Copertina
Autore Michail Bulgakov
Titolo Diavoleide
EdizioneVoland, Roma, 2012, sírin classica 8 , pag. 102, cop.fle., dim. 10,5x15,4x0,7 cm , Isbn 978-88-6243-123-1
OriginaleD'javoliada, Pochoždenija Čičikova [1925]
CuratoreAndrea Tarabbia
TraduttoreAndrea Tarabbia
LettoreLuca Vita, 2013
Classe narrativa russa
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Indice


Diavoleide
Storia di come i gemelli rovinarono il segretario        5

Le avventure di Cicikov
Poema in dieci episodi. Con un prologo e un epilogo     65


Postfazione
Il diavolo tra le carte di Andrea Tarabbia              87

Nota sulla traduzione                                   98

Note                                                    99



 

 

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Pagina 5

DIAVOLEIDE

Storia di come i gemelli rovinarono il segretario


I. I fatti del giorno 20



All'epoca in cui tutti saltabeccavano da un posto di lavoro all'altro, il compagno Korotkov si teneva ben stretto il suo incarico di segretario presso la SeCenPriMatFiam (Sede Centrale Principale dei Materiali per Fiammiferi), e vi lavorò per ben 11 mesi di fila. Lì, al calduccio, Korotkov, un biondino dall'aria tenera e mite, aveva cancellato dalla propria testa l'idea che al mondo esistono i cosiddetti scherzi del destino, e si era convinto che lui — Korotkov — avrebbe lavorato alla sede fino alla scomparsa di ogni forma di vita sul globo terrestre. Purtroppo, le cose non andarono proprio così...

Il 20 settembre del 1921, il cassiere della MatFiam si mise in testa il suo orrendo berretto con tanto di paraorecchie, sistemò in una cartella un mandato di pagamento scritto su un foglio a righe e se ne andò. Erano le undici del mattino; ritornò verso le quattro e mezzo del pomeriggio completamente fradicio. Rientrando, scrollò il berretto, lo appoggiò sulla scrivania e vi mise sopra la cartella. Disse:

— Non spingete, signori miei.

Poi cercò qualcosa nei cassetti della scrivania, uscì dall'ufficio e tornò dopo un quarto d'ora con una grossa gallina morta a cui era stato torto il collo. Appoggiò la gallina sulla cartella, vi pose sopra la mano destra e annunciò:

— Niente soldi.

— Domani? — gridarono in coro le donne.

— No — rispose il cassiere scuotendo il capo. — Né domani né dopodomani. Non vi ammassate, signori, altrimenti, compagni, rovescerete la scrivania.

— Ma come! — gridarono tutti, compreso l'ingenuo Korotkov.

— Cittadini! — piagnucolò il cassiere, allontanando Korotkov con una gomitata. — Vi prego!

— Ma com'è possibile? — gridarono tutti, e più forte degli altri gridò quel burlone di Korotkov.

— Ecco, vede... — borbottò con voce rauca il cassiere e, tirando fuori dalla cartella il mandato di pagamento, lo mostrò a Korotkov.

Nel punto indicato dall'unghia sporca del cassiere c'era scritto, di traverso e con inchiostro rosso:

Da pagare. Per il compagno Subbotnikov
in fede, Senat.

E, più in basso, in inchiostro viola:

Non ci sono soldi. Per il compagno Ivanov
in fede, Smirnov.

— Come? — gridò il solo Korotkov, mentre gli altri, ansimando, si buttavano sul cassiere.

— O mio dio! — piagnucolò quello, sbalordito. — Che c'entro io? Oh Signore!

Ficcando alla svelta il mandato di pagamento nella cartella, si calcò il berretto in testa, infilò la cartella sottobraccio, brandì la gallina e urlò: — Fate largo, per favore! — e, apertosi una breccia in quel muro umano, si volatilizzò oltre la porta. Pigolando, lo rincorse una pallida segretaria che indossava dei tacchi a spillo molto alti: era appena arrivata alla porta quando il tacco sinistro scricchiolò e si spezzò. La segretaria sbandò, alzò la gamba e si levò la scarpa.

E nell'ufficio rimasero lei, con un piede scalzo, e tutti gli altri, compreso Korotkov.


II. I prodotti della produzione


Tre giorni dopo i fatti appena descritti, la porta dell'ufficio dove lavorava Korotkov si schiuse, e la testa di una donna in lacrime disse in tono rabbioso:

— Compagno Korotkov, vada a ritirare lo stipendio.

— Come? — esclamò felice Korotkov e, fischiettando l'ouverture della Carmen, corse verso l'ufficio con la scritta "cassa". Arrivato al tavolo del cassiere, si fermò di colpo, rimanendo a bocca aperta. Due grosse pile di pacchetti gialli arrivavano quasi al soffitto. Per evitare di rispondere a qualsiasi domanda, il cassiere, sudato e agitato, aveva attaccato alla parete con una puntina il mandato di pagamento, su cui adesso spiccava una terza scritta in inchiostro verde:

Pagare con i prodotti della produzione.
Per il compagno Bogojavlenskij, in fede Preobraženskij
Anch'io la penso così, in fede Kšesinskij

Korotkov se ne andò dall'ufficio del cassiere con un sorriso ampio e stupido dipinto sul volto. Teneva in mano quattro grossi pacchi gialli e cinque piccoli verdi; nelle tasche aveva tredici scatole blu di fiammiferi. Nella sua stanza, con l'orecchio teso al brusio di voci stupite che veniva dalla segreteria, impacchettò i fiammiferi in due grandi fogli di giornale e, senza dire niente a nessuno, se ne andò a casa. Appena fuori dalla MatFiam, per poco non fu investito da un'automobile, ma non riuscì a vedere chi era alla guida.

Arrivato a casa, dispose i fiammiferi sul tavolo e, fatto qualche passo indietro, si mise a rimirarli, sempre con quel sorriso stupido stampato in volto. Korotkov si scompigliò i capelli biondi e disse tra sé e sé:

— Be', star qui a deprimersi non serve. Cercheremo di venderli.

Bussò alla vicina, Aleksandra Fλdorovna, che lavorava al Deposito di Vini del Governatorato, o DepVinGov.

— Entri pure — una voce cupa rimbombò nella stanza.

Korotkov entrò e rimase di stucco: Aleksandra Fλdorovna era tornata prima dal lavoro, e adesso, con il cappotto e il berretto ancora indosso, stava accovacciata sul pavimento. Davanti a lei c'era una fila di bottiglie con i tappi di carta di giornale, piene di un liquido di colore rosso scuro. Il viso di Aleksandra Fλdorovna era rigato dalle lacrime:

— Quarantasei — disse, e si voltò verso Korotkov.

— Salve, Aleksandra Fλdorovna... è inchiostro? — disse, colpito, Korotkov.

— Vino da messa — rispose con un singhiozzo la vicina.

— Ma come... anche a voi?! — esclamò Korotkov.

— Anche a voi vino da messa? — si meravigliò Aleksandra Fλdorovna.

— No, a noi fiammiferi — rispose Korotkov con voce spenta, e cominciò a tormentare un bottone della giacca.

— Ma se non si accendono nemmeno! — gridò Aleksandra Fλdorovna, alzandosi e scuotendosi la gonna.

— Come sarebbe, non si accendono? — esclamò spaventato Korotkov, e tornò di corsa nella sua stanza. Lì, senza perdere un minuto, afferrò una scatoletta, la aprì freneticamente e sfregò un fiammifero. Sfrigolando, il fiammifero emise una fiamma verdognola, poi si spezzò e si spense. Korotkov, quasi soffocando per l'acre odore di zolfo, si mise penosamente a tossire e ne accese un altro. Questo prese improvvisamente fuoco, sprizzando due scintille: la prima centrò il vetro della finestra, la seconda invece finì dritta nell'occhio sinistro del compagno Korotkov.

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VII. L'organo e il gatto


Alle dieci del mattino del giorno successivo, Korotkov fece bollire in fretta un po' di tè, ne bevve qualche sorso controvoglia e, presentendo di trovarsi all'inizio di una giornata difficile e faticosa, lasciò la sua stanza e attraversò di corsa, nella nebbia, il cortile asfaltato e umido. Sulla porta della dépendance c'era scritto:

Capo-caseggiato

Korotkov stava già allungando la mano verso il campanello, quando i suoi occhi lessero:

Causa morte non si rilasciano certificati

— Oh mio dio, — esclamò stizzito Korotkov — un problema dietro l'altro! — E soggiunse: — Dunque, dei documenti mi occuperò dopo, adesso vado alla MatFiam. Devo cercare di capirci qualcosa. Forse Čekušin è già tornato.

Korotkov raggiunse la MatFiam a piedi perché tutti i soldi gli erano stati rubati e, passando per l'atrio, andò dritto verso la segreteria. Sulla soglia si fermò e rimase a bocca aperta. Nella sala dei cristalli non c'era nemmeno un volto conosciuto. Non c'era Drozd, non c'era Anna Evgrafovna... in una parola, non c'era nessuno. Alle scrivanie, simili non tanto a corvi sul filo, quanto ai tre falchi di Aleksej Michajlovič, erano seduti tre uomini biondi che indossavano vestiti a quadri grigio chiaro, sbarbati e in tutto uguali l'uno all'altro, e una ragazza con lo sguardo sognante e orecchini di brillanti ai lobi. I tre giovani non badarono a Korotkov e continuarono a far stridere le penne sui libri mastri, mentre la donna gli fece gli occhi dolci. Quando lui le rispose con un sorriso smarrito, lei replicò ghignando con aria arrogante e si voltò dall'altra parte. "Che strano" pensò Korotkov e, incespicando sulla soglia, uscì dalla segreteria. Sulla porta del suo ufficio esitò e sospirò, guardando la vecchia, cara scritta

Segretario

poi aprì la porta ed entrò. Negli occhi di Korotkov la luce si smorzò all'improvviso, e il pavimento oscillò leggermente sotto i suoi piedi. Alla sua scrivania, con i gomiti larghi e con la penna che scarabocchiava furiosamente, sedeva Mutandoner in persona. Una peluria riccia e chiara gli copriva il petto. Vedendo quella testa calva e laccata sopra il panno verde del tavolo, Korotkov rimase senza fiato. Mutandoner ruppe per primo il silenzio:

— Che cosa desidera, compagno? — tubò cortesemente in falsetto.

Korotkov si leccò freneticamente le labbra, immagazzinò nell'esile petto un metro cubo d'aria e disse con voce appena percettibile:

— Ehm... io, compagno, sono il segretario qui... cioè... ma sì... se lei ricorda l'ordine...

Lo stupore alterò di colpo la parte superiore del volto di Mutandoner. Le sopracciglia chiare si sollevarono, e la fronte si trasformò in una fisarmonica.

— Mi perdoni, — rispose con gentilezza — ma il segretario qui sono io.

Korotkov ammutolì per qualche istante. Quando recuperò la voce, disse queste parole:

— Ma come è possibile? Cioè... fino a ieri lo ero. Ah, ma sì. La prego di scusarmi. Mi sono confuso. La prego. Indietreggiando uscì dall'ufficio e nel corridoio domandò a sé stesso, con voce rauca:

— Korotkov, cerca di ricordare, quanti ne abbiamo oggi?

E si rispose:

— Oggi è martedì, cioè venerdì. Millenovecento.

Si voltò e, all'improvviso, davanti a lui, su una palla eburnea dall'aspetto umano, si accesero le lampadine del corridoio. Il volto rasato di Mutandoner oscurò il mondo intero.

— Bene! — tuonò il catino, mentre Korotkov si contorceva in uno spasimo. — Aspettavo lei. Perfetto. Felice di conoscerla.

Con queste parole si avvicinò a Korotkov e gli strinse la mano con una forza tale che quello rimase su una gamba sola, come una cicogna sul tetto.

— Ho riorganizzato il personale — cominciò a dire Mutandoner parlando velocemente, a scatti e con una certa autorità. — Tre di là, — e indicò la porta della segreteria — e, naturalmente, Manečka. Lei è il mio assistente. Mutandoner è il segretario. Quelli di prima li ho cacciati tutti via, compreso quell'idiota di Pantelejmon: sono venuto a sapere che faceva il cameriere al 'Rosa alpina'. Io adesso vado un attimo in reparto, lei intanto scriva con Mutandoner una relazione su tutti gli impiegati e in particolare su quel... come si chiama... Korotkov. A proposito, lei un po' assomiglia a quel farabutto. Solo che lui ha un occhio pesto.

— Io. No, — disse Korotkov barcollando e con la mascella cascante — io non sono un farabutto. Mi hanno rubato tutti i documenti. Fino all'ultimo.

— Tutti? — gridò Mutandoner. — Cosa vuole che sia! Tanto meglio!

Afferrò per un braccio Korotkov — che respirava a fatica — e, dopo aver fatto il corridoio di corsa, lo trascinò nel suo studio, lo gettò su una morbida sedia di pelle e si sedette alla scrivania. Korotkov, che sentiva sempre il pavimento oscillare in modo strano sotto i piedi, si fece piccolo e, chiudendo gli occhi, prese a borbottare: "Il venti era lunedì, per cui martedì è il ventuno. No. Che cosa sto dicendo? Θ l'anno, il ventuno. Protocollo n. 0,15, spazio per la firma, trattino, Varfolomej Korotkov. Che poi sarei io. Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato, domenica, lunedì. Lunedì comincia con la Elle, e venerdì con la Vi, mentre domenica... domm... con la Emme, proprio come mercoledì..." Con uno svolazzo Mutandoner firmò un documento, ci stampigliò sopra il timbro e glielo allungò. Nello stesso istante il telefono squillò in modo rabbioso. Mutandoner afferrò la cornetta e vi urlò dentro:

— Ah! Sì, sì. Vengo subito.

Si precipitò verso l'attaccapanni, strappò via il berretto, si coprì la pelata e scomparve al di là della porta, accomiatandosi con queste parole:

— Mi aspetti da Mutandoner.

Tutto si confuse definitivamente nella testa di Korotkov, quando lesse ciò che stava scritto sul documento timbrato:

Il latore della presente è a tutti gli effetti
il mio collaboratore compagno Vasilij Pavlovič Kolobkov,
come accertato.
Mutandoner

— O-oh! — gemette Korotkov, lasciando cadere a terra documento e berretto. — Ma cosa sta succedendo?

In quello stesso momento la porta cantò stridula e Mutandoner tornò, con tanto di barba:

— Mutandoner se l'è già filata? — chiese a Korotkov con voce sottile e soave.

Tutt'intorno la luce si spense.

Aaaaaahhhhhh! — gridò Korotkov, che non sopportava più quella tortura e, fuori di sé, fece un balzo verso Mutandoner digrignando i denti. Il volto di questi ingiallì immediatamente per il terrore. Balzando all'indietro contro la porta, la aprì con fracasso e piombò in corridoio; non riuscendo a mantenere l'equilibrio, fu costretto ad accucciarsi, ma si risollevò immediatamente e si mise a correre gridando:

— Fattorino! Fattorino! Aiuto!

— Si fermi. Si fermi, la prego, compagno... — gridò Korotkov che, ripresosi, si era gettato all'inseguimento.

Qualcosa rintronò nella segreteria, e i falchi scattarono sull'attenti come obbedendo a un ordine. Gli occhi sognanti della donna si sollevarono dalla macchina da scrivere.

— Sparano! Sparano! — echeggiò il suo grido isterico.

Mutandoner sbucò per primo nell'atrio e montò sulla pedana dell'organo; ebbe un secondo di esitazione, incerto su dove fuggire, poi scattò e, con una brusca virata, sparì dietro lo strumento. Korotkov gli si lanciò dietro e scivolò: si sarebbe rotto di certo la testa sulla ringhiera se non fosse stato per un'enorme maniglia nera e storta che sporgeva dal lato giallo. La maniglia lo afferrò per una falda del cappotto, la lana marcia si strappò con uno squittio sommesso, e Korotkov si adagiò dolcemente sul pavimento freddo. Dietro l'organo, si sentì la porta dell'uscita laterale sbattere alle spalle di Mutandoner.

— Mio dio... — cominciò a dire Korotkov, ma non finì la frase.

Nella grandiosa cassa dalle canne di rame impolverate echeggiò un suono strano, come se si fosse rotto un bicchiere, poi fu la volta di un polveroso brontolio di viscere, di uno strano pigolio cromatico e dei rintocchi di una campana. Poi fu la volta di un sonoro accordo in maggiore e di uno scroscio tonificante e vigoroso, e allora tutti e tre i piani della cassa gialla cominciarono a risuonare, rimescolando all'interno i depositi di suono stagnante:

Crepitava, rombava l'incendio di Mosca...

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