Copertina
Autore Massimo Calandri
Titolo Bolzaneto
SottotitoloLa mattanza della democrazia
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2008, Cronache 3 , pag. 256, ill., cop.fle., dim. 14x23x1,7 cm , Isbn 978-88-89969-54-0
PrefazioneGiuseppe D'Avanzo
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe diritto , politica , paesi: Italia: 2000
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Indice


PREFAZIONE DI GIUSEPPE D'AVANZO               7

UNA SBORNIA DI GIUSTIZIA                     13

LA TORTA AL CIOCCOLATO                       25

ZONA FRANCA                                  35

UN AVVOCATO PIENO DI ODIO                    49

LE FIGURINE                                  65

IL MIO AMICO LUCIFERO                       203

IL DOTTOR MENGELE, PRESUMO                  215

UN GIUDICE MOLTO BLACK                      221

DEI DELITTI E DELLE PENE                    235


 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE DI GIUSEPPE D'AVANZO


Questo libro di Massimo Calandri è soprattutto necessario. È necessario, perché non è un accidente o un disgraziato episodio quel che è accaduto a Genova a 55 «fermati» e 252 arrestati durante le manifestazioni del G8. Uomini e donne. Adulti e giovani. Ragazzi e ragazze, un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione. Spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano. Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). Quel che è accaduto tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001 nella caserma «Nino Bixio» di Bolzaneto è un evento che segna in modo decisivo lo spazio politico di una modernità che, sempre più diffusamente, sospende in alcuni luoghi ogni diritto, crea spazi d'eccezione e, sempre di più, quest'eccezione viene realizzata normalmente.

La caserma di Bolzaneto è diventata in quei tre giorni questo: un'area territoriale posta fuori dall'ordinamento giuridico, al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario; una zona d'indistinzione tra eccezione e regola, lecito e illecito in cui ogni protezione giuridica è venuta meno.

Quel venerdì 20 luglio, dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri vengono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto...». A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l'avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire davvero quanti sono stati i «prigionieri» di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono – 55 «fermati», 252 «arrestati» – sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la «fortuna» di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia «media» – prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera – è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

La polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» – in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il Duce», «viva la polizia penitenziaria». C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non iesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta; lo minacciano «di rompergli anche l'altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano: «Comunista di merda». C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S. D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J. S. lo ustionano con accendino.

Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è una doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. I piercing sono rimossi in maniera brutale. Una ragazza è costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone. Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P. B., operaio di Brescia, è minacciato di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per «divertirsi» un po'. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai «prigionieri»: monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L. K.. A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera a ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: «Che cos'è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide, quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all'osso». G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare...

Come dimostrano questi episodi, per tre giorni la nostra democrazia ha superato la sempre fragile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare, se non fosse che la «degradazione dell'individuo» inflitta in quella caserma è stata come dimenticata. «Ufficialità, perbenismo, cattiva coscienza rifiutano di specchiarsi in quella negazione dell'umano». L'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono allora, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare – le istituzioni dello Stato, chi le governa –, possiamo dimenticare noi che ormai sappiamo che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell'umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Per questo bisogna raccontare. Per questo bisogna ancora ricordare. Per questa ragione il libro di Calandri è necessario. Perché conviene dare ascolto a Giorgio Agamben quando invita a considerare il campo come «la matrice nascosta della politica in cui ancora viviamo». Dobbiamo imparare a riconoscerne la presenza in tutte le sue metamorfosi, «nelle zone d'attente dei nostri aeroporti come in certe periferie delle nostre città».

Bolzaneto è stato questo, «un campo». I suoi ospiti sono stati spogliati, per alcune ore o per alcuni giorni, di ogni statuto politico e ridotti a pura vita. Questo libro necessario indaga con cura attraverso quali procedure giuridiche e quali dispositivi politici alcuni esseri umani abbiano potuto essere così integralmente privati dei loro diritti e delle loro prerogative fino a che commettere nei loro confronti qualsiasi atto violento non è apparso più agli autori come un delitto.

Bolzaneto è anche la storia di una sconfitta della giustizia italiana. Del rifiuto a riconoscere e indicare lo spazio d'eccezione apertosi a Genova. Dell'incapacità di scrivere una pagina dove chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia potesse leggere un segnale di pericolo e comprendere che, quando si crea un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile», tutto è veramente possibile.

«Bolzaneto» avrebbe potuto insegnare infatti che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l'ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Nel processo il pubblico ministero ha detto alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c'è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non poteva esserlo per gli imputati di Bolzaneto). L'invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d'indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d'eccezione che lasciano cadere l'ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell'orrore documentato dal processo di Genova. «Bolzaneto» è soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell'«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un'inattesa zona d'indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova dice – come ci racconta Massimo Calandri – che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l'umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto, ai diritti. Accettare quest'eventualità non è rassicurante: vuol dire già aver metabolizzato come regola lo stato d'eccezione venuto alla luce a Bolzaneto.

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Pagina 20

L'orrore e la follia di Bolzaneto erano stati magistralmente riassunti nelle ultime pagine della memoria di Petruzziello e Ranieri Miniati, al capitolo: «Conclusioni».

Pagine brutte sono state scritte in quei giorni a Bolzaneto alla Caserma Nino Bixio nei rapporti tra le forze dell'ordine e i cittadini, italiani e stranieri. Pagine brutte di comportamenti gravi che, se anche dovessero incontrare la prescrizione, tuttavia difficilmente potranno essere dimenticati. L'ufficio del pubblico ministero ha compiuto anche in questo processo, con fatica, il suo compito di ricostruire i fatti e di dare la sua valutazione giuridica su reati commessi e responsabili. Non è compito di noi pubblici ministeri dare una lettura sociologica del perché certi fatti sono accaduti; certo non crediamo a esplosioni improvvise di violenze. I capi e i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito che in quei tristi giorni del luglio 2001 a Genova si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone, perché è questo ciò che le indagini hanno provato essere accaduto. Ancora più grave, perché erano persone detenute, già private della loro libertà personale; persone che in quella caserma, a prescindere dal comportamento precedente che ve le aveva portate, erano inermi e impotenti, spesso ferite, quasi sempre spaventate e terrorizzate. Non c'è emergenza che possa giustificare quello che è accaduto. In quei giorni a Bolzaneto per i detenuti è stata gravemente offesa la dignità di uomini, la loro libertà fisica e morale. Restano i nomi e le immagini di questo processo.

Il taglio di ciocche di capelli per Ender Taline, per Spingi Massimiliano e per Chicarro Sanchez. Lo strappo della mano per Azzolina Giuseppe.

Il capo fatto infilare nella turca a Percivati Ester.

L'umiliazione di Bistacchia Marco, costretto a mettersi carponi e ad abbaiare come un cane.

Il pestaggio di Tabbach Mohamed, persona con un arto artificiale.

Gli insulti e le profonde offese ad Amodio Massimiliano, per la sua bassa statura.

Il malore di Brauer Stefan in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo per terra nel corridoio della caserma.

La sofferenza di Kutschkau Anna Julia cui alla Diaz per le percosse hanno fratturato la mascella e rotto i denti, che non è neppure in grado di deglutire e perde sangue in cella nell'indifferenza di tutti, eccetto i compagni.

Il disagio di Herrmann Jens, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non fu consentito di lavarsi.

L'umiliante foggia del cappellino imposto a Hinrrichs Meyer Thorsten (un cappellino rosso con la falce e un pene al posto del martello, con il quale è costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere).

L'etichettatura sulla guancia, a mo' di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz al momento dell'arrivo a Bolzaneto.

I colpi sui genitali, per molti.

Le minacce di violenza sessuale, per molti.

Percosse, ingiurie, umiliazioni, per tutti.


I pubblici ministeri avevano impostato una requisitoria rigorosa. Quasi prudente, ripetevano. Perché i fatti erano – sono – di una gravità assoluta, inaccettabile. Ma altrettanto inaccettabile è la disciplina italiana. Un codice che non permette di agire secondo giustizia. «Se il reato di tortura fosse stato introdotto anche in Italia, solo per certi singoli episodi avremmo chiesto fino a cinque anni di reclusione», spiegavano in Procura. E allora, con prudenza si sono detti: concentriamoci su quello che possiamo provare «al di là di ogni ragionevole dubbio». Non è bastato. La sentenza di primo grado – che è poi anche quella definitiva: l'appello è una mera formalità, spazzata via dalla prescrizione – ha raccontato di un'altra Bolzaneto. Dove un solo imputato, l'ispettore Biagio Antonio Gugliotta, si sarebbe reso responsabile di aver «sostanzialmente compromesso i diritti umani fondamentali» dei prigionieri di Bolzaneto. Scrivono, i giudici della Terza sezione: «non ha impedito che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti». Per gli altri quattordici imputati, pene tutto sommato «minori». Due anni e quattro mesi per Alessandro Perugini e Anna Poggi, che erano i funzionari di polizia più alti in grado. Per Massimo Pigozzi, il poliziotto che aveva «strappato» la mano sinistra a Giuseppe Azzolina divaricandogli le dita – uno squarcio di cinque centimetri tra medio e anulare –, tre anni e due mesi di reclusione. A Toccafondi un anno e due mesi. Ad Antonello Gaetano, ispettore di polizia che a calci e pugni aveva rotto le costole a David Laroquelle, che non aveva impedito il taglio dei capelli di Ialine Ender, che aveva permesso che altri colleghi costringessero alcuni ragazzi a firmare i verbali di arresto, un anno e tre mesi di prigione. Cinque mesi a Giuliano Patrizi, nove a Barbara Amadei, dieci ad Aldo Amenta, un anno ad Alfredo Incoronato, Matilde Arecco, Natale Parisi, Mario Turco e Paolo Ubaldi.

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IL DOTTOR MENGELE, PRESUMO


Qualcuno doveva averlo calunniato.

Piacere, sono Mengele. Il dottor Mengele. Quello che strappa i piercing dal naso, quello con lo sguardo viscido quando le ragazze si spogliano, quello che torce i polsi e tira per i capelli. Quello che ficca il manganello in bocca. Il sadico. Il dottor Mengele, che visita con gli scarponi e la tuta mimetica. Che tortura i comunisti. Che gode nel vederli soffrire, gemere, morire di paura. Piacere. Mengele. È così che mi chiamate, vero?

Dicono che questo signore robusto di mezza età sia tormentato da sette anni dai fantasmi di quelle tre notti a Bolzaneto. Il suo avvocato mi ha confessato di averlo visto piangere per la tensione. È stato costretto a cambiare il numero di telefono, gli hanno riempito i muri sotto casa di scritte – Boia! Fascista! –, e persino dopo la sentenza ha continuato a ricevere lettere minatorie. Mengele, così chiamano Giacomo Toccafondi. Cinquantaquattro anni, sposato, due figli, nato sotto il segno dei Pesci. Grande e grosso. Medico. Venti capi di imputazione. Abuso d'ufficio, omissione di referto, ingiuria, violenza privata, percosse, minaccia, omissione d'atti d'ufficio.

Un medico, sono solo un medico. Lo hanno detto i giudici, e adesso basta. Basta, capito? È finita. Mi hanno restituito la dignità. Anche se sette anni sono lunghi. Ma cosa potete capire, voi? Parlate, parlate, parlate. Però quante volte siete stati in un carcere? Cosa sapete di quello che accade là dentro tutti i giorni? Niente. Credete che la gente sia vestita col papillon, come i pinguini? Prego signore, si accomodi. Gradisce qualcosa da bere? Vuole un cuscino? No, in carcere non funziona così. Io sono trent'anni che ci lavoro. Ho cominciato il giorno dopo la laurea: era il 1980, guardia medica a Marassi. E poi direttore sanitario a Pontedecimo. Mica me l'hanno ordinato, di lavorare in prigione. Lo sapete che si guadagna molto di meno, e che i rischi sono infinitamente più grandi? Ma mi piace. È vero: mi piace. Aiutare chi ha più bisogno degli altri. Non ridete, non c'è proprio niente da ridere. Ho fatto il volontario per gli immigrati, in via Lugo. Da ufficiale della Croce rossa sono andato a Kukes, in Albania. E sono pure stato in Kosovo. Pronto intervento, civili e militari.

Qualcuno doveva averlo calunniato.

La tuta mimetica, gli scarponi militari. Tutte balle. Mi sono tolto il camice, è vero. Faceva caldo, restava appiccicato alla pelle. Ho infilato una di quelle magliette della polizia penitenziaria. Bella, no? E sopra il mio giubbotto multitasche. Garze, cerotti, forbici, stetoscopio. Un paio di pantaloni neri, scarpe. Tutto qui. Beh, mi piace vestire così: che c'è di male? Cosa voto? Partito Democratico, è chiaro. No, sto scherzando. Lasciamo perdere.

Toccafondi Giacomo Vincenzo, un anno e due mesi di reclusione: perché nella qualità di pubblico ufficiale, avendo prestato la propria assistenza sanitaria a Leone Katia in seguito a malore da lei subito per il getto nella cella ove era ristretta di gas urticante-asfissiante (...) ometteva di riferirne alla autorità giudiziaria. Perché offendeva l'onore e il decoro di Bruschi Valeria, rivolgendole l'espressione: «Alla Diaz dovevano fucilarvi tuffi». Perché minacciava ad Azzolina Giuseppe un male ingiusto, rivolgendo al medesimo Azzolina, e comunque non impedendo che fosse rivolta ad Azzolina, l'espressione «se non stai zitto, ti diamo le altre» mentre il medesimo Azzolina gridava per il dolore in seguito alla mancata anestesia durante la sutura.

Appunto. Che fine ha fatto, il vostro Mengele? Un anno e due mesi di reclusione. E tra poco la prescrizione. Ma sono innocente, giuro. Perché mai avrei dovuto denunciare lo spray urticante negli occhi della ragazza? Che ne so io di chi ha spruzzato lo spray? Io dovevo curare, e l'ho fatto. La ragazza era circondata da carabinieri. Chiedetelo a loro, io che c'entro? Io ci sono cresciuto, in carcere. E so bene come funziona. Fai il tuo lavoro, occupati dei fatti tuoi. È così che funziona. E quello di Bolzaneto, signori miei, era un carcere. Vi piaccia o no. C'era tensione, in quei giorni. Volete negarlo? Guardavamo la televisione, nella stanza numero 3. Mostravano una città devastata, in mano a un pugno di pazzi. Banche assaltate, negozi dati alle fiamme. Molotov. Nel pomeriggio, arriva la polizia con dei prigionieri. Cosa devo pensare? Che sono quelli che hanno distrutto la città. Che sono dei detenuti. Mi comporto di conseguenza. Li curo, mi faccio i fatti miei. Io sono un dottore, e loro dei detenuti. Ragazzi, non scherziamo: eravamo in un carcere.

Qualcuno doveva averlo calunniato.

Uffa, va bene. C'era un po' di tensione, d'accordo? E magari qualche testa calda. Ma succede dappertutto. Non ricordo i ragazzi uno per uno. Ma so che in quei giorni abbiamo lavorato bene. Non ho visto picchiare o umiliare nessuno, figuriamoci se io posso aver fatto qualcosa direttamente. Hanno raccontato che avrei strappato il piercing dal naso di una ragazza, o che avrei ficcato il manganello nella bocca di una giovane con la mascella fratturata. Se è così, perché queste accuse non mi sono state contestate a giudizio? E perché alla fine pago solo per tre stupidi episodi? A me viene in mente Anna, una austriaca, arrivata forse dalla scuola Diaz: aveva i denti rotti, le abbiamo dato degli antidolorifici, le abbiamo fatto fare degli sciacqui con acqua ossigenata diluita in acqua normale. E in bocca le abbiamo messo un tubetto da flebo tagliato, per permetterle di bere. Eccola, la verità.

Però quella strana ironia, al termine delle visite: «Abile, arruolato. Pronto per la gabbia». Forse Ippocrate avrebbe avuto qualcosa da ridire.

È possibile che al termine di qualche visita possa aver detto qualcosa come: «Ok, arruolato». Ma non era mia intenzione offendere nessuno. No, non sto ridendo. È solo un sorriso. Lo conoscete il modello standard della perquisizione? A Bolzaneto la persona veniva invitata a spogliarsi, venivano rimossi i piercing e gli altri oggetti metallici come le collanine. Poi le si chiedeva di fare le flessioni, succede sempre così: due o tre, non di più. E non ho mai assistito ad atti di violenza o cose del genere da parte di agenti di polizia penitenziaria. Dimostratemi il contrario. E informatevi. In prigione succede molto di peggio. Ma voi che ne sapete? Voi non ci siete mai stati, in prigione. Sicuramente non avete fatto neppure il militare. Peccato. Vi avrebbe fatto bene.

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DEI DELITTI E DELLE PENE


Scusate. Scusate. Scusate. Chiediamo perdono per quel maledetto «carcere provvisorio», e per la «zona rossa». Con una memoria di ventisei pagine, lo Stato italiano ha raccontato la «sua» Bolzaneto attraverso l'intervento dell'Avvocatura. Chiedendo perdono ai no-global con un documento che è in realtà al centro di un «giallo». Perché c'è una contraddizione di fondo, in quelle parole. Durante il dibattimento lo Stato chiede «scusa» e di fatto ammette che i suoi servitori sono colpevoli. Ma allora, avrebbe dovuto subito risarcire le vittime. Invece no. Chiede scusa e prende le distanze dai suoi uomini, sostenendo che in quei tre giorni non si sono comportati come tali. E però, dopo la sentenza di condanna, neppure una parola. Molto strano. Qualcuno sostiene che quella memoria sia in realtà un'iniziativa personale degli Avvocati dello Stato, Matilde Pugliaro e Giuseppe Novaresi. C'è chi sottolinea come in realtà il giorno dopo il loro intervento, e i titoli sui giornali, ai ministeri interessati siano saltati dalle seggiole per la sorpresa. Difficile capire, e allora affidiamoci semplicemente alle parole dell'Avvocatura: «Sentiamo il dovere di esprimere, quali organi dello Stato, le doverose scuse nei confronti di chi a Bolzaneto ha subito le vergognose vessazioni accertate nel corso del dibattimento. Scuse che provengono direttamente dallo Stato». «Doverose scuse» è scritto in grassetto, proprio così. «Ma anche gli attuali imputati, almeno in parte, scontano colpe che trascendono l'ambito di cognizione di questo processo. Una diversa formazione professionale, una diversa selezione del personale da adibire al sito di Bolzaneto avrebbero mitigato quanto accaduto e alleviato le responsabilità dei singoli». Il punto di partenza è il fatto che il legislatore del Duemila ha avuto una «attenzione estrema» per le cose, ma «nessuna considerazione» per le persone. La «zona rossa», «con le sue recinzioni metalliche, le transenne e persino i containers, è stato l'emblema di uno Stato che è difficile riconoscere nei più profondi valori espressi dalla Costituzione italiana». E così Bolzaneto. «È sconcertante riconoscere che sul piano organizzativo nessuna attenzione sia stata dedicata alle persone che sarebbero transitate in qualità di fermate e arrestate». Basta pensare che con centinaia di arrestati non era stato previsto neppure un punto di ristoro. E poi c'è la storia dei colloqui differiti con gli avvocati. «Il clima di esclusione, il rifiuto di ascoltare, la chiusura all'insolito che si sono registrati a Genova nei giorni del G8 hanno posto le premesse perché in un luogo carcerario si esasperasse una concezione totalitaria del rapporto tra individui». C'è un altro concetto che viene espresso in grassetto, a sottolinearne l'importanza. «L'idea di giustizia assoluta che era alla base dell'istituzione della zona rossa si è riflessa sul comportamento di molti soggetti che si sono automaticamente sentiti dalla parte in quel momento «giusta» e si sono sentiti paladini di tale giustizia, al di fuori di ogni limite e di ogni controllo». Riguardo ai singoli episodi, l'Avvocatura dello Stato arriva a ipotizzare la «interruzione del nesso organico» tra i singoli imputati e la pubblica amministrazione. «Hanno agito come semplici privati che agivano per un fine strettamente personale ed egoistico che si è rivelato assolutamente estraneo all'amministrazione». Il fatto che se la siano presa con i detenuti «proprio per ciò che rappresentavano, per le loro idee, per il loro essere venuti a Genova a manifestare» esclude che i loro atti possano in qualche modo essere attribuiti anche ai Ministeri di appartenenza.


Questa è la sentenza del 14 luglio 2008, ed è tutto quello che resta del processo per i soprusi e le violenze nel carcere provvisorio di Bolzaneto. L'appello della pubblica accusa sarà spazzato via dalla prescrizione, che scatterà sette anni e mezzo dopo i fatti più qualche settimana dovuta ai rinvii del dibattimento.


PERUGINI ALESSANDRO, n. Novara il 20-7-1961, difeso e assistito dall'avvocato Giovanni Scopesi e avvocato Vittorio Pendini di fiducia del foro di Genova: 2 anni e 4 mesi di reclusione.

• Perché nella qualità sopraindicata, nella fase in cui gli arrestati e i fermati erano a disposizione della polizia di Stato (compresa la permanenza nelle celle), quale funzionario più alto in grado della Digos Questura Genova presente presso il sito di Bolzaneto, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in concorso con altri pubblici ufficiali appartenenti alla polizia di Stato e polizia penitenziaria esecutori materiali, e comunque agevolando e non impedendo la condotta degli altri, come avrebbe dovuto e potuto fare nella sua veste di funzionario della polizia di Stato più alto in grado, quindi con superiorità gerarchica, sottoponeva a misure di rigore non consentite dalla legge le persone ristrette presso la Caserma per il periodo in cui erano a disposizione della polizia di Stato (compreso il periodo di loro permanenza nelle celle della polizia di Stato), più precisamente tollerava, consentiva e comunque non impediva che le persone ristrette in Bolzaneto (in alcuni casi visibilmente ferite in conseguenza degli scontri di piazza):

• fossero costrette, nelle celle di pertinenza della polizia di Stato, senza plausibile ragione a rimanere per numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena, o seduti a terra ma con la faccia rivolta verso il muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate costituenti ulteriore privazione della libertà personale, senza poter mutare tale posizione;

• fossero costrette a subire, anche nelle celle, ripetutamente, percosse calci pugni insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo – del tutto vano – di cercare posizioni meno disagevoli;

• fossero tenuti nel corso dell'accompagnamento ai bagni o agli uffici, con la testa abbassata all'altezza delle ginocchia e le mani sulla testa e venissero derisi, ingiuriati e colpiti al loro passaggio da altro personale appartenente a Forze dell'Ordine che stazionava ingiustificatamente nel corridoio della caserma, dislocato in modo da formare quasi due «ali» di pubblici ufficiali ai Iati del corridoio.

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