Autore Jan Brokken
Titolo Anime baltiche
EdizioneIperborea, Milano, 2014, n. 235 , pag. 504, ill., cop.fle., dim. 10x20x3 cm , Isbn 978-88-7091-535-8
OriginaleBalrische zielen
EdizioneAtlas, Amsterdam, 2010
PrefazioneAlessandro Marzo Magno
TraduttoreClaudia Cozzi, Claudia Di Palermo
LettoreMargherita Cena, 2014
Classe biografie , narrativa olandese , storia: Europa , viaggi












 

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Indice


 1. Orgoglio                                    13

 2. Il libraio di riga                          25

 3. Le scarpe dell'architetto                   64

 4. La volontà del padre                       105

 5. Come fu che un camaleonte scoppiò          127

 6. La vittima innocente                       190

 7. Copulazione in bronzo                      207

 8. La città di Hannah Arendt                  234

 9. I baroni baltici                           275

10. La cacciata da Mõisamaa                    324

11. L'inizio di un'avventura sconosciuta       388

12. Tabula rasa                                420


Il baltico alle porte di casa                  473
    di Alessandro Marzo Magno

Ringraziamenti                                 481
Bibliografia                                   483
Crediti fotografici                            491
Indice dei nomi                                492


 

 

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Pagina 13

1.
ORGOGLIO
LA FIGLIA DI JAKOBSON



Estonia, settembre 1999

Al largo i marinai erano un'ottima compagnia. Dal Dollart al Sund mi ero goduto i racconti di tempeste e naufragi con cui Huig, Melle e Aristides condivano i pasti, ma sulla terraferma mi sembrarono tipi un po' rozzi.

Avremmo dovuto raggiungere Oulu, il porto più a nord della Finlandia, per portare sale e caricare pasta di legno. Ma vedendo la stiva, il noleggiatore cambiò idea: era troppo sporca per trasportare sale da cucina.

Dopo ventiquattr'ore di attesa al porto di Emden, il cabotiero si vide assegnare un'altra destinazione: Pärnu, in Estonia. Conoscevo il paese solo di nome, per via di quell'elenco imparato a scuola: Estonia, Lettonia e Lituania. Una filastrocca impossibile da dimenticare.

Aristides, il cuoco di Capoverde che da una vita navigava al Nord per conto di armatori olandesi, era già stato una volta in Estonia, quando il paese faceva ancora parte dell'impero sovietico. All'ultimo momento tre poliziotte erano venute a piantonare la nave, una alla passerella e le altre due vicino alle cime d'ormeggio. Le tre virago russe si erano fatte portare una seggiola e avevano gridato in olandese: "Cuciniere, mangiare!" Ricevettero di che sfamarsi. Dopodiché gridarono: "Cuciniere, scopare!" Sapevano queste frasi in tutte le lingue.

Quattro giorni dopo avvistammo le coste della Curlandia. Le dune erano talmente bianche che le scambiai per scogli di gesso. Più a est la spiaggia si allungava come una larga striscia di luce accecante.

Sotto la punta dell'isola di Saaremaa la nave imboccò lo stretto che dà accesso al golfo di Riga. Boschi di conifere si profilarono all'orizzonte, infiammati dagli ultimi raggi del sole.

Il capitano, vecchio e prudente, mise Huig, Melle e me di vedetta. Secondo Huig era arteriosclerotico: erano secoli che nessun capitano gli ordinava più di scrutare il mare a occhio nudo. Dalla scoperta delle onde radio, ci si affidava al radar. Ma il capitano aveva visto sulla carta nautica così tanti punti esclamativi che non si sentiva affatto a suo agio. Il golfo di Riga era un campo minato. I sovietici avevano piazzato le mine quando le acque del golfo erano ancora vietate alle navi straniere, e lì erano rimaste.

Mi sporsi con Huig dal parapetto del ponte di prua.

"Come se nel crepuscolo si potessero vedere le mine", borbottò con il suo mozzicone di sigaretta rollata all'angolo della bocca.

"Com'è fatta una mina?" chiesi.

"Tonda e nera."

Il mare era dello stesso nero, e la carta riportava un secondo pericolo: acque contaminate da sostanze chimiche, divieto di balneazione. I russi avevano ridotto la zona in un bello stato!

La nave avanzava al rallentatore. Non vibrava né beccheggiava, scivolava sull'acqua come una barca a vela. L'aria odorava di terra e di pini. La costa continuava a essere formata da due strisce: una chiara, la sabbia, e una scura, i boschi. Nessun faro, nemmeno un puntino luminoso. Sembrava di penetrare in un mondo segreto.

Huig era stato a Riga una dozzina di anni prima. All'epoca tutte le navi straniere erano scortate da due pattugliatori della marina sovietica. Navigavano a neanche un miglio di distanza, i fari costantemente puntati sulla nave.

"Quando camminavi sul ponte non osavi nemmeno grattarti il culo. Non si poteva mai sapere, magari pensavano che volevi sparare."

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Nella mia memoria sono rimasti impressi i boschi dell'Estonia, come una zona d'ombra tra l'est e l'ovest o tra il nord e il centro dell'Europa. E i campanili delle chiese di Pärnu, quelli luterani a punta e quelli russo-ortodossi a cipolla. E le case di legno, le cui persiane nascondevano tanta storia.

Il viaggio che per caso mi aveva portato in una piccola città portuale del golfo di Riga risvegliò la mia curiosità per quei paesi situati nell'angolo meno definito d'Europa. La calma del Baltico, l'orgoglio dei baltici, quella fierezza che Huig, con l'occhio accorto dell'uomo di mare, aveva saputo cogliere con tanta sicurezza al primo sguardo, mi hanno dato voglia di saperne di più.

L'orgoglio non ha niente a che vedere con il nazionalismo, lo sciovinismo o l'arroganza. Essere orgogliosi del proprio paese significa credere in tutto ciò che lo rende speciale, diverso, unico. Significa avere fiducia nella propria lingua, nella propria cultura, nelle proprie capacità e nella propria originalità. Quest'orgoglio è la sola risposta adeguata alla violenza e all'oppressione.

Sono tornato quattro, cinque, sei volte in Estonia, Lettonia e Lituania. Sono stato in Curlandia e nella regione un tempo chiamata Prussia Orientale, oggi provincia russa di Kaliningrad. A Riga, Daugavpils, Vilnius, Tallinn, Tartu, Rakvere e in tante altre città e paesi. Speravo di ritrovare qualcosa di quella che in passato era stata la forza e la vitalità del nostro piccolo pezzo di Europa. Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a se stessi.

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2.
IL LIBRAIO DI RIGA
JĀNIS ROZE E FIGLI



Lettonia, gennaio 2007

All'origine della libreria Jānis Roze di Riga c'erano un omicidio politico e un amore non corrisposto. Nel contesto della Lettonia la cosa non ha nulla di scioccante: il paese si trovava semplicemente nel posto sbagliato, tutto qui.

La Lettonia in cui Jānis crebbe apparteneva alla Russia zarista: aveva diciotto anni quando Nicola II salì al trono. Sua madre non era sposata quando nacque nel 1878 e lui non conobbe mai il suo vero padre. Gli venne dato il cognome del patrigno, un poveraccio che veniva dalla campagna.

Giovanissimo andò a lavorare da Jānis Ozols, tipografo, editore e commerciante di libri a Cēsis, cittadina di provincia cento chilometri a est di Riga. Ozols gli insegnò il mestiere. Jānis era insieme apprendista compositore, tipografo, rilegatore, illustratore di copertine e venditore di libri, e si specializzò nell'incisione di timbri in ottone.

Circondata da boschi e colline, Cēsis attirava scrittori e poeti, sicuramente anche perché da li potevano facilmente prendere il treno per Riga quando le giornate si facevano troppo corte, troppo fredde, troppo buie e troppo solitarie. Ozols pubblicava i loro romanzi, le loro poesie e le loro riflessioni in raffinati volumi in stile art nouveau. Dirigeva un'azienda florida che dava lavoro a trenta dipendenti, tra i quali quello che più si distingueva era Jānis Roze. Poco dopo il cambio di secolo lo promosse a responsabile dell'attività.

Jānis avrebbe certamente trascorso tutta la vita a Cēsis, se non fosse scoppiata la prima rivolta di massa contro gli zar. Domenica 9 gennaio 1905 una folla di centocinquantamila uomini e donne si diresse marciando verso il Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo. Alla testa del corteo c'era un prete che voleva consegnare allo zar una petizione umile e leale in cui chiedeva giustizia e protezione per i poveri e gli oppressi. Non riuscì a parlare con lo zar in persona, che si trovava nella sua residenza di Carskoe Selo, dove giocava a domino. Quando la manifestazione si avvicinò al palazzo, la cavalleria aprì il fuoco, facendo quaranta morti e centinaia di feriti. Il pope Gapon venne travolto e calpestato. "Non c'è più nessun Dio, non c'è nessuno zar", furono le sue ultime parole. Nel pomeriggio i massacri continuarono nel resto della città; il 9 gennaio entrò nella storia come la Domenica di Sangue. Dopo quattro giorni la rivolta raggiunse Riga, dove il 13 gennaio quindicimila operai protestarono contro lo spietato regime zarista. Il governatore generale russo ordinò ai soldati di sparare sulla folla: i morti furono settanta e duecento i feriti. Da Riga la rivolta si estese a tutta la provincia. I mezzadri attaccarono i proprietari terrieri baltico-tedeschi e incendiarono le loro case, mentre gli operai presero d'assalto le prigioni. Era, come Lenin avrebbe scritto nelle sue memorie, la «prova generale per il 1917». Lo zar Nicola inviò in Lettonia una spedizione punitiva; le truppe russe ci misero un anno intero a ristabilire l'ordine. Un migliaio tra contadini, operai e intellettuali che avevano simpatizzato con gli insorti furono giustiziati sommariamente. Tra loro c'era anche Jānis Ozols.

Ozols aveva scritto e pubblicato a suo nome un pamphlet in cui denunciava l'oppressione arcaica e l'ignobile povertà delle campagne lettoni. Una sera venne arrestato e il mattino dopo fu giustiziato. La stessa sorte attendeva Jānis Roze: fu anche lui arrestato in quanto responsabile della tipografia e condannato a morte. Ma il mattino dopo fu liberato senza alcuna spiegazione. Raccontò in seguito ai figli che nel 1905, in carcere, era diventato bianco, totalmente bianco, in una sola notte. Aveva all'epoca ventisette anni.

Nonostante i capelli bianchi, restava sempre un uomo affascinante. Alto. Le spalle larghe. Poche donne sapevano resistere alla forza che emanava e allo sguardo affabile che di rado spariva dai suoi limpidi occhi grigio azzurri. Passarono sei o sette anni durante i quali Jānis Roze riuscì a tenere l'azienda sui binari. Poi la vedova Ozols gli chiese di sposarla.

A giudicare da una foto era una donna energica. Tuttavia, come ci mostra un'altra fotografia, Emma Henriete era più bella. E più giovane: aveva dieci anni meno di Jānis. Infatti è lei quella di cui si innamorò e che sposò, e con lei si trasferì a Riga per sfuggire alle ire della vedova Ozols.


Nel 1914 Jānis fondò una casa editrice e nel 1918 aprì una libreria su una grande via di negozi, la Krišjāna Barona Iela, in un imponente edificio finito di costruire tre anni dopo l'inizio del secolo e con ancora un tocco di art nouveau nei dettagli. Sopra il negozio sistemò gli uffici della casa editrice e occupò lui stesso con Emma il piano sopra ancora. Comprò poi anche il resto dell'immobile, che diede in affitto.

[...]

E fu ancora più commovente quello che successe dentro, nel vecchio ufficio della casa editrice, nel museo. Il professor Vladimir Urtāns prese la parola: "Ero in Siberia con Jānis Roze nel campo di prigionia di Solikamsk. Sono stato l'ultimo a vederlo vivo." In un silenzio di tomba raccontò gli ultimi attimi di Jānis. "Non mangiavamo da giorni, eravamo stremati. Non avevamo più nemmeno la forza di seppellire i morti. Il terreno ghiacciato era troppo duro, i nostri muscoli troppo deboli. I cadaveri venivano gettati all'aperto, e il giorno dopo erano già spariti, sbranati dai lupi. Jānis ha fatto la stessa fine."

Aina piangeva, ma non per quella storia. Sussurrava quanto le dispiaceva che sua madre non ci fosse più. Emma era morta da tre anni, all'età di novantasette.

Neanche il padre di Ainars poté partecipare: era mancato qualche mese prima, dopo aver gettato un ultimo sguardo all'unico quadro che era riuscito a salvare dalla casa paterna. Aveva passato metà della sua vita davanti a quel paesaggio lettone.

Nove mesi dopo l'inaugurazione, estoni, lettoni e lituani si presero per mano e formarono una catena umana di seicento chilometri, da Tallinn a Vilnius, lungo tutta la Via Baltica. Il 23 agosto 1989 due milioni di persone in Estonia, Lettonia e Lituania celebrarono così il cinquantenario del patto tra Stalin e Hitler che aveva posto fine all'autonomia degli stati baltici. Con quella pacifica manifestazione di massa costrinsero il Cremlino a concedere l'indipendenza.

La domanda da fare a qualsiasi estone, lettone e lituano è dov'era il 23 agosto del 1989.

Ināra: "A Riga, davanti al Monumento alla Libertà. Con tutto il personale della libreria. Dopo il 30 novembre noi di via Barona avevamo diritto al posto d'onore."

Ainars: "Davanti all'università, con tutti i professori e gli studenti. La cosa assurda è che nessuno aveva il coraggio di guardare dritto davanti a sé. Quasi tutti i docenti e i ragazzi tenevano il capo chino, in modo da rendere difficile un'eventuale identificazione sulle fotografie. Nessuno aveva la certezza che sarebbe andata a finire bene."

Nei mesi che precedettero la sua morte, il padre di Ainars aveva spesso messo in guardia il figlio. Non aveva mai superato i fatti del 1941. Il progetto era che lui ereditasse la libreria del padre e il fratello maggiore dirigesse la casa editrice. Ma dopo la guerra non era più stato in grado di fare molto altro che scattare fotografie alle feste, ai matrimoni o alle parate della federazione dei giovani comunisti. Non poteva neanche definirsi fotografo, si limitava a scattare istantanee. Jānis era un uomo amareggiato che nutriva una profonda diffidenza nei confronti del genere umano. "Vi fanno uscire allo scoperto", commentava a proposito della partecipazione del figlio a riunioni e manifestazioni, "vi concedono un po' di libertà, guardano chi c'è, mettono i vostri nomi su una lista e vi spediscono in Siberia."

Ainars riconosce ancora che mai, nemmeno quel 23 agosto, avrebbe potuto ipotizzare che il Muro sarebbe caduto nel giro di due mesi e mezzo. Né tantomeno immaginare il riformatore Gorbačëv cacciato dal Cremlino o il comunismo spazzato via come una foglia d'autunno alla prima folata di vento. Per non parlare che i lettoni avrebbero potuto cantare entro l'anno il loro inno nazionale. Un impero sterminato come l'Unione Sovietica non poteva vacillare così in fretta. La sua previsione più rosea era che, se fosse sopravvissuto in buona salute fino ai novant'anni, avrebbe forse fatto in tempo ad assistere al canto del cigno del marxismo-leninismo.

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Pagina 105

4.
LA VOLONTÀ DEL PADRE
KREMER CONTRO KREMER



Lettonia, marzo 2007

A Riga mi imbatto in un altro rapporto tormentato tra padre e figlio. In un paese in cui ogni figlio si chiede da che parte stesse il proprio padre nel 1919, 1934, 1940, 1941, 1945, 1949, 1958 o 1989 (tanto per citare qualcuna delle date cruciali della storia della Lettonia), la cosa non sorprende. Nello spazio di un secolo i lettoni si sono via via trovati a dover scegliere tra tedeschi e russi, rossi e bianchi, stalinisti e fascisti, democratici e nazionalisti autoritari. Difficile, in queste condizioni, mantenere l'equilibrio, non lasciarsi travolgere dalle sofferenze che ogni famiglia, ogni adulto e ogni bambino è stato costretto a subire.

Un mercoledì sera assisto a un concerto dell'orchestra sinfonica nazionale, la Latvijas Nacionālais Simfoniskais Orkestris. Si tiene nella sala della Gilda, costruzione neogotica dell'Ottocento nel cuore della città vecchia. Le fondamenta risalgono al XIV secolo, adesso è piuttosto cadente e in perenne restauro. Entro dalla scala di servizio.

[...]

Dopo l'intervallo, l'orchestra attacca il Cantus del compositore estone Arvo Pärt. Mi raddrizzo sulla sedia. Una musica baltica, una musica di qui, che Pärt – all'epoca totalmente isolato – scrisse in memoria del compositore britannico Benjamin Britten. Il pezzo si apre con rintocchi di campana, poi attaccano gli archi, i primi e i secondi violini, le viole, i violoncelli e i contrabbassi; sessanta strumenti in totale. I fiati non partecipano. Tutti gli archi sono donne, tranne il primo violino, il secondo violoncello e i sei contrabbassi; donne che con note lente e ondeggianti evocano secoli di sofferenza dei paesi baltici e sembrano piangere gli uomini, le donne e i bambini deportati nei campi in Siberia, le vittime delle battaglie della Seconda guerra mondiale o dei campi di concentramento nazisti. È un pezzo che dura esattamente cinque minuti ma che mi sembra cinque volte più lungo. Mi concentro su ognuna delle note, che vengono tenute a lungo. Le note di apertura, rarefatte e acute, sprofondano via via sempre di più, con un motivo che si ripete e che evoca il carattere effimero della vita. Per eseguire le note conclusive i violoncellisti si chinano sullo strumento, ed è come se gettassero un fiore o un pugno di terra in una tomba. Ho la pelle d'oca e sento le note più basse vibrarmi nello stomaco. Resto inchiodato alla poltrona come mi è successo di rado. E di colpo mi ricordo del libro scritto da Gidon Kremer sulla sua giovinezza a Riga.

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Pagina 190

6.
LA VITTIMA INNOCENTE
LORETA ASANAVIČIŪTĖ DI VILNIUS



Lituania, aprile 2009

Nei paesi baltici ogni gruppo etnico ha i suoi eroi, i suoi santi, i suoi martiri e i suoi cattivi. Bene e male si intrecciano, la ragione dell'uno è la rabbia, la disperazione o il dolore dell'altro. In Lituania i nazionalisti sono considerati di destra, sciovinisti e cattolici, ma sono stati in prima linea nella lotta contro l'oppressione comunista. Senza i loro sforzi e il loro coraggio, oggi la Lituania non farebbe parte dell'Europa libera.


Loreta Asanavičiūtė era una ragazza da far innamorare. Aveva capelli neri, leggermente ondulati, di lunghezza media, con la riga a sinistra. Occhi scuri, sopracciglia folte e dritte e una bocca che non passava inosservata, con labbra piene, ben definite. Era minuta, aveva un collo lungo e sottile. La cosa più toccante era il suo sguardo serio. Nell'ultima fotografia che rimane di lei, Loreta guarda dritta davanti a sé come se vedesse avvicinarsi una grave sciagura.

[...]

Loreta forse condivideva le idee dei dissidenti, ma non spartiva la loro audacia. Come tanti della sua generazione, si tenne alla larga da tutto ciò che sapeva di politica. Fino al 1988.

Nella fabbrica di vestiti Dovana lavorava nel reparto in cui le donne applicavano decorazioni sui maglioni. Erano in quaranta in una sala, ognuna alla sua macchina da cucire. Il lavoro era alienante. Per non rimanere assordate dal frastuono delle macchine, le donne, metà russe e metà lituane, ascoltavano la radio: un'ora di musica popolare russa, l'ora dopo una stazione lituana, secondo gli accordi. Un giorno una donna russa si alzò in piedi e chiese perché si doveva ancora ascoltare "quella lingua da cani". Queste parole colpirono Loreta come uno schiaffo in faccia. Il 23 agosto 1989 si unì ai due milioni di estoni, lettoni e lituani che formarono una catena umana lunga seicento chilometri sulla Via Baltica, da Tallinn a Vilnius. Da quel momento partecipò a tutte le manifestazioni.

Quando i sovietici decisero di porre freno al graduale processo di indipendenza e cercarono di assumere il controllo della televisione, Loreta fu ancora della partita. Come sua sorella, come sua madre. Il 12 e 13 gennaio 1991 cantò insieme a una folla risoluta. Al termine della lunga veglia si diresse verso casa con la madre ma, quando udì in lontananza i colpi sordi dei cannoni, tornò alla Torre della televisione. La madre l'avrebbe raggiunta più tardi per portarle un ombrello – nel frattempo si era messo a nevicare forte – ma non riuscì a ritrovarla nella folla.

Intorno alle due di notte Loreta si unì alle prime linee, dove i dimostranti stavano fianco a fianco, tenendosi sottobraccio. Il motivo principale che la spinse a mettersi proprio davanti ai carri armati russi era che non ne poteva più di cantare in russo: quello che sentiva poteva esprimerlo soltanto nella sua lingua, in lituano. Forse in quella protesta si celava anche una nota di rabbia personale. Suo padre era di origine russa. In quei giorni di gennaio la situazione era caotica. Un anno e mezzo di proteste sembrava dover arrivare a una terribile fine.

La rivolta era iniziata il 23 agosto 1989, a cinquant'anni esatti dal patto Molotov-Ribbentrop, sulla Via Baltica, con la dimostrazione che sarebbe passata alla storia come la «Rivoluzione cantata». I due milioni di manifestanti diedero il via a quella che sarebbe diventata la grande svolta cantando a cappella. La Rivoluzione cantata ebbe la forza e la spontaneità della Primavera di Praga, del Maggio francese, della Rivoluzione dei garofani in Portogallo. Anche Loreta le prestò la sua voce.

Il 20 dicembre 1989 il Partito comunista lituano si scisse dal Partito comunista sovietico. L'11 gennaio 1990, la visita di Michail Gorbačëv a Vilnius fu perturbata da dimostranti. Le telecamere ripresero in primo piano il capo del Partito russo mentre, ignaro di tutto, percorreva la via Aušros Vartu per ricevere l'applauso della popolazione. Improvvisamente si fece avanti un uomo. Un uomo con le spalle larghe e corti capelli grigi, un operaio in abiti da lavoro. Gli agenti della sicurezza cercarono di allontanarlo, ma quello puntò i piedi e rimase immobile di fronte a Gorbačëv. "Ci avete sfruttato per cinquant'anni", disse. Visibilmente interdetto, il capo del Partito russo gli domandò che cosa intendesse esattamente. "Ci avete umiliato per cinquant'anni", fu la risposta. Sul viso di Gorbačëv si dipinsero ira e sconcerto: dietro le mura del Cremlino questo non l'aveva mai sentito, i capi del Partito locali e regionali non avevano mai avuto il coraggio di dirglielo. Le immagini vennero trasmesse in diretta dalla televisione lituana. Gorbačëv non riusciva a mascherare il suo imbarazzo, mentre l'uomo rimaneva risolutamente in piedi di fronte a lui e in cinque frasi esponeva cosa non andava nella Repubblica socialista sovietica lituana. Gorbačëv la prese come un'offesa personale. Girò sui tacchi e si allontanò tra i fischi. Dall'alto della porta, la Madonna nera guardava: le telecamere ripresero il suo volto sorridente e l'aureola.

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Pagina 234

8.
LA CITTÀ DI HANNAH ARENDT
KÖNIGSBERG



Kaliningrad, maggio 2009

La città di Hannah Arendt non c'è più. I palazzi monumentali, le università, il castello, i teatri, le sale da concerto, le stradine e i negozi sono scomparsi; dei magazzini dal profumo di tè, delle dimore patrizie della città anseatica non rimane più nulla. La Königsberg prussiana è diventata la Kaliningrad russa. A metà del Novecento la città mercantile si è trasformata in una guarnigione della marina sovietica isolata ermeticamente dal resto del mondo, per divenire a fine secolo una città di banditi che nulla aveva da invidiare alla Chicago di Al Capone. Nell'era sovietica la Borsa, un edificio imponente in stile rinascimentale italiano, uno dei pochi oggi riportati allo stato originario, fu adibita a casa della cultura per marinai e, negli anni di Eltsin, a casinò con annesso locale notturno. Monetny Dvor, c'era scritto in lettere al neon sulla facciata. Era meglio evitarlo, il Monetny Dvor, a meno di non voler assistere a un regolamento di conti tra mafiosi russi. Roulette e sparatorie selvagge dove un tempo regnavano l'ordine e la disciplina prussiani: la metamorfosi di Königsberg non avrebbe potuto essere più radicale.


La distruzione si è compiuta in tre fasi durante la guerra: prima a opera dei nazisti, che si trincerarono in un enorme bunker dietro le mura del castello e diedero alla città l'aspetto di una fortezza, poi dei bombardieri alleati e infine dei sovietici.

Con il bombardamento dell'agosto 1944, gli Alleati iniziarono la battaglia finale della Seconda guerra mondiale. Furono le prove generali del devastante bombardamento di Dresda sei mesi dopo. Gli aerei inglesi sganciarono su Königsberg centinaia di bombe dirompenti e incendiarie, che scatenarono una violentissima tempesta di fuoco.

Le rovine furono ricoperte dalla vegetazione, il passato scomparve sotto alberi e arbusti.

Kaliningrad diventò una grande città verde, con ampie strade che attraversavano il centro e con la mole retorica della Casa dei Soviet che certo non passava inosservata e si guadagnò il soprannome «il Mostro» per essere infine abbandonata a se stessa. Non c'era più nulla che ricordasse Königsberg, la città ricca di palazzi, il porto più orientale dell'impero tedesco, dove era difficile farsi largo sulle banchine stipate di merci e le idee più nuove si respiravano nell'aria come gli odori che salivano dalle stive delle navi. In poche città la luce dell'Illuminismo splendette più intensa, in poche città si spense altrettanto bruscamente.

A meno che non la si veda da un'altra prospettiva: la città di Hannah Arendt continua a vivere nelle sue idee. Il tono libero dei suoi scritti perpetua lo spirito di Königsberg.


Königsberg – Kenigsberg, come dicevano i suoi abitanti prussiani con il loro tipico accento nasale – era anche la città di Immanuel Kant. Il filosofo insegnò all'Albertina, l'università che prende il nome dal duca Alberto di Brandeburgo-Ansbach, fondata nel 1544 e resa grande nei due secoli successivi dai protestanti prussiani. Di rado Kant lasciò la città. Königsberg era un porto cosmopolita, e lui poteva dichiarare senza esagerazione nel suo Antropologia pragmatica: «Una grande città, centro di uno Stato, dove si trovano i consigli locali di governo, che possiede un'università (per la cultura scientifica) ed è anche sede di commercio marittimo, che per mezzo di fiumi favorisce il traffico dall'interno e coi paesi finitimi e lontani di diverse lingue e costumi, una tal città, come è per esempio Königsberg sul Pregel, può essere presa come sede adatta per l'ampliamento della conoscenza dell'uomo e per la conoscenza del mondo, la quale vi può essere acquistata anche senza viaggiare.»

[...]

Con la sua teoria – agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale – Kant esercitò una profonda influenza su Marx ed Engels. E su Hannah Arendt , che a quattordici anni prese dalla libreria paterna a Königsberg l'opera completa del filosofo e cominciò a leggere, determinando così il resto della sua vita.

Alla fine però ruppe con Kant: l'imperativo categorico non le sembrava abbastanza radicale, dopo l'Olocausto la sua filosofia morale non stava più in piedi: «Noi, almeno i più anziani tra noi, abbiamo assistito negli anni Trenta e Quaranta al crollo totale di ogni norma morale costituita nella vita pubblica e privata, e non solo [...] nella Germania di Hitler, ma anche nella Russia di Stalin.» In un'epoca di crisi – e tutto il Novecento era stato un'epoca di distruzione, come dimostrava la sua Königsberg – le regole e le leggi non vengono rispettate: secondo Hannah Arendt, l'unica cosa che conta per l'individuo è rimanere fedele a se stesso, non fare nulla con cui non si possa convivere, di cui non si possa sopportare il ricordo.

Il rispetto per Marx , invece, lo perse tardi e gradualmente. Ne Le origini del totalitarismo (1951) fa ancora una distinzione netta tra Lenin, che aveva tentato di mettere in pratica la dottrina marxista, e Stalin, che aveva svenduto il patrimonio di idee di Marx: una distinzione che le procurò un vivace scambio di lettere con l'amico e mentore filosofico Karl Jaspers.

«Lei parla a favore della passione di Marx per la giustizia, la quale lo collegherebbe a Kant», scrive Jaspers. «La passione di Marx mi sembra nascere da una radice impura, e fin da principio addirittura ingiusta. La vedo vivere di una vita negativa, priva di un'immagine dell'uomo; la sento come odio incarnato di uno pseudoprofeta che ricalca lo stile di Ezechiele.»

Nella sua risposta, Hannah Arendt difende Marx «come ribelle e come rivoluzionario» che ha veramente capito «lo snaturamento» dell'uomo e della natura da parte dell'economia di mercato.

Jaspers non vuole sentirne parlare e insiste sull'intolleranza di Marx, sulla vera e propria ossessione che traspare dal suo carattere: «Vi è una linea ininterrotta che lo unisce a Lenin [...] Probabilmente egli è, come Lutero, una figura con uno scopo, che è importante non tanto per le sue idee quanto per il carattere che sostiene quelle idee.»

Per un certo periodo Hannah Arendt non risponde; rilegge Marx, poi scrive: «Più leggo Marx, più mi convinco che Lei ha ragione. Non gli interessa la libertà, e neppure la giustizia.» Nella sua ossessione per le questioni sociali, Marx si rifiutava di affrontare seriamente tutto ciò che aveva a che fare con lo Stato e il governo. Questo divenne il filo conduttore dei successivi, fondamentali studi di Hannah Arendt: Vita activa (1958) e Sulla rivoluzione (1965).

Hannah Arendt fuggì dalla Germania nel 1933 senza documenti, passando per una casa che aveva la porta davanti in Germania e quella sul retro in Cecoslovacchia. Rimase sette anni a Parigi, all'inizio della guerra fu internata nella Francia meridionale e, liberata dopo qualche settimana, si affrettò a riparare a Lisbona; nel 1941, con il marito e la madre, emigrò negli Stati Uniti. A New York trovò una nuova casa, ma la sua lingua, gli amici più cari e i pensatori che la ispiravano rimasero tedeschi. Nel suo cuore non lasciò mai il paese in cui era nata.

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Mentre lasciavo Rundāle, mi voltai a guardarlo ancora una volta e dovetti dare ragione alla mia guida lettone: era come allontanarsi dall'Ermitage.

La Curlandia autentica si trova più a ovest. Nell'auto a noleggio una spia luminosa rossa mi avvertiva che la carreggiata era ghiacciata. La temperatura esterna oscillava tra zero e meno uno, la neve mista a pioggia si incollava ai finestrini come un giornale bagnato. Guidai su strade deserte fino a Stāmeriena, già Stomersee, alla ricerca di un castello che doveva trovarsi tra due laghi. Il paesaggio era perso nella nebbia, i tergicristalli cigolavano. Mormoravo: "Povero Tomasi..." Dopo un solo inverno implorò la moglie di trascorrere a Roma le successive feste natalizie. Lei accettò, benché a malincuore. Natale per lei significava neve.

Oltre ad alimentare la fantasia di Keyserling, la Curlandia ispirò anche il primo abbozzo di uno dei più grandi romanzi della letteratura italiana. Il Nord diede forma al Sud, nella Curlandia si rispecchiò la Sicilia. A Giuseppe Tomasi , principe di Lampedusa e duca di Palma di Montechiaro, l'ispirazione per Il gattopardo venne nella tenuta di Stomersee, non lontano dal Baltico. Quella che voleva raccontare era la storia della sua famiglia, dei suoi antenati: ma dove cominciare, con chi? Con l'arrivo di un intruso, va da sé! Quell'idea gli venne in Curlandia.

Nel 1925 il principe siciliano incontrò la baronessa baltica Alexandra Wolff-Stomersee da uno zio, che era ambasciatore italiano a Londra e patrigno di Alexandra. I capelli corvini, le folte sopracciglia nere e gli occhi scuri gli fecero pensare che fosse italiana. Si sbagliava solo a metà: Alexandra era figlia del mezzosoprano modenese Alice Barbi, nota soprattutto in Germania, intima amica di Clara Schumann e Johannes Brahms, che aveva sposato il barone baltico Boria Wolff-Stomersee.

Alexandra aiutò Giuseppe Tomasi di Lampedusa a superare la sua patologica timidezza. Laureata in psicologia, aveva trascorso i suoi primi vent'anni a San Pietroburgo, dove il padre era un alto dignitario alla corte di Nicola II. Allo scoppio della rivoluzione il barone tornò in Curlandia e a Riga, dove morì poco dopo. Alexandra proseguì gli studi a Berlino; nel 1927, a Vienna, conobbe Freud.

Nella sua vita Tomasi non aveva fatto molto più che leggere, oziare e viaggiare. Nel 1917 combatté contro gli austro-ungarici, è vero, ma fu fatto quasi subito prigioniero nella battaglia di Caporetto. Anche dietro le sbarre continuò a essere íl principe: i suoi carcerieri lo trattavano con riguardo e ogni tanto gli ufficiali austriaci lo portavano all'Opera di Vienna. Dopo un anno riuscì a evadere e impiegò mesi a tornare a casa. Negli anni Venti viaggiò in Italia e in Europa, sempre in compagnia della madre. Nel 1932, a Riga, sposò Alexandra contro il volere materno. La coppia si trasferì a Palermo, dove Alexandra diventò Alessandra ed entrò subito in attrito con la suocera. Tornò al castello della famiglia Wolff a Stomersee.

Tomasi non sapeva scegliere tra la madre e la moglie. Dopo la morte del padre nel 1935, si dedicò ad amministrare i beni di famiglia. Trascorreva la maggior parte dell'anno tra Palazzo Lampedusa a Palermo e la tenuta di Santa Margherita di Belice, l'estate a Stomersee. Con l'unica eccezione di quel famoso inverno, che si concluse per lui con una brutta tosse.

Nel castello in Curlandia scrisse l'incipit del Gattopardo, in Sicilia scriveva lettere ad Alessandra – anzi, a Licy, come la chiamava. Lettere discrete, in cui evitava accuratamente di toccare sentimenti o di esprimere a parole il suo amore. Tuttavia fu pazzo di felicità quando lei gli rispose: «Amo te quanto amo Stomersee.»


Il castello di Stāmeriena/Stomersee era chiuso al pubblico. Da fuori appariva molto degradato, con l'intonaco scrostato in più punti. Nell'alta torre rettangolare e in quella circolare, più piccola, intuii comunque qualcosa dell'antica fierezza. Nel parco l'acqua del disgelo gocciolava dai rami. Certo non l'ambiente adatto a un principe siciliano. O invece sì? Non è da una certa distanza che si riesce a vedere con più chiarezza il vecchio ambiente familiare?

In via del tutto eccezionale, la famiglia Wolff poté conservare la proprietà del castello dal 1920 al 1939. Dovettero consegnare allo Stato i 290.000 ettari di terreno, tranne un unico pascolo e il parco intorno a Stomersee. Quando andò a stare in Curlandia, Tomasi di Lampedusa incontrò baroni e conti ridotti in misera, baronesse e contesse disilluse. La loro decadenza acuì il suo sguardo sull'aristocrazia siciliana. Mentre meditava sull'innegabile fine di un'epoca, nella sua mente cominciò a delinearsi, lenta ma sicura, la figura di Don Fabrizio.


Io credo che a Stomersee Tomasi abbia letto i romanzi di Eduard von Keyserling. Era un lettore appassionato e padroneggiava il tedesco fino alle sfumature. Per certi aspetti Il gattopardo può sembrare un pastiche di un romanzo di Keyserling. Quello di Don Fabrizio è un mondo sicuro: il principe legge ad alta voce alle figlie un romanzo edificante, fuori piove e imperversa la bufera, quando viene annunciata una visita inattesa, ed ecco l'intruso: «Sull'ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi». Con l'arrivo del nipote ha inizio la rovina della famiglia: esattamente lo stesso schema adottato da Keyserling nei suoi Schlossromane. Anche da un punto di vista stilistico, i due scrittori non sono molto diversi tra loro. Tomasi scrive con maggiore eleganza, ma con la stessa esigenza di precisione, attenzione alle sfumature e varietà di Keyserling. Entrambi rimpiangono profondamente il loro paradiso perduto.

Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto una serie di appartamenti smessi e disabitati; abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso.

Il mondo dello scrittore siciliano crollò definitivamente nell'aprile del 1943, quando Palazzo Lampedusa fu distrutto dai bombardamenti alleati. Tomasi si era trasferito da parenti. Quando tornò a Palermo per verificare i danni, rimase talmente sconvolto che non riuscì a parlare per tre giorni. Passarono dieci anni prima che riprendesse a scrivere regolarmente. Finì Il gattopardo negli ultimi due anni e mezzo di vita, e morì nel luglio del 1957. Da un capolavoro della letteratura nacque un capolavoro del cinema: Luchino Visconti ha saputo restituire alla perfezione l'atmosfera del romanzo.

Per Alessandra Wolff-Stomersee, secoli di storia e di orgoglio famigliare erano sfumati già prima della guerra. Nel 1939, infatti, dovette lasciare precipitosamente Stomersee. Non rivide mai più la Curlandia, la Lettonia, il castello. Alessandra diventò la prima psicanalista donna d'Italia. Morì nel 1982 a Roma.

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11.
L'INIZIO DI UN'AVVENTURA SCONOSCIUTA
NELLA LUCE DI MARK ROTHKO



Lettonia, aprile 2009

Prendo il treno per Daugavpils al levarsi del giorno. Sedili dritti e duri rivestiti di plastica, pavimenti appiccicosi. I cestini debordano di giornali di ieri e dell'altro ieri e di bucce di banane annerite. Ovunque odore di escrementi e urina. È un treno locale di epoca sovietica; procede a sobbalzi e scossoni e quando supera i sessanta all'ora si mette a sferragliare con un fracasso infernale. Otto passeggeri su dieci sono vecchie donne. Come all'epoca del comunismo evitano la compagnia di estranei e siedono il più lontano possibile da me. Posso allungare le gambe e sto zitto per tutto il viaggio.

Fuori dal finestrino dominano due colori: il rosso del cielo e il verde dei boschi. Il rosso è acceso, striato di tonalità più chiare e incerte, il verde è interrotto dal nero e dal marrone dei rami. Sono superfici quelle che vedo, superfici in alto e in basso, contrasti che hanno bisogno l'uno dell'altro: il cielo diventa cielo solo quando c'è una terra, il rosso diventa più rosso grazie alla fascia inferiore più scura.

Un quadro scorre fuori dal finestrino: un quadro che non finisce mai, forte e inquietante, tranquillo e profondo. Un quadro di Rothko. I pittori ci mostrano quello che c'è sempre stato ma che noi non abbiamo mai visto in quel modo. Il loro sguardo influenza il nostro. La domanda è sempre la stessa: cos'è che determina o affina lo sguardo del pittore?

"Abito a New York nella Sesta Avenue", disse Mark Rothko a William Seitz nel 1953. "Dipingo nella Sessantatreesima strada, sono influenzato dalla televisione eccetera eccetera... I miei quadri fanno parte di questa vita."

Vero. O vero a metà? Non fanno parte anche di un'altra vita?

Dopo un'ora e venti arrivo a Daugavpils. Una città industriale, grigia come Charleroi. Le fabbriche sono state costruite dai russi, le più vecchie sotto gli zar. La città sorge in una posizione favorevole sulla Daugava, il fiume che dopo duecento chilometri sbocca nel golfo di Riga e la collega alla capitale, e anche nel punto dove la linea ferroviaria tra Riga e Mosca incrocia quella tra Varsavia e San Pietroburgo.

[...]

Visito le chiese di Daugavpils: la chiesa protestante, la cattolica e l'ortodossa. Per ultima la sinagoga. L'edificio sorge quasi di fronte alla casa natale di Mark Rothko. Il rabbino mi fa da guida. Tutte le sinagoghe della città furono distrutte durante la Seconda guerra mondiale; questa è stata ricostruita dopo il periodo comunista, nel terzo anno dell'indipendenza della Lettonia.

Racconta il rabbino: "La famiglia Rothkowitz partì appena in tempo. Nel 1915 Dvinsk fu bombardata dai tedeschi, dal cielo e dalla collina al di là del fiume, a colpi di artiglieria. La maggior parte delle fabbriche fu spostata nelle città oltre il fronte, gli operai dovettero trasferirsi. Forse allora se la sarebbero ancora cavata, ma la Seconda guerra mondiale sarebbe stata senz'altro fatale."

Nel giugno del 1941 Hitler violò il patto con Stalin e attaccò l'Unione Sovietica con tre milioni di soldati. La 56a divisione corazzata arrivò a Daugavpils il 26 giugno. I tedeschi furono accolti come liberatori, con fiori e canti. Dopo sei giorni di calma, i carri armati marciarono su Leningrado. Il 29 giugno, prima che il controllo della città passasse dall'esercito alla Gestapo e agli Einsatzkommandos speciali, i fascisti lettoni distrussero tutte le sinagoghe e fucilarono 1100 uomini e ragazzi davanti al muro della prigione sulla Shossejnaya, a cento metri dalla casa di Marcus.

Il 25 luglio tutti gli ebrei furono rinchiusi in un accampamento ai piedi della fortezza, appena al di là del fiume. Senz'acqua, senza cibo, senza servizi igienici. Ai primi di agosto, durante un'ondata di caldo, 1500 anziani e malati furono giustiziati per fare spazio. Qualche giorno dopo furono uccisi nei boschi ottomila ebrei; dopo dieci giorni, tremila e quattromila, l'8 e 9 novembre undicimila. Arrivò l'inverno, e il freddo pungente costò la vita a migliaia di internati. Il 15 maggio 1942, festa nazionale della Lettonia, dei trentamila ebrei di Daugavpils erano ancora vivi quattrocento.

"Quei quattrocento dovevano affrontare ancora due anni di guerra", dice il rabbino. "Ce la fecero in pochi. Gli ebrei che oggi vivono in città e frequentano la sinagoga sono venuti a Daugavpils dalla Bielorussia e dall'Ucraina dopo la guerra."

«L'ebreo parlava tedesco», scrive Modris Eksteins nella sua personale storia degli stati baltici, «e a volte era più tedesco del tedesco. L'ebreo parlava russo e, ancora, poteva essere un portavoce della cultura russa migliore del russo. L'ebreo era un cittadino, un cosmopolita. L'ebreo era tutto – ma per molti lettoni, persi in un clima di paranoia crescente e rozzo nazionalismo, rappresentava tutto ciò che era estraneo, tutto ciò che era pericoloso.»

Quando porto il discorso sul Bund, il rabbino sorride: "Quelli erano bei tempi, pieni di speranza, tempi in cui gli ebrei diedero il meglio di sé: il loro senso della comunità e la solidarietà con i poveri." Ma lo zar Nicola bollò ogni idea di progresso come un infame complotto ebraico e massone; ai suoi occhi c'era una sola chiesa che predicava la vera fede, quella russo-ortodossa.

Con la rivoluzione le cose non migliorarono granché. "A Lenin", prosegue il rabbino, "sarebbe dovuto succedere Trotzkij, ma per i comunisti Trotzkij riuniva in sé due inconvenienti insormontabili: era un vero intellettuale, ed era ebreo." Poi arrivarono i nazisti: "Da queste parti non ci fu alcun bisogno di fomentare l'antisemitismo, che da ormai due secoli si diffondeva tra la popolazione come la scarlattina."

Accanto alla sinagoga si trova il Museo Storico, dove numerose fotografie illustrano quel che il rabbino mi ha raccontato. Ponti, stazioni e palazzi saltati in aria nella Prima guerra mondiale, edifici distrutti nella Seconda. Rare le immagini del campo di concentramento ai piedi della fortezza.

Una sala contrasta nettamente con le altre di fotografie in bianco e nero: vi sono esposti trenta dipinti di Mark Rothko. In realtà riproduzioni su tela, realizzate a regola d'arte a Vienna. Osservo queste opere astratte, e ne ricavo una sensazione molto più cupa rispetto agli originali che avevo visto per la prima volta al Museo Ludwig di Colonia nel 1988. Mi tornano in mente due versi di una poesia che Rothko scrisse a sedici anni:

    Il cielo è come un lume nella nebbia
    Alla fine di una lunga strada buia.

Tuttavia non fu l'antisemitismo che indusse Jacob Rothkowitz a prendere la decisione di emigrare negli Stati Uniti: fu piuttosto che i due figli maggiori potessero essere richiamati al servizio militare da un momento all'altro, e l'idea che indossassero la stessa divisa dei soldati dello zar che avevano represso la rivolta del 1905 gli riusciva insopportabile.

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IL BALTICO ALLE PORTE DI CASA



È come un grande puzzle il mondo baltico che emerge dalla descrizione che ne fa Jan Brokken. Un puzzle difficilissimo da ricomporre perché molte tessere sono sparite: nascoste da qualcuno che non le vuol far trovare, distrutte dalla crudeltà degli eventi, dimenticate sotto il tappeto della storia. Ma Brokken non si rassegna e con infinite pazienza e tenacia le ritrova, le ricolloca, riempie buchi, ricompone il quadro. E ciò che ne emerge è per molti versi inquietante: lassù al Nord le vicende ricordano parecchio quelle accadute quaggiù al Sud.

Quanto troviamo consolatorio pensare che in quei mondi lontani succedono cose che mai, e poi mai, potrebbero toccarci. Lì è tutto grigio, i colori sono rarefatti da una luce pallida, fa freddo, è sempre inverno, si suicidano. Mica come da noi, dove tutto è solare, vivace, e ci si gode la vita. Che abbiamo noi a che fare con i baltici; con Livonia e Curlandia che sembrano territori confinanti con Topolinia?

Invece no, quelle storie sono dietro l'angolo, ci parlano di noi, del comune sentire di un'Europa terremotata dal nazionalismo, dalla violenza, dal sangue sparso in nome di una presunta superiorità. Quando gli estoni e i lettoni fanno finta che non siano mai esistiti i baroni baltici, aristocratici tedeschi che dominavano i contadini locali e parlavano qualsiasi lingua fuorché quella dei loro sottoposti, non sono molto diversi dai croati che fingono di ignorare il passato multietnico delle città dell'Adriatico orientale. Zara e Spalato come Riga e Tallinn? Vilnius come Knin? Un po' sì: città lacere e corse, spogliate e rispogliate delle loro identità.

I territori di frontiera, le località miste, le città multietniche hanno purtroppo un tratto comune, qui sull'Adriatico, come sul Baltico, o sul Mediterraneo orientale (ne sanno qualcosa gli armeni, e anche i greci cacciati dall'Anatolia o da Alessandria d'Egitto): chi vince prende il piatto. A prescindere da chi sia il vincitore.

Anche nel lessico la vicenda è simile: si tratta di città che hanno più nomi, nelle diverse lingue che vi sono – o vi sono state – parlate. Basta aprire Wikipedia per verificarlo: Tallinn in tedesco si chiama Reval, in svedese Lindanäs; Vilnius per i polacchi è Wilno, per i tedeschi Wilna, in yiddish diventa Wilne. Non molto diverso da Trieste («italianissima» per i nazionalisti nostrani) che in sloveno fa Trst e in tedesco Triest, o ancora Gorizia/Gorica/Görz; e volendo si potrebbe andare avanti per ore. Qualche nome cambia meno: Riga al massimo diventa Rïga, come Pola si limita a Pula. Il punto è che ognuno di questi nomi ha la sua dignità e la sua storia, mentre i vari nazionalisti vogliono dimenticare il nome degli «altri» ricorrendo soltanto al proprio. Per credere, provare con un greco a dire Istanbul anziché Costantinopoli. E senza andare tanto lontani, quanti italiani sanno come si chiami oggi e dove si trovi Caporetto? Un luogo piuttosto importante nella nostra storia, Kobarid, in Slovenia (per essere pignoli ha anche un nome tedesco: Karfeit).

I russi che vivono in Estonia e in Lettonia molto spesso si rifiutano di imparare l'estone e il lettone, vivono soltanto fra loro e rimangono cittadini di serie B, rinunciando persino al passaporto perché la cittadinanza viene concessa a chi conosca la lingua del paese. Non siamo poi così lontani dagli italiani dell'Alto Adige, o Südtirol, che si rifiutano di imparare il tedesco, quindi non ottengono il patentino di bilinguismo e di conseguenza non possono accedere ai posti pubblici. Con il risultato che i posti di lavoro riservati agli italiani rimangono scoperti.

Se nelle città baltiche i monumenti dell'era sovietica sono stati rimossi, a Bolzano ancora oggi si discute attorno al monumento alla Vittoria con tanto di fasci littori e Mussolini a cavallo mai cancellati.

I dati etnici sono significativi: la popolazione di Vilnius all'alba del Novecento era composta da un 2 per cento di lituani, un 30 per cento di polacchi, 20 per cento di russi, 40 per cento di ebrei; un secolo dopo i lituani erano cresciuti al 58 per cento, i polacchi e i russi calati al 19 e 14 per cento, gli ebrei annichiliti allo 0,5 per cento. Fatta la debita tara del sangue versato e di una storia infinitamente più drammatica nel profondo nord baltico rispetto al sud adriatico, la demografia storica dovrebbe far riflettere anche alle nostre latitudini: Trieste prima delle leggi razziali del 1938 (non a caso proprio lì annunciate da Mussolini) è in termini relativi la città più ebraica d'Italia (seconda dopo Roma in termini assoluti); la minoranza tedesca – circa il 10 per cento – viene letteralmente spazzata via in un paio d'anni dopo la fine della Prima guerra mondiale. Quando, nel conflitto successivo, saranno gli italiani a perdere, nella vicina Istria la storia si ripeterà a parti rovesciate e con molto sangue sparso in più, in un territorio dove le contrapposizioni etniche si mescolano e sovrappongono a quelle politiche. Esattamente come nei paesi baltici.

Uno di quei tedeschi triestini costrett ad andarsene dopo il 1918 tornerà nella sua città natale una ventina d'anni più tardi e in divisa da SS. Odilo Globočnik trasforma lo stabilimento per la pilatura del riso nel rione di San Sabba nell'unico lager nazista in Italia, la Risiera, per l'appunto. Si era fatto una vasta esperienza in Polonia, visto che era stato proprio lui a creare Treblinka. Si suicida nel 1945, mentre nel 1946 finisce impiccato a Norimberga uno dei più importanti esponenti del regime nazista: Alfred Rosenberg, nativo di Tallinn, o Reval che dir si voglia.

Ora confrontate questi due passaggi. Il primo l'avete probabilmente letto da poco. «Si presentò un uomo che voleva scrivere un articolo per la rivista del golf club locale. "Lei signora, dov'è nata?" "In Estonia." "E dov'è?" Un attimo di sconcerto. Di profonda solitudine.»

Il secondo lo scrisse qualche anno fa una giornalista di Repubblica, Anna Maria Mori. «Nata a...? La risposta tarda ad arrivare. L'interlocutore è il professore delle medie prima, poi del liceo, dopo ancora l'impiegato degli uffici amministrativi dell'università, e via via continuando. Aspetta, con un po' di impazienza: è preparato sull'eventuale esitazione quanto alla data di nascita. Ma sul luogo... Allora: nata, dove?" "A Pola". L'impazienza aumenta: questa qui si permette di far perdere tempo anche con una banalità come la geografia. "Come ha detto?" "Pola. Istria". Questa volta, l'esitazione passa dall'altra parte: qualche secondo di silenzio imbarazzato. E poi: Ah, in Jugoslavia... Lei è jugoslava". "Veramente no: io sono italiana. Sono nata in Italia". Un'illuminazione: Ah già, dimenticavo... Allora lei è profuga". E chissà perché la cosa, "lei è profuga" faceva così ridere il professore, la professoressa, l'impiegato del comune o dell'anagrafe che me lo chiedevano. A me veniva da piangere. Anche e soprattutto perché gli altri ridevano.»

Ecco perché Anime baltiche alla fin fine potrebbe chiamarsi anche Anime mediterranee.

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