà più condivisa nel tempo e nello spazio. Non esiste una «parola prelogica» che sarebbe quella dei primitivi, o una «psicologia infantile» da contrapporre a una modernità «adulta».

Questa capacità va però vista in termini di potenzialità più o meno attualizzata. Infatti, ciò che si fa con la parola nelle società primitive, come vedremo, è assai diverso (e, a certi livelli, alquanto incomprensibile) da ciò che se ne fa nelle società moderne. È evidente che lo statuto della parola è differente. Questo fenomeno è illustrato soprattutto dal fatto che in alcune società primitive, se non in tutte, si parla agli oggetti, sia a quelli fabbricati sia a quelli naturali. Si parla anche agli animali e agli spiriti. C'è in questo una differenza essenziale, perché nelle società moderne noi non parliamo più alle cose. Qualche parolaccia o ingiuria che rivolgiamo alle macchine recalcitranti rappresentano eccezioni che non invalidano veramente la regola generale, perché non crediamo davvero che esse abbiano la reale capacità di farsi influenzare da quanto diciamo.

Le società attuali possono dunque essere definite come quelle in cui si parla solo agli umani, e quindi tra umani, in cui la parola è appunto percepita come destinata esclusivamente a loro. Il fatto è che noi viviamo in certa misura separati dal mondo che ci circonda. Questa oggettivazione che tendiamo spontaneamente a ritenere naturale è il frutto di un'evoluzione specifica di alcune società. Probabilmente essa è all'origine del senso di solitudine che l'uomo moderno avverte talora nella natura e che invece non è mai provato dall'uomo primitivo. Noi comunichiamo, certo, con altre specie, con gli animali domestici per esempio, e certe volte abbiamo la sensazione di comunicare con la natura, ma non vi è mai uno scambio di parola né con questa né con quelli. E se ci capita di parlare con loro, sappiamo bene che queste parole sono senza eco. L'uomo moderno può parlare solo a se stesso.

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