Copertina
Autore James Lee Burke
Titolo Pioggia al neon
EdizioneMeridiano zero, Padova, 2007, meridianonero 69 , pag. 288, cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-8237-147-0
OriginaleThe Neon Rain [1987]
TraduttoreGianni Orsato
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa statunitense , gialli
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Il cielo al tramonto era striato di viola, il colore delle prugne mature. Sotto una pioggia leggera, giunsi al termine di quella strada asfaltata che, dopo venti miglia fitte e quasi impenetrabili di arbusti e querce nane, conduceva all'entrata principale del carcere di Angola. Davanti alla cancellata era raccolto in preghiera un gruppo di manifestanti contro la pena di morte - preti, suore in abiti civili, ragazzi della Louisiana State University che reggevano tra le mani delle candele. Ma c'era anche un secondo gruppo di persone, una strana combinazione di confraternite studentesche e di rednecks, che si erano portati dietro dei box-frigo con le birre sottoghiaccio e cantavano Glow, Little Glow Worm esibendo cartelli con scritte tipo QUESTA BUD È ALLA TUA SALUTE, MASSINA e TI ASPETTA UNA GIORNATA ROVENTE.

- Sono il tenente Dave Robicheaux, Dipartimento di polizia di New Orleans, - dissi a una delle guardie all'ingresso, mostrandogli il distintivo.

- Sì, certo, tenente. Il suo nome è nella lista. La accompagno al Blocco, - fece lui, salendo sulla mia auto. Le maniche arrotolate della sua camicia color kaki lasciavano vedere le braccia bruciate dal sole. Aveva gli occhi verdi e inespressivi, e i tratti marcati del viso caratteristici dei montanari della Louisiana del Nord. Mandava un leggero odore di sudore secco, tabacco Red Man e borotalco. - Non so quale dei due gruppi mi dà più fastidio. I religiosi si comportano come se stessimo per dare la scossa a un poveraccio finito dentro per eccesso di velocità, e quegli altri con i cartelli devono essere a corto di figa da un bel po'. Resta fino alla fine?

- No.

- È stato lei a beccarlo?

- Era solo un pesce piccolo che mi ritrovavo ogni tanto tra i piedi. Ma non l'ho mai preso con le mani nel sacco. A dire il vero, credo siano più i colpi che ha mandato a puttane di quelli che ha messo a segno. Forse è entrato nella mafia grazie a una di quelle leggi sulle minoranze.

La guardia non rise. Fissava, al di là del finestrino, la piatta e sconfinata distesa di campi che facevano parte del complesso carcerario, e i suoi occhi si stringevano ogni volta che lungo la strada sterrata incrociavamo qualche detenuto assegnato a mansioni di controllo. La principale struttura della prigione - una serie di dormitori di massima sicurezza a due piani circondati da un recinto di filo spinato e collegati da vialetti coperti e da cortili per l'attività fisica, definita nel suo complesso "il Blocco" - brillava come cobalto sotto la pioggia, e da lontano potevo vedere la geometrica disposizione delle coltivazioni di canna da zucchero e patate dolci, le rovine fatiscenti di alcuni edifici del diciannovesimo secolo che si stagliavano contro gli ultimi bagliori rossastri del sole, e i salici che si piegavano nella brezza lungo gli argini del Mississippi, sotto i quali erano sepolti molti detenuti assassinati.

- La sedia è sempre nella Red Hat House?

- Indovinato. E lì che gli arrostiscono il culo. Sa perché la chiamano così?

- Sì, - risposi, ma non mi stava ascoltando.

- Prima che incominciassero a mettere i soggetti più difficili nella cella di isolamento al Blocco, li facevano lavorare giù al fiume, con una tuta a righe e un cappello rosso di paglia. Poi la sera li spogliavano, li frugavano fin nel buco del culo e li sbattevano nella Red Hat House tirandogli dietro i loro quattro stracci. Lì non c'erano vetri alle finestre, e le zanzare gli davano una bella raddrizzata, meglio di una mazza da baseball.

Parcheggiai ed entrammo nel Blocco. Attraversammo la prima zona di sicurezza, dove si trovavano gli informatori e i detenuti pericolosi, proseguimmo lungo il vialetto coperto e ben illuminato che collegava i cortili interni fino al dormitorio successivo, passammo per un'altra serie di barriere a chiusura idraulica e per una zona morta dove due secondini giocavano a carte a un tavolino, sotto la scritta NIENTE ARMI OLTRE QUESTO PUNTO; arrivammo alla mensa e agli spazi ricreativi, dove dei detenuti neri stavano passando la lucidatrice sui pavimenti già luccicanti, e infine ci arrampicammo su una scaletta a chiocciola in acciaio che conduceva alla zona di massima sicurezza dove Johnny Massina stava trascorrendo le sue ultime tre ore di vita.

A questo punto la guardia che mi aveva scortato fino a lì mi lasciò, e un'altra azionò la leva che apriva la porta della cella. Johnny indossava una maglietta bianca, un paio di braghe nere, delle scarpe da ginnastica nere e dei calzini bianchi. I suoi capelli ispidi e brizzolati erano madidi di sudore, e la pelle del suo viso sembrava pergamena. Mi guardò dalla brandina dov'era seduto. Aveva gli occhi caldi e luminosi, il labbro superiore imperlato di sudore. Le sue dita ingiallite stringevano una Camel, e il pavimento attorno ai suoi piedi era coperto di mozziconi.

- Mi fa piacere che sei passato, Streak. Non ero certo che l'avresti fatto.

- Come va, Johnny?

Posò le mani sulle gambe e le strinse, fissando il pavimento. Poi rialzò lo sguardo su di me. Lo vidi deglutire.

- Hai mai avuto davvero paura? - mi chiese.

- In Vietnam, è successo.

- Già. Sei stato là, vero?

- Sono tornato nel '64, prima che le cose si mettessero davvero male.

- Scommetto che eri un buon soldato.

- Più che altro ero un soldato vivo, ecco tutto.

Mi sentii improvvisamente stupido per aver fatto quell'osservazione. Lui mi lesse l'imbarazzo in faccia.

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L'uomo a cui ogni tanto mi riferivo come al seme vagabondo di mio padre mi chiamò poco prima di mezzogiorno per invitarmi a cena al suo ristorante sulla Dauphine. In effetti il mio fratellastro Jimmie - che la gente diceva assomigliarmi come un gemello - era a suo modo un gentiluomo. Aveva il senso dell'umorismo e la gentilezza d'animo di mio padre, trattava con rispetto sia i suoi pari sia i sottoposti, e pagava per tempo i debiti di gioco. Aveva inoltre un atteggiamento di correttezza quasi vittoriana nei confronti delle donne, probabilmente perché sua madre era una prostituta di Abbeville, che peraltro nessuno di noi due ricordava. Ma era anche invischiato nel giro delle scommesse clandestine, del poker e delle slot machine, attività che l'aveva portato a un'estemporanea ma pericolosa alleanza con Didoni Giacano.

Spesso mi infuriavo con lui per quell'alleanza, per l'atteggiamento cavalleresco che teneva nei suoi affari e per tutta una serie d'altre cose che aveva fatto per riuscire a dimostrare di essere diverso da me, di non essere solo il mio fratellastro e il figlio illegittimo di suo padre. Ma non riuscivo mai a rimanere arrabbiato con lui a lungo, come quando eravamo bambini e lui si inventava ogni giorno qualche nuovo piano, mettendoci invariabilmente entrambi nei guai.

Anche se lui era di quindici mesi più giovane di me, facevamo sempre tutto insieme. Lavavamo bottigliette per la fabbrica di salsa piccante, spennavamo polli per due soldi al macello, sistemavamo i birilli alla pista da bowling, dove ben pochi ragazzini bianchi avrebbero lavorato, dentro quelle buche caldissime piene di negri sudati e incazzati, di birilli che esplodevano e di palle da bowling che ti potevano spaccare la testa in due. Poi lui ci fece licenziare entrambi dalla fabbrica di salsa piccante: il proprietario non riusciva a distinguerci e lui aveva provato un nuovo sistema di lavaggio mettendo tutte le bottiglie dentro una dozzina di sacchi e immergendole nella corrente del fiume. Ci cacciarono anche dal macello dopo che Jimmie aveva deciso di rendere più efficiente tutta l'operazione facendo uscire dalle gabbie sei dozzine di polli in una volta sola e spingendoli nel cortile dove avremmo dovuto farli fuori e scottarli dentro grossi calderoni d'acqua bollente. Naturalmente i polli si spaventarono e la maggior parte cercò di fuggire attraverso un grande ventilatore a parete, le cui pale d'acciaio ne fecero fettine.

Una notte d'estate arrivò alla sala da bowling un gruppo di teppistelli di Railroad Avenue, e incominciarono a lanciare le palle prima che l'addetto ai birilli potesse rimettere a posto il castello. Erano ragazzi che il sabato sera andavano a caccia di negri armati di fionde caricate a sassi e biglie. I negri che lavoravano nelle buche non potevano reagire quando venivano presi di mira dagli ubriachi o dagli sbruffoncelli delle superiori, ma Jimmie non badava alle regole e credeva nella reazione immediata. Stava tirando su quattro birilli alla volta nella buca accanto alla mia, con la maglietta piena di polvere e il sudore che gli infradiciava i capelli, quando una palla gli sfiorò il ginocchio e andò a sbattere contro la protezione di cuoio dietro di lui. Un minuto più tardi accadde di nuovo. Spinse in giù il meccanismo che bloccava la pista, andò in una delle altre buche e ne tornò con una sputacchiera piena di tabacco masticato. Versò il liquido nel buco per il pollice della palla da bowling, lo chiuse con una cicca e poi rimise la palla sullo scivolo.

Poco dopo si sentì qualcuno lanciare una bestemmia, e quando guardammo verso i giocatori vedemmo un enorme ragazzo dall'aria stupida che si guardava una mano, con un'espressione d'orrore dipinta in volto.

– Ehi, amico, spalmatene un po' anche sul naso. Sarà sempre meglio di quello che ti ritrovi adesso, – urlò Jimmie.

Tre di loro ci beccarono nel parcheggio dopo la chiusura e ci presero a botte per almeno cinque minuti prima che uscisse il proprietario a cacciarli via. Poi ci disse che eravamo entrambi licenziati. Jimmie corse dietro al loro furgone, lanciando sassi sulla cabina.

— Ci metteremo a consegnare i giornali, — disse con il viso arrossato e coperto di polvere e sudore secco. — Chi vuole fare il birillaro per tutta la vita? Oggi si possono fare un sacco di soldi con i giornali a domicilio.

Cambiammo molto entrambi quando incominciammo a frequentare il college a Lafayette, e fu allora che iniziammo a lasciarci alle spalle il mondo cajun di nostro padre. Poi io entrai nell'esercito e venni mandato in Vietnam, mentre Jimmie si arruolò nella Guardia Nazionale, ipotecò la casetta e la fattoria di sette acri che nostro padre ci aveva lasciato in eredità e aprì un caffe sulla Decatur Street a New Orleans. In seguito comprò il primo di una serie di ristoranti, incominciando a portare gioielli e abiti di lusso e a comportarsi come quelli del Garden District, che facevano tutti parte del Southern Yacht Club, soprattutto perché pensava che lì sapessero qualcosa sul denaro e sul potere che lui non sapeva ancora. Ci fu una serie di donne bellissime che entravano e uscivano dalla sua vita, ma ogni volta che lo vedevo a Canal Street o in uno dei suoi ristoranti, seduto al tavolo con gruppi di uomini d'affari a ridere delle loro battute, quella scena si sovrapponeva sempre a un'altra proveniente dai miei ricordi, l'immagine di un ragazzino con gli stivaloni di gomma che faceva finire un branco di polli dentro un ventilatore o tirava sassi a un furgoncino che si allontanava nella notte.


Quando entrai, Didi Gee e mio fratello stavano mangiando in un séparé di cuoio rosso sul retro del ristorante. Il ventre e lo stomaco di Didi sembravano tre camere d'aria impilate una sull'altra. Le sue mani erano grandi come padelle, il collo largo come un idrante, la testa di riccioli neri era tonda e dura come una palla di cannone. Da giovane aveva fatto l'esattore per un gruppo di strozzini di Algiers, dall'altra parte del Mississippi, e di lì veniva la storia di lui che immergeva le mani della gente nell'acquario dei piranha. Sapevo anche per certo che a Gretna un poliziotto, dopo avergli sparato a bruciapelo a una spalla, aveva rifiutato di chiamare l'ambulanza e lo aveva lasciato a morire dissanguato sul marciapiede. Solo che Didi era sopravvissuto e l'aveva fatto cacciare dalla polizia, e poi anche da tutti i lavori che era riuscito a trovare, finché quello aveva dovuto venire a fare il tirapiedi per lui, una sorta di patetico trofeo umano che Didi si teneva attorno come fosse una statuetta voodoo con tanto di spilloni piantati.

Jimmie mi sorrise, mi strinse la mano e fece cenno al cameriere di servirmi un piatto di carne e aragosta dallo scaldavivande che stava sul bancone. Didi Gee aveva la bocca così piena di cibo che dovette mettere giù forchetta e coltello, continuare a masticare per almeno mezzo minuto e bersi un bicchiere di vino rosso prima di poter parlare.

— Come va, tenente? — chiese tranquillamente. Parlava sempre come se avesse il naso chiuso.

- Non male, - dissi. - E a te come butta, Didi?

- Mica tanto bene, a dire la verità. Ho un cancro all'intestino. Mi devono tagliare un pezzo di colon e cucirmi il buco del culo. Me ne dovrò andare in giro con un sacchetto di merda attaccato alla pancia.

- Mi dispiace.

- Il mio dottore dice che se non lo faccio mi ritrovo sottoterra. Fortunato lei che è ancora giovane. - Si mise in bocca una polpettina di carne, una forchettata di spaghetti e mezza fetta di pane in un colpo solo.

- Abbiamo sentito delle voci su di te, - disse Jimmie sorridendo. Portava un completo scuro e una cravatta grigia. Gli anelli e l'orologio d'oro brillavano nella luce tenue del ristorante. Da quando era bambino aveva sempre usato i sorrisi per nascondere il senso di colpa, per confondere chi gli stava di fronte o per negare il fatto che era fondamentalmente una brava persona.

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Alle cinque del mattino seguente, il cielo a oriente, oltre la linea degli alberi dall'altra parte del Mississippi, era grigio e rosa. Io ero in un bar aperto tutta la notte dietro la Highway 90, sotto l'esten- sione nera e incombente dell'Huey Long Bridge. La nebbia galleggiava in banchi di nubi sulla superficie del fiume e attorno ai pilastri ammantati di vegetazione del ponte. L'aria era così umida che sembrava composta di goccioline, e la pietra argillosa del parcheggio scintillava d'un bagliore opaco, mentre la luce rosa del sole si spandeva sull'orizzonte.

Un bus carico di saltimbanchi e artisti da circo, proveniente da Sarasota, in Florida, si era piantato nel bel mezzo dell'autostrada, e così il bancone del bar era affollato da una strana accozzaglia di lavoratori saltuari, acrobati e attrazioni varie. Io ero seduto con il Ragazzo Coccodrillo, l'Uomo Matita e un nano che si chiamava Little Mack. L'Uomo Matita aveva delle braccia e delle gambe così sottili che sembrava gli avessero asportato chirurgicamente tutte le ossa, come se avesse dei serpenti di gomma attaccati direttamente al busto, che a sua volta aveva una circonferenza non più ampia di un palo del telefono. I suoi capelli rossi erano impomatati e pettinati in una crocchia in modo da assomigliare alla gomma di una matita. La pelle del Ragazzo Coccodrillo era coperta di protuberanze dure e nere simili a crostacei, e i denti sembravano essere stati affilati con una lima. In rapida sequenza beveva un sorso del suo bicchiere di moscato, quindi un goccio di birra, dava un tiro al sigaro e affondava la mano in una ciotola di nervetti di maiale. Little Mack era seduto vicino a me, i suoi piedi minuscoli non raggiungevano il pavimento e la sua faccia allungata mi ascoltava con preoccupazione.

Guardavo il numero di telefono che avevo scritto su un tovagliolino usato. Nella testa mi risuonava un ronzio persistente, come di un neon in cortocircuito.

– Non dovrebbe chiamare di nuovo quelli della CIA, tenente, – disse Little Mack con la sua vocina acuta e meccanica. – Quelli sono coinvolti in storie di Ufo. Una volta ne abbiamo visto uno nel deserto appena fuori Needles, in California, luccicava di verde e arancio ed è schizzato sopra il tetto del nostro bus a un migliaio di chilometri l'ora. L'indomani il giornale riportava che era stata fatta a pezzi l'intera mandria di vacche di un ranch. Forse quelli dell'Ufo stavano cercando di prendere un po' di cibo.

– Potrebbe anche essere, – dissi io, e feci segno al barista di portarci un altro giro di Jack Daniel.

– Il governo ti rovinerà, – intervenne l'Uomo Matita. – Tutte le volte che entri in contatto con un'agenzia governativa, aprono un fascicolo su di te. C'è gente che ha intere stanze piene di fascicoli sulla propria vita. Io non ho neanche un foglietto di carta. Neppure il certificato di nascita. Mia madre si è accucciata e mi ha sparato fuori nel vagone di un treno merci. Da allora sono sempre stato in giro. Non ho mai avuto la tessera della previdenza sociale, né la patente, e non sono mai stato nelle liste della leva. Non ho mai compilato una dichiarazione dei redditi. Se ti lasci schedare in qualche modo, poi quelli ti fregano.

– Voi ragazzi siete proprio il mio ideale di filosofi situazionisti, – dissi.

– Che roba è? – chiese il Ragazzo Coccodrillo. Mise giù uno dei suoi nervetti di maiale e mi guardò con aria curiosa e perplessa.

– Voi trattate la realtà con le vostre regole, che siano Ufo o una massa di stronzi governativi. Giusto?

– Ha mai visto un Ufo? – chiese Little Mack.

– Ne ho sentito parlare, – risposi.

Versai il mio bicchierino di whisky nel boccale della birra, me lo scolai e poi tornai a guardare il numero di telefono sul tovagliolo. Presi le monete che avevo messo sul tavolo e mi diressi verso il telefono a muro.

– Tenente, non prenda a parolacce nessuno, stavolta, – disse Little Mack. – Una volta ho letto che quelli ti possono mettere anche il veleno nei profilattici.

Chiamai il numero di McLean, in Virginia, e chiesi di un ufficiale in servizio. Mi sentivo l'orecchio gonfio e legnoso contro la cornetta del telefono. Cercai di mettere a fuoco attraverso la vetrina le nuvole di vapore che si alzavano dal fiume nella luce morbida del primo mattino. Il ronzio del neon che avevo nelle orecchie non voleva saperne di andarsene. Alla fine sentii una voce annoiata dall'altra parte del filo.

– Chi è? – chiesi.

– Lo stesso di mezz'ora fa.

– Allora mi passi qualcun altro.

– Sono l'unico disponibile per lei, amico.

– Dimmi come ti chiami così ti posso venire a cercare, uno di questi giorni.

– Lasci che le spieghi un paio di cosette, tenente. Abbiamo rintracciato la sua chiamata. Sappiamo in quale bar si trova. Abbiamo dato un'occhiata alla sua scheda. Sappiamo tutto di lei. Se non fosse una tale patetica testa di cazzo, le manderei qualcuno del suo dipartimento a portarla via.

— Ma bravo. Sei proprio un duro, pezzo di merda che non sei altro. Io vengo lì e ti spacco in due. Ti trasformo in una pozzanghera di sangue e merda.

— Se non avesse la bocca impastata dall'alcol potrei anche prenderla seriamente. Telefoni un'altra volta e si ritrova dentro insieme agli altri ubriaconi.

Riappese. Quando abbassai la cornetta non mi sentivo più metà faccia, come se fossi stato preso a schiaffi.

— Cos'è successo? Non ha una bella cera, — disse Little Mack.

— Ci dobbiamo fare un altro bicchierino, — risposi.

— Hanno minacciato di ucciderla o roba del genere? Ciucciacazzi di merda. Lo legge mai The Black Star? C'era un articolo su come la CIA ha usato gli scienziati nazisti per fare dei cloni di Elvis e Marilyn Monroe, e poi quando non li hanno più potuti usare come spie hanno ucciso i cloni. Credo che l'idea l'abbiano presa da quel film dove ci sono quelle specie di baccelloni che conquistano la terra. Ti mettevano un baccellone sotto il letto e quando andavi a dormire quello ti succhiava fuori il tuo ectoplasma e ti trasformava in una specie di guscio secco che veniva portato via dal vento... Dove sta andando?

— Non lo so.

— Farebbe meglio a sedersi e prendere qualcosa da mangiare, — disse l'Uomo Matita. — Poi quando mettono a posto l'autobus le diamo noi un passaggio.

— Grazie, ma ho bisogno di farmi una camminata. L'ultimo giro lo pago io.

Quando aprii il portafogli però non avevo nemmeno un dollaro.

— Tutto bene, tenente? — chiese Little Mack.

— Certo.

— Voglio dire... ha un'aria da paura.

— Nessun problema.

— Stia attento là fuori con la nebbia, — disse lui. — Ci sono dei pazzi che vanno in giro per l'autostrada, ubriachi e cose simili. Farà attenzione?

— Certo.

Mi incamminai nell'alba grigia verso la sagoma scura dello Huey Long Bridge. Sentivo il rumore dei pneumatici sulla pavimentazione in acciaio del ponte. L'aria era fresca e umida e sulle sponde del fiume si sentiva il profumo della terra bagnata. Incominciai la lunga camminata per raggiungere l'altro capo del ponte con il respiro corto e il cuore che batteva fuori tempo. Giù in basso, sulle acque scure del fiume, una chiatta della Standard Oil andava verso nord, in direzione delle raffinerie di Baton Rouge. Le guglie, i cavi e le travi del ponte sembravano cantare e schioccare e mugugnare al vento. Poi il sole spuntò attraverso le nuvole in una palla gialla, inondando di luce il ponte, e per qualche ragione vidi nel profondo della mia mente uno stormo nero di uccelli della giungla alzarsi rumorosamente in volo in un caldo cielo tropicale.

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