Autore Federico Caffè
Titolo Parla Federico Caffè
SottotitoloDialogo immaginario sulla "società in cui viviamo"
EdizioneArmando, Roma, 2014, I maestri del liberalismo , pag. 304, ill., cop.fle., dim. 13,5x21,4x2 cm , Isbn 978-88-6677-785-4
CuratoreGiuseppe Amari
PrefazioneGiuseppe De Lucia Lumeno, Nicola Acocella, Giovanna Leone, Stefano Zamagni
LettoreRiccardo Terzi, 2014
Classe economia , economia politica , lavoro , paesi: Italia: 1960












 

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Indice


Presentazione                                                   11
GIUSEPPE DE LUCIA LUMENO

Premessa del curatore                                           15

Introduzione                                                    17
NICOLA ACOCELLA


Parla Federico Caffè: un dialogo immaginario                    25

1.  Le lezioni della storia                                     27

2.  I limiti del mercato                                        49
    2.1. Concorrenza perfetta e concorrenza oligopolistica      49
    2.2. La strategia dell'allarmismo economico                 54
    2.3. Economie e diseconomie esterne                         57
    2.4. La Teoria Generale di Keynes                           61

3.  Il lavoro e lo sviluppo civile                              67
    3.1. Decrescita o sviluppo?                                 67
    3.2. Democrazia e programmazione economica                  69
    3.3. La piena occupazione                                   72
    3.4. Il costo umano dello sviluppo                          77

4.  Il rifiuto dello scambio (trade-off) tra efficienza
    ed equità                                                   83
    4.1. L'"Economia del benessere"                             85
    4.2. La "Funzione del benessere sociale"                    91

5.  La "società economica nella quale viviamo"                  95
    5.1. P.A. Baran e P.M. Sweezy                               96
    5.2. J.K. Galbraith                                         98
    5.3. Claus Offe e James O'Connor                           101
    5.4. Hyman Minsky e Lawrence Klein                         108
    5.5. Pluralità delle istituzioni economiche e sociali      117

6.  Economia di mercato e socializzazione delle sovrastrutture
    finanziarie                                                121
    6.1. Un caso da manuale                                    122
    6.2. L'inquinamento finanziario                            124
    6.3. Teoria e realtà                                       126

7.  Problemi economici internazionali                          139
    7.1. La deriva autoritaria del FMI                         139
    7.2. Commercio internazionale e governance mondiale        144
    7.3. I problemi del sottosviluppo                          147
    7.4. L'Europa e l'Italia                                   150
    7.5. La guerra non paga i dividendi                        152

8.  La conoscenza tra la "venatio" e l'impegno sociale         155
    8.1. Il consigliere del principe e quello del cittadino    168
    8.2. Coltivare l'umanità                                   169
    8.3. Il rifiuto del mito della società tecnologica e della
         cultura come "venatio", ma come impegno sociale       178

9.  L'economia tra autocritica e il necessario "eclettismo"    181

10. Il ruolo della politica economica                          191

11. Economia e ideologia                                       197

12. In difesa del welfare state                                207


Avvertenza del curatore                                        217

Postfazione                                                    219
STEFANO ZAMAGNI

Appendice: L'insegnamento di Federico Caffè                    225

Generare o produrre? Un ricordo personale dell'attività
universitaria di Federico Caffè                                227
GIOVANNA LEONE

Lezione inedita di Federico Caffè, a conclusione
di un suo corso di Politica economica                          243

Nota biografica                                                259
a cura di G.A.

Bibliografia di e su Federico Caffè                            267
a cura di G.A.

Indice dei nomi                                                299


 

 

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Pagina 9


        I difetti principali della società economica nella quale viviamo sono
        l'incapacità a provvedere un'occupazione piena e la distribuzione
        arbitraria ed iniqua del reddito e della ricchezza.
                                                                     J.M. Keynes

        * * *

        I nostri leaders repubblicani ci parlano di leggi economiche sacre,
        inviolabili, immutabili che causano situazioni di panico che nessuno può
        prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne
        muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi
        economiche non sono state fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri
        umani.
                                                           Franklin D. Roosevelt

        * * *

        Le crisi finanziarie non sono dovute tanto alla "mancanza di regole", ma
        al raggiungimento di obiettivi di rapina coscientemente perseguiti da
        determinati gruppi sociali [...]. Il mercato è tanto onesto nel
        riflettere le decisioni dei singoli quanto può esserlo una votazione in
        cui alcuni elettori abbiano una sola scheda e altri ne abbiamo più
        d'una. La forza contaminante del denaro e del potere non crea meramente
        problemi di imperfezioni del mercato, ma ne influenza l'intero
        funzionamento. Poiché il mercato è una creazione umana, l'intervento
        pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé
        vessatorio e distorsivo.
                                                                  Federico Caffè

        * * *

        Molti anni addietro invitai a diffidare del "dottrinarismo utopistico"
        di chi, dimenticando appunto l'indirizzo gradualistico dei padri
        fondatori, propone di far procedere l'integrazione comunitaria per la
        via dei meccanismi monetari. Quale che sia il virtuosismo tecnico dei
        sostenitori di indirizzi del genere, sorprende e preoccupa l'immaturità
        epistemologica, in quanto dovrebbe essere di per sé evidente che il
        discorso dell'unificazione monetaria non può essere una premessa, ma una
        conclusione. Come l'upupa di Minerva, che compare al crepuscolo,
        l'unificazione monetaria presuppone una dura giornata di lavoro in altri
        campi, che non può essere né evitata, né scavalcata.
                                                                  Federico Caffè

        * * *

        Io penso che il modo concreto di tenere alte le aspirazioni e il bisogno
        di cambiamento non è quello di un "nuovo modello di sviluppo", ma di
        riprendere il cammino avviato con la stesura della nostra Costituzione
        che, come è stato spesso ricordato, sancisce che è compito della
        Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che
        limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini.
                                                                  Federico Caffè

        * * *

        Abbiamo una lunga tradizione nel liberalizzare, smantellare, e oggi si
        vorrebbe, per forza imitativa deregolarizzare. Dobbiamo invece
        apprendere a organizzare e a coordinare con chiari e ben definiti
        obiettivi per il bene comune delle persone, delle famiglie e della
        società nel suo complesso. Questa è la programmazione di cui abbiamo
        bisogno, la programmazione per le persone comuni.
                                                                  Federico Caffè

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PREMESSA DEL CURATORE



Non è stato facile convincere il prof. Federico Caffè a concedere questa lunga "intervista". Nel tentativo di scoraggiarmi, e con la consueta modestia, ricorda che è da molto tempo che non segue più gli avvenimenti economici. D'altronde, già negli ultimi anni di attività, in una intervista, aveva detto:

"Insomma, allo stato attuale delle cose, rifugiarsi nella più eburnea delle torri d'avorio appare preferibile all'occuparsi dei problemi correnti della politica economica del nostro paese. Dall'alto di questa torre, con la pazienza degli eremiti che rendevano testimonianza mettendosi, appunto, in cima ad alte colonne, attenderò che ci si decida se l'opposizione debba essere 'ferma' o 'flessibile'; che si faccia una scelta chiara tra 'egualitarismo' e 'professionalità' [...]".

Ma più che una torre, si trattava di un vecchio faro, scelto, forse, su una suggestione di quanto scrisse Carlo Bo a proposito di Eugenio Montale, un autore molto caro a Caffè.

"Scelse allora il mestiere dell'uomo del faro, del custode del porto, di chi studia i venti e le correnti e che fa di quest'arte del tempo uno straordinario argomento a protezione della spinta interiore che in tal modo voleva proteggere".

Ma alla fine riuscii a vincere le sue resistenze. Ricordando che, tra i "punti fermi" del suo insegnamento, vi era quanto lui stesso ebbe a dire per l'Einaudi:

"Egli, ci aiuta a porre il problema in termini chiari e coerenti, ci avverte che le libertà sono solidali, ma affida le scelte ultime alla nostra responsabilità, poiché la sua concezione è per essenza inconciliabile con ogni abdicazione allo spirito di personale responsabilità". E ancora, "[...] La lezione durevole che egli ci trasmette, nel considerare il problema economico come 'un aspetto e una conseguenza di un ampio problema spirituale e morale', non ha niente in comune con la fragile e meccanicistica logica di andamenti esponenziali nei quali si vorrebbe racchiudere il cammino dell'universo".

Così dall'alto e nel silenzio di quel faro, da cui si poteva assistere a un recente e ed esteso naufragio, l'intervista poté incominciare. La sua tradizionale prudenza mi ha imposto di premettere che i suoi giudizi sono costruiti sulle esperienze ed osservazioni da lui fatte durante il periodo della sua attività piena di studioso, e che affida quindi alla sagacia del lettore il compito di aggiornarli, integrarli e valutarne l'utilità per i problemi dei nostri giorni. Per una più esaustiva illustrazione del Suo pensiero, Caffè mi ha rinviato spesso ad altre interviste, ma soprattutto ai suoi molti saggi ed articoli, oltre che alle sue nitide Lezioni di Politica economica.

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Continuare sulla strada concretamente imboccata non mi sembrava assolutamente auspicabile. Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggevano. Ma ciò grazie al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio imponeva senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l'unica scelta possibile. Questa è, però, la strada testardamente perseguita da decenni. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberalizzazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare queste condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e controllato. Un noto economista come la Robinson ha scritto che, se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell'economia di guerra, il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?


Economia di guerra per scopi non di guerra. Quali sono gli obiettivi prioritari?

Il problema principale resta quello dell'occupazione. Ma a questo si aggiungono i problemi della precarietà, delle drammatiche condizione di lavoro e sfruttamento di italiani e immigrati come documentano laconicamente le statistiche sui morti sul lavoro, della devastazione ambientale e umana. L'aumento dell'occupazione non può essere affidato all'espansione delle esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori del nostro controllo. Θ necessario rilanciare l'edilizia e fare una politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue componenti non assistenziali. C'è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci. Si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di salari e stipendi. Ma alcune riforme, fra le più importanti, richiedono un aumento dell'occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata, è il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo.

Insomma, a distanza di molti anni dalla firma della Carta costituzionale, si può chiedere ai responsabili della politica economica che, nelle loro scelte quotidiane, ricordino più speso (in verità imparino a ricordare) che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini?".


Quali sono gli strumenti che ritiene più adeguati a questi fini?

Per esempio il circuito dei capitali. Noi abbiamo fatto qualcosa del genere quando abbiamo bloccato la scala mobile, che corrisponde all'imposizione ai lavoratori di un prestito forzoso. Ma lo facciamo poco e male, colpendo alcuni e non altri. Trascuriamo, poi, lo strumento fondamentale, che è rappresentato da una politica di estesi razionamenti che potrebbero riguardare la produzione e consumo di beni e servizi di scarso significato sociale quando non direttamente dannosi. La mia preoccupazione è che si continui sulla strada del liberismo economico, aggravando progressivamente la situazione del paese. Se si vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un esercizio retorico e purché l'austerità sia concretamente finalizzata all'aumento dell'occupazione ed al raggiungimento di una vita migliore per le persone comuni, le famiglie, i lavoratori, i pensionati, ecc. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di venticinque anni che appassiscono nell'inattività. Non è escluso che tutto questo si traduca in un aumento dei suicidi o in forme di aggressività verso gli altri. Occorrono misure immediate per aumentare l'occupazione, accompagnate dagli altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. Dire che tutto si risolve esportando di più, praticando l'austerità e restituendo efficienza al sistema è una colossale mistificazione.

[...]

Una politica del genere, quali equilibri politici richiede?

Non mi sento completamente in grado di rispondere a questa domanda. Il mio compito di intellettuale, così come io l'intendo, è quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile. Sul resto mi è difficile addentrarmi. Posso dire solo questo. Che, dopo un periodo di restaurazione sociale e di riassetto dell'economia, la sinistra venga ricacciata all'opposizione mi sembra un'ipotesi da prendere sempre in seria considerazione. Vi è, tuttavia, un'ipotesi che mi preoccupa ancora di più: quella di una sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche. Vorrei aggiungere che, se per miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo, della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese. La mia idea della "convergenza" e della "coesione sociale" in Europa non coincide con quella trasmessa dai trattati europei e strumentalmente utilizzata dai governi nazionali. Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell'economia, senza l'introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Mettersi su questa strada, è stato per la seconda volta un tradimento degli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l'ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.

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2. I LIMITI DEL MERCATO



2.1. Concorrenza perfetta e concorrenza oligopolistica


Dalle Sue considerazioni, mi sembra emerga un notevole scetticismo circa l'autonoma capacità del mercato nel raggiungere soddisfacenti equilibri economici e sociali. Ce lo vuole argomentare meglio?

Contrariamente a quanto si vuol far credere, le decisioni economiche rilevanti non sono il risultato dell'azione non concordata delle innumerevoli unità economiche operanti sul mercato, ma del consapevole operato di ristretti gruppi strategici in grado di limitare l'offerta ed influire sulla domanda, orientandola a loro piacimento. Le crisi finanziarie non sono dovute, tanto, alla "mancanza di regole", ma al raggiungimento di obiettivi di rapina coscientemente perseguiti da determinati gruppi sociali. Come ho scritto altrove, il mercato è tanto onesto nel riflettere le decisioni dei singoli quanto può esserlo una votazione in cui alcuni elettori abbiano una sola scheda ed altri ne abbiano più d'una. La forza contaminante del denaro e del potere non crea meramente problemi di imperfezioni del mercato, ma ne influenza l'intero funzionamento. Poiché il mercato è una creazione umana l'intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio.

[...]

Alla base di tanta acritica fiducia nel mercato di "concorrenza perfetta", c'è una riconosciuta funzione del prezzo come preteso indicatore oggettivo di valore e quindi come valido segnale per le scelte di consumo e "ottimo" allocatore delle risorse produttive.

Lo schema della concorrenza perfetta costituisce, un modello semplificato che è ben lontano dalla realtà concreta. Θ sufficiente ricordare, dagli insegnamenti istituzionali, le condizioni che devono sussistere perché si abbia concorrenza perfetta: molteplicità degli operatori, dal lato della domanda e dell'offerta, con conseguenti impossibilità, da parte di ciascuno di essi, di influire sul prezzo; uniformità dei prodotti, ossia mancanza di differenziazioni artificiose o reclamizzate delle loro caratteristiche; libertà di "entrata" nel mercato; assenza di "intese", o "accordi" tra gli operatori economici. In condizioni del genere, il prezzo "dettato" dal mercato assume il carattere di "informatore" da tutti comprensibile e il cui messaggio, a seconda dei casi, tende a frenare o a stimolare le domande dei consumatori o le offerte dei produttori.

Ma, sin dall'inizio, gli stessi studiosi che hanno elaborato in termini sempre più rigorosi le caratteristiche di una situazione di pura concorrenza, facendola coincidere con la piena affermazione della "sovranità del consumatore", non si illudevano affatto che il loro schema fosse una rappresentazione realistica del concreto operare del mercato. Viene ricordata di frequente un'affermazione di Adam Smith , secondo il quale "difficilmente accade che gli uomini di uno stesso mestiere si trovino insieme, anche semplicemente per un festeggiamento o uno svago, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro il pubblico, o in una qualche invenzione per innalzare i loro prezzi".

Da buon esponente di un paese particolarmente dedito ai traffici mercantili, Adam Smith conosceva bene che l'aspirazione naturale degli uomini era di avvicinarsi, nella misura del possibile, al monopolio: situazione, questa, in cui l'offerta è accentrata presso un unico produttore, che ha pertanto un'influenza determinante sul prezzo (anche se il consumatore può generalmente reagire, limitando o spostando la sua domanda).

L'istanza di un intervento dei pubblici poteri rivolto alla "tutela della concorrenza" e al controllo del "monopolio", è quindi coeva al sorgere stesso della scienza economica.

In definitiva, sul piano internazionale, non meno che su quello interno, la forma di mercato prevalente è quella dell'oligopolio. Dove un numero ristretto di potenti imprese pratica una qualche forma di concorrenza nel suo ambito, con l'avvertenza peraltro che l'azione di ciascuna esercita una rilevante influenza sulla posizione delle altre tutte, e ciascuna non si limita ad adattarsi passivamente ad una situazione di mercato data, ma tende a modificare attivamente quella situazione.

Non a caso è stato scritto: "Se si deve far uso di analogie [in merito al mercato oligopolistico] sarà conveniente trarle da quei campi in cui gli autori si occupano di mosse e contromosse, di lotta per il potere e la posizione: in breve, opere che trattano degli aspetti generali della politica, della strategia militare e della tattica".

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Θ il messaggio di una 'civiltà possibile' e non di un mero efficiente neocapitalismo, che emerge dalla 'visione keynesiana', con la sua preoccupazione appassionata per i mali del mondo e la sua pressante sollecitazione a darsi da fare per porvi rimedio. Tra chi ritiene che i mali del mondo (capitalistico) siano incurabili e chi ritiene che si curino da soli 'per l'intrinseca stabilità del settore privato', non mancheranno mai, nel tempo, coloro che condivideranno questa 'preoccupazione appassionata' e l'impegno che essa comporta, di ricercare, tenendo conto delle lezioni del passato, le soluzioni più rispondenti ai problemi che via via si presentano nella realtà storica.


Questa 'fallacia compositiva" spiega bene come l'analisi della complessa realtà non possa fare a meno del concorso di più discipline sociali, e richieda discontinuità epistemologiche quando si passa dall'analisi del comportamento individuale a quello dei gruppi se non dell'intera società. Ed è anche alla base del fallimento della cosiddetta 'fondazione microeconomica della macroeconomica". Se mai, si potrebbe sostenere il contrario. Su un piano diverso, acutamente, Massimo Mila, il musicologo che Lei ben conosce, aveva sostenuto: "che l'individuo si apra al maggior numero possibile di esperienze, è tanta manna per l'individuo stesso. Ma bisogna che tutto passi là, nella cruna dell'individuo, che il macrocosmo si contenga d'avvero in quel microcosmo". Ma su questo penso che ritorneremo.

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3. IL LAVORO E LO SVILUPPO CIVILE



3.1. Decrescita o sviluppo?


Dopo le tesi già avanzate a suo tempo da J. Stuart Mill in merito allo "stato stazionario", si discute oggi di nuovo se sia desiderabile un elevato tasso di sviluppo economico.

In tali dibattiti, in realtà, concorrono diversi indirizzi intellettuali. Vi è, in primo luogo, quello esemplificato dal volume di E. J. Mishan, Il costo dello sviluppo economico che insiste soprattutto sulle diseconomie esterne provocate, appunto, dai processi di crescente industrializzazione, urbanizzazione e congestione.

Vi è, tuttavia, nei dibattiti in esame una componente più ambiziosa. Essa, considerando le conseguenze di una crescita di tipo esponenziale per un sistema economico finito, ritiene di individuare limiti non troppo remoti nella disponibilità mondiale delle principali risorse economiche e ne trae pressanti implicazioni per il rallentamento controllato dello sviluppo economico mondiale.

Questo secondo indirizzo di pensiero ha provocato notevoli reazioni, proprio con riguardo alle previsioni che si è creduto di avanzare circa la disponibilità futura delle principali risorse economiche. Tenendo conto della "matematica della crescita esponenziale" e sulla base delle riserve conosciute delle principali risorse e della prevedibile loro domanda, si può agevolmente effettuare il computo del loro "fatale" esaurimento. Nondimeno la fragilità di calcoli del genere può essere al pari agevolmente accertata sul piano dei precedenti storici. Non soltanto le riserve conosciute delle principali materie prime (fonti di energia incluse) non corrispondono in alcun modo a quelle potenziali, di cui non risulta conveniente occuparsi sin quando le disponibilità siano adeguate alle richieste prevedibili in un ragionevole orizzonte temporale. Ma trascurare le capacità di adattamento dei sistemi economici, le possibilità di sostituzione, gli apporti della tecnologia, significa effettuare calcoli di banale estrapolazione e non di razionale valutazione economica.

Assenza di sensibilità storica si manifesta anche allorché, nell'esame del rapporto tra incremento della popolazione ed accrescimento delle risorse alimentari, si ripropongono, in sostanza, le prospettive che Malthus fu in grado di fare centocinquant'anni fa e senza l'ausilio di calcolatori elettronici. Le possibilità di grossi errori nelle proiezioni demografiche è un fatto risaputo. Ma, ammesso che un problema di sovrappopolazione esista sin d'ora e nel prevedibile futuro, non è precisamente questo fatto che deve indurre a mantenere, e non a rallentare deliberatamente, il ritmo dello sviluppo economico?

Ci sembra, conclusivamente, di dover condividere il punto di vista di Beckerman , secondo il quale: "il movimento ostile allo sviluppo economico, malgrado il fervore moralistico che ostenta, costituisce di fatto la reazione della sezione più ricca della comunità mondiale, che considera l'ulteriore sviluppo economico come pregiudizievole ai propri privilegi e teme, spesso erroneamente, che quegli aspetti della qualità della vita ai quali essa può permettersi di attribuire un valore elevato, possano essere sacrificati dall'accresciuta produzione di beni che sono tuttora fondamentali, per garantire un tenore di vita decente ai componenti più poveri della società progredite e ai disperatamente poveri che costituiscono la maggioranza della popolazione mondiale".

In definitiva, se appare infondata la critica allo sviluppo come obiettivo desiderabile di politica economica (ed è bastato un generalizzato rallentamento del ritmo di sviluppo mondiale per mettere in evidenza l'aggravamento dei conflitti sociali che ne consegue), i dibattiti ai quali si è fatto accenno sono serviti, sia pure in modo indiretto a dare nuova attualità a studi sinora largamente trascurati sull'analisi economica delle risorse esauribili. Inoltre, la critica sia pure infondata allo sviluppo è valsa a renderci maggiormente consapevoli che esso, da solo, non basta a risolvere i problemi dei "disperatamente poveri", la cui sopravvivenza ha sinora suscitato appelli emotivi più che azioni programmatiche realmente efficaci.

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Θ con vero smarrimento intellettuale che, in uno scritto di Hayek , si legge che "la causa della disoccupazione [...] risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile". Vien fatto di replicare, con Keynes , che gli economisti sarebbero del tutto inutili, se si limitassero a dire che, quando la tempesta sarà placata, le onde saranno tranquille.

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Ho l'impressione che, per quanto concerne l'assenteismo, si sia ancora ben lontani da una valutazione non sezionale del fenomeno. Può contribuirvi la difficoltà di dare un'espressione quantitativa a fattori di logoramento fisico e intellettuale, che sono nondimeno reali e operanti. Non è osservazione recente, né dovuta a uno stravagante eversore, bensì a un distinto e coscienzioso economista [W. Kapp], la constatazione che se, al posto di ventimila operai, vi fossero ventimila capi di bestiame, esposti a morte sicura dovuta a una malattia epidemica e ricorrente, si determinerebbe un incentivo agevolmente calcolabile ad adottare le necessarie misure preventive. Per il fatto di non costituire un valore in linea capitale il fattore umano della produzione viene invece a trovarsi, in una economia di mercato, in condizioni meno favorevoli dei mezzi non umani del processo produttivo.

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4. IL RIFIUTO DELLO SCAMBIO
(TRADE-OFF) TRA EFFICIENZA ED EQUITΐ



Professor Caffè, dopo l'"incapacità ad assicurare la piena occupazione", passiamo dunque all'altro 'fallimento" che Keynes addebita alla "società economica nella quale viviamo", come lo stesso preferiva riferirsi al capitalismo, evitando difficili tassonomie di un sistema così mutevole e sfuggente. Mi riferisco alla "arbitraria ed iniqua distribuzione dei redditi e della ricchezza".

Sin dall'immediato dopoguerra scrivevo che, con una monotonia che fa offesa al buon senso, il dibattito italiano è stato da sempre orientato a discutere dei problemi della produzione ogniqualvolta si è cercato di introdurre considerazioni di equità e giustizia sociale. Come avanzare pur rispettabilissime pretese in fatto di distribuzione, si dice, se prima non si pensa a produrre quanto più si può e come meglio si può? Che cosa si può dividere più o meno equamente, se prima non si accresce la quota da ripartire? Si vuol forse (potenza delle frasi ad effetto) collettivizzare la miseria? Quella di rendere la "torta" quanto più ampia possibile non è forse la via migliore per accrescere la fetta che spetta a ciascuno? Tali affermazioni che ognuno di noi ricorda di aver lette e ascoltate e che non mancano di suscitare un notevole consenso, devono la loro diffusione più a una forma di inerzia mentale che a una loro reale forza persuasiva.

In sostanza, esse riflettono una concezione secondo la quale produzione e distribuzione sono due fenomeni non solo distinti, ma tra i quali è inevitabile ammettere un "prima" e un "dopo". L'immagine irresistibile della "torta" alla quale tanto spesso si fa ricorso, vuol esprimere appunto con immediatezza questo rapporto di subordinazione temporale e funzionale del distribuire rispetto al produrre. Pure, questa stessa priorità della produzione non trova convalida né nella teoria, né nel buon senso. Non è qui il caso di fare un richiamo teorico; basta ricordare che come d'altronde è nelle ipotesi di una attività produttiva che si svolga in regime di libera competizione — non esiste un problema del produrre diverso da quello del distribuire. E ciò perché lo strumento della produttività marginale, a cui molti fanno riferimento, al tempo stesso che misura e regola l'uso dei vari fattori in vista della combinazione più razionale, determina altresì per ognuno di essi la retribuzione rispettiva, il cumulo delle quali assorbe l'intero prodotto, senza residui. In caso, naturalmente, della presupposta concorrenza perfetta che, sappiamo, non esiste in realtà.

La frattura fra produzione e retribuzione si determina quando si è costretti a riconoscere che quest'ultima, attuata in base al principio suddetto, non è affatto socialmente "giusta" e obiettiva come sembrerebbe a prima vista. E a questo punto che si tira in ballo la distinzione fra il produrre come fatto tecnico ed il distribuire come fatto sociale, fra l'affermata appartenenza del primo all'ordine dei fatti economici e del secondo all'ordine dei rapporti morali, con la finale conclusione della priorità del fenomeno della produzione, senza del quale — si dice — nulla si potrebbe distribuire. Quanto alle esigenze sociali di una "equa" distribuzione, vi si provvederebbe in un "secondo tempo", attraverso strumenti distributivi fiscali, assicurativi, assistenziali.


La ben nota "politica dei due tempi"!

Ora l'equivoco è tutto qui: non esiste un problema di distribuzione che non sia al tempo stesso problema di "equa" distribuzione. La corrispondenza del riparto a ciò che la coscienza sociale considera come "equo" non può rinviarsi ad un "secondo momento", mediante l'attuazione di processi redistributivi, ma deve essere garantita all'atto stesso in cui si organizza la produzione e nelle forme stesse in cui questa si realizza.

Mantenere su due piani distinti il problema tecnico della produzione e quello sociale dell'"equa" distribuzione, significa praticamente lasciare insoluto questo ultimo, come dimostra il fatto che la libertà dal bisogno, l'attenuazione delle disparità economiche individuali, l'uguaglianza nelle possibilità sono ancora oggi mete da raggiungere, pur essendo aspirazioni antichissime. Mete che non verranno mai raggiunte per il solo fatto che la produzione si accresca e migliori, perché ciò si è già verificato nel passato, senza che quelle esigenze sociali venissero soddisfatte. Se si vogliono percorrere vie nuove, occorre superare tale equivoco.

Preme oggi, e con lo stesso grado di urgenza, preoccuparsi non soltanto dell'aspetto tecnico del come far risorgere una data impresa, ma anche dell'aspetto sociale del come organizzare la sua gestione in modo da secondare certe aspirazioni delle categorie lavoratrici. Per questo non è affatto prematuro o accademico, come spesso si sente dire, parlare di partecipazione degli operai agli utili, anche se utili non ci sono, o di gestione associata delle imprese, anche se non si possono socializzare le macerie.

D'altra parte, con l'adottare formule che suscitino un più diretto e personale interesse dell'operaio alla impresa in cui lavora, possono stimolarsi forze di ripresa atte a superare anche ardue ed a prima vista scoraggianti difficoltà di ordine tecnico. Collocare invece su piani di urgenza diversi i problemi della produzione e quelli della distribuzione, fa perdurare un equivoco illogico, e avvalorare un certo disincantato e giustificato scetticismo da parte dei lavoratori, potrebbe essere dannoso agli stessi fini dello sforzo produttivo, che si vuole quanto più possibile intenso. Rendersene conto, è segno di avvedutezza.

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Pagina 90

Piero Sraffa , anni dopo, fornì una dimostrazione stringente che per ogni particolare distribuzione del reddito tra salari profitti esiste un corrispondente insieme di prezzi relativi. Di conseguenza, non si può dire che un insieme di prezzi sia migliore di un altro, perché sono tutti strumentali alla distribuzione del reddito, l'unica cosa che può diventare migliore o peggiore. Essa non è dominata dal meccanismo dei prezzi, ma è questione di scelta istituzionale e di responsabilità di chi può influire a determinarla.

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Pagina 207

12. IN DIFESA DEL WELFARE STATE



Caro Professore, a conclusione di questo nostro dialogo, vuol provare a riassumerci brevemente le Sue premesse di valore?

L'insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell'espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all'intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica; può dare l'impressione di qualcosa di datato e di una inclinazione al ripetitivo e al predicatorio, per sopportazione più che per convincimento.

Tuttavia, non è improbabile che questi "punti fermi" di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino – in realtà si stiano già ripresentando – sotto aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata da un'etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con una economia "al servizio dell'uomo".

Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che, quando questa mutazione si realizzasse (come tutto sembra indicare) non sarebbero di certo le differenze nelle ispirazioni di fondo a impedirmi di ritenermene appagato. Le condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive di elevarsi sono troppo gravi per poter astenersi dal riconoscimento dovuto a chi si faccia carico dei loro problemi, anche se secondo linee di pensiero che siano diverse da quelle dei principi ispiratori del riformismo laico. Ma questo avrà indubbiamente perduta un'occasione; il che del resto non gli è inconsueto.

Nella misura in cui le considerazioni che precedono abbiano un minimo di validità, la fedeltà ai "punti fermi" risulta in definitiva più affidabile dell'indulgere alle mode.

[...]

Poiché un esempio preciso può essere più illuminante di un discorso generale, mi riferirò a un caso che mi riguarda direttamente. Alcuni anni fa scrissi, in un periodico che ha una larga diffusione nazionale, un articolo documentatamente critico sul funzionamento delle borse. Vi era materia per progetti di legge, per interrogazioni o inchieste parlamentari, o quanto meno per un atteggiamento più consapevole sull'argomento. Nulla di tutto questo avvenne; ed anzi uno dei parlamentari "di sinistra" che figura tra gli esperti in materia economica scrisse un articolo sul Bollettino degli agenti di cambio di Roma per attestare il pieno rispetto, da parte della "sinistra" del funzionamento della borsa valori. Ora, gli agenti di cambio sono una categoria del tutto rispettabile, ma vanno anche essi inclusi in un "blocco storico"?; anche il loro consenso va ricercato con atteggiamenti di felpato moderatismo? Θ sulla base di questa sofferta esperienza che, mentre mi sento pienamente in grado di affrontare la "solitudine del maratoneta", avverto una crescente insofferenza verso lo sterile esercizio di indicare gli errori e le omissioni delle forze di governo, mentre ciò che ritengo più urgente è il compito di effettuare il massimo sforzo di persuasione per far comprendere alle forze di "sinistra" l'assoluta vanità delle loro "reverenze d'uso" nei confronti della saggezza convenzionale.

[...]

Insomma, allo stato delle cose, rifugiarsi nella più eburnea delle torri di avorio, appare preferibile all'occuparsi dei problemi correnti della politica economica del nostro paese.

Dall'alto di questa torre, con la pazienza degli eremiti che rendevano testimonianza mettendosi, appunto, in cima ad alte colonne, attenderò che ci si decida se l'opposizione debba essere "ferma" o "flessibile"; che si faccia una scelta chiara tra "egualitarismo" e la "professionalità"; che si scelga se il contenimento dei consumi debba avvenire utilizzando sempre maggiori restrizioni creditizie, o mediante una politica di diretti controlli selettivi.

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Pagina 217

AVVERTENZA DEL CURATORE



II genere letterario dei dialoghi immaginari presenta problemi di correttezza filologica. Innanzitutto, ogni attualizzazione è comunque una forzatura considerando l'incessante divenire della realtà. Né a questo si sfugge completamente anche qualora si volesse rimanere sul piano più generale e meno contingente. La stessa scelta delle domande e la selezione delle risposte, in un complesso di scritti, normalmente molto vasto - ed è il caso di Caffè – è in un certo modo una "lettura selettiva", esprimendo le preférenze dell'autore sollecitate dall'urgenza dell'attualità. Il "dialogo" individua dunque uno dei possibili percorsi per la conoscenza del Suo pensiero e non vuol certo sostituire, anzi vuole sollecitare una più diretta lettura, agevolata anche dai puntuali riferimenti bibliografici e dall'elenco completo delle sue opere. D'altronde lo stesso Caffè scrisse di Keynes, e vale anche per Lui: "Θ all'intera opera che dovremo rivolgerci, non per trovarvi ricette belle e pronte, ma una fonte di ispirazione, la cui durevole validità consente soprattutto dal preservarci dal ricadere in antichi errori". In ultima analisi, il vero scopo di questo genere letterario è quello di usufruire ancora di un insegnamento. Un altro limite, è quello specifico della disciplina economica. Θ stato autorevolmente affermato (J. R. Hicks) che nulla è più morto che le ricette di altri tempi, ancorché provenienti da prestigiosi economisti, il cui insegnamento è allora da individuare prevalentemente sul piano del metodo nell'affrontare i problemi. E su questo, molti pensano che Caffè abbia ancora molto da insegnare.

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POSTFAZIONE


Stefano Zamagni



Il "dialogo immaginario" con Federico Caffè che Giuseppe Amari, con rara maestria, è riuscito a confezionare è un contributo importante alla ripresa – che mi auguro possa presto consolidarsi – del pensiero critico in economia. Θ un fatto, certo non controvertibile, che da oltre un trentennio il pensiero economico ha cessato di occuparsi di teorie generali. Ad esempio, non si parla più di teoria del valore. La teorizzazione economica, oggi, è solo "locale", il che comporta che ci si soffermi sugli effetti dei fenomeni che accadono, trascurando completamente le cause che li hanno generati. Si veda quel che avviene con la grande crisi economico-finanziaria tuttora in corso: alla dovizia di particolari sulla meccanica della crisi e al florilegio di analisi circa le sue conseguenze non fa riscontro – salvo rarissime eccezioni – un'indagine adeguata sulle cause remote della stessa. Si cerca così di curare, in modo sintomatico, la malattia ma non l'ammalato.

Lo spazio a mia disposizione mi consente solo brevi considerazioni intorno a temi che la lettura di questo testo, intrigante quanto pochi, ha suscitato in me. Un'idea antica nella disciplina, che attraversa le tante scuole di pensiero economico, è quella secondo cui l'economico sarebbe uno spazio di azione separato sia dallo spazio del politico sia da quello del sociale. Dove si manifesta e come si esprime questa idea? Nel convincimento in base al quale le variabili economiche decisive – prezzi, salari, profitti, redditi, quantità scambiate, valori dei beni patrimoniali, e così via – possono bensì fluttuare da un periodo all'altro e possono bensì risentire degli accadimenti che si manifestano nella sfera politica e in quella delle relazioni sociali. Ma, alla lunga, tali variabili tendono comunque al loro standard di riferimento, determinato da quelli che, nel linguaggio corrente, sono denominati i "fondamentali del mercato". Che poi i valori di riferimento siano espressione di quantità di lavoro incorporate nelle merci – come la scuola classica con la nozione di "prezzi naturali" e la scuola marxiana con la nozione di "prezzi di produzione" hanno spiegato – oppure risentano delle condizioni di scarsità delle risorse prevalenti nell'economia – come il pensiero neoclassico ha insegnato – non fa differenza ai fini del significato ultimo della proposizione seguente: prezzi e grandezze di mercato non possono allontanarsi più di tanto, né indefinitamente, dal loro attrattore specifico, quale che esso sia.

Chiaramente, solo una concezione del sistema economico come ambito di relazioni umane separato dal resto della società può conferire senso ad affermazioni come questa. In altro modo, nel momento stesso in cui si parla di market fundamentals si viene ad affermare che il mercato possiede una sua propria dinamica interna che, nel lungo periodo, non viene in alcun modo influenzata né disturbata dalle altre dinamiche, sociali o politiche che siano. Infatti, se così non fosse come si potrebbe parlare di fondamentali di mercato? Oggi sappiamo che le cose non stanno affatto in questi termini: l'indagine sia teorica sia empirica ce ne dà ampia conferma. Basti ricordare i pionieristici contributi di Brian Arthur e di Paul David sulla history dependence dei sistemi economici, la cui dinamica dipende bensì dalle condizioni iniziali, ma anche dal sentiero seguito dall'economia nel corso del tempo. Non solo, ma una valanga di ricerche ha portato alla luce il fenomeno della stocasticità: le deviazioni casuali dal sentiero di equilibrio influiscono sulle tendenze di lungo periodo. Ciò consegue all'entrata in funzione sia degli effetti di lock-in (una volta raggiunto uno stato, risulta difficile modificarlo) sia dei processi symmetry-breaking (pur partendo da condizioni iniziali simmetriche, lo stato finale può esibire caratteristiche di asimmetria). In generale, oggi sappiamo che le norme legali, quelle sociali di comportamento e quelle morali che innervano l'assetto istituzionale di una società influenzano direttamente le variabili economiche. Non solo. Ma conosciamo anche il significato e la portata della tesi della doppia ermeneutica: le teorie economiche sul comportamento umano influenzano quest'ultimo; non lasciano cioè immutato il proprio oggetto di indagine, come avviene nelle scienze naturali.

Ma, allora, perché si continua a ragionare – e a suggerire interventi di policy – come se i fondamentali esistessero realmente, cioè come se esistessero prezzi di lungo periodo determinabili sulla base di grandezze e variabili puramente economiche che, in quanto tali, sono indipendenti da quanto accade nella vita politica e nella società civile? Perché ciò dà sicurezza. Sapere che una certa merce possiede un suo valore intrinseco che, presto o tardi, finirà con l'imporsi, a prescindere da ciò che fanno i governi e dalla articolazione che assume la società civile è rassicurante. E l'economia di mercato ha bisogno, per funzionare, di sicurezza – almeno nella media dei suoi operatori. Θ la nozione stessa di razionalità economica, così come essa viene comunemente definita, a postulare la sicurezza degli agenti economici. Il cuore della dinamica capitalistica è la schumpeteriana "distruzione creatrice", che è all'origine di grandi incertezze. Ma come si sa, la troppa insicurezza scoraggia il dinamismo economico e dunque il progresso.

[...]

Sono noti i prezzi che sono stati pagati sull'altare dell'efficienza (paretaniamente definita) come metro "oggettivo" per misurare e dunque valutare la performance di stati sociali alternativi. Il primo è quello sopra ricordato: la separazione tra mercato e democrazia. Il mercato possiede sue proprie "leggi" di funzionamento e un suo proprio codice di moralità (la c.d. self-creating morality che discende dalla stessa analisi economica); dunque, non sono consentite interferenze di sorta provenienti dalla politica democratica, pena la perdita dell'efficienza. Il secondo prezzo pagato concerne la nefasta separazione tra questioni di efficienza e questioni di equità. Si pensi al celebre trade-off tra i due tipi di questioni di cui ha parlato nel suo saggio del 1975 Arthur Okun.

[...]

Devo chiudere. Queste pagine di Caffè che Amari con ammirevole destrezza è riuscito a mettere insieme, se rilette sullo sfondo delle questioni fondazionali della disciplina, sono un potente stimolo agli economisti a riprendere la strada del pensiero forte. Dopo tutto, quanto è in gioco è la stessa libertà. Ne I fratelli Karamazov, Fedor Dostoevskj mette in bocca al grande inquisitore queste parole: "Si impossessa della libertà degli uomini solo colui che rende tranquille le loro coscienze... Essi diverranno mansueti, guarderanno a noi e a noi si stringeranno nella paura, come i pulcini alla chioccia". Ecco cosa pretendono, in cambio, tutti coloro che vogliono vendere, a basso prezzo, sicurezza e tranquillità: convincere che il pensiero critico è alla fine un lusso, qualcosa che non è affatto necessario. Federico Caffè si è sempre battuto — dandone grande testimonianza — contro questa specifica forma di delega della libertà.

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