Copertina
Autore Gianni Caccia
Titolo La Vallemme dentro
EdizioneJoker, Novi Ligure, 2000, L'Arcobaleno , pag. 84, dim. 150x210x80 mm
PrefazioneAlberto Cappi
LettorePiergiorgio Siena, 2003
Classe narrativa italiana
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Indice

Civiltà della parola
di Alberto Cappi                     5

PARTE I

I RICORDI DEL VECCHIO VALLEMMANO    11
IL DIAVOLO NELLA VALLEMME           26
LA VALLEMME DENTRO                  29
BRANI DI UNA PARTITA                36
FUORI DA SÉ                         55
LE LUMACHE                          58
LA PIENA                            62

PARTE II

IL TESTAMENTO                       67
L'USCITA                            69
UNO SQUARCIO NEL CIELO              74
UOMINI DELLE RADURE                 77


 

 

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Pagina 11

I RICORDI DEL VECCHIO VALLEMMANO



La coperta di nebbia che si dipingeva agli occhi straniti di Francesco era germogliata dalla terra stessa. La strada di ghiaia che scendeva al ponte spariva dopo la svolta nella palude impalpabile, da dove tronchi brulli di umidore protendevano braccia rinsecchite come a chiedere aiuto e non affondare del tutto nel soffice piano di letargo. Il senso di essere levato da terra investì il giovane nei pochi passi che lo separavano dall’auto: lui sopra, sul poggio verde mangiato dal fango che dominava il corso invisibile, e là sotto la nebbia che aveva inghiottito la strada e il ponte e la sua acqua nell’incanto novembrino, il solito e sempre diverso, come solita e sempre diversa è la Vallemme. Poi lo schiaffo del motore rovinò in quel sonno a riavvolgere la marcia, persino la nebbia, fitta e sicura a mirarla dal poggio e ora si disfaceva di fronte all’auto per ricomporsi poco più in là.

Ma era qualcosa di nuovo in quel mattino: la valle fermata nell’abbraccio di un nulla, al cenno di quell’autunno maturo, Francesco l’aveva subito colto nel cricchiare sommesso della ghiaia ai primi passi fuori di casa, in cortile. Gli dava sempre un effetto inatteso una festa a mezzo della settimana; era un bicchiere troppo rapido e non aveva il tempo di berlo per intero, ma almeno spezzava la frenesia delle date e apriva una pausa. Un vuoto così dissimile dalla vacanza d’uso, e se non era per qualche lontano scampanio che forava la scialba coltre di stagione, l’avresti detta una delle tante mattine sonnacchiose della Vallemmne, dove nei giorni di cenere, o quando un sole di gelo posa i suoi raggi tentennanti sulle pietre spoglie e incinte d’acqua, la vita ricalca la meditata inerzia del fiume; una goccia di avara saggezza ben compresa dalla carpa che con accidia gironzola sul fondo della sua pozza, cercando il ristoro della melma.

Sbucare con il muso dell’auto sullo stradone fu come evadere; la striscia d’asfalto con chiazze di bagnato era una parte a sé nella valle, neanche la nebbia la voleva. E non era come passare dai ciottoli terrosi giù dalla Castagneta all’asfalto del ponte, che rifatto dopo la piena aveva sortito la sua fetta di modernità, mentre non ne erano state tocche la stradaccia tutta pietre verso la cascina e le altre, compagne al corso del Lemme, che confluivano al suo imbocco. L’ultìma parte, la più dolce, della discesa era già nebbia, così che la fine dei sobbalzi mutò di poco nella matassa grigia che si scioglieva sotto i fari e rinasceva subito dietro di lui, immemore del suo passaggio. Anche lo stradone appariva deserto in quel mattino, partecipe del silenzio che era planato sulla valle con la pazienza dell’acqua viva sotto la crosta del ghiaccio, approfittando di quella feria per prendersi la sua rivincita. Aveva arrestato l’auto sul ciglio benché non vi fosse bisogno, e subito il gesto dell’abitudine fu sopraffatto dall’aspetto della provinciale, che non dava segno di vita fin dove la nebbia accorciava lo sguardo e tornava a trionfare, anche sull’asfalto.

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Pagina 29

LA VALLEMME DENTRO



Sono tornato. Lo attestano gli alberi spogli dal fiume, tra sassi e nebbia, lo canta qualche verso animale lontano, lo ripete il gomitolo grigio dell’aria sui vetri appannati, che sono qui. E ancora un poco di strada straniera, ma in breve, se non mi sfugge la memoria, mi accoglierà il suo margine disadorno e freddo e in quel punto sarà Vallemme, di nuovo Vallemme. Tutto ha termine in questo margine, e non è solo aver trovato il mio ritorno, o almeno non l’ho trovato veramente, in fondo; qui era la mira dell’errare per autostrade e tunnel, lungo alpi e laghi. Qui aderivo con le dita naufraghe rapprese sul volante: all’albero spolpato dell’autunno dove vedevo rifiorire umori di nebbia, al greto di ossi per cui saltellavo indagando gli umili arbusti, alla melma che nella calura terrosa diceva il trascorrere di poca vita verdastra.

Ecco il paese. Il quadrivio con la sua cappelletta, il rettifilo che lo sega e quasi non so di esserci, come non sapevo della valle, di trapassarla e viverla intanto. Il paese sembra la strada e pure c’è, le poche case abbrancate al castello o diluite nel piano davanti al fiume mi scappano, ma le rifaccio tutte mie ora, appena depongo l’auto e le cerco, una per una, nei loro anfratti. Il paese scivola sotto le mani, cavedano come la valle: anche lei non si è fatta prendere quando volevo, anche lei mi indicava la strada e il passaggio, intentata. Così l’ho dovuto stanare lentamente, e allora mi ha rivelato l’acqua che mugugnava parca ai miei piedi, il fastidio di uccelli disturbati che si rintanavano nel silenzio della sterpaglia; bisognava che la scoprissi tutta intera prima di andare, prima di cedere alla strada dove alludevano le case che avevo creduto troppo poche, toccarla pezzo per pezzo e portarne con me anche nella città dal cielo spiovente, la città delle fontane gioiello incastonate alle vie e alle piazze del centro. Il paese muore subito nel fiume, alcune case fuori del bordo ed è già la breve striscia del piano e oltre il piano è ghiaia e Lemme, vigile nell’ombra sulla presenza umana mai accolta a pieno. Si muove attento, esplora con la calma sua propria il tempo propizio, il tempo tanto sperato, quando evaderà dai sassi e tutto ridiventerà suo.

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Pagina 62

LA PIENA



Faceva un nero da inorridire tutta la pelle; il temporale era cessato, e da lontano, oltre la collina di fronte, giungevano gli ultimi rimasugli di tuono, un brontolo rancoroso di gatto immusonito che non rassicurava. Cadeva ancora una pioggerellina fitta e collosa, il cielo in frantumi, sminuzzato in miriadi di puntini maligni, aveva urlato il suo livore alla valle e ora s'era fin troppo acchetato,in attesa. Ma non per questo dava spavento a Bianchino, uso com'era al Lemme che ogni tanto pativa uno scarto, un’impennata furiosa prima di riaddormentarsi sazio, perché anche quei capricci entravano nella sua norma. In piedi sul limitare del costone di roccia a strapiombo, considerava il corso rigonfio fattosì cielo, il cielo che si era sposato alla valle ricoprendola tutta delle sue goccerelline incessanti, nella tranquillità di chi conosce bene quel che ha da venire, l’ha conosciuto fin dal principio come la cosa più ineluttabile cui non c’è modo di far forza.

- Eh, si sta proprìo per arrabbiare di grosso il Lemme, - disse al cane spelato che si aggirava tra le sue gambe, come in cerca di un riparo. - Ma noi siamo al sicuro qui, ora.

Il cane sembrò riconfortato, rispose un guaiolare placido e gli si rannicchiò ai piedi; le due o tre capre si tenevano indietro, non azzardavano la misera erba raggrinzita che chiazzava la roccia, dov'essa rovinava nell’acqua.

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