Autore Wolfgang Büscher
Titolo Berlino-Mosca
SottotitoloUn viaggio a piedi
EdizioneVoland, Roma, 2008, Confini 17 , pag. 218, cop.fle., dim. 14,3x20,5x1,4 cm , Isbn 978-88-88700-78-6
OriginaleBerlin-Moskau. Eine Reise zu Fuß
EdizioneRowohlt, Berlin, 2003
TraduttoreLuca Grossi
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe narrativa tedesca , viaggi , paesi: Germania , paesi: Russia , citta': Mosca , citta': Berlino












 

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Indice


PARTE PRIMA
DIMENTICARE BERLINO                      7

Commiato                                 8
Viale degli spiriti                     10
Vicino al fuoco                         16
Oltre l'Oder                            22
Stelle che vagano                       28
Polski Zen                              33
L'amore di una contessa polacca         36
Il Bar Tom è un postaccio               47
Un confine serio                        54

PARTE SECONDA
NEL PAESE BIANCO                        59

Le contrabbandiere                      60
Il signor Kalender urla nella notte     65
Il paese più complicato del mondo       74
L'amore di un partigiano russo          81
Polvere di giorni                       87
Minsky                                  93
Nella "zona"                            96
L'amore di un capitano tedesco         106
Uno yogin siberiano                    114
Hotel Belarus                          120
Drink vodka!                           124
Inquietante                            132
Guardare la televisione a Vitebsk      141

PARTE TERZA
DISTANZE RUSSE                         143

Sul confine in tempesta                144
La casa blu                            153
Fragole del bosco dei morti            157
La strada per Vjasma                   164
Il bosco dei miracoli                  179
La lotta                               193
Diventa freddo                         204
Mosca!                                 211

Ringraziamenti                         215

Note                                   217


 

 

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Pagina 8

COMMIATO



Una notte di piena estate chiusi la porta dietro di me e me ne andai il più dritto possibile verso est. Berlino era molto silenziosa quella mattina. Sentivo solo il battito dei miei passi sul pavimento di legno, poi sul granito. Nell'aria un odore dolciastro, i tigli, e Berlino era sveglia ma non mi sentiva. Sveglia come sempre e in attesa come sempre, si abbandonava ai suoi confusi, grandiosi sogni che balenavano come lampi sul mare di case. Di notte era piovuto, passò un autobus, le luci posteriori lasciarono scie rosse sull'asfalto bagnato. Ricominciava il traffico, nei viali gridavano gli uccelli, la città fremente si rimetteva in moto e in breve gli impiegati sarebbero andati al lavoro, in larga formazione. Con tutto questo non avevo più nulla a che fare.

Com'era arrivata in fretta quella mattina, eccola finalmente. Mettersi sulle spalle lo stretto necessario e liberarsi del resto, della zavorra rassicurante. Chiudere una porta, e un'altra domattina, poi un'altra e un'altra ancora e via. Sull'Oder, la Vistola, il Nemunas. Sulla Beresina, sul Dnepr. Fino a notte. Fino al giorno seguente. Fino a quando si può. Una sorta di pudore mi attraversò di fronte all'immensità della frase: oggi vado a Mosca a piedi. Ero contento del silenzio di Berlino. Non avrei sopportato sguardi.

Di lato qualcosa si muoveva. Una vetrina, dentro un uomo. Cammina nello specchio opaco con i suoi nuovissimi pantaloni militari verde oliva, la camicia, pure verde oliva, gli stivali di buona qualità. Sono un regalo, e il suo passo è più risoluto di quanto non serva. Specchio, dove sarò alla fine di questa estate? La vetrina di vetro antico, a bolle, tremolava come fa il vento sull'acqua e l'immagine si perse in strie psichedeliche. Partì una S-Bahn, l'ultima per molto tempo, rimasi ad ascoltare, uno scossone alla partenza e lo stridore si attenuò e si spense a ovest. Alla fine qualcosa era rimasto negli occhi, un raschio alla gola, un'esitazione davanti alla luce color miele sulle assi. Qualcuno rimase indietro.

Poi ci fu ancora il supermercato all'estremo limite orientale della città, su una panchina due uomini in calzoni corti aspettavano che aprisse. Ne arrivò un terzo. Io bevo tuuttoo, gridò, Coca-Cola, birra, grappa, tuuttoo, e spingeva avanti il suo carrelletto come la vecchia signora Weigel nel teatro della città che stavo lasciando. Finiscila, gridarono i due dalla panchina, e l'uomo-tuuttoo la finì e se la svignò nel nuovo giorno, che aveva il colore della calce umida e anche l'odore. L'ultimissima cosa che davvero vidi di Berlino fu un topo morto. Alla fine dei massacri della notte era rimasto lì, e nonostante fosse piuttosto grasso, nessun gatto se l'era mangiato. Stava con le zampe distese, e la casetta sconsolata di un kindergarten nelle vicinanze recava la scritta "Millepiedi", sopra vi era dipinto un divertente millepiedi gigante. Oltrepassai il topo e la scritta, strinsi la cintura dello zaino, percorsi l'ultima, salvifica curva ed ero lontano.

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Pagina 10

VIALE DEGLI SPIRITI



Il primo giorno di viaggio accadde solo che camminai e camminai, e nel primo negozio di paese dopo Berlino comprai un set da cucito che buttai via subito. Tenni le forbicine, perché erano molto leggere e ne avevo bisogno. Erano così piccole che mi scivolavano continuamente dalle dita, ma con un po' d'impegno e di esercizio riuscii a tagliare strisce di cerotto della giusta grandezza da mettere sulle piaghe del piede destro prima che diventassero bolle. Sempre il piede destro, mai il sinistro, fu così fino a Mosca.

Il giorno, iniziato plumbeo, era diventato caldo e afoso, mi ero appena lasciato alle spalle il villaggio di Werder. I nomi di villaggio a est dell'Elba somigliano ai letti proletari nella Berlino anni '20, occupati da due, anche tre persone insieme. Allo stesso modo Malchow, Wustrow, Glienicke indicavano più località. Werder si comportava come un villaggio della guerra dei trent'anni, trattenne il respiro mentre lo attraversavo, dietro ai muri gialli di mattoni dei suoi cortili, alti quanto un uomo, faceva finta di non esserci, e la sua chiesetta di pietra stava al riparo sotto i vecchi castani. Mi ero seduto un paio di minuti alla loro ombra, poi Werder era tornato di nuovo solo con le sue vie comuniste che prendono il nome da Karl Marx ed Ernst Thälmann, i suoi teneri sentieri di sabbia e la sua ronzante quiete cristallina di giugno vagamente opprimente, demoniaca.

Un ciclista mi raggiunse, aveva voglia di parlare. Andava fino a Müncheberg e tornava, ecco il suo giro. Mormorai qualcosa circa un'escursione più lunga e lo lasciai perdere. Già nelle settimane prima della partenza ero stato molto riluttante a farmi rivolgere la parola. Avrei voluto parlare, ma cosa avrei dovuto dire? Attraversavo velocemente i villaggi silenziosi, prendevo viottoli di campagna simili a quello, schivando gli uomini e i loro sguardi.

Il percorso verso est era ormai un lungo, dritto sentiero di sabbia privo d'ombra attraverso la Rote Luch, una piana brulicante di mille vite e mille morti microscopiche. Si lavorava senza sosta, in aria rotori e sotto, nell'erba, panzer blu-verde metallizzato, interi eserciti di animaletti all'opera. La piana ronzava e pulsava, e io restai fermo per non interrompere i fruscii del mattino con il rumore dei miei passi. Riconobbi un ritmo, aveva la fremente monotonia di una moderna musica da ballo. Un flusso, un riflusso, poi ancora un sollevarsi. Il fiume Luch ribolliva e danzava, torrenti scorrevano attorno a me in rapida successione, le onde della musica Luch si avvertivano appena, io mi meravigliai di non avere mai sentito prima, tanto chiaro, questo sound cosmico, mi accarezzò l'idea che la Rote Luch emettesse e ricevesse contemporaneamente, come un'enorme parabola satellitare regolata sulle frequenze del reale. Non era troppo fuori strada se si veniva da Berlino, e sull'unica collinetta della città, una collinetta fatta di macerie, stavano ancora le enormi cupole del dispositivo con cui all'epoca della guerra fredda l'est veniva auscultato come un bambino malato ai polmoni. E sempre a Berlino erano apparsi profeti pazzi che avevano rivelato l'esistenza di trasmettitori segreti per comandarci e tormentarci tutti. Pensavo all'uomo-trasmittente che molti anni prima era andato per la città con antenne oscillanti sulla testa. Avrebbe trovato la sua frequenza, sarebbe guarito nella Rote Luch. Quando spalancai gli occhi vidi ai miei piedi un piccolo esercito di grosse formiche rosse smontare una pavonia. Le ali incipriate tremavano quasi volesse volar via, ma era solo la conseguenza dell'impeto con cui le rosse macellaie trinciavano la farfalla, morta.

Arrivai sull'antica Reichstrasse I, presso la locanda Da Anja, e di nuovo il mondo sembrò come in televisione. Ordinai pane, formaggio di pecora e molta acqua, e gettai lo zaino su una sedia, era diventato pesante, troppo pesante, dovevo fare qualcosa prima di passare l'Oder. Ero convinto di aver preso solo lo stretto necessario, ora sapevo che dovevo cavarmela con molto meno.

Verso sera arrivai all'ultimo grande campo di battaglia della seconda guerra mondiale, le colline di Seelow. Dietro Münchehof c'era, a fare da segnavia, il pallone di una rana morta essiccata al sole come una pergamena, prima di Jahnfelde una volpe con la testa dilaniata. Dalle colline coltivate a colza vicino Diedersdorf si mossero nuvole di polvere che mi fecero giallo, una formazione di enormi mietitrebbia rosse avanzava lentamente sul fronte del temporale, mentre il cielo diventava sempre più nero. Raggiunsi Seelow nel momento in cui cominciò a piovere, per fortuna l'hotel era uno dei primi edifici della città.

Mentre il temporale infuriava, tre uomini trascorrevano tre serate solitarie al ristorante dell'hotel. Uno, in abito di velluto a coste, sembrava un regista inglese di documentari sugli animali, ordinava un bricco di tè dopo l'altro e, come se fosse da solo nella sua tenda da regista mentre fuori imperversava il monsone serale, correggeva lo script senza neanche alzare lo sguardo. Era lo stoico delle colonie. Quello che sopravvive. L'altro era il Lou-Reed-look-alike-man di passaggio. Non sopportava il silenzio nella tenda del regista inglese. Era uno di quelli che i tropici domano, inducono in tentazione e infine divorano. I fuochi fatui dietro le sue lenti rosse cercavano un compare contro la malinconia del monsone, bastava un attimo di disattenzione per fargli gettare un ponte attraverso i tavoli.

Non avevo nessuna intenzione di correre il rischio. Presi la lampadina tascabile e andai al cimitero militare. Non ce n'era hisogno, le lapidi di Seelow si leggevano perfettamente al chiaro di luna, si leggevano come i cartoncini stropicciati nei lunghi cassetti di una biblioteca umanistica, diciamo quella di Marburg sulla Lahn. Mayer. Conrad. Valentin. Schiller. Deutsch. Suss. Jung. Tutti mancavano. Cercavo di immaginare che paese sarebbe diventato il nostro se fossero stati vivi piuttosto che nomi sulle lapidi. Un'opera negata ai posteri, una rivoluzione stroncata che sarebbe stata radicale. C'erano anche nomi della prima cultura popolare tedesca, interrotta pure quella. Schmeling. Albers. Un altro si chiamava Gutekunst. Una vera trovata alla Martin Walser. Leberecht Gutekunst, ma non era il momento di almanaccare sulla Germania. Le lapidi mormoravano e dondolavano, tutto il cimitero fischiava ora la nota melodia: Where have all the Myers gone? The Deutsch. The Suss. The Jungs. I ragazzi del 1945 non avevano neanche vent'anni, era stata una battaglia di diciannovenni presi dai banchi di scuola. Furono sotterrati per la maggior parte nei crateri delle granate, non a causa della crudeltà nazista o per una strategia pacifista, ma perché la battaglia fu dissennata, rapida e brutale e non si poté fare altrimenti. Il più delle volte sulle lapidi di Seelow si trovava scritto "Ignoto".

Ero stanco, di pessimo umore. Camminavo e camminavo, rimasticavo quei nomi e quelle storie e giravo in cerchio in una zona molto circoscritta. Pensavo a una terra dove non si incontrano persone per giorni, settimane. Presi una birra e mi misi a sedere su una tomba, era un "Ignoto". Mi venne da ridere. Di ignoto non c'era proprio nulla. Conoscevo tutto, sapevo esattamente dove andavo e dove mi trovavo, e se non l'avessi saputo ci sarebbe comunque stato qualcuno nelle vicinanze disposto a dirmelo.

Al museo della guerra di Seelow mi avevano spiegato che per metà giornata avevo percorso il "viale degli impiccati" e l'indomani avrei continuato. Nella primavera del '45 chiamavano così la lunga strada da Müncheberg a Küstrin sull'Oder, a quattr'occhi, s'intende, non in pubblico, lei lo sa di sicuro, sono state le SS. Sì, lo sapevo bene. Frutti singolari pendevano dagli alberi, e ora ne cercavo le ombre. Alle SS erano venute strane voglie. Mentre a destra e a sinistra del percorso di guerra gli uomini cadevano come mosche, e davanti ai russi tutti erano comprensibilmente assaliti da una paura folle, le SS che decorarono gli alberi tra l'Oder e Müncheberg erano poco intenzionate a gettarsi al fronte e molto assetate invece di sangue del proprio popolo. Si faceva presto a diventare disertori, e le SS non stavano troppo a pensarci su. Li trascinavano sul camion, poi una sosta sotto un tiglio, sì quello, va bene quello, cappio al collo e via. Il prossimo. Le SS si abbandonarono alla stessa risentita sete di vendetta dello sposo nevrastenico di Berlino. Perse ormai tutte le speranze, noi vogliamo ancora mostrare alla sposa il carattere di chi non ha meritato. Di chi si è rivelata indegna la stirpe tedesca. Deve capire ciò che pensiamo del suo tradimento al Führer, dopo essere stata elevata dalla melma della mediocrità germanica.

Avevo l'impressione che qualcuno si fosse seduto accanto a me, non guardai, sapevo chi era. Come mi aveva raggiunto presto, già la prima sera, e adesso sarebbe stato così, la sua strada era la mia, ed era la strada di Napoleone e del Gruppo d'armate Centro. Andavo a Mosca e il soldato veniva con me. Mi innervosiva il suo mormorare di buchi di granate e d'impiccati. Dovevo chiedergli chi fosse davvero e pregarlo di raccontare qualcosa in più su di sé, lo imponeva la cortesia storica. Ti conosco, mormorai, tu sei lo studente liceale di Monaco, quello con il Faust in tasca all'uniforme. Ti conosco dal museo di Seelow, lì collezionano casi come il tuo in archivi per documenti, grigi e un po' abbozzati; da quando c'è stato il furto gli sportelli stridono, veramente, c'è stato un furto, fino a quel punto è arrivato l'amore per la storia. So tutto di te. Scaraventato da Goethe nel pantano d'aprile dell'ultimo fronte orientale, devi tenere le alture di Seelow, l'ultima linea prima di Berlino; sono le tre di mattina, novemila cannoni e lanciagranate russi cominciano a urlare e ti strappano dal tuo sonno pesante come il piombo e ri ricacciano di nuovo nella tua buca dentro la terra, ora centoquarantatré cannoni antiaerei russi ti abbagliano tutti insieme, è il 16 aprile 1945, quello che diventerà un tiepido e assolato giorno primaverile, gli Ivan arano l'Oderbruch mentre i Fritz fanno fuoco dalle alture sugli assaltatori, in serata saranno morti molti russi e probabilmente anche tu, liceale, che cerchi riparo nel Faust I e II, tentando di ripeterlo a memoria, e ti aggrappi a ciò che hai e che ti resta, quel Goethe di scuola di cui declami con le labbra tremanti in questo pantano di sangue La passeggiata di Pasqua, mentre attorno piovono le raffiche, le granate picchiano e così via — mi girai a guardare, non c'era nessuno seduto. Sapevo davvero chi era. Non era nessuno delle lapidi, nessuno del museo. Uno disperso là fuori nell'immensità, disperso più di tutti. Niente lapide, niente luogo, niente nome, nulla. Non ci conosciamo, è mio nonno. Non sa della mia esistenza, io non so come sia morto né dove sia sepolto, nessuno lo sa. Tranquillo, sussurrai, passerò su di te senza che te ne accorga. Stai assolutamente tranquillo, passerò attraverso di te come il vento.

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UN CONFINE SERIO



Una settimana e almeno trecento chilometri più tardi ero sulla Narew e di fronte a una decisione. Da una parte si trovava lo Zajazd, una pensione. Mobili di legno rustici, tende semichiuse, il solito. C'era una camera libera, e imbruniva. Dall'altra parte c'era la strada per Bialystok. Entrai, tornai di nuovo indietro, me ne stavo indeciso davanti al ponte. Si fermò un'auto. L'uomo alla guida, un tipo robusto, mi fece segno di salire; portava una collana di cuoio stretta, e doveva piacergli molto la sua testa tonda da gatto rasato visto che ci passava di continuo la mano sopra, mentre ascoltava una lunga trasmissione sul muro di Berlino. Io non capivo quello che veniva detto in polacco, ma solo l'audio originale tedesco, per lui era il contrario. Quando fu riproposta per intero la frase di Kennedy, quel tormentone tedesco recitato non so quanti milioni di volte, provai all'improvviso un'enorme malinconia, come se fossi via da anni. Ero felice di non dover dire nulla e anche lui non disse nulla. Ascoltammo tutta la trasmissione, ciascuno la metà che capiva, e poi restammo in silenzio. Senza sapere dove fossi diretto mi portò in centro, a Bialystok, che non era neanche la sua meta. Ci salutammo con una stretta di mano.

Rispetto al confine avevo due possibilità: autobus o ferrovia. Non aveva senso provare a piedi, i doganieri non mi avrebbero lasciato entrare . La mattina successiva la stazione degli autobus di Bialystok era totalmente vuota, lo stesso a mezzogiorno e quando ci tornai per la terza volta. Era una piazza asfaltata di recente con tanti piccoli uffici-container chiusi, dove nei giorni di apertura si potevano comprare biglietti per Roma, Bielefeld, Londra, Napoli e Kassel, Barcellona, Giessen, Bayreuth. Tutte quelle destinazioni e altre ancora erano scritte su grosse insegne, accanto a me vedevo soltanto le cornacchie fare avanti e indietro sull'asfalto, più piccole di quelle di Berlino e con stole di piume grigio chiaro attorno al collo che le rendevano più eleganti.

Un ufficio aveva aperto, quello dell'unica società che vendeva biglietti per l'unico autobus diretto in Bielorussia quel giorno. Prima, disse l'uomo allo sportello, gli autobus venivano rapinati per via dei soldi che i viaggiatori bielorussi portavano con sé per far compere a ovest. Ormai i commercianti andavano in aereo a Istanbul o ad Atene e si rifornivano lì di tutto il possibile, dalla vernice per auto alla pappa per bambini. Gli chiesi se non avrei fatto più velocemente in treno. "Prendi l'autobus. Se ti va male, ci vogliono ore per sollevare il treno."

Naturalmente, lo scartamento ferroviario russo. Nei boschi della Polonia orientale terminava la filigrana dei binari d'Europa e iniziava uno scartamento più largo, il cui valore simbolico era abbastanza evidente. Rise beffardo: "Sì, sollevano ancora i treni. Come al tempo degli zar." Si voltò indietro. "Questo qua," disse in confidenza e rimarcando ogni parola "questo è il confine del futuro." E visto che sembravo ancora non aver capito aggiunse: "Fin qui è UE, oltre c'è l'est."

Dovetti sorridere anch'io. L'est è quella cosa che nessuno vuole. Che ci si scrolla dalla giacca come merda d'uccelli. L'attributo di est lo regalano tutti volentieri, viene sempre spostato più a oriente. Ho chiesto a Brandeburgo, dove inizia l'est, la risposta era stata: in Polonia naturalmente. In Polonia: l'est inizia a Varsavia, be', in effetti Varsavia ne fa già parte. Mi assicuravano che la Polonia dell'est e dell'ovest non sono paragonabili, sono totalmente diverse, me ne sarei accorto a est di Varsavia. Un altro mondo, più provinciale, più povero, più sporco. Orientale appunto. Ostig, come diciamo noi. Zonig, provinciale. A est di Varsavia la risposta sarebbe stata senz'altro: la provinciale per Bialystok. Tutto quello che si trova a sinistra, a ovest, è cattolico, dunque sicuramente polacco. Quello che si trova a destra è russo bianco-ortodosso. Allora dove inizia l'est? Inesorabilmente a destra del tuo stivale destro. Dove iniziano i grandi boschi e le case di legno scolorite, l'azzurro cadente dei campanili a cipolla, sulle infinite, strette strade provinciali dove, più che automobili, si incrociano carri a cavallo, con le tipiche piccole ruote di gomma e cavalli al trotto sotto al giogo di legno. E un attimo prima il bigliettaio aveva reso plausibile per me il quarto slittamento continentale. Né sarebbe stato l'ultimo. In Bielorussia sarebbe ricominciato tutto da capo. Naturalmente lì si sarebbe detto che l'ovest del paese, un tempo polacco, non è paragonabile al sempre russo est e così via, spostando l'est sempre più a est, e così da Berlino fino a Mosca. Fino a poco prima, a voler essere esatti, perché Mosca, diciamolo subito, Mosca è di nuovo ovest.

Gli chiesi come poteva essere attraversare la Bielorussia a piedi. "Dipende. Nel bosco sei al sicuro, in città no."

"E sulla strada?"

"Pericoloso."

"Chi potrebbe farmi qualcosa?"

"Tutti! Gangster, mafia, qualche balordo. Ma no, penso che non ne vedrai nessuno. Non è così semplice, non si fanno vedere troppo in giro. Tu non hai la macchina, non hai l'aria di avere soldi, vai tranquillo." Sorrise: "Tutte storie!" Mise insieme l'inglese che sapeva: "Stories!"

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L'AMORE DI UN PARTIGIANO RUSSO



Prima di tutto disse di non riuscire a ricordare bene. Qualcuno aveva tirato le tende di mussola e bloccato la luce abbagliante di mezzogiorno, solo un raggio sottile penetrava toccandogli le mani, le sue belle mani affusolate. Stranamente era venuto, eppure lo aspettavano un interrogatorio e una confessione. Sedeva dritto, le gambe accavallate. Non conoscendolo, nessuno lo avrebbe preso per un vecchio quale in effetti era, considerata l'età, era davvero troppo sano, alto, energico, e gli occhi blu ghiaccio erano troppo chiari.

Aveva fatto più o meno il mio percorso, dalla Germania a Novogrudok, un'estate di cinquantotto anni prima, in fuga durante la guerra. Da dove fosse fuggito però non lo ricordava, né il posto né la regione. Sapeva con certezza solo di essere stato prigioniero di guerra per due anni interi, in Germania. Poi il nome Ares gli uscì esitante dalle labbra. Chiamava così la città dell'internamento. Ares, o qualcosa del genere. Era un russo, un vostocnik di Smolensk, aveva fatto parte di una divisione dell'Armata Rossa che la Wehrmacht, all'inizio della campagna contro l'Unione Sovietica, aveva catturato chiudendola nelle vallate con tecniche spettacolari. "Non potevamo vincere, avevamo pochissime munizioni."

Ad Ares, o come si chiamava la città, non se l'era passata male. In estate lui e i suoi compagni di prigionia erano stati portati a gruppi sui campi a mietere e a trebbiare, ma dovevano lavorare anche in inverno, domeniche escluse. La cosa più importante: avevano cibo a sufficienza. In due anni nessuno di loro morì. Malgrado ciò nacque il desiderio di fuggire e lui credette di potersi fidare di due amici. All'inizio non ci si pensava nemmeno. Divenne il leader della baracca, dei ventiquattro compagni di prigionia, poi gli capitò anche di meglio. Andava molto a genio al capocuoco del lager, un caporale tedesco che lo invitava nella sua camerata e regolarmente gli dava da mangiare di nascosto. "Diventammo amici."

Quando l'uomo di Smolensk prese il tifo, conobbe l'altra faccia del lager. Nell'ospedale per prigionieri di guerra in cui fu portato ogni mattina passava un ufficiale e prendeva a calci i malati che giacevano a terra. "Ancora vivo?" Fuori c'era una grande fossa e quelli che non aprivano più gli occhi o non alzavano più la testa venivano trascinati e gettati sugli altri corpi congelati — l'inverno del '41 fu molto rigido.

Eppure ebbe ancora fortuna e sopravvisse. Tornato al lager, l'amico cuoco lo fece mangiare bene. Lo invitava, gli preparava una buona minestra e gliela lasciava portare nella baracca. Il cuoco si mostrò comprensivo anche con la sete dei suoi russi. Al prigioniero che gli chiedeva un po' di zucchero lui mandò un grande contenitore d'alluminio, per il quale gli uomini della baracca intagliarono un coperchio di legno; poi la cucina fornì un sacchetto di zucchero e lievito, facendo finta che servisse per i dolci. Così c'era tutto il necessario per la fermentazione alcolica.

Sul punto di essere trasferito in un altro lager per un'infrazione, decise che era il momento di agire. Dodici compagni erano al corrente del piano, ma la notte della fuga soltanto in tre si ritrovarono nel luogo convenuto, davanti al filo spinato. Camminarono per un mese intero, solo di notte, dal crepuscolo all'alba. Cercavano cibo nei raccolti dei campi. Sapevano solo vagamente dove fossero. A volte, rischiando, bussavano a una casa colonica polacca isolata, allora se erano fortunati ottenevano qualcosa di caldo da mangiare. Tutti e tre arrivarono in quella regione. Presero contatto con i partigiani. Lui avrebbe voluto oltrepassare il fronte e proseguire fino a casa, ricongiungersi con la famiglia, ma il commissario di partito lo costrinse a rimanere come partigiano. "Ci procurammo armi tedesche da una sentinella appostata alla stazione di Novojelna."

Gli chiesi se la sentinella era sopravvissuta.

"Nessuno consegna le armi senza combattere."

Per i tedeschi era un prigioniero in fuga. Per i bielorussi un vostocnik. E per i sovietici qualcosa come un traditore. Aveva lavorato due anni per i tedeschi, lavoro forzato, s'intende, ma non c'era tempo per le sottigliezze. Non era facile per gente come lui vedersela con i commissari politici sovietici. Essere stati prigionieri lì era sinonimo di tradimento, e ai traditori a casa non riservavano nulla di buono, soprattutto quando erano sopravvissuti, per giunta lui ne era uscito sano e ben nutrito. Eppure non aveva aspettato la propria liberazione con le mani in mano. Non era un traditore. Rischiando la vita, in quaranta notti di marcia era fuggito a piedi dalla Germania fino alle porte di Minsk. Non era uno sciocco. Sapeva che la sua prigionia era dovuta ai metodi tirannici di Stalin, un assassino di ufficiali, ma questo non c'entrava, meglio farsene una ragione. Dal punto di vista di papà Stalin lui aveva un torto da riparare, e lo aveva riparato, aveva chiuso la partita ed era andato nei boschi, come pretendeva da lui il commissario politico. Era riabilitato.

Gli domandai del suo periodo da partigiano, raccontò volentieri. Nella regione il suo reparto era stato il più dinamico e il più abile nelle battaglie. Gli altri gruppi venivano di rado da quelle parti, il suo comandava. Con non più di duecento uomini controllavano l'intera ferrovia fra Novogrudok e il corso del Nemunas, prima di distruggerla totalmente nel giugno del '44. "La nostra fu una guerra di ferrovie" disse. "L'ordine venne da Mosca."

Spiegò il lavoro. Non era difficile far saltare una linea ferroviaria. Molto più semplice che posarne una. Lui era il responsabile della tratta. Quando venne la notte consegnò a ciascuno una mina, un pezzo di esplosivo della grandezza di un limone; lui stesso riceveva l'esplosivo da corrieri che glielo portavano dal versante sovietico del fronte. Raggiunsero la ferrovia, dispose gli uomini in una fila rada lungo i binari per una lunghezza di tre chilometri. Rimasero in attesa facendo la massima attenzione al cielo. Fu davvero semplice. Infilare le spolette nell'esplosivo e la miccia, occorrevano tre minuti. Ogni uomo aveva una sigaretta in mano. Un primo razzo di segnalazione e l'accesero. Un secondo e corsero ai binari deponendo la mina in mezzo alle rotaie. Al terzo segnale cenere di sigaretta sulla miccia — e via. Tre minuti, e tre chilometri di ferrovia erano saltati in aria.

Gli chiesi se aveva anche combattuto.

"Ci furono molte battaglie. I tedeschi conoscevano la posizione e la consistenza del mio reparto. Con loro la situazione era chiara, la guerra era contro i tedeschi. Ma abbiamo combattuto anche i polacchi. C'erano unità polacche in lotta contro i tedeschi, ma sul Nemunas i polacchi andavano contro i partigiani. Questo ci costrinse a eliminarli. Furono sterminati."

"Se in un villaggio un tedesco veniva ucciso dai partigiani, i tedeschi distruggevano l'intero villaggio. È accaduto spesso. I partigiani hanno mai fatto cose del genere?"

"Certamente."

"Lo ha visto con i suoi occhi?"

"C'era una ragazza che viveva in un villaggio, una brava ragazza. Di buona famiglia, molto colta. Amministrava la casa e le proprietà con molta cura. Ero meravigliato che una famiglia simile potesse vivere in un posto tanto arretrato. Era davvero una brava ragazza."

Dopo una breve esitazione aggiunse: "È stata uccisa."

"Tedeschi?"

Scosse il capo.

"Partigiani?

Annuì. I partigiani avevano scoperto che suo padre si recava spesso a Novojelna e passava informazioni ai tedeschi. Per questo avevano eliminato tutta la famiglia.

Gli chiesi il nome della ragazza.

"Valentina."

Gli chiesi se l'avesse amata.

"Sì."

Aveva preso parte all'operazione?

"No."

Poi parlammo del dopoguerra. In quel periodo godeva di grande stima, era considerato un eroe. "Noi avevamo il potere dopo la guerra." E dopo una pausa brevissima e intensa: "Io avevo il potere."

Assieme al commissario di partito guidava le sorti della città. Provvedevano al pane. Pane per tutti. A Novogrudok progredirono in fretta, molto prima che nella sua città natale, Smolensk, così portò via la famiglia che pativa la fame. "Non eravamo ricchi ma le cose ci andavano bene." Lo diceva con orgoglio. Era l'orgoglio tranquillo, per nulla ostentato, di un veterano con l'assoluta certezza di essersi comportato per il meglio, da uomo, mentre altri avevano tentennato. Un uomo in pace con se stesso che canta la propria epopea a un altro più giovane. Era arrivato alla fine.

Nel nostro silenzio riecheggiavano due nomi. Ares e Valentina. L'amore e la guerra. Non esiste nessuna città di nome Ares, Ares è un amuleto. Si posa sui luoghi negativi della vita e un attimo dopo non si sa più nemmeno dove si era. Così spiegò Tamara, la direttrice del museo. "Hanno tutti la loro Ares, quelli tornati dalla prigionia tedesca. Hanno scordato dove si trovavano."

Nessun luogo, nessuna prigionia, nessun tradimento. Capivo, come capivo la voglia di raccontare a un tedesco, per una volta, del suo amico, del cuoco tedesco di cui né la Gestapo né il suo commissario dovevano sapere. Ma perché Valentina, perché aveva parlato di lei? Ares era una storia chiusa, Valentina no. Era un uomo stimato, un eroe sovietico. No, non aveva mai tradito la patria, tante volte aveva rischiato la vita per riscattarsi da un tradimento mai commesso. Però aveva tradito il suo amore quando la legge partigiana ne aveva preteso la vita, e la patria gliene aveva reso grazie. Fino a mezz'ora prima nessuno forse aveva saputo della tomba segreta posta non vicino alla betulla, ma nel suo cuore. Si alzò, mi alzai anch'io. Ci demmo la mano e si allontanò in quel radioso giorno d'estate.

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FRAGOLE DEL BOSCO DEI MORTI



Camminavo verso Smolensk, e la Russia sembrava essersi trasferita da poco. C'erano vissuti degli uomini, ne restavano ancora le tracce. Una casa là dietro, la stalla fatiscente del kolchoz, perfino un paio di mucche al pascolo nella steppa, la guardiana immobile in mezzo all'erba gialla. L'ondata di fuga mi precedeva, io la seguivo a distanza di qualche settimana, di qualche mese forse, fino a Mosca, Mosca, mi aspettavo d'incontrare di nuovo la Russia a Mosca. Dietro rimaneva la terra come era prima dell'arrivo degli uomini. Paludi, stagni, bosco e vento. Una grande fabbrica dismessa, ci passai davanti, abbandonata in fretta, pensai, sul muro di mattoni era scritto "1967" e "KPCC", un maldestro intarsio di pietra chiara, applicato alla meglio.

Poi il bosco. Sapevo cosa mi riservava quel bosco, e quando mi trovai un sanatorio sulla sinistra, supposi di essere già arrivato, perché avevano sempre spacciato Katyn per un sanatorio. Non era quello giusto. Un infermiere mi chiese cosa cercassi. Glielo dissi. "Segua la strada, tre o quattro chilometri ancora ed è arrivato."

Immaginai il bosco farsi sempre più silenzioso su entrambi i lati della strada. Sentivo rompersi ogni singolo ramo su cui passava un cercatore di funghi, naturalmente anche in quel bosco si raccoglievano funghi. Dopo quaranta minuti la strada si allargava a destra in un parcheggio dove compariva la scritta: "Complesso Commemorativo Statale." L'ingresso era un terrapieno ricoperto di prato, abbastanza monumentale per il museo, a seconda di come lo si guardava ricordava una costruzione difensiva celtica o un poligono di tiro. Un gruppo di veterani veniva verso di me, con le immancabili decorazioni di guerra, molti accompagnati dalle mogli, ma i volti erano rigidi e afflitti, come se in quel bosco avessero sepolto i propri figli. E in un certo senso era così, avevano appena portato alla tomba la loro giovinezza, la gloriosa vittoria, gli anni eroici altamente medagliati, camminavano stretti uno accanto all'altro, in silenzio, e guardavano per terra oppure nel vuoto, affrettandosi a raggiungere il parcheggio dove li aspettava l'autobus. Mi commuoveva passare in mezzo a quegli anziani che avevano appena perduto la loro fede. Mi rendeva furibondo, difficile dire con chi. A chi piaceva questo? A chi giovava vederli in quel modo, a che serviva?

Entrai nel museo, e una giovane donna mi mostrò alcune fotografie sgranate dei tardi anni '30 e poi uscì fuori con me. Si chiamava Oxana e lavorava lì. Accompagnava i visitatori. Le raccontai degli anziani. "È molto doloroso per questi veterani, eppure vengono in tanti. Lo sapevano tutti, lo sapevano da sempre. Valle della morte, così la gente chiamava il bosco. Ora aprono gli occhi e guardano."

Il sacrario di Katyn è un mausoleo con le dimensioni di un caseggiato, dentro vi è incastrata una campana. Suonò mentre giravo intorno alle quattro pareti della fossa comune su cui erano applicate come piastrelle 4421 targhette recanti ognuna un nome polacco. I Szymanskis, Szymskis, Szimanowskis. Gli Szmids e gli Szuberts. E il dr. med. Berlinerblau, Leopold. Nato tre giorni dopo la vigilia di Natale del 1901, fucilato quarant'anni più tardi per ordine di Stalin nel bosco di Katyn, al pari degli altri 4420 ufficiali e di quanto si poté rastrellare dell'élite polacca. Come il padre della contessa Mankowska, portato fin lì dal suo castello galiziano.

Il complesso era stato camuffato da sanatorio del KGB e in effetti fu anche usato a questo scopo. Oxana disse che Gagarin vi era stato in cura, come Chruscëv e Gorbacëv. Un giorno entrò nel museo una donna anziana. Raccontò che da bambina scavalcava di nascosto la recinzione per raccogliere le fragole che crescevano numerose nel bosco del sanatorio, e ne mangiava così tante da vomitare ogni volta. Lasciammo il curatissimo complesso commemorativo e ci inoltrammo di qualche passo nel bosco. Oxana mi mostrò molti punti scavati dai profanatori di tombe. Tutto il terreno del bosco era sospetto. Presi un ramo, e non appena mossi il muschio e la terra trovai ossa umane, una suola di scarpa cucita, una cintura di cuoio, una costola annerita.

Era stato un bosco di esecuzioni, la stazione ferroviaria si trovava proprio nei paraggi, avevo camminato tutto il tempo accanto ai binari. In migliaia, forse in decine di migliaia vi erano stati trasportati, condotti nel bosco dalla strada, fucilati, sotterrati. Il museo aveva rinvenuto trecento tombe, in cui giacevano dalle sessanta alle novanta salme. I nomi dei morti polacchi erano stati minuziosamente documentati per iniziativa della Polonia, i russi stimavano in diecimila il numero delle vittime fra i loro connazionali, l'autorità erede del KGB rese noti tremila nomi russi. Se in questo bosco non avessero ammazzato l'élite polacca e se la Polonia non avesse chiesto con insistenza la costruzione di questo grande sepolcro, Katyn sarebbe ancora oggi un bosco-cimitero qualsiasi, come ce ne sono lungo le strade d'uscita da altre città sovietiche, dove chi sa, sa approssimativamente, e chi non sa, ci sfreccia davanti oppure ci va a raccogliere funghi o fragole.

Katyn, a giudicare dal numero dei morti, è stata prima di tutto un crimine perpetrato dai russi ai danni di altri russi. È stato necessario che fosse anche un crimine contro i polacchi perché qualcuno se ne interessasse. Fu scoperto dai tedeschi durante la loro avanzata. I soldati di Hitler dissotterrarono la Katyn di Stalin nel 1943, o meglio la fecero dissotterrare dalla popolazione. In seguito furono fucilati cinquecento russi, e giacciono anch'essi nel bosco. Una grande croce ortodossa è stata posta in loro memoria, e i russi in cerca di luoghi sacri per le proprie nozze ci si recavano; quando passammo noi, una sposa stava deponendo dei fiori ai piedi della croce, mentre la famiglia fotografava la coppia. Alla leggenda diffusasi successivamente, secondo la quale erano stati i tedeschi a compiere il massacro, avevano contribuito del resto i commissari di Stalin, distribuendo cartucce di fabbricazione tedesca per le esecuzioni di massa. Oxana me ne mostrò una. Aveva riportato sopra il nome della fabbrica Gerka. Calibro 7,65.

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