Copertina
Autore Nicola Bruno
CoautoreRaffaele Mastrolonardo
Titolo La scimmia che vinse il Pulitzer
SottotitoloPersonaggi, avventure e (buone) notizie dal futuro dell'informazione
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2011, Presente storico , pag. 192, cop.fle., dim. 15,7x23x1,3 cm , Isbn 978-88-6159-477-7
LettoreDavide Allodi, 2011
Classe media , informatica: reti , informatica: sociologia
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Indice


   3  INTRODUZIONE

   7  1. PRECISIONE – Onorevole Pinocchio

  27  2. VELOCITÀ – Inseguendo bin Laden

  47  3. INTELLIGENZA – La Scimmia che vinse il Pulitzer

  69  4. PARTECIPAZIONE – Africa Open Source

  91  5. TRASPARENZA – Una giornata senza segreti

 117  6. LIBERTÀ – L'isola che non c'era

 137  7. BELLEZZA – Io vi salverò

 157  8. CAMBIAMENTO – Nella terra dei journo-hacker


 191  Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

Introduzione

Otto link tra passato e futuro


«La notizia della mia morte è stata ampiamente esagerata», ironizzò Mark Twain a proposito delle voci sulla sua scomparsa pubblicate su un quotidiano dell'epoca. Lo stesso si potrebbe dire oggi del giornalismo, spesso dato per morto di fronte all'avanzata di Internet. O almeno questo è quello che pensavamo quando, nella primavera del 2009, abbiamo iniziato a lavorare a questo libro. In quel periodo si parlava solo di giornalisti licenziati in tronco e di crollo inarrestabile delle entrate pubblicitarie. Storiche testate si vedevano costrette a fermare per sempre le rotative, altre venivano vendute per la simbolica cifra di un dollaro (è il caso del settimanale americano "Newsweek"). Tra gli addetti ai lavori il passatempo preferito era fare previsioni su quando sarebbe stata stampata l'ultima copia del "New York Times" (nel 2014 o nel 2043, a seconda della sfera di cristallo impiegata). Quanto ai colpevoli di questa situazione disperata, era presto detto: la Rete e la rivoluzione digitale stavano abbassando i costi di produzione, moltiplicando l'offerta e portando il valore delle notizie vicino allo zero.

Tutto vero, chiaro e anche un po' allarmante. Se non fosse che, a guardare bene, nella giungla digitale non c'erano solo i "parassiti" alla Google di cui si lamentava il magnate dei media Rupert Murdoch o le schiere di "blogger in pigiama" pronti a prendere il posto dei giornalisti lavorando gratis (o quasi) e senza garantire lo stesso grado di affidabilità. C'erano anche giovani reporter che raccontavano guerre dimenticate con Twitter e uno smartphone, informatici che progettavano software automatici per offrire notizie sempre più accurate e veloci (è il caso della Scimmia-robot da cui prede il titolo questo libro), redazioni illuminate che puntavano su nuovi modi di fare informazione. Insomma, pur avendo qualche fondamento, la notizia della morte del giornalismo ci appariva, a un'analisi più attenta, un po' esagerata.

Se solo si provava a spostare lo sguardo oltre la retorica dominante si scopriva che, più che lasciarci la pelle, il nostro mestiere sembrava piuttosto sul punto di cambiarla. Per diventare cosa non era chiaro a nessuno, tanto meno a noi. Così, per capirci qualcosa di più e per scrollarci di dosso la depressione che si respirava nell'aria, tra il 2009 e il 2010 abbiamo cominciato un viaggio che ci ha portato a Chicago, New York, Washington, Varsavia, Amsterdam, Bruxelles e altre capitali europee.

Il libro che avete tra le mani è il resoconto di questa avventura, che si è rivelata più tonificante di quanto avessimo sperato. Lungo la strada abbiamo infatti incontrato un gruppo di pionieri pronti a confermare che la battuta di Mark Twain può essere applicata anche al giornalismo. Che si tratti dì disinnescare le bugie della politica attraverso una macchina della verità digitale (quella di PolitiFact di cui si parla nel primo capitolo) o di raccontare la vittoria di Obama attraverso nuove forme di storytelling (come fanno i cosiddetti "ribelli del New York Times"), le idee degli innovatori che abbiamo intervistato rappresentano il primo tassello di un nuovo ecosistema dei media tutto da costruire. Un po' come Steve Jobs e Bill Gates (che negli anni '70 preparavano la rivoluzione dei personal computer nei loro garage), anche i protagonisti delle storie che state per leggere sognano di fare l'impresa: reinventare le notizie del millennio digitale.

Alcuni di loro hanno da sempre il giornalismo nel sangue; altri ci si sono trovati per caso e hanno scoperto di amarlo solo dopo. Dal punto di vista ideologico si situano su uno spettro ampio, che va dal sovversivo all'integrato: da Julian Assange ricercato dal Pentagono, al designer polacco Jacek Utko inseguito dai più grandi editori del mondo, ansiosi di dargli un lavoro. Qualcuno passa la giornata a digitare velocissimo notizie su Twitter (i ragazzini Speedy-Gonzales di BNO News), altri non scrivono frasi di senso compiuto, ma righe di codice informatico (i journo-hacker dell'ultimo capitolo), altri ancora articoli di leggi (la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir). Se c'è un filo che lega queste personalità così diverse è un atteggiamento, una disposizione verso il presente. Invece dì piangere per un contesto difficile, usano gli strumenti che il momento storico mette loro a disposizione per seguire lo stesso demone che ha ispirato le precedenti generazioni di reporter: la ricerca e la diffusione della verità.

Incontrando questi visionari, intervistandoli di persona, importunandolì via chat o via e-mail, ci siamo resi conto che ognuno di loro rappresenta un "link" tra passato e futuro, il simbolo di un valore forte del giornalismo del secolo scorso che continua a sopravvivere anche nel millennio digitale. C'è la precisione usata contro i potenti su cui lavora il reporter Bill Adair (capitolo 1), la velocità inseguita via Twitter dal ventenne Michael van Poppel (capitolo 2), la partecipazione tramite sms scelta dall'attivista Ory Okolloh per raccontare storie dimenticate dai media tradizionali (capitolo 4). E ancora: l' intelligenza (artificiale) che gli informatici Kristian Hammond e Larry Birnbaum vogliono regalare ai reporter (capitolo 3); la bellezza dell'informazione su carta per cui si batte Jacek Utko (capitolo 7); la libertà di espressione adattata ai tempi della rete globale promessa da Birgitta Jónsdóttir (capitolo 6); il cambiamento su cui stanno puntando istituzioni storiche come il "New York Times" e il "Chicago Tribune" (capitolo 8).

Infine c'è la trasparenza (capitolo 5), sempre cercata dal giornalismo di ogni epoca e che Internet ha portato a un nuovo livello. Oggi il suo profeta indiscusso è Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks. Quando l'abbiamo incontrato, nel giugno 2010, la sua creatura era relativamente poco conosciuta e non aveva messo a segno gli scoop più clamorosi. Per quanto fosse già poco simpatico al Pentagono, all'epoca Assange non era ancora finito sulle prime pagine di tutti i quotidiani, né era stato definito dall'amministrazione Obama il "terrorista hi-tech più pericoloso del mondo". Già allora, comunque, il sito contro i segreti faceva intravedere scenari del tutto inesplorati per il futuro dell'informazione. Anche per questo abbiamo scelto di fermare il tempo e di lasciare il capitolo a lui dedicato così come era stato concepito inizialmente (la cronaca di una giornata trascorsa in sua compagnia), invece che aggiornarlo con le molte e clamorose vicende successive. Piuttosto che inseguire l'attualità abbiamo preferito restituire un'istantanea di Assange e di WikiLeaks appena prima che la bolla di notorietà li avvolgesse.

In fondo, che uno dei protagonisti delle nostre storie sia diventato in poco tempo un divo globale non ci dispiace affatto. Ci ha confermato semmai che le notizie sulla morte del giornalismo sono ampiamente esagerate. Dopo il nostro viaggio ne siamo così convinti da scommettere che nei prossimi mesi sotto i riflettori finiranno altri personaggi e progetti che qui presentiamo come il "futuro" dell'informazione. Tempo di leggere queste pagine e alcuni di loro saranno già diventati il "presente". E magari qualcuno — comprese le Scimmie-robot con il pallino per il giornalismo — avrà persino vinto il Pulitzer.

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Pagina 49

La Scimmia che vinse il Pulitzer

Scrive notizie di baseball alla velocità della luce e in un inglese impeccabile. Non è un giornalista ma un software che presto potrebbe sbarcare nelle redazioni di mezzo mondo


1. Nella tana della bestia

Il più prolifico giornalista di tutti i tempi abita al terzo piano di una palazzina di Evanston, sobborgo universitario immerso nel verde della periferia nord di Chicago. Riesce a scrivere una notizia, con tanto di titolo, sommario e immagine di contorno, in meno di un secondo.

Quando lavora per otto ore al giorno – e lo fa spesso, perché non sente la fatica – arriva a sfornare 150 mila articoli la settimana, sabato e domenica esclusi. È il sogno di ogni editore, ma anche l'incubo di molti colleghi che, per colpa sua, da un giorno all'altro potrebbero trovarsi senza lavoro. Raccontano che abbia l'istinto del reporter di razza e la velocità di scrittura del veterano. Per ora si occupa solo di baseball, ma presto inizierà a cimentarsi anche in altri sport: calcio, football americano, hockey. E un giorno, chissà, potrebbe sbarcare anche a Wall Street per analizzare gli indici di Borsa e le novità finanziarie. I dati e le statistiche sono la sua passione: basta dargli una serie di numeri e lui subito sente odore di notizia, trova un personaggio o una storia degna di essere raccontata.

Il più veloce giornalista di tutti i tempi non si firma con nome e cognome, ma utilizza uno pseudonimo: Stats Monkey, letteralmente "Scimmia delle statistiche". Non si tratta di un vezzo, né della sigla dietro cui si nasconde una fabbrica di redattori sottopagati. La Scimmia non è un essere umano in carne e ossa, né tanto meno un primate super intelligente, ma una creatura fatta di O e di 1, un software a cui è stato insegnato a scrivere notizie alla velocità della luce e in un inglese impeccabile. Quando si è presentata al mondo, a fine 2008, ha seminato il panico nelle redazioni dall'Europa all'America. «Nel giro di poco tempo, i cronisti sportivi saranno del tutto obsoleti», ha scritto il sito della NBC. «Stats Monkey spingerà i giornalisti ad assumere molti flaconi di Tums [noto rimedio contro l'acidità di stomaco, N.d.A.]», ha ironizzato il "New York Times". Al di là della prevedibile preoccupazione tra i reporter tradizionali, c'è stato anche chi è rimasto di stucco di fronte alla perfezione glaciale dei suoi turboarticoli. Per uno sport come il baseball, dove abbondano numeri e statistiche, la Scimmia sembra molto più brava, precisa ed efficiente dei colleghi umani.

Il compagno di stanza che nessun giornalista vorrebbe avere lavora alacremente al terzo piano dell'Intelligent Information Lab, futuristico laboratorio di "informazioni intelligenti" della Northwestern University, università privata di Chicago frequentata, tra gli altri, dallo scrittore Premio Nobel Saul Bellow e dall'attore Premio Oscar Charlton Heston.

La redazione della Scimmia non assomiglia per nulla a quella di un quotidiano. È un lindo susseguirsi di laboratori e sale server, con megacomputer in ogni stanza e schermi al plasma su cui scorrono stringhe di codice. I "colleghi" di Stats Monkey non fumano e non trangugiano caffè: sono salutisti avatar in 3D che conducono il telegiornale della sera e asettici programmi informatici che vanno a caccia di notizie su Twitter e Facebook. Ma è proprio in questo luogo "disumano" che bisogna addentrarsi per capire se davvero un giorno gli automi prenderanno il nostro posto nelle stanze dei giornali o se l' homo sapiens con la passione della notizia ha ancora qualche speranza.

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Pagina 62

6. La strategia del cyborg

Nel 1996, dopo anni di dominio incontrastato nel mondo degli scacchi, Garry Kasparov decise di sfidare il computer Deep Blue realizzato da IBM. Il mago russo della scacchiera riuscì a imporsi per quattro a due. L'anno seguente tornò di nuovo a scontrarsi con una versione migliorata del software. E perse. Fu un clamoroso colpo, non solo per lui ma per tutto il genere umano: il pluripremiato campione non poteva nulla contro la velocità di calcolo del computer che negli anni successivi sarebbe aumentata senza sosta. Kasparov la prese con filosofia, si ricordò del vecchio detto "Se non puoi batterli unisciti a loro" e si inventò un nuovo gioco, quello che poi avrebbe chiamato "scacchi avanzati", in cui a scontrarsi sono coppie formate da campioni di scacchi supportati da computer. Mettendo insieme la creatività umana con la potenza di calcolo delle macchine, la sfida diventa molto più appassionante.

La riprova della bontà dell'intuizione di Kasparov arrivò qualche anno dopo, quando a un torneo di scacchi si presentarono da una parte grandi maestri in solitaria, dall'altra supercomputer e – novità di quella gara – il terzo incomodo delle coppie "avanzate" formate da normali giocatori più computer. Il responso finale fu inequivocabile: i geni degli scacchi perdevano sempre quando giocavano da soli e così pure i supercomputer. Le nuove creature imbattibili erano invece le coppie miste.

Questo aneddoto è una delle pietre miliari della teoria cyborg, il movimento che ha fatto dell'integrazione uomo-macchina la propria bandiera ideologica. Come spiega lo studioso francese Thierry Crouzet, «La strategia del cyborg è l'estensione della nostra potenza creativa attraverso quella degli altri [...]. L'essere umano assistito dalla macchina prevale sull'uomo e sulla macchina che procedono separatamente». E cioè: i computer non sono venuti qui per sostituirci, ma per potenziarci: potremo finalmente esprimere al meglio la nostra creatività, lasciando a loro i lavori più pesanti e noiosi.

Larry Birnbaum forse non ha mai letto Crouzet, ma da appassionato di intelligenza artificiale e da inguaribile ottimista non ne ha affatto bisogno: ormai ha interiorizzato bene la teoria cyborg. È per questo che, a ogni occasione utile, ci tiene a sottolineare che non avrebbe mai potuto creare il DNA binario della sua Macchina – la matrice per restare in ambito cyborg – senza le competenze, tutte umane, della vicina Scuola di giornalismo della Northwestern: «Sono stati loro a insegnare alla Scimmia come si scrive un articolo, ad arricchire il dizionario con locuzioni gergali, a spiegarle come va fatto un titolo e quando serve una dichiarazione a supporto di un dato». «È per questo», aggiunge il collega Kristian, «che Stats Monkey non andrebbe considerato solo un software: è l'altra metà di un cyborg, una creatura nata dall'unione di byte e intelligenza umana.» «Pensa a un reporter», riprende la parola Birnbaum, «che segue una partita di baseball insieme alla Scimmia. Appena finisce il match non deve preoccuparsi di scrivere la sintesi, lo fa la Macchina. Invece lui può scendere a bordo campo, fare le interviste negli spogliatoi. Può aggiungere quel tocco umano e di contesto che il software non potrà mai dare.» Anche per questo, secondo Hammond, la Scimmia e i suoi epigoni non saranno responsabili di ulteriori licenziamenti, almeno non immeritati. «Forse potranno far fuori i giornalisti mediocri, quelli che si accontentano di scrivere la cronaca di una partita senza andare oltre.» Gli altri, recita la teoria cyborg applicata al giornalismo e difesa con tanta passione dai nostri due interlocutori, avranno solo un altro strumento che li aiuta nel loro lavoro. «Il matrimonio tra informatica e notizie online è inevitabile, e non potrà che far bene a tutti, dai cittadini ai reporter», conclude Hammond con tono risoluto.

Resta da vedere se anche gli editori, i grandi assenti di questa armoniosa visione in cui una Scimmia software e un reporter in carne e ossa sono seduti fianco a fianco a vedere la partita, saranno dello stesso parere. In realtà non c'è nulla che garantisca che i padroni dei media saranno così illuminati da inviare alla partita un giornalista accompagnato da un robot e non si accontenteranno, invece, solo di quest'ultimo. Sarà per questo che mentre ci congediamo, il sorriso cordiale di Kristian e Larry ci sembra anche un po' minaccioso e un brivido ci scorre lungo la schiena. In fondo la loro Scimmia costa meno, è più produttiva e, in alcuni casi, sa essere anche più intelligente di noi.

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L'isola che non c'era


Un'attivista diventata parlamentare riesce a trasformare un Paese in bancarotta nel paradiso dei giornalisti e del diritto di parola


1. Bavagli e geyser

Anche le utopie, talvolta, trovano un luogo dove materializzarsi. Accade raramente, ma accade. Compiono tragitti nello spazio, svolazzano nel tempo e poi precipitano nella realtà grazie all'incontro con la persona giusta. Più spesso che no, atterrano molto lontane da dove sono state concepite. Quella di WikiLeaks, nata in Australia e fatta di libertà di espressione all'ennesima potenza, potrebbe avere trovato la sua casa reale in un'altra isola, più piccola, più fredda, con molti surf in meno e qualche vulcano in più: l'Islanda. Il 16 giugno 2010, mentre in Italia ci si accapigliava su una legge anti intercettazioni ribattezzata "Bavaglio", il parlamento di Reykjavik ha infatti approvato una proposta normativa che ha l'ambizione di trasformare il Paese nel paradiso del giornalismo investigativo.

In pratica, sfumatura più sfumatura meno, il sogno dell'australiano Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, che infatti ha dato un contributo determinante al testo. L'hanno battezzata IMMI, che sta per Icelandic Modern Media Initiative, e garantisce ai suoi abitanti le più sofisticate protezioni giuridiche in quanto a libertà di espressione. Ai poteri locali, pubblici e privati, impone la massima trasparenza. Ai dissidenti e agli editori del globo regala un rifugio sicuro dalle censure e dai sequestri. Ai governi del mondo, infine, fornisce un esempio virtuoso da seguire.

Che una possibile rivoluzione del giornalismo provenga da una nazione di appena 320 mila abitanti, che negli ultimi due anni ha rischiato la bancarotta ed è tuttora in profonda recessione, è solo un paradosso apparente. Anzi, dimensioni contenute e crisi economica sono stati elementi decisivi nel percorso dell'utopia che dall'emisfero australe ha attraversato mezzo globo e si è accasata nei pressi del Polo nord. Malcontento popolare, crisi di governo ed elezioni repentine hanno fermato un attimo nella storia del Paese. A Birgitta Jónsdóttir da Reykjavik, già poetessa e ora parlamentare di inclinazioni buddiste, è toccato cogliere quell'attimo e fare da catalizzatore di un gruppo di scaltri rivoluzionari. La storia del paradiso dei giornalisti che sta per nascere nella terra dei ghiacci è anche la storia di un gruppo di eccentrici hacker, attivisti e politici più o meno consapevoli di quello che stavano facendo. Birgitta ha cominciato a raccontarcela in un caffè di Bruxelles, ha continuato con e-mail, telefonate dall'Islanda e da vari altri angoli del globo dove la sua attività politica e di neopaladina della libertà di informazione l'ha portata. Persino dall'Italia, dove è stata attirata dalle notizie allarmanti sullo stato dell'informazione nostrana e dal movimento di Beppe Grillo.


2. Un alieno in Parlamento

Quando si dice la scintilla. Si sono conosciuti nel dicembre 2009 e sei mesi dopo hanno messo sulla mappa un'isola che non c'era: quella della libertà di espressione. Insieme formano la coppia di attivisti più efficaci della rete. Julian Assange lo conosciamo, Birgitta Jónsdóttir, 43 anni, capelli scuri, zigomi altissimi e grandi occhi grigi, un po' meno. Aspetto fisico a parte, i due si assomigliano molto. Di lei si sa che come il sodale è una giramondo per vocazione e necessità, è figlia di artisti e la quiete borghese non l'ha mai conosciuta. A 13 anni era già on the road in Canada, a 17 faceva la lavapiatti a Londra e, dopo tappe in Svezia e Norvegia, la trovi pittrice ventiquattrenne negli Stati Uniti che arrotonda vendendo aspirapolvere porta a porta («era il 1991, c'era la recessione e per gli artisti marcava male»). Seguendo il flusso karmico da «buddista nascosta» quale si definisce, è in Australia all'inizio del nuovo millennio a partorire il secondo figlio (ne ha tre e si considera una «single mother») e poi in Nuova Zelanda a curare un piccolo giornale di paese. Forse la passione per il giornalismo nasce lì, forse no. Di certo il culto della libertà di parola lo eredita prima, dalla madre Bergbóra Árnadóttir, la più celebre cantante folk dell'Islanda che, chitarra alla mano, capelli a caschetto e voce sottile, non disdegnava temi politici nei suoi brani («è stata la prima cantastorie donna dell'isola e non è stato facile crescere in una nazione così piccola con un genitore famoso», ricorda). Come Assange, Birgitta è stata presto sedotta dalla rete (che usa come forma di espressione artistica) e condivide l'ambizione di stare sempre e solo dalla parte della giustizia. Se Julian la persegue da outsider, giocando ai confini della legalità, lei la cerca dentro un'aula di Parlamento dove, con grande sorpresa (innanzitutto sua), ha conquistato un seggio dall'aprile 2009.

[...]


4. Il paradiso? È un collage

Qualcuno la chiama antologia. Altri preferiscono "patchwork", a Birgitta piace più "collage". Termini diversi ma il senso, grossomodo, è lo stesso: in un unico documento, il meglio della legislazione mondiale in materia di libertà di espressione. Puoi sognare l'impossibile, infatti, e realizzarlo con ciò che esiste già. In questo caso, norme vigenti qui e là che, una volta insieme, si rafforzano a vicenda. «La sfida è stata unire per la prima volta in unico pacchetto legislativo il meglio della tutela dei diritti di espressione del mondo.» È il 17 febbraio 2009 e sono passati solo tre mesi dal primo incontro tra la buddista islandese che fa politica e l'informatico australiano che sfugge al Pentagono. I rivoluzionari hanno lavorato bene e veloce, come da programma: 120 giorni a testa bassa e la proposta di legge chiamata IMMI fa il suo ingresso in Parlamento. Il testo è rigorosamente islandese, lo spirito cosmopolita. Dentro, c'è la versione artica della legge americana che incentiva la denuncia di frodi nei confronti dello stato: in questo modo si possono proteggere i funzionari che segnalano casi di corruzione e sprechi. E c'è pure quella sull'accesso ai documenti pubblici e sulla trasparenza amministrativa della Norvegia, una delle più avanzate del globo. Non manca inoltre la norma francese che impedisce che gli editori possano essere portati in tribunale per materiali pubblicati online anni prima, come avviene in altre giurisdizioni: se si pensa di aver subito una diffamazione bisogna sporgere denuncia entro sei mesi; non si può richiedere dopo anni di rimuovere un contenuto, andando così a manomettere gli archivi online dei giornali.

Ma il "collage" non è finito qui. IMMI incorpora la disciplina che tutela l'anonimato delle fonti in Svezia, quella che garantisce la segretezza delle comunicazioni tra fonti e giornalisti in Belgio e una legge dello Stato di New York che protegge contro il cosiddetto "turismo della diffamazione", una pratica che ha fatto diventare la Gran Bretagna la meta preferita di facoltosi signori di ogni nazionalità che vogliono impedire, con l'intimidazione via tribunale, la diffusione di notizie sfavorevoli nei loro Paesi di origine. Secondo la legge inglese, infatti, ogni qual volta un articolo ritenuto diffamatorio viene pubblicato all'estero ma può comunque essere letto sul suolo britannico (su un sito web, per esempio) si può avviare una causa presso una corte di Sua Maestà. Con alcuni vantaggi connessi. Primo: le spese legali sono tali (dai 150 mila euro in su) che la maggior parte degli accusati non può nemmeno permettersi di iniziare a difendersi. Secondo: la legislazione britannica, in casi di diffamazione, attribuisce l'onere della prova a chi avrebbe diffamato: è lui che deve dimostrare che non si dà il caso. Scegliendo il Regno Unito come giurisdizione, Rinat Akhmetov, uno degli uomini più ricchi dell'Ucraina, ha ridotto al silenzio due testate del suo Paese: il "Kyiv Post" (che in Gran Bretagna distribuisce un centinaio di copie) e il sito Internet Obozrevatel. Un editore registrato in Islanda sarebbe protetto da simili minacce proprio grazie all'IMMI.

Tutte insieme, appassionatamente, le leggi più liberali del mondo si prendono cura di ogni ambito dell'attività di chi produce informazione. Il senso del paradiso dei giornalisti costruito con pezzi di norme prese un po' ovunque è questo. E quando nel febbraio 2010 viene dato l'annuncio della presentazione della norma in Parlamento i reporter del globo accorrono, chiamano, fanno domande e incrociano le dita. Soprattutto, capiscono e rilanciano: la legge vale per gli islandesi certo, ma anche per chiunque, sfruttando la natura globale del web, voglia pubblicare informazioni nella sua lingua e godere di un regime che protegga al massimo l'informazione digitalizzata. Per questo si definisce "modern", perché è costruita avendo in mente il medium che più definisce la nostra epoca: Internet. «Se i server sono in Islanda allora sono soggetti alle leggi islandesi. Se sono di proprietà di una società locale a quel punto essa è responsabile per il contenuto», sintetizza Smari McCarthy, che del gruppo è quello che ha svolto tutte le ricerche nei codici esteri. In realtà è un po' più complicato di così, ma l'idea è quella: blogger, giornalisti ed editori di tutto il mondo venite da noi, starete meglio. E se non potete venire, piazzate sui nostri computer i risultati del vostro lavoro: saranno più al sicuro. «È un po' quanto accade con i paradisi fiscali» continua McCarthy, «solo che qui le aziende editoriali non verrebbero per pagare meno tasse, ma per godere di norme che tutelano al meglio la loro attività.» Certo, va ricordato, lo schermo vale solo per l'informazione digitale e non è totale. I singoli individui che pubblichino dai vari Paesi sarebbero sempre esposti alle leggi penali del luogo di origine, però... Però l'IMMI apre a chi fa informazione una serie di possibilità legali che sfruttano la globalizzazione delle reti di comunicazione. «Un po' come fanno le banche per nascondere i soldi in posti come le isole Cayman. Ma qui è l'esatto contrario: l'obiettivo è la trasparenza, non l'opacità», dice McCarthy. Definire queste opportunità nel dettaglio è impossibile, anche perché molto dipenderà dalla creatività degli avvocati, ma qualche idea si può già abbozzare.

Un blogger che vive sotto una dittatura potrà, per esempio, se non salvare se stesso, almeno essere sicuro che i documenti per i quali ha deciso di rischiare la vita saranno conservati e accessibili. Se li depositerà su server islandesi i fornitori del servizio, grazie a IMMI, avranno gli strumenti legali per resistere alle pressioni esterne di autocrati e censori vari. «C'è gente che muore per la verità e sapere che, anche nel caso in cui a loro succeda qualcosa, la verità non sarà cancellata è molto importante», commenta Birgitta. Quanto agli editori, gli incentivi per trasferirsi sono, secondo alcuni esperti, molto forti: una società che spostasse la propria sede legale in Islanda e da lì diffondesse materiali online, potrebbe godere di un regime agevolato per la protezione e il segreto delle fonti. Potrebbe, per esempio, sfuggire a leggi repressive e mettersi al riparo dai "turisti della diffamazione". E anche per chi non se la sentisse di traslocare al freddo, si aprirebbero molteplici porte. Nel caso di una "Legge Bavaglio" come quella sulle intercettazioni ipotizzata in Italia, giornali e giornalisti potrebbero sempre "linkare" a un contenuto la cui diffusione è vietata nel Paese ma che è archiviato su computer islandesi. Senza contare che è probabile che IMMI apra la strada a centinaia di siti, magari molto semplici da usare, che – come già fa WikiLeaks – garantirebbero sicurezza e anonimato a chi pubblica. A quel punto una testata potrebbe, per esempio, limitarsi a effettuare un link a uno di questi depositi di informazione sicura.

Comunque la si veda, per i giornalisti IMMI è una possibilità di salvezza, un modo di sfruttare creativamente la natura fluida e transnazionale della rete per contrastare una tendenza preoccupante.

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