Copertina
Autore Mario Calabresi
Titolo Spingendo la notte più in là
SottotitoloStoria della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo
EdizioneMondadori, Milano, 2008 [2007], Strade blu , pag. 134, cop.fle., dim. 15x211,4 cm , Isbn 978-88-04-56842-1
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe biografie , storia criminale , paesi: Italia: 1960
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Indice


VII         Nota per il lettore

  5      I  Il presagio
 13     II  Piazza del Popolo
 21    III  Una fotografia
 31     IV  La Cinquecento blu
 41      V  Scritte
 49     VI  L'intervista
 57    VII  Il naufragio
 63   VIII  Ci dobbiamo salutare
 69     IX  Montecitorio
 79      X  Un pittore di sinistra
 87     XI  Ci riameremo
 95    XII  Occasioni sprecate
101   XIII  Le regole della cucina
111    XIV  Le scuse
125     XV  Respirare

133         Ringraziamenti


 

 

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Pagina 5

I
Il presagio



Non era una giornata «normale» quando venne ucciso, nel senso che non era inaspettata. Da molto tempo nessun giorno era più normale: i presagi peggiori, le paure improvvise, le angosce e perfino i pianti erano diventati compagni di strada dei miei genitori. Nessuno potrebbe più dire da quando. O forse sì, dalla sera in cui mio padre rincasò sconvolto: «Gemma, Pinelli è morto».

E poi, dal momento in cui le prime scritte apparvero sui muri della città, indicandolo come il commissario «assassino». Dalla mattina in cui cominciò quella feroce campagna di stampa, carica di violenza e sarcasmo, fatta di minacce, promesse, sfide e anche vignette. Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano «Lotta Continua» ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico.

Ma sono i particolari, che negli anni ho raccolto e istintivamente catalogato nella memoria, a fare di una giornata qualsiasi una giornata annunciata. Prevista. Quasi attesa.

I miei genitori si preparavano da tempo all'esplosione della tragedia. Certo, lo facevano quasi senza saperlo, sempre con una quota di irrazionalità, ma oggi, a ripercorrere quei momenti, quei loro attimi di lucidità o di disperazione improvvisa, non riesco a respirare, non riesco a capire come abbiano fatto a sopravvivere. Insieme prima. Mia madre da sola, dopo.


Oggi scrivo, ma sono anni, praticamente da sempre, che archivio ricordi, discorsi e confidenze.

Da mia madre. A piccolissime dosi. La sofferenza si riaccende in fretta e permette incursioni brevi, veloci; non si può restare troppo a lungo in quel territorio dei primi anni Settanta, si rischia di farle troppo male, e allora è meglio mettere un freno alla curiosità.

Da mia nonna materna, Maria Tessa Capra. Con lei si può parlare a lungo, ha navigato tutto il Secolo Breve, essendo nata all'alba della Prima guerra mondiale e due anni prima della Rivoluzione russa. Ha visto due guerre, la sua casa bombardata, un marito prigioniero in Germania, è rimasta vedova e ha perso uno dei suoi sette figli, ma non ha mai smesso di combattere. Con lei si può solo parlare a lungo: inutile sedersi sul suo divano o su una sedia della cucina e farle una domanda antica se non si hanno almeno due ore di tempo. Le piace ricordare, ama farlo, anche se ciò può dare dolore. Mi ha insegnato le virtù taumaturgiche e curative della parola e l'importanza della condivisione della memoria.

Dagli amici di mio padre, che negli anni, con cautela, sono andato a interrogare. La cautela è figlia di una mia prudenza, che mi ha sempre spinto a non aprire d'improvviso certe stanze che potevano essere troppo piene per essere affrontabili.

Così, con il passare del tempo, ho messo in fila sei ricordi, sei immagini, che sono simboliche del loro calvario, del loro strazio.


Il nonno. Mio nonno materno, Mario Capra, produceva e commerciava tessuti. Nei giorni più pesanti della campagna di stampa, una domenica, dopo pranzo, prese mio padre da parte e sottovoce gli disse: «Luigi, è tutto ormai troppo pericoloso, lascia la polizia, ho io un posto per te. Lavorerai a Roma, ti lascerai alle spalle questa città e i suoi demoni, ti prometto che guadagnerai anche di più...». Mio padre, così racconta la nonna, lo interruppe, proprio mentre il nonno cercava di conquistarlo ironizzando sugli stipendi statali, e fu laconicamente chiaro: «Grazie, sei molto affettuoso, ma non posso. Non potrei mai. Sarebbe una fuga. Significherebbe scappare. Di più: significherebbe ammettere che sono colpevole. Resterò fino in fondo, guardando tutti negli occhi». Mio nonno quella notte non riuscì a dormire e parlò a lungo nel letto della grande casa di fronte all'ippodromo di San Siro: «Ha scelto il suo destino e non riusciremo a salvarlo».


La posta. Per mia madre tutto fu angosciosamente chiaro quando la casella delle lettere cominciò a essere sempre vuota. D'improvviso non c'era più posta. Il portinaio, interrogato, rispose: «Io continuo a metterla, chieda a suo marito». Lei chiese, e lui negò, disse che c'era semplicemente meno posta, fece qualche battuta che si è persa nel tempo e poi cambiò discorso. Mia madre cominciò a fare attenzione. Una mattina trovò una scusa per uscire per prima, guardò nella buca e vide una lettera con l'indirizzo scritto a pennarello, ma non la prese. La lasciò lì e aspettò. Quando riuscì più tardi, con il passeggino, la casella era vuota. Aspettò sera, gli andò incontro: «C'era posta questa mattina?». Quando lui disse di no, lei capì, e si sentì morire dentro. Erano lettere di insulti, di minacce, lui gliele nascondeva per non aumentare la paura. Negli anni avrebbe scoperto l'amore di quel gesto che forse permise loro di avere ancora un po' di normalità.


L'appunto. Ci sono i racconti degli amici, ripetuti negli anni, delle sue confidenze, delle lettere in cui segnalava la sua paura, dei presentimenti, ma soprattutto c'è un foglietto che mi ha sempre fatto tenerezza, simbolo dell'inadeguatezza delle sue difese, perfino di una certa ingenuità. Era un appunto che trovò mia madre nel suo portafoglio, preso su un angolo di giornale: c'era la targa di un'auto e la scritta «3.11.71. mi pedinano, due giovani a bordo, rilevato targa mia vettura».


Il presagio. Una mattina, in corso Vercelli, esattamente una settimana prima dell'omicidio, mentre teneva con una mano me e con l'altra spingeva la carrozzina con Paolo dentro, mamma si guardò riflessa nella vetrina di una farmacia e pensò: «Sono vedova». Prima tentò di scacciare il pensiero, poi non riuscì a resistere e scoppiò in singhiozzi in mezzo alla strada.


La pistola. Mio padre aveva la pistola d'ordinanza, come naturale. Era una rivoltella piccola. La teneva smontata in un armadio, nascosta tra i golf. Una mattina mia madre, riordinando, non la trovò più. Quando gli chiese spiegazioni, lui le rispose che l'aveva riportata in questura e che lì sarebbe rimasta. Alle sue insistenze, concluse: «Gemma, lasciamo perdere, non la voglio tenere qui e non la voglio portare con me, e poi» questo è un concetto che ripeté anche agli amici che si stupivano per il fatto che non girasse armato «non mi servirebbe a niente: se mi spareranno, lo faranno alle spalle. Non avranno mai il coraggio di colpirmi guardandomi negli occhi. E se anche avessi il tempo di accorgermi, non vorrei mai sparare a qualcuno».


La promessa. Quattro o cinque giorni prima di morire, probabilmente venerdì 12 o sabato 13 maggio 1972, mio padre mi portò a casa dei nonni. Mi avrebbero lasciato lì anche a dormire per uscire a cena quella sera. Mia nonna, sulla porta, prima che lui se ne andasse, raccolse questa richiesta: «Mamma,» la chiamava così da quando aveva preso confidenza, anche se era sua suocera «promettimi che se mi succede qualcosa...». Lei cercò di interromperlo, tentò perfino di mettergli una mano davanti alla bocca, ma lui le disse trafelato: «Ti prego, Maria, promettimi che vi prenderete cura di Gemma e dei bambini». Lei non poté fare altro che annuire, con il magone, mentre lui se ne andava velocemente.


Si potrebbe pensare che questa fosse l'angoscia di una famiglia, sei fotogrammi di un film privato, inaccessibile. Per anni, per capire, mi sono preso la briga di andare a vedere tutta la pellicola e purtroppo ho scoperto che la violenza e il livello della minaccia erano sotto gli occhi di tutti. Ma quasi nessuno sembrò prevedere gli sviluppi tragici di quella campagna d'odio.

La curiosità di capire, di scoprire cosa si diceva e si scriveva di mio padre, esplose quando avevo quattordici anni. In quarta ginnasio cominciai a saltare la scuola per andare a leggere i giornali dell'epoca nell'emeroteca della biblioteca Sormani, a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia. Continuai a farlo per molto tempo, a volte con pause di mesi, almeno fino alla fine della prima liceo. Arrivavo presto la mattina, in anticipo sull'apertura del portone, per essere tra i primi a entrare. Mi fiondavo a fare la richiesta dei microfilm e, per evitare code e attese, spesso mi preparavo il foglietto giallo della domanda in anticipo. Prima affrontai il «Corriere della Sera». Partii dalla strage di piazza Fontana per arrivare al giorno dell'omicidio. Era un lavoro solitario e metodico, che cavava gli occhi, ma che mi rapì. Mi immergevo in un'altra epoca, perdevo il senso del tempo e del presente. Dimenticavo completamente i problemi scolastici, le interrogazioni, il greco, i compagni di classe. Era un'esperienza totalizzante. Alcune volte ero preso da una curiosità da spettatore, distante, come se la vicenda non mi appartenesse, altre invece l'angoscia mi toglieva la saliva, mi tagliava le gambe. Allora mi alzavo, riavvolgevo il microfilm e mi spostavo di poche decine di metri, nella sala cineteca. Un luogo meraviglioso, pieno di fascino, con una collezione di titoli che mi sembrava eccezionale. Sceglievi un film, poi aspettavi alla tua postazione di fronte al video che lo caricassero nel videoregistratore. La consideravo una cosa straordinaria, un servizio pubblico da privilegiati, degno di una grande città all'avanguardia come era Milano. Per restare in tema, o forse prigioniero di quegli anni, chiedevo pellicole degli anni Settanta: Fellini, Truffaut, Kubrick. Sempre da solo, sempre in silenzio. Per tornare al presente, alla fine di ogni mattina, andavo dietro piazza del Duomo, al panificio Luini. I panzerotti con la mozzarella e il pomodoro sono stati per anni la mia ancora di salvezza, l'interruttore per riaccendere la vita. Ne prendevo due e li mangiavo camminando verso il Castello.

Con il tempo passai a guardare i settimanali, «L'espresso» in testa, e solo alla fine affrontai la collezione di «Lotta Continua». Inutile dire che fu una lettura allucinante.

Ancora oggi quando leggo cosa scrivevano, anche contestualizzando ogni cosa, anche di fronte a uno Stato opaco e «nemico», non mi capacito di frasi come questa del 6 giugno 1970: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito». O una pagina come quella uscita il 1° ottobre 1970, una settimana prima dell'inizio del processo per diffamazione contro «Lotta Continua», che presto si trasformò in un processo a mio padre: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell'assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara».

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Pagina 31

IV
La Cinquecento blu



Nella primavera del 1972 avevo poco più di due anni. Normalmente non si hanno ricordi di quell'età, si cancellano, restano forse delle sensazioni, legate a un giro sulle giostre, ai pesci dell'acquario, a una moto, un rimprovero, uno scherzo.

Io ho due ricordi di quei giorni: il primo è di domenica 14 maggio, ed è indefinito, è il ricordo di una sensazione bellissima, ed è l'unica cosa tangibile e reale che ho di mio padre. Il secondo è della mattina di mercoledì 17 maggio, quando lo hanno ucciso: è netto, dettagliato, preciso.

La mia testa di bambino è come se li avesse inscatolati per farli sopravvivere al tempo e alla crescita, ha scavato uno spazio particolare per conservarli intatti. Per molto tempo li ho tenuti solo per me, li tiravo fuori con grande cura, per non rovinarli, al buio, la notte, prima di dormire. Poi li ho condivisi con mia madre, ma ero già al liceo, e solo durante i processi ho parlato apertamente della memoria che avevo del giorno in cui mio padre morì. A un certo punto, però, mi sono accorto che a forza di raccontarlo questo ricordo si stava rovinando, come la pellicola di un film visto troppe volte: l'immagine si logora, si perdono fotogrammi. Allora sono corso ai ripari e l'ho rimesso in archivio per cercare di salvarlo. Ma forse era troppo tardi e oggi per me ha perso una parte di quella forza sconvolgente che ha avuto per più di vent'anni.

L'altro invece resiste e mi ricorda che sono suo figlio.


Spararono a mio padre alle 9.15 mentre apriva la portiera della Cinquecento blu di mia madre. Era appena uscito di casa, dopo vari tentennamenti che lo avevano portato a rientrare per ben due volte, la prima per sistemarsi il ciuffo, la seconda per cambiarsi la cravatta. Era uscito con una cravatta rosa, se la sfilò per metterne una bianca, e a mamma che lo guardava scuotendo la testa e prendendolo in giro rispose: «Preferisco questa perché ha il colore della purezza». Lei richiuse la porta senza dare peso a quelle parole. Stava aspettando una donna, che doveva arrivare da un momento all'altro. Non l'aveva mai vista, ma da quel giorno sarebbe dovuta venire due volte alla settimana per aiutarla in casa: il lavoro era troppo con due bambini e un terzo in arrivo. Si presentò in ritardo, trafelata: «Signora, mi scusi, ma giù in strada c'è il finimondo: hanno sparato a un commissario».

Mia madre, nel libro che ha scritto nel 1990, ha ricordato così quel momento: «Stavamo entrando in cucina, Paolo era nel box, ancora in pigiama, Mario girava attorno con i giocattoli. Mi sedetti. Ero impallidita. Sentii il feto, di tre mesi, fare un balzo dalla pancia allo stomaco. La donna corse a prendere un bicchiere d'acqua: "Signora, si sente male? Che le succede?". "Commissario ha detto? Hanno sparato a un commissario? Ma mio marito è un commissario." Ebbene, quella donna, mai vista prima e che mai più avrei visto, una donna semplice, dimessa, sulla quarantina, quella donna intuì subito la verità. E fu bravissima. "Ma signora, che cosa ha capito? Io sono scesa dal tram in piazzale Baracca. C'era un appostamento, pedinavano dei ricercati e c'è stata una sparatoria. Hanno bloccato il traffico e ho dovuto fare a piedi corso Vercelli. Per questo sono così in ritardo."

«Io dissi: "Ora telefono in questura, a mio marito, per sapere cosa è successo". Feci il numero, chiesi di Gigi. "Un attimo, le passo l'ufficio" disse il centralinista. Dopo un attimo qualcuno rispose. "C'è il dottor Calabresi? Sono la moglie" dissi. Dall'altro capo del filo sentii come una esitazione. Poi, "non è ancora arrivato, signora. Stia tranquilla, appena arriva la faccio chiamare". Sapevano già che era morto. Da quel preciso momento il mio telefono fu muto, l'avevano fatto isolare dalla Sip. Tentai più volte di formare ancora il numero della questura, ma la linea non dava segno di vita».

Mamma, al contrario delle settimane precedenti, segnate da pensieri negativi e premonitori, sembrava quasi voler negare che potesse essere davvero successo. Per sopravvivere si attaccò a flebili spiegazioni e improbabili coincidenze, cercando di fare altro.

Finché suonò il campanello. Andò ad aprire. Era il signor Franco Federico, un sarto amico del nonno, che abitava poco distante. Un uomo che dimostrò grande coraggio, scegliendo, per vera amicizia, uno dei peggiori ruoli che la vita possa assegnare. «Signor Federico, come mai da queste parti?» chiese mia madre, sforzandosi di sorridere, ma lui non riuscì a dire nulla, rimase immobile, con le labbra serrate. Il castello di speranze, che nonostante tutto ancora restava in piedi, crollò in un attimo, di schianto, e lei, cercando di fuggire dalla verità, corse in casa, lanciando un urlo. Il mio ricordo parte da lì, da quel «No!» disperato. Mi attaccai alla sua gonna, lui cercava di parlarle, lei sfuggiva, girando su se stessa, io giravo con lei. Nella mia memoria continuiamo a girare per un tempo lunghissimo, congelato, in bianco e nero. Pensavo che lui le volesse farle male e non sapevo come difenderla. Finché lei si fermò, lui le parlò, lei piangeva, io le stringevo le gambe e mi sentivo perduto.

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Pagina 42

Quarta ginnasio, 12 dicembre 1984, anniversario della strage di piazza Fontana. Vado con i miei compagni di classe alla manifestazione per ricordare, mi sembra una cosa sacrosanta. Appena il corteo entra nella piazza, un gruppetto comincia a scandire lo slogan «Ca-la-bre-si a-ssa-ssi-no». Non so cosa fare, dove andare, mi allontano verso il Duomo. Grazie al cielo i miei compagni mi seguono.

Con gli anni ho capito l'efficacia di quella campagna di stampa cominciata proprio nei giorni in cui nascevo. Coniarono uno slogan che appare inossidabile, semplice, chiaro, capace di attraversare le generazioni. Tanto ben costruito da far pensare a una di quelle operazioni di marketing che oggi riescono a imporre un marchio. Non c'era però un pubblicitario dietro la campagna, ma molte teste, tra le più illustri del giornalismo, del teatro, della cultura e dei movimenti, accomunate da una furia vendicatrice che le portò a costruire un mostro, a dispetto di evidenze, buon senso e dati di realtà. La benzina che alimentò il motore fu l'indignazione per la morte di Giuseppe Pinelli detto Pino.

Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos'era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insultò il Paese e avallò i più terribili sospetti.

L'indignazione e poi la rabbia e infine il linciaggio pubblico non si concentrarono però sul questore Marcello Guida, che si precipitò subito a presentare ai giornalisti il suicidio come un'autoaccusa, da parte di Pinelli, di complicità nella strage, né contro il capo dell'ufficio politico Antonino Allegra, responsabile della durata del fermo. Si concentrarono su Luigi Calabresi, che era il più giovane, il più visibile, il più dialogante. Uno dei pochi a distinguersi tra i poliziotti d'allora: la sua idea era che non si dovesse puntare sulla repressione e allora andava a casa di Feltrinelli, discuteva con i manifestanti, camminava accanto ai cortei. Ha raccontato Marco Pannella il 28 gennaio 1998 in un'audizione della Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi: «Fra Milano e Gorgonzola in una bella giornata – credo fosse l'11 agosto del 1967 – ho camminato per almeno 45 minuti avendo alla mia sinistra Calabresi e alla destra Pino Pinelli... Quest'ultimo mi rimproverò perché, seppure con garbo, dissi al commissario Calabresi che, se si metteva anche lui il cartello "sandwich", avrebbe potuto continuare ad accompagnarmi, altrimenti, nonostante ne fossi felice, non avrebbe potuto. Pino Pinelli protestò, dicendomi che Calabreei era una bravissima persona».

Il suo volto era conosciuto, anche perché aveva un debole per i giornalisti, come mi ha raccontato Giampaolo Pansa, che lo incontrò pochi giorni prima dell'omicidio: si fermava a parlare con loro al bar sotto la questura, qualcuno lo aspettava anche vicino casa.


Ma la verità non trovò spazio nello scontro forsennato di quegli anni. Fiorì invece una serie di leggende nere: il siero della verità, il colpo di karate, l'ambulanza chiamata volutamente in ritardo e il «commissario finestra» che scaraventa il ferroviere agonizzante nel cortile. Vennero tutte smontate, ma nonostante ciò ancora camminano. In parte per ignoranza, in parte per conformismo, in parte per malafede.

Viene dimenticato volutamente il punto fondamentale, assodato al di là di ogni dubbio: Luigi Calabresi non era nella stanza quando Pinelli cadde dalla finestra e morì. C'erano cinque persone ma non lui. Era in un'altra parte del palazzo per far firmare i verbali ad Allegra. Tutti lo scagionarono, ma non servì a nulla di fronte al delirio. «Un linciaggio feroce, anche se al rallentatore. Una follia che contagia migliaia di persone» ha scritto proprio Pansa su «Repubblica».

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Pagina 50

Telefono a D'Ambrosio, gli chiedo di poterlo vedere brevemente. Ci incontriamo fuori dal Senato, prendiamo un caffè a Sant'Eustachio e poi camminiamo verso il Pantheon. Gli domando se posso utilizzare la registrazione: «Penso che sarebbe innaturale se fossi io a intervistarla e a chiederle di scagionare un'altra volta Luigi Calabresi, forse a un figlio si sentirebbe in dovere di dire cose positive. Penso che con Martirano lei si sia sentito libero di dire quello che pensa e io utilizzerei la vostra chiacchierata come un documento».

Accetta, si stringe nel loden blu, comincia a camminare, ma ci tiene a sottolineare alcune cose. Lo fa con un tono asciutto e didascalico: «Pinelli non è stato ucciso e suo padre non era in quella stanza. Erano tempi di follia».

Cammina fissando i sampietrini. «Ricevo ancora delle lettere in cui mi si chiede perché li ho assolti. Lo feci perché ero assolutamente convinto che non c'era stato omicidio. Il danno che Lotta Continua ha fatto è stato soprattutto questo, ha lavorato a fondo nelle coscienze della gente di sinistra convincendola che Pinelli era stato ucciso e che i processi erano finti. Non volevano la verità ma la sentenza che avevano in testa loro, una sentenza di colpevolezza. E io ne porto la colpa. Così oggi mi arrivano queste lettere in cui mi si dice: "Lei è andato a fare il senatore ma ci deve dire come mai ha assolto gli assassini di Pinelli...". Non se ne può davvero più».


Torno a casa e accendo il registratore: «Ricordo che mi venne consegnato il fascicolo dove era scritto "omicidio colposo"; io dissi che non avrei fatto nulla se non si fosse partiti da omicidio volontario. Bisognava procedere con trasparenza, combattere le opacità e quella vecchia terribile mentalità che c'era a palazzo di Giustizia e nella Polizia. Quando mi presentai in questura mi guardarono malissimo e non capivano che io facevo prove ed esperimenti, portandomi dietro i cronisti, nell'interesse della verità. Facemmo mille accertamenti, cercammo tutti i riscontri possibili, ma gli indizi che portavano all'omicidio volontario vennero meno uno dopo l'altro.


«L'ambulanza. Sulla chiamata dell'autolettiga venne fatto un romanzo giallo. Allora senza preavviso, insieme al cancelliere, andai al 117, che era il numero dei vigili urbani che allora governavano i servizi di ambulanza. Chiesi di vedere come funzionava. Mi portarono nella sala di controllo dove c'era una grande pianta della città illuminata con i punti in cui stazionavano le ambulanze. Mi fecero vedere da dove veniva l'ambulanza per Pinelli e l'ora in cui era stata chiamata. Presero il registro, lo aprirono sul giorno 15 dicembre ed era segnato che esattamente a mezzanotte e un minuto era stata chiamata l'ambulanza di piazza Cinque Giornate. Quindi facemmo l'esperimento per vedere quanto impiegava - perché si era detto che era stato lasciato per terra non so per quanto tempo - e si vide che ci volevano pochi minuti. Coincideva perfettamente l'orario della caduta e quello della chiamata, non c'era nessun giallo.


«Il siero della verità. C'era il segno di una puntura d'ago nel braccio di Pinelli. Si sosteneva che in questura gli era stata iniettata una dose di scopolamina, di siero della verità, in seguito al quale Pinelli aveva avuto il malore e per questa ragione lo avevano gettato dalla finestra. Invece era il segno della flebo che gli era stata fatta in ospedale per tentare di salvargli la vita. Io mi presentai al pronto soccorso, dove il medico di turno mi disse: "Ancora con questa storia! Vada a vedere i giornali, mi ricordo che entrò un fotografo e scattò". Trovai sul "Corriere d'Informazione" la foto di Pinelli con la flebo nel braccio, feci sequestrare i negativi, li feci stampare e li allegai agli atti. Anche questo indizio venne meno.


«Il colpo di karate. Nell'autopsia si parlava di una macchia ovalare. In questo caso si sostenne che era stata causata da un colpo di karate. Facemmo una perizia dopo aver riesumato la salma e stabilimmo che non c'era stato nessun colpo di karate. La macchia, come spiegarono tutti i periti, era dovuta alla permanenza del cadavere sul marmo dell'obitorio.


«La caduta. A questo punto c'era un altro indizio, quello del punto di caduta del corpo. Richiamai i portantini, quelli dell'ambulanza, la gente presente e mi feci indicare il punto di caduta. Vedemmo che coincideva esattamente con il punto in cui c'erano i rami spezzati di un grosso cespuglio, che erano stati fotografati il giorno dopo, e c'era anche una traccia dell'urto sul cornicione sotto la finestra.

«Non le dico il questore Guida come mi guardava mentre io facevo questi esperimenti giudiziari in questura, il sancta sanctorum della Polizia. Un magistrato che entrava a indagare sulla Polizia per omicidio volontario...

«Uno solo dei testimoni indicò un punto diverso, più lontano: era un giornalista dell'"Unità", una persona abbastanza anziana che non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a Pinelli e aveva indicato un punto generico. Dissi chiaramente in sentenza che bisognava stabilire l'attendibilità dei testi e che i testi che avevano indicato il primo punto erano i più credibili. Mentre stavo scrivendo la sentenza di proscioglimento, "Panorama", che allora era un settimanale di sinistra, pubblicò il parere di un gruppo di professori di Fisica - li cita ancor oggi "Liberazione" -, che volevano dimostrare che il corpo di Pinelli non era caduto a un metro e mezzo dal muro, come sostenevo io basandomi sui riscontri oggettivi, ma a quasi cinque metri, perché il punto indicato dal giornalista dell'"Unità" era sette o otto metri e loro avevano fatto la media tra i punti indicati dai testimoni. La perizia iniziava con queste parole: "fatta la media tra le distanze indicate dai testimoni...". Io nella sentenza mi premurai di spiegare: badate, cari fisici, che le deposizioni non si valutano matematicamente, perché non ci sarebbe bisogno dei giudici, ma si valutano a seconda dell'attendibilità e questa si ha con i riscontri obiettivi. Dopo due o tre anni uno di questi professori bussò alla mia porta. Gli domandai: "Scusi, lei chi è?". "Sono un professore di Fisica, uno di quelli che firmarono il documento, sono venuto per chiederle scusa, lei ci ha dato una grande lezione."»


Questo episodio lo racconta anche a me, mentre passiamo accanto a palazzo Giustiniani, in uno di quei percorsi che Roma sembra aver creato appositamente per far parlare le persone. È la sua piccola grande soddisfazione. Mi guarda, accenna un sorriso, è l'unico momento in cui il suo sguardo torna al presente, poi risprofonda negli anni Settanta.


«Allora studiammo le possibili modalità della caduta, la traiettoria e facemmo gli esperimenti giudiziari addirittura in piscina per stabilire cosa fosse successo. Furono fatte tutte le valutazioni possibili e immaginabili, finché la soluzione data dai tecnici evidenziò che il corpo si era appoggiato alla ringhiera ed era caduto. Pinelli era in questura da tre giorni, quasi digiuno, non aveva dormito, era stato fermato la sera del 12 dicembre e messo in uno stanzone con tutti gli altri fermati di destra e di sinistra - poi naturalmente i manifestanti di destra, essendo quello l'orientamento della polizia di allora, furono mandati via - ed era stato sottoposto a questo lungo interrogatorio. Probabilmente si sentì male, ebbe le vertigini e si accasciò sul davanzale, che era alto solo novanta centimetri. Addirittura facemmo un esperimento che indignò ancora di più il questore Guida (credo che per questo arrivò a odiarmi a morte): feci fare un manichino con lo stesso peso e le stesse proporzioni di Pinelli, per vedere dove sarebbe arrivato se fosse stato gettato dalla finestra. Si evinse che il corpo non poteva essere stato spinto da altri, ma che si era accasciato; insomma, non c'era nessuna prova che Pinelli fosse stato ucciso. Nessuna prova. L'ipotesi più probabile è che, dopo l'interrogatorio, abbia aperto la finestra per prendere una boccata d'aria, che il digiuno, la stanchezza, la tensione abbiano provocato un giramento di testa, una vertigine, e che, quindi, sia caduto dalla ringhiera.


«La stanza. Tutti, concordemente - e c'era anche un ufficiale dei carabinieri, il tenente Lograno - dissero che nel momento in cui Pinelli precipitò Calabresi non era nella stanza perché era andato a riferire ad Allegra. L'anarchico Pasquale Valitutti, che era in una stanza vicina, disse di non aver visto passare il commissario Calabresi. Io andai anche a constatare l'esatta d'istanza tra gli uffici, il percorso fatto da Calabresi e la visuale che poteva avere Valitutti dal punto in cui si trovava. Poteva non averlo visto perché nello stanzone c'era solo una piccola finestra che dava sul corridoio e uno doveva starci davanti con lo sguardo fisso per vedere chi passava.


«Così pronunciai una sentenza di proscioglimento anche nei confronti del commissario Calabresi per non aver commesso il fatto, ma nel frattempo era stato ucciso. Poi misi sotto processo quelli della Polizia per arresto illegale di Pinelli, perché non era stato comunicato alla magistratura, ma se la cavarono in seguito a un'amnistia.

«Cosa bisogna aggiungere? Se il giudice che è riuscito a togliere qualsiasi dubbio sugli anarchici come autori della strage di piazza Fontana, che ha detto che sono stati i fascisti, e ha rischiato la pelle per questo insieme ad Alessandrini, se uno così dice che non ci sono prove che Pinelli è stato ucciso e che anzi tutto depone per una precipitazione per malore. Gli atti giudiziari sono quelli e, ripeto, ci sono prove inconfutabili. In quel momento scrissero sui muri che ero fascista. Poi quando dissi che non erano stati gli anarchici a mettere le bombe, allora dissero che ero comunista. Questa è l'Italia.»


Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi accomunati da quasi quarant'anni, un tempo più lungo di quello che gli fu dato di vivere. Usati uno contro l'altro, in un braccio di ferro infinito, uno dei tanti che paralizza il Paese e lo tiene costretto con la testa rivolta al passato. Anche per noi sono sempre stati accomunati, da bambini pensavamo che anche Pinelli non era tornato a casa una sera dalle sue bambine e restavamo in silenzio quando qualcuno pronunciava il suo nome. Mamma ce ne parlava con delicatezza, legava i due destini, non li ha mai contrapposti. Un giorno mi ha dato da leggere l' Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e mentre me la allungava, ma continuava a tenerla stretta in mano, mi raccontò che era stato Pinelli a regalarla a papà, un Natale. Non so dire se fossero amici, erano su sponde diverse, e ci vuole pudore quando si parla dei morti, ma sicuramente in casa nostra Giuseppe Pinelli non è mai stato un nemico.

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Mamma trovò dentro di sé regole chiare su come dovevamo comportarci: mai una polemica, mai una parola di troppo, rispetto e gentilezza per tutti e soprattutto fiducia nella magistratura. «Non cerchiamo vendette, cerchiamo giustizia e accetteremo i verdetti che verranno» ci disse con chiarezza all'alba della prima udienza, mentre eravamo seduti in cucina. «Ho fatto di tutto perché non cresceste nel rancore e nell'odio e non voglio certo che adesso si rovini tutto.» Passò molte notti seduta sul bordo del letto di Luigi a consolarlo. La sera del giorno in cui in aula venne rievocata nei dettagli la mattina dell'omicidio la sentimmo parlare a bassa voce con lui per ore. Cercava un filo che lo tenesse legato al presente, a un'idea di futuro, non voleva perderlo, inghiottito dal dolore per non avere mai visto suo padre, per essere nato dopo. E allora parlava e parlava per assorbire la rabbia, per trasformare la sofferenza in qualcosa di più gestibile.

In Luigi i sentimenti sono più accesi, taglienti, lui senza giri di parole lo ha sempre detto a me e a Paolo: «La differenza è che non mi ha mai tenuto in braccio». Mamma ricorda quel salto nella pancia che sentì quando ebbe la notizia dell'omicidio e lo comprende: «Quando vedo la sua rabbia risento esattamente la mia di allora». Capita che piombi a casa dei miei genitori come una furia, dopo aver saputo che Adriano Sofri era alla finestra delle autorità a vedere il Palio di Siena, accolto e presentato come persona illustre dal sindaco. O con la pagina strappata da una rivista in cui ci sono le foto di Sofri in barca sul laghetto di villa Borghese, con il figlio e la nipotina: «La differenza è qui, ricordatevelo, nostro padre il nonno non lo ha potuto fare». A quel punto mamma se lo prende da parte e cerca di consolarlo.

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