Copertina
Autore Anthony Burgess
Titolo Arancia meccanica
EdizioneEinaudi, Torino, 1999 [1969], Tascabili Letteratura 351 , Isbn 978-88-06-13640-6
OriginaleA Clockwork Orange [1962]
TraduttoreFloriana Bossi
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa inglese
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Indice


        Arancia meccanica

p. 7    Parte prima
  89    Parte seconda
 151    Parte terza

        Appendice

 221    Lettera di Anthony Burgess
        al « Los Angeles Times »

 225    Intervista a Stanley Kubrick
        di Michel Ciment

 

 

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Pagina 9 [ inizio libro ]

Allora che si fa, eh?

C'ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pete, Georgíe, e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d'inverno, ma asciutta. Il Korova era un sosto di quelli col latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com'erano questi sosti, con le cose che cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge. Non avevano la licenza per i liquori, ma non c'era ancora una legge contro l'aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, cosí lo potevi glutare con la sintemesc o la drenacrom o il vellocet o un paio d'altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiavano dappertutto dentro il planetario. O potevi glutare il latte coi coltelli dentro, come si diceva, e questo ti rendeva sviccio e pronto per un po' di porco diciannove, ed è proprio quel che si glutava la sera in cui sto cominciando questa storia.

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Pagina 18

- Ti fa sentire proprio frollo, ti fa, - disse Pete. Si locchiava benissimo che al povero vecchio Bamba non gli quadrava mica tanto, ma non disse nulla per paura d'esser considerato un pivello micco e tonno. Be', ce ne andammo all'angolo di Attlee Avenue, dove c'era questo negozio di dolci e cancerose ancora aperto. Erano quasi tre mesi che li lasciavamo in pace e tutto sommato il quartiere era piuttosto tranquillo, quindi non c'erano molte pattuglie di rozzi o cerini in giro essendo tutti piú a nord del fiume in quei giorni. Ci mettemmo le maschere - erano delle novità cinebrivido fatte proprio alla perfezione; erano tutte facce di personalità storiche (ti dicevano il nome quando le compravi) e io avevo Disraeli, Pete aveva Elvis Presley, Georgie aveva Enrico VIII e il povero vecchio Bamba aveva un martino poeta chiamato Pibi Shelley, ed era un travestimento che sembrava vero, capelli e tutto, e di una specialissima trucca plastica che potevi arrotolarla quando avevi finito e nasconderla dentro lo stivale - poi tre di noi entrarono dentro e Pete restò fuori a far antenna, non che ci fosse molto da preoccuparsi ma comunque. Appena planammo nel negozio ci dirigemmo verso Slouse che era il gestore, una grossa gelatina di manzo che locchiò subito l'aria che tirava e fece per correre nel retro dove c'era il telefono e forse anche la sua forosa ben oliata, completa di sei sporchi colpi. Ma Bamba fu dietro al bancone guizzo come un uccello, mandando i pacchetti di taba a sfasciarsi sopra un grosso cartellone di una quaglia che faceva flash agli avventori con tutti gli zughí, e con i tuberi che quasi cascavano di fuori, per reclamizzare qualche nuova marca di cancerose. Allora si locchiò una specie di grossa palla rotolare nel retro dietro la tenda, ed erano Bamba e Slouse come incatenati in una lotta mortale. Poi dietro la tenda si snicchiò ansimare e rantolare e scalciare, e trucche che cascavano, e bestemmiare, e poi tutto un crash crash crash di vetri. Mamma Slouse, la moglie, stava come impietrita dietro il bancone. Si capiva che avrebbe scricciato a piú non posso se gliene davi l'occasione, cosí piombai dietro quel banco guizzo guizzo e l'acchiappai, ed era un gran bidone cinebrivido, tutta sniffiosa di profumo e con dei grossi tuberi flipflop tutti sballonzolanti. Le misi una granfia sul truglio per impedirle di mugghiare morte e distruzione ai quattro venti, ma questa cucciolona mi ci dette un accidenti di morsaccio lurido e cosí fui io che scricciai, e lei se ne venne fuori con un flipposo urlo per i rozzi che era una bellezza. Allora si dovette festarla perbenino con uno dei pesi della bilancla e poi le feci una bella carezza con un piede di porco che tenevano per aprire le casse, e quello fece uscire il rosso come un vecchio amico. Cosí adesso era per terra e le demmo una strappatina alle palandre tanto per divertirci e una piccola stivalata perché smettesse di lamentarsi. E, locchiandola là distesa con i tuberi all'aria, mi chiesi lo faccio o non lo faccio, ma quello era per piú tardi nella serata. Poi ripulimmo la cassa - quella cupa c'era un flipposo bottino cinebrivido - e dopo esserci serviti delle migliori cancerose piú super che c'erano, ce n'andammo, fratelli.

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Pagina 24

Fu sotto la Centrale elettrica municipale che incontrammo Billyboy e i suoi cinque soma. Dovete sapere, fratelli, che in quei giorni le squadre erano quasi tutte di quattro o cinque ragazzi e si chiamavano auto-squadre perché quattro era un numero comodo per un'automobile, e sei era il numero minimo per una ganga. A volte delle ganghe si univano come per fare un migno esercito per le grandi battaglie notturne, ma in genere era meglio andare in giro in numero ridotto. Billyboy era qualcosa che mi faceva venir voglia di rigettare solo a locchiargli quella grassa biffa ghignante e ci aveva sempre addosso quella sniffa d'olio rancido e rifritto anche quando era vestito con le bucce buone come quella sera. Loro locchiarono noi come noi si locchiò loro, e da tutt'e due le parti ci fu come una specie di tranquillo stato d'allarme. Perché quello sarebbe stato vero, quello sarebbe stato forte, quello voleva dire la lisca, lo sgarzo, la cricchía, non soltanto pugni e stivali. Billyboy e i suoi soma smisero quello che stavano facendo, e cioè di prepararsi a eseguire qualcosa su di una giovane mammola piagnucolante che s'eran presa, di non piú di dieci anni, lei che scricciava a piú non posso ma ancora con le palandre, Billiboy che la teneva per una granfia e il suo numero uno, Leo, che la teneva per l'altra. Probabilmente avevano fatto solo la prima parte delle mottate sconce prima di darsi a un piccolopoco di ultraviolenza. Quando ci locchiarono venire lasciarono andare la piccola boccalona, perché tanto ce n'erano un mucchio dove avevan preso quella, e lei corse via con le gambette bianche che spiccavano nel buio senza smettere i suoi «Oh oh oh». Io dissi, tutto somesco e sorridente: - Guarda chi si vede, il nostro grasso fetente Billibestia in pisciona! Vieni a prendertene uno nelle berte, se le berte ce l'hai, vecchia gelatina d'eunuco -. E cosi cominciammo.

Si era quattro contro sei, come ho già detto, ma il povero vecchio Bamba, con tutta la sua bambanaggine, contava per tre come puro folle e sporco picchiatore. Bamba aveva una lunghissima cricchia o catena cinebrivido girata due volte intorno alla vita, e la srotolò e cominciò a sbatterla nei fari che era una bellezza. Pete e Georgíe avevano dei begli sgarzi affilati, ma io da parte mia avevo un'ottíma lisca tagliagola, bigia ma cinebrivido, e a quei tempi la sapevo far lampeggiare da vero artista. Cosí si stava li a squassare nel buio, con la vecchia Luna con gli uomini sopra che stava sorgendo e le stelle che bucavano come coltelli ansiosi di unirsi allo squassaggio. Con la mia lisca riuscii ad aprire fino in fondo la palandra di un soma di Billyboy, pulita pulita senza nemmeno toccargli le macerie. Cosi nello squassaggio questo soma di Billyboy si trovò improvvisamente aperto come il guscio di un pisello con la pancia nuda e le povere vecchie berte in vista e allora s'imburianò parecchio, mettendosi a urlare e a gesticolare e perdendo la posizione di guardia, lasciando che il vecchio Bamba entrasse con la sua catena che sibilava vsssssss e gliela sbattesse dritta nei fari, cosi che questo soma di Billyboy se ne andò fuori dei piedi berciando e incespicando.

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Pagina 42

I piccoli altoparlandi del mio stereo erano disseminati per tutta la stanza, sul soffitto, sulle pareti, sul pavimento, e cosí, quando ascoltavo la musica disteso sul letto, ero come intrappolato e impigliato dentro l'orchestra. Ora, quello che mi andava di sentire quella sera era il nuovo concerto per violino dell'americano Geoffrey Plautus, suonato da Odysseus Choerilos con la Macon (Georgia) Philarmonic, cosí lo feci scivolare fuori dalla fila ordinata degli altri dischi e lo misi su e aspettai.

Poi, fratelli, venne. Oh, estasi, estasi celeste. Giacevo tuttospalandrato verso il soffìtto, il planetario sulle granfie, fari chiusi, truglio aperto per la beatitudine, snicchianào il fiotto di suoni meravigliosi. Oh, era magnificenza e magnificità fatte carne. I tromboni sgranocchiavano oro rosso sotto il mio letto, e dietro il planetario le trombe fiammeggiarono argento per tre volte, e là vicino alla porta i timpani rotolarono dentro le mie viscere e poi uscirono e si sgretolarono come tuoni di zucchero. Oh, era la meraviglia delle meraviglie! E poi, come un uccello dei piú rari che vorticava metalceleste, o come vino d'argento che scorreva dentro una nave spaziale, con la gravità che non aveva piú senso, arrivò il violino solista sopra tutti gli altri archi, e quegli archi erano una gabbia di seta intorno al mio letto. Poi il flauto e l'oboe perforarono come vermi di platino la spessa, grossa caramella oro e argento. Ero in piena estasi, fratelli. Pi e emme nella camera accanto avevano ormai imparato a non bussare sul muro per lamentarsi di quello che chiamavano rumore. Gliel'avevo insegnato io. Ora avrebbero preso i sonniferi. O forse, sapendo la gioia che mi dava la musica di notte, li avevano già presi. Mentre snicchiavo, i fari ben chiusi per chiudere dentro la beatitudine che era meglio di ogni Zio o Dio da sintemesc, avevo delle belle visioni. C'erano dei martini e delle quaglie, giovani e bigi, distesi per terra che chiedevano pietà urlando, e io che gufavo a truglio spalancato e gli maciullavo le biffe con lo stivale. E c'erano delle mammole a brandelli e scriccianti contro il muro e io che m'immergevo come una daga dentro di loro, e infatti quando la musica, che aveva un movimento solo, salí in cima alla sua torre piú alta, allora, disteso lí sul letto con i fari serrati e le granfie sotto il planetario, mi frantumai e spruzzai e gridai aaaaaaah per l'estasi di tutto quanto. E cosí quella bellissima musica scivolò verso la sua fine luminosa.

Dopo misi il magnifico Mozart, la Jupiter, e ci furono altre visioni di biffe da essere maciullate e spiaccicate, e dopo quello pensai che mi ci voleva un ultimo disco prima di passare la frontiera, e volevo qualcosa di bigio e forte e molto fermo, cosí misi J. S. Bach, il Concerto Brandeburghese solo per viole e violoncelli. E, snicchiando con una specie d'estasi diversa da prima, locchiai di nuovo il titolo sul foglio che avevo sciancato quella sera, sembrava tanto tempo fa, in quel cottage chiamato CASA MIA. Riguardava una certa arancia meccanica. E, ascoltando quel J. S. Bach, cominciai a zeccare meglio quello che voleva dire e pensai, continuando a snicchiare la magnificenza bruna del bigio maestro tedesco, che mi sarebbe piaciuto averli festati piú forte tutti e due, e averli fatti a pezzi lí sul loro stesso tappeto.

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