Copertina
Autore Anatolij Bukreev
CoautoreGary Weston DeWalt
Titolo Everest 1996
SottotitoloCronaca di un salvataggio impossibile
EdizioneVivalda, Torino, 2011, I Licheni 103 , pag. 300, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x2 cm , Isbn 978-88-7480-164-0
PrefazioneMirella Tenderini
TraduttoreMirella Tenderini
LettoreLuca Vita, 2012
Classe montagna
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Indice


    PREFAZIONE                                            7
    PROLOGO                                              15
    TAVOLA CRONOLOGIA                                    21

 1. MOUNTAIN MADNESS                                     25
 2. INVITO ALL'EVEREST                                   38
 3. IN CERCA DI OSSIGENO                                 51
 4. I CLIENTI                                            62
 5. LA PISTA PER L'EVEREST                               68
 6. LA SQUADRA                                           76
 7. IL CAMPO BASE                                        83
 8. L'ICEFALL                                            89
 9. IL CAMPO 2                                          103
10. I PRIMI RITARDI                                     113
11. VERSO LA VETTA                                      126
12. IL CONTO ALLA ROVESCIA                              137
13. LA ZONA DELLA MORTE                                 150
14. LA CIMA SUD                                         162
15. GLI ULTIMI CENTO METRI                              173
16. LA DISCESA                                          182
17. NELLA TORMENTA                                      191
18. CAMMINA O STRISCIA!                                 202
19. IL SALVATAGGIO                                      214
20. L'ULTIMO TENTATIVO                                  231
21. MOUNTAIN MEDIA MADNESS - LA FOLLIA DEI MEDIA        238

    POSCRITTO                                           257
    EPILOGO: RITORNO ALL'EVEREST                        262
    SECONDO POSCRITTO                                   287
    RINGRAZIAMENTI                                      289
    AGGIORNAMENTO                                       291


 

 

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Pagina 6

                Le montagne hanno il potere di attirarci nel loro mondo e lì,
                per sempre, si trovano i nostri amici la cui anima grande
                aspirava alle alte cime. Non dimenticate gli alpinisti che non
                hanno fatto ritorno.

                                                              ANATOLIJ BUKREEV

PREFAZIONE



Non è possibile parlare di Everest 1996 - cronaca di un salvataggio impossibile - senza riferirsi al libro che lo ha preceduto e originato, Aria Sottile di Jon Krakauer. Senza le critiche avanzate da Krakauer alla spedizione di Scott Fischer in generale e ad Anatolij Bukreev in particolare, probabilmente Everest 1996 - cronaca di un salvataggio impossibile, non sarebbe stato mai scritto. Il libro infatti è nato dalla frustrazione personale di Bukreev nel sentirsi ingiustamente accusato di avere abbandonato i suoi clienti, la massima colpa di cui può macchiarsi una guida. Il suo tentativo di controbattere le accuse con una spiegazione argomentata in una lettera alla rivista Outside, dove era comparso per la prima volta il racconto di Krakauer sugli avvenimenti del maggio 1996 sull'Everest, venne respinto "per ragioni di spazio". La lettera avrebbe potuto sì essere pubblicata, ma soltanto se fosse stata condensata - dalla redazione della rivista - in 350 parole. Contro le 17.000 di Krakauer! Ovviamente Bukreev rifiutò.

Dal capitolo XXI di Everest 1996 - cronaca di un salvataggio impossibile, apprendiamo lo smarrimento di Bukreev alla lettura dell'articolo di Krakauer e i vani tentativi di far pubblicare le sue spiegazioni. Ciò che maggiormente meraviglia in Bukreev è l'assenza di ira e persino di rancore nei confronti del suo detrattore. Il sentimento dominante è lo stupore di chi è tanto sicuro dell'evidenza dei fatti da non riuscire a credere che qualcuno possa travisarli. Paradossalmente dobbiamo essere grati a Krakauer per il discredito e al direttore di Outside per il rifiuto di ripararlo, che hanno suscitato in Bukreev il desiderio impellente e irrinunciabile di esporre la sua versione della vicenda, perché la gente sapesse e giudicasse "in base ai fatti, non alle supposizioni".

Così è nato questo libro, grazie alla collaborazione di uno scrittore e regista specializzato in inchieste, Weston DeWalt, che ha integrato il racconto di Bukreev con le testimonianze, accuratamente vagliate, delle persone coinvolte nella complessa vicenda.


La vicenda è nota, non foss'altro che dai giornali e dalle riviste che l'hanno ripetutamente presentata. Nella primavera del 1996, al campo base dell'Everest c'erano quindici spedizioni in attesa di scalare la montagna. Le prime a raggiungere la cima, il 10 maggio, furono due spedizioni commerciali, guidate dall'americano Scott Fischer e dal neozelandese Rob Hall. Una serie di contrattempi, aggravati dall'affollamento della via e conseguente intasamento nei punti attrezzati con corde fisse, fece sì che la maggior parte degli scalatori arrivassero tardi sulla vetta e iniziassero ancor più tardi la discesa. La prima conseguenza del ritardo fu l'esaurimento dell'ossigeno, che tutti avevano usato per un tempo assai più lungo del previsto. E verso sera, inattesa e imprevedibile, si scatenò una bufera che colpì con violenza inaudita 23 persone che stavano ancora scendendo. Dispersi e accecati dalla tormenta, sfiniti e in grave stato di ipossia alcuni di essi non riuscirono a rientrare al campo. L'unica persona a cui era rimasta la forza e la volontà di soccorrerli, Anatolij Bukreev, una guida della spedizione di Scott Fischer, si avventurò per cinque volte quella notte alla loro ricerca, sugli ottomila metri di quota, lottando da solo contro la furia degli elementi, e riuscì a portare in salvo tre clienti. Ma altri non ebbero fortuna, né aiuto, né scampo. Morirono in cinque, Scott Fischer e quattro componenti della spedizione di Rob Hall: Hall stesso, una sua guida e due clienti.

Everest 1996 - cronaca di un salvataggio impossibile - ripercorre gli avvenimenti che portarono a questo tragico epilogo. Con pazienza e con chiarezza. Senza commenti. Non servono: ciascuno li può pronunciare da sé.


Eppure, proprio attraverso l'esposizione cruda e disadorna dei fatti, emerge spontaneo dal libro un commento, non tanto sugli avvenimenti specifici quanto sul ruolo delle guide nelle spedizioni in alta quota. La proliferazione delle spedizioni commerciali sulle montagne più alte della terra ha sollevato accesi dibattiti, che purtroppo si esauriscono perlopiù in sterili quanto generiche condanne ai "mercenari" (organizzatori e guide) che vendono i loro servizi a "persone inesperte" purché in grado di pagare per scalare una montagna alta e prestigiosa, "profanando" in tal modo l'essenza stessa dell'alpinismo in alta quota. Questo modo di vedere procede da un luogo comune. Che una buona parte dei clienti delle spedizioni commerciali che pagano di tasca propria per salire in vetta all'Everest non siano più inesperti dei componenti di spedizioni nazionali o sezionali pagate da enti pubblici o da sponsor - a cui nessuno si sognerebbe di muovere appunti - è chiaramente rilevabile sia dal libro di Bukreev che da quello di Krakauer. Dal libro di Krakauer risulta anche evidente che gli organizzatori delle spedizioni commerciali si preoccupano più degli altri di riportare a valle rifiuti e rottami - proprio perché su quelle montagne torneranno e non ne desiderano il degrado - e che l'atteggiamento sempre più frequente di scalatori diretti alla vetta che passano vicino a sventurati in difficoltà, morenti o morti, senza curarsene e senza nemmeno rallentare il passo, non è imputabile, almeno nei casi noti, a clienti o a guide di spedizioni commerciali. Il problema è un altro, e di non piccola portata. L'alpinista che fa parte di una spedizione himalayana, coscientemente o inconsciamente si prende la responsabilità della propria preparazione ed efficienza che lo porterà o non lo porterà sulla vetta, e soprattutto sa e accetta di correre dei rischi che potrebbero costargli la vita. Ma il "cliente", dal momento in cui sborsa una cifra consistente per avvalersi di un'organizzazione perfetta e dell'assistenza di guide professioniste, accetterà l'eventualità di dovere rinunciare alla vetta? E, ancor peggio, sarà cosciente, per non dire disposto, a rischiare la vita?

Anatolij Bukreev, cresciuto nella severa disciplina dell'alpinismo sovietico in cui le guide erano istruttori e tutti gli alpinisti, principianti o esperti venivano addestrati innanzitutto ad essere autosufficienti, aveva difficoltà a capire le aspettative dei clienti delle spedizioni per cui lavorava: "(...) mi stupiva il numero dei clienti che non avevano abbastanza fiducia in se stessi da compiere la scalata da soli, senza essere continuamente assistiti da una guida (...) e mi chiesi, 'Cosa succederà quando non ci sarà nessuno a tenerli per mano?'" Bukreev non era abituato a tenere i clienti per mano, ma a prepararli, a metterli nelle condizioni fisiche e psicologiche di affrontare la meta che si erano prefissata. E di garantirne la sicurezza. Secondo Henry Todd, che lo aveva assunto l'anno precedente, sempre per una spedizione sull'Everest, "[Bukreev] nel 1995, era perfetto, assolutamente superlativo, e fece esattamente quello che ci si aspettava da lui. Io sapevo chi era e sapevo di che cosa era capace. Se qualcosa fosse andato storto, se i clienti si fossero trovati nei guai, sapevo di avere a disposizione un fulmine, un razzo che sarebbe salito a prenderli e li avrebbe portati giù."

È quello che fece nel 1996, riportando al campo, sani e salvi, tre clienti dispersi che senza il suo intervento sarebbero sicuramente morti. Ma nonostante quell'incredibile salvataggio, Bukreev non si rassegnò mai all'idea di non essere riuscito a salvare altre due persone: il suo capo spedizione Scott Fischer, e Yasuko Namba, un'alpinista giapponese, cliente della spedizione di Rob Hall. Il salvataggio di queste due persone non dipendeva da lui ed era materialmente impossibile, ma Bukreev considerava la loro morte una sconfitta personale e non se ne dava pace. "La morte di un componente di una squadra è sempre un fallimento che vanifica il successo raggiunto sulla vetta."

Dolorosamente, Bukreev si rendeva conto che quanto gli altri si aspettavano da lui e lui stesso, forse, aveva creduto di potere dare, non era così garantito. Scott Fischer e Rob Hall erano alpinisti abilissimi e guide di grande esperienza. Certamente avevano fatto tutto il possibile per i loro clienti, ma erano morti, e una guida morta non può fare più niente per gli altri. Bukreev si rese conto in quest'occasione più che mai che nel meccanismo delle spedizioni commerciali c'era qualcosa che non funzionava: "Scalare sopra gli ottomila metri, dove ogni errore viene ingigantito dall'aria rarefatta, dove un sorso di tè caldo può fare la differenza tra la vita e la morte, nessuna cifra al mondo che si possa pagare può garantire la riuscita."

Sugli Ottomila la guida non assicura il cliente con la corda, non lo può aiutare materialmente a compiere lo sforzo enorme di arrivare passo dopo passo sulla cima. Il cliente deve essere consapevole che il successo dipende unicamente dalle proprie capacità e dal proprio impegno. "Forse il prezzo per salire in cima all'Everest si deve calcolare in un modo diverso. Sembra che sempre più gente sia disposta a pagare in contanti, ma non tutti sono disposti a pagare di persona con lo sforzo fisico necessario per allenarsi gradualmente, corpo e mente, scalando cime più basse, muovendosi dalle difficoltà più semplici a quelle più complesse, e arrivare solo alla fine a scalare gli Ottomila. Una preparazione di questo tipo forse non è appagante, ma è necessaria."


Bukreev tornò all'Everest l'anno successivo, questa volta non in veste di guida, ma di consulente alpinistico e allenatore di una spedizione nazionale indonesiana: "È duro per me dire che non voglio più essere chiamato "guida", ma devo fare una distinzione che mi assolva della terribile scelta fatta da un'altra persona tra la sua ambizione e la sua vita. Alcuni - sono sicuro - si burleranno della distinzione tra guida e consulente, ma è l'unica condizione alla quale io posso continuare a lavorare su queste montagne. Io posso fare l'allenatore, il consulente; posso occuparmi della squadra di soccorso. Ma non posso garantire il successo a nessuno né garantire la sicurezza assoluta, perché la complessità delle circostanze naturali e la debilitazione fisica possono colpire chiunque in alta quota."

Questa svolta, non della sua attività che continuava a essere quella di sempre, ma del suo ruolo, avrebbe potuto influenzare positivamente il mondo delle spedizioni commerciali e non, e creare, forse, una nuova consapevolezza. Di questo forse, guide e organizzatori dovrebbero parlare chiaramente con chi si affida a loro, anziché lasciarsi invischiare in discussioni su chi ha diritto o meno di scalare le alte montagne. Bukreev era arrivato alla conclusione che "ciascuno deve prendere su di sé la responsabilità di rischiare la propria vita." E aggiungeva: "Io per me accetto l'idea che in montagna posso morire."

Anatolij Bukreev è morto in montagna, travolto da una valanga sull'Annapurna il giorno di Natale del 1997. Era nato a Korkino, negli Urali, trentanove anni prima. Laureato in fisica e campione della squadra di alpinismo sportivo dell'Unione Sovietica aveva preso la residenza ad Alma Ata, nel Kazakistan. Dopo la disgregazione dell'Unione Sovietica viveva prevalentemente negli Stati Uniti e lavorava come guida in Himalaya. Aveva al suo attivo oltre a un centinaio di scalate in Caucaso, Pamir e Tien Shan e venti salite su cime di ottomila metri, quasi tutte compiute senza ossigeno, molte, da solo e in tempi di record. Sull'Everest era salito quattro volte. Per l'azione di salvataggio compiuta sull'Everest nel 1996, gli è stato conferito dall'American Alpine Club il David Sowles Award.

MIRELLA TENDERINI

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Pagina 162

14
LA CIMA SUD

Salendo dal campo 4, i componenti della spedizione di Mountain Madness vedevano una linea ondulata di luci, le lampade frontali dei clienti di Rob Hall che avevano lasciato il campo mezz'ora prima di loro. La squadra di Hall era composta da quindici persone: Hall stesso, due altre guide, otto clienti e quattro sherpa, compreso Ang Dorje, il sirdar con cui Bukreev aveva lavorato a fissare le corde.

Gammelgaard non era contenta di essere dietro alla spedizione di Rob Hall. "Era una buona squadra, ma erano vecchi e andavano piano. Erano molto forti per essere sui quarantacinque-cinquant'anni, ma ciò non toglieva che fossero molto lenti." Un altro cliente di Mountain Madness pensa che "partire dopo Rob Hall e trovarci poi assieme al suo gruppo sulle corde fisse ci è costato almeno un paio d'ore in più."

Due o tre ore sopra il Colle Sud, gli scalatori di Mountain Madness cominciarono a sorpassare i clienti di Rob Hall e verso le 4 procedevano insieme tutti mescolati: la squadra di Fischer con quella di Hall, quella di Hall con quella di Fischer e tutte e due con tre membri della spedizione Nazionale di Taiwan: Makalu Gau, leader della spedizione e due sherpa. Con sorpresa di Hall e Fischer, il taiwanese aveva deciso di accodarsi a loro, presumibilmente per sfruttare il vantaggio di essere dietro ad alpinisti più forti che avrebbero battuto la pista e fissato le corde.

Per un paio d'ore Bukreev salì con Adams, poi, dopo che ebbero sorpassato diversi alpinisti davanti a loro, alcuni della spedizione di Rob Hall, altri della loro stessa squadra, cominciò a rallentare. Adams ricorda che quando aveva lasciato il campo 4 aveva detto a Bukreev di sentirsi intorpidito, senza energie, ma mano a mano che salivano aveva trovato il ritmo giusto. Una buona acclimatazione e l'uso dell'ossigeno stavano dando carburante a quello che considerava "un grande giorno".

Alle prime ore dell'alba, in testa al serpentone c'erano tre uomini della spedizione di Rob Hall: Ang Dorje Sherpa, Mike Groom, una guida di Hall e Jon Krakauer, il giornalista-alpinista-cliente che si era unito alla spedizione di Hall dopo che Outside aveva deciso di non aderire a Mountain Madness. Secondo Krakauer i tre alpinisti si erano fermati diverse volte nel corso della salita, non perché ci fossero problemi o difficoltà, ma perché Hall aveva dato istruzioni, per la prima metà della salita di quel giorno, di non distanziare il resto del gruppo di più di cento metri prima di aver raggiunto la Balconata, un ripiano alla base della Cresta Sud Est, a circa 8500 metri di quota. Krakauer, abituato ad andare in montagna per conto suo, dice che era frustrato di doversi adeguare al livello minimo di capacità degli altri, ma che riteneva che la sua posizione di cliente lo obbligasse a rinunciare a prendere decisioni indipendenti e lo costringesse a comportarsi da soldatino di stagno.


La differenza di concezione del mestiere di guida in alta quota, tra Hall e Fischer, è emblematica del dibattito tuttora in corso tra gli addetti al business delle spedizioni commerciali. Le correnti di pensiero si possono grosso modo dividere tra "situazionaliste" e "legaliste". I "situazionalisti" sostengono che in un'impresa che comporta rischi, nessun sistema di regole può garantire una copertura adeguata per ogni situazione che possa verificarsi, e che perciò in alcune occasioni le regole devono essere subordinate alle emergenze che possono insorgere. I "legalisti" per contro sono convinti che le regole riducano sostanzialmente il rischio di prendere decisioni sbagliate e perciò relegano l'intervento personale in secondo piano.

I critici della filosofia legalista sostengono che un criterio basato sulla stretta osservanza delle regole, che minimizza la possibilità di agire in modo indipendente, viene largamente adottato per parare le responsabilità di fronte all'opinione pubblica e nell'eventualità di cause legali. Questi critici trovano stravagante che un'attività che si basa sui valori della libertà e dell'iniziativa personale venga sottoposta a delle regole che impediscono il perseguimento di questi valori.


Krakauer e Ang Dorje, dopo numerose soste per un totale di oltre un'ora, arrivarono alla Balconata alle 5.30. Lì si fermarono e si sedettero sugli zaini.


A circa 8400 metri cominciai a trovare neve profonda, ma proseguivo speditamente perché avanzavo sulla pista aperta dai clienti di Rob Hall. Arrivai alla Balconata attorno alle sei, proprio mentre albeggiava e il cielo si stava illuminando di colori fantastici. Guardando il cielo e la vetta del Lhotse, che era alla stessa altezza in cui mi trovavo, giudicai che non ci fossero problemi immediati per quanto riguardava il tempo.


Tutti i componenti delle tre spedizioni si raggrupparono alla Balconata. In questo posto di sosta grande come una stanza di motel, di solito gli scalatori si fermano per passare dalla prima alla seconda bombola di ossigeno, per bere e reidratarsi e, se ne hanno la forza, fare fotografie. Adams dice che a quell'altezza lui e i suoi compagni si stavano muovendo "da un posto dove è difficile pensare ad un altro dove non si pensa affatto." Si trovavano ormai nella "Zona della Morte", quel tratto verticale tra il campo 4 e la vetta dell'Everest dove l'esposizione prolungata al freddo e la mancanza di ossigeno costituiscono un serio pericolo per qualunque fisico. Sostare sopra il campo 4 è piacevole come fare picnic in un campo minato.


Ai clienti di Mountain Madness era stato detto che le corde fisse tra il campo 4 e la cima sarebbero state installate prima del loro arrivo alla Balconata. Nel corso della ricostruzione degli eventi registrata il 15 maggio, Pittman dichiarò: "Avevo sentito che le corde sarebbero state installate in anticipo dai nostri sherpa e dagli sherpa di Rob Hall che sarebbero partiti la sera alle 10, mentre noi saremmo partiti a mezzanotte." La testimonianza di Klev Schoening concorda: "Così io ho inteso che sarebbe stato fatto." E anche Gammelgaard disse: "Ho sentito specificamente che Scott aveva detto che le corde fisse sarebbero state posate in anticipo, di modo che i salitori non avrebbero dovuto aspettare in nessun punto della via."

La maggior parte dei membri delle spedizioni di Fischer e di Hall concordano su quello che si pensa sia successo. Secondo quello che era stato detto loro, Ang Dorje, sirdar di Hall, e Lopsang Jangbu, sirdar di Fischer, avrebbero dovuto lasciare il campo 4 molto prima dei clienti per salire a installare le corde, di modo che clienti e guide non avessero dovuto aspettare, mano a mano che salivano. Ma questo non era successo: né Lopsang Jangbu Sherpa né Ang Dorje Sherpa né alcun altro sherpa era partito presto per fissare le corde.

Nel corso della registrazione del 15 maggio, Lopsang Jangbu Sherpa disse che un membro della spedizione montenegrina che il 9 maggio aveva compiuto un tentativo (peraltro fallito) alla vetta dell'Everest, gli aveva detto: "Ci sono già le corde fisse, non avete bisogno di niente." In seguito, quando Jon Krakauer scrisse il resoconto della salita insinuò che le guide di Fischer e di Hall non furono informate del cambiamento di programma e che Lopsang Jangbu e Ang Dorje lasciarono entrambi il campo 4 assieme agli altri membri delle due spedizioni, trasportando cento metri di corda nei loro zaini, cosa "che non sarebbe stata necessaria se le corde fisse fossero state installate."

La dichiarazione di Krakauer è stata giudicata da alcuni un'accusa ingiustamente basata su indizi. Fischer non arrivò al campo 4 che alle 5.30 del pomeriggio del giorno 9 maggio e secondo il parere di diversi alpinisti presenti era molto stanco. Nel mezzo della tempesta, con le preoccupazioni che aveva per i suoi clienti e per se stesso, sembra del tutto ragionevole che, sentite le notizie di Lopsang Jangbu, si sia rallegrato di avere un problema in meno da risolvere.

Non prendere in considerazione questa spiegazione, e una spiegazione analoga per Rob Hall, significa implicare che sia Hall che Fischer abbiano deciso di proposito di trattenere i loro sherpa e di tacere alle loro guide che non avrebbero trovato le corde, azioni che avrebbero compromesso gravemente la sicurezza di guide e clienti e avrebbero potuto provocare la loro morte. Hall e Fischer non erano uomini da agire in questo modo, per quanto diverse fossero le loro convinzioni e il loro stile riguardo le spedizioni.

Molti alpinisti esperti di Ottomila non si stupiscono della corda che Lopsang Jangbu e Ang Dorje portarono sulla montagna. Un sirdar responsabile della squadra degli sherpa scalatori porta nel sacco una corda come chiunque terrebbe un paio di stringhe di scorta nel cassetto dell'armadio. Può succedere di tutto. Una tempesta di neve può seppellire le corde; ci possono essere corde ancorate male; si può decidere una variante della via; può capitare un incidente che richieda corde in più per il soccorso. O l'informazione ricevuta poteva non essere attendibile al cento per cento.


A 8600 metri bisognava superare una serie di gradini rocciosi più adatti a creature fiabesche munite di unghioni che a comuni mortali vestiti di ingombranti tute imbottite. Da quel punto fino alla Cima Sud, a 8748 metri, erano necessarie delle corde fisse. Dopo più di un'ora di attesa cominciavano tutti a sentirsi intorpiditi e Beidleman disse a Bukreev che sarebbe andato avanti a controllare a che punto era l'installazione delle corde.


Gli dissi che era una decisione ragionevole e gli offrii la bombola di ossigeno che avevo nello zaino. In origine le mie intenzioni erano di lasciare l'ossigeno e di recuperarlo quando sarei sceso, ma quando mi resi conto che eravamo in ritardo e che Neal avrebbe avuto un lavoro duro da svolgere, glielo offrii e lui accettò.


Beidleman, con Klev Schoening che lo seguiva, salì lungo la pista di Lopsang e Ang Dorje fin sopra un dosso e attraversò un tratto di neve fresca fino a una cengia, dove trovò Lopsang piegato in due che vomitava. Rendendosi conto che in quelle condizioni Lopsang non era in grado di lavorare all'attrezzatura della via, Beidleman prese la corda dallo zaino di Lopsang e con l'assistenza di Ang Dorje cominciò a fissare le corde in direzione della Cima Sud. In alcuni posti trovarono vecchie corde ancora affidabili, in altri dovettero installare le corde nuove. Mentre Beidleman e Ang Dorje procedevano faticosamente, Bukreev cominciò a sollecitare i clienti perché si alzassero e continuassero la salita.


Li esortai a ripartire perché eravamo fermi alla Balconata da più di un'ora ed eravamo in ritardo sul tempo previsto. Sulle corde fisse avevo lasciato passare davanti a me i clienti ed ero rimasto indietro nella speranza di vedere Scott, ma non lo vidi. Volevo parlargli dei clienti perché non ne avevamo più discusso dopo aver lasciato il campo 4 e c'erano molti dettagli di cui non ero sicuro. Sul piano generale, sì, eravamo d'accordo, ma le cose stavano cambiando. Adesso avrei dovuto andare avanti o restare indietro? Avrei dovuto affrettarmi verso la vetta o fermarmi ad aiutare?

Aspettai un po' e poi, non vedendolo arrivare, decisi di continuare la salita. Pensavo che Fischer, avendo dormito con l'ossigeno la notte prima e salendo con l'ossigeno, mi avrebbe raggiunto e avremmo potuto parlare. Risalendo vidi che i clienti erano in buone condizioni, anche se non di buon umore.


Alle 9.58 Beidleman arrivò sulla Cima Sud e trenta minuti dopo venne raggiunto da Martin Adams. Beidleman ricorda che pensarono di essere in ritardo: "Ero molto ansioso," disse. Adams ricorda che rimasero seduti da soli, lui e Beidleman, sulla Cima Sud, per un'ora e mezza o due ore: "Fondamentalmente il problema era che tutti quelli dietro di noi erano rimasti bloccati nell'affollamento lungo le corde fisse. Credo che qualcuno dei clienti più lenti di Rob Hall fosse finito davanti al nostro gruppo e siccome non riusciva a passare rallentava tutti gli altri."

Uno dei clienti di Hall, Frank Fischbeck, un editore cinquantatreenne di Hong Kong, dopo qualche ora dalla partenza dal campo 4 era tornato indietro: il primo dei clienti che quel 10 maggio rinunciarono alla salita. Gli altri sette clienti di Hall erano scaglionati lungo il tratto tra la Balconata e la Cima Sud, mescolati ai clienti di Fischer e ai componenti della spedizione taiwanese. I clienti di Fischer che avevano seguito le istruzioni di Henry Todd per l'uso dell'ossigeno erano ora alla seconda bombola che conteneva ancora ossigeno per una o due ore. La loro terza e ultima bombola con sei ore di ossigeno, sempre se erogato nella quantità raccomandata, non era ancora arrivata sulla Cima Sud perché gli sherpa, come i clienti, erano bloccati nell'intasamento del tratto di via tra la Balconata e la Cima Sud. Insomma, secondo l'espressione di un cliente di Fischer, era "un fottuto bordello".

Tre clienti di Hall, il cinquantaseienne John Taske, Lou Kasischke e il trentaquattrenne Stuart Hutchison erano in coda al groviglio di scalatori che si muovevano faticosamente lungo le corde fissate da Beidleman e Ang Dorje, dietro ai taiwanesi che si muovevano lentamente e li ostacolavano nella salita. I tre alpinisti arrampicavano separati ma ciascuno di loro si era fatto la stessa idea della scena che vedeva davanti a sé, e ciascuno cominciava a pensare di tornare indietro.

Lou Kasischke ricorda: "Sorpassai John, e poi Stu, che era davanti a me, scese e scambiammo le nostre impressioni. Tutto quello che ricordo della mia conversazione con Stu è che lui era convinto di una cosa: che Rob avrebbe fatto tornare indietro tutti perché era troppo tardi. Diceva che, visto l'ingorgo sulle corde fisse non ce l'avremmo fatta a salire entro l'una del pomeriggio... Ci era stata indicata l'una come ora limite, oltre la quale si sarebbe dovuto scendere. E Stu era convinto di questo. Non ricordo bene la conversazione... Ricordo che parlavo e continuavo a salire, ma non andai molto lontano.

"Erano circa le 11.30 ed ero in fondo alla coda. Io sono abbastanza resistente alla fatica: faccio corsa sportiva su lunghi percorsi e sono allenato. Davvero mi considero un buon fondista e ho imparato a sopportare la fatica non pensandoci e facendo quello che devo fare. Non che sia un merito, è persino pericoloso... Voglio dire che andavo avanti un passo dopo l'altro, e mi ricordo che appena sotto la Cima Sud la coda era ferma e io mi assicurai alle corde e mi lasciai andare sulle ginocchia per riposare. Ero molto disidratato e mi tolsi un guanto per prendere un po' di neve; lo so che non è stata una mossa intelligente, ma non avevo nient'altro per raccoglierla. L'acqua che avevo nello zaino era un blocco di ghiaccio. E quando ho tolto il guanto mi sono accorto che le dita erano congelate. Ho levato anche l'altro guanto: stessa cosa. Per la verità non ero molto sorpreso: lo sapevo già. Credo che non ci facessi caso solo perché la cima dell'Everest era così importante per me che sarei andato su a qualunque costo. Ma mentre aspettavo, cominciai a tornare in me e a pensare a cosa mi stava succedendo. E mentre ero lì inginocchiato, cominciai a guardare dentro di me e a vedere in che stato di spossatezza mi trovavo. E poi, quegli scorci mozzafiato che vedevamo dalla Balconata - le vedute più spettacolari della mia vita - adesso non si vedevano più. Guardavamo indietro, giù dalla montagna, e c'era scarsissima visibilità. Non dico che il tempo fosse orrendo, non lo era. Ma stava cambiando. E quando chiesi a Lhakpa, uno dei nostri sherpa, quanto mancava - sapevo che eravamo abbastanza vicini - lui mi ha detto due ore. Gli avevo chiesto dove pensava che fossimo, e lui mi aveva detto a ottomilasettecento metri. Non ero nemmeno capace di tradurre i metri in piedi - io sono abituato a ragionare in piedi e pollici - il mio cervello non funzionava. Ma quando mi ha detto due ore mi sono cascate le braccia. In quel momento è stato come se mi avesse colpito una specie di fulmine. Sapevo che ero nei guai. E non era per il fatto di salire ancora per due ore, quello non era un problema, sapevo che sarei arrivato in cima. Ma cominciavo a dubitare di essere capace poi di scendere. E ho cominciato a pensare: o riesco a scendere in qualche modo o muoio nella discesa. Mi è capitato altre volte di essere in momenti difficili e me la sono sempre cavata... Ma c'erano due voci che mi parlavano. Me lo ricordo ancora, sono momenti che non dimenticherò mai. Mi avevano avvertito che in alta quota si diventa incapaci di ragionare, ma non dimenticherò mai quei momenti perché c'erano due voci che si combattevano e una mi diceva di andare avanti, 'Dai, puoi farcela, cosa vuoi che siano ancora due ore,' e l'altra voce che diceva, 'Lou, guarda che morirai in discesa e anche se riuscirai a farcela perderai le dita.' Ancora oggi sono stupito di essere tornato indietro. Ho detto a Lhakpa: 'Lhakpa, va da Rob e digli che ho deciso di tornare indietro.' Ma questo è successo dopo quattro o cinque minuti.

"Penso di essere stato influenzato anche dai commenti di Stuart, ma in secondo ordine. Ricordo che quando ho preso la decisione, è stato solo perché sapevo che a quel punto non sarei stato capace di salire e tornare indietro vivo. O almeno intero.

"In breve, non pensavo che sarei riuscito a salire e a tornare vivo e in ogni caso avrei perso le dita delle mani e dei piedi. E c'è un'altra cosa: io sono un po' diverso, credo, da molti di quelli che stavano salendo perché non ero spinto da ragioni o ambizioni particolari. Voglio dire, io volevo andare in cima all'Everest. Dio mio, mi sarei preso a pugni in testa se non ci fossi riuscito... Ma io vivo a Detroit, sarei tornato a Detroit e avrei detto: 'Sono stato in cima all'Everest; e tutti mi avrebbero guardato e avrebbero detto, 'Già. E hai sentito della squadra dei Detroit Redwings?'... Quello che voglio dire è che qui non interessa a nessuno, nemmeno sanno dove è l'Everest. 'Ah, sì, è la montagna più alta del mondo, vero?' In effetti, quando sono tornato, diverse persone mi hanno detto, 'Ma io credevo che l'avessi già scalato.' Per cui per me, per la mia esistenza, non era una questione di vita o di morte, non era la cosa più importante del mondo, e non c'era nessuno pronto a scrivere la mia storia sui giornali. E per me non contavano i media, la gloria e la fortuna, i primati e tutto quel genere di cose che erano in palio per... beh, per qualcuno nella nostra spedizione. Per me voleva dire molto... non dico di no. Ma la mia ambizione di arrivare non soffocava ogni altro pensiero."

Verso le 11.40 Lou Kasischke prese la sua decisione e scese. Anche Stuart Hutchison e John Taske tornarono indietro. Per loro la questione Everest era chiusa. Kasischke ricorda che verso mezzogiorno incontrò Scott Fischer:

"Scambiammo qualche parola e io gli dissi: 'Scott, penso che sia saggio che io scenda.' E stranamente, per ironia della sorte, in quel momento non ero molto convinto di quello che facevo, ma Scott mi guardò negli occhi e disse: 'Buona decisione, Lou.'

Era il solito vecchio Scott: gli occhi sfavillanti, la neve sui capelli e quell'aria così americana, quei capelli biondi spruzzati di neve... Ci trattenemmo per forse trenta secondi, poi ci muovemmo, lui in una direzione, io nell'altra."

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