Copertina
Autore Guido Caldiron
Titolo Banlieue
SottotitoloVita e rivolta nelle periferie della metropoli
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, Contemporanea , pag. 144, cop.fle., dim. 145x210x10 mm , Isbn 978-88-7285-422-8
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe storia contemporanea , paesi: Francia , citta': Parigi
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Indice


Rivolte                   7
Cité                     19
Racaille                 29
Cittadinanza             43
Coprifuoco               55
Politica                 63
Polizia                  77
Arabicidio               89
Algeria                  93
Islam                   103
Rap                     117
Regards                 129


 

 

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Pagina 7

RIVOLTE



BOUNA E ZYED. IL DETONATORE DI CLICHY SOUS BOIS

Giovedì 27 ottobre 2005. La luce del sole si sta ritirando dalla banlieue nord di Parigi mentre un gruppo di ragazzi cammina per tornare a casa. Hanno passato una parte del pomeriggio a giocare a pallone nel parco Vincent Auriol – un socialista che si oppose a Pétain e, dopo aver preso parte alla Resistenza, fu presidente della Repubblica fino al 1954 – di Livry-Gargan, stesso dipartimento della Seine Saint Denis, la più grande banlieue parigina, nella periferia nord della città, quello di Clichy sous Bois. Sono stanchi dopo la partita e a seguire la via principale ci vuole molto tempo, meglio tagliare per i prati attraversando la zona dove c'è il cantiere di un edificio in costruzione.

Saltata la bassa rete metallica che sbarra la strada, il gruppo, formato da una decina di ragazzi «black-blanc-beur», come successivamente li definirà la stampa francese per mettere in evidenza la loro identità «mista», simile a quella della popolazione di buona parte delle periferie del paese, perde un po' di tempo nell'area del cantiere. Troppo, evidentemente, visto che qualcuno che sta osservando la scena, forse pensando a un tentativo di furto, chiama la polizia. Sul posto non arrivano però gli agenti della Brigade Anti Criminalité, (Bac), che operano, spesso in borghese, in questa come in tutte le altre banlieues «calde» della regione di Parigi. Dalla volante scendono invece due poliziotti in divisa del commissariato di Livry-Gargan. Non capiscono bene quanta gente ci sia dentro al cantiere. Forse hanno paura, esattamente come i ragazzi che, dall'interno, cercano di trovare una via di fuga. Gli agenti chiamano rinforzi, arrivano altre tre volanti. Ora ci sono undici funzionari di polizia sul posto.

I giovani provano a scappare, ma sei di loro sono bloccati subito in un terreno abbandonato che costeggia il cantiere. Bouna Traoré, quindici anni, Zyed Benna e Muttin Altun, entrambi di diciassette anni, riescono invece ad eludere la stretta dei poliziotti e scappano attraverso un boschetto trasformato da tempo in una sorta di discarica. Dove finiscono gli alberi, però, trovano un muro. Un muro di più di tre metri che delimita il perimetro di una piccola centrale dell'Edf, l'azienda elettrica transalpina. Si arrampicano a fatica, ma ce la fanno. Una volta dentro cercano un posto dove nascondersi. Ma l'unico spazio riparato, dove gli agenti non possano scorgerli, è accanto a un grande trasformatore elettrico. I tre ragazzi vi si rifugiano senza capire il pericolo a cui vanno incontro. Alle 18 e 12 un corto circuito toglie la luce a tutta la zona di Clichy sous Bois. Zyed e Bouna muoiono sul colpo, uccisi dalla scarica elettrica, mentre Muttin, per quanto gravemente ustionato, riesce a salvarsi e a dare l'allarme.


MORTI INUTILMENTE

La notizia della morte dei due ragazzi fa subito il giro di Clichy, poi si diffonde in tutta la Seine Saint Denis, infine arriva nelle periferie di ogni parte del paese. «Sono morti perché inseguiti dalla polizia» dice il tam tam dei ragazzi delle cité. Muttin è di origine turca, mentre i genitori di Zved e Bouna sono arrivati in Francia rispettivamente dalla Tunisia e dal Mali. Forse sono ragazzi come questi, quelli ai quali due giorni prima, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy, in visita a Argenteuil, altra località della periferia parigina, si è riferito definendoli «racaille», feccia. Tanto basta perché le banlieues prendano fuoco.

Il segnale della rivolta arriva proprio da Clichy sous Bois, dove la polizia intervenendo contro i giovani del quartiere spara un lacrimogeno anche dentro la moschea, molto frequentata in quel momento per l'approssimarsi della festa che conclude il mese di ramadan. A Clichy, dove sabato 29 ottobre si svolgono i funerali dei due ragazzi uccisi, a cui partecipano moltissimi giovani del quartiere che indossano delle t-shirt su cui è stata stampata la frase «morti per niente», già nelle prime notti che seguono la tragedia si contano diverse centinaia di auto date alle fiamme. Sarà questo il modello seguito in tutte le periferie di Francia a partire dai giorni successivi: pochi gli scontri diretti con le forze dell'ordine, molte le auto, e talvolta gli edifici dati alle fiamme.

Da Clichy sous Bois gli émeutes (i «moti» come li chiamano i francesi) si allargano rapidamente all'intero dipartimento della Seine Saint Denis, poi a molte altre zone dell'Ile de France, la regione della capitale. Infine si estendono ad altre periferie urbane del paese, a cominciare da Rouen, Digione, Marsiglia, Lille, Tolosa e Strasburgo. Gli incendi di auto si moltiplicano giorno dopo giorno, come anche il lancio di oggetti e molotov contro la polizia. Nella sola notte tra il 6 e il 7 novembre si contano oltre 1400 veicoli bruciati e 395 persone arrestate. In tutto, dopo oltre due settimane di incendi e scontri notturni da un capo all'altro del paese, le macchine date alla fiamma saranno diverse migliaia, oltre 2500 le persone fermate, quasi quattrocento quelle arrestate. E un uomo di sessantuno anni, Jean lacques Le Chenadec, colpito da un giovane sconosciuto il 4 novembre mentre si recava al parcheggio vicino a casa a Stains, nella Seine Saint Denis, per verificare le condizioni della sua auto, è morto tre giorni dopo in ospedale senza aver più ripreso conoscenza.

Mentre l'incendio delle periferie si allarga, il governo si affretta a negare ogni responsabilità, diretta o indiretta, delle forze dell'ordine nella tragica fine di Bouna e Zyed. «Non c'è stato nessun inseguimento tra gli agenti e i ragazzi», dichiara già all'indomani della tragedia il ministro Sarkozy. E dal tribunale di Bobigny, dove è stata aperta un'inchiesta sui fatti, trapela una bizzarra indiscrezione secondo la quale i giovani «si sarebbero messi a correre per emulare altri del gruppo che già stavano correndo per gioco». Dal canto suo, l'avvocato dell'unico giovane sopravvissuto nel rifugio di fortuna della centralina dell'Elf, Muttin Altun, spiega che il suo assistito conferma che effettivamente un inseguimento da parte della polizia c'è stato e che lui stesso, girandosi due o tre volte mentre correva, ha scorto gli agenti che lo stavano rincorrendo. E uno dei ragazzi che quella sera furono fermati dalla polizia nell'area del cantiere abbandonato, ha descritto al settimanale Nouvel Observateur una scena simile: «Ero dietro a una macchina abbandonata per nascondermi dalla polizia, quando ho visto i miei tre amici correre inseguiti da un agente in borghese che stringeva in mano un flash-ball», una pistola speciale che spara proiettili di plastica grandi come palle da tennis.

In attesa dell'esito dell'inchiesta, i familiari di Bouna, Zyed e Muttin, hanno comunque denunciato gli agenti per «mancata assistenza a persone in pericolo». Infatti, dopo aver fermato gli altri ragazzi del gruppo, la sera del 27 ottobre, i poliziotti hanno fatto ritorno al commissariato di Livry-Gargan come se non si fossero nemmeno accorti della presenza degli altri tre giovani che si erano nascosti nella centralina Edf. Eppure l'indagine interna, avviata immediatamente anche dall'Inspection Générale des Services, (Igs), la «polizia della polizia», cita una registrazione delle comunicazioni radio fatte dagli agenti intervenuti sul posto in cui un poliziotto parla di «due persone che sembrano sul punto di scavalcare il muro che protegge la centrale elettrica». Qualche minuto dopo, un suo collega replica dicendo che si tratta di un posto molto pericoloso, «dove ci si può anche restare». Un quarto d'ora dopo questo scambio di battute tra le auto della polizia, Bouna e Zyed erano morti.

Concludendo una breve inchiesta su quello che ha definito «L'enigma di Clichy sous Bois», il Nouvel Observateur non ha potuto evitare di porsi alcuni interrogativi. «Come ha fatto un agente a capire che i ragazzi scappati si stavano rifugiando in un luogo lontano almeno un chilometro da dove era stato fermato il resto del gruppo, se non inseguendoli fino a là?». E ancora: «Perché, una volta che avevano capito che i tre ragazzi si erano nascosti in un luogo molto pericoloso, gli agenti sono rientrati tranquillamente al commissariato, limitandosi a portare con sé, per identificarli, gli altri componenti del gruppo?».

Resta la constatazione che la sola presenza della polizia ha spinto tre adolescenti nati e cresciuti in Francia, e quindi abituati, anche se probabilmente malvolentieri, ad essere identificati e magari perquisiti dagli agenti, a cercare la fuga ad ogni costo. Fino ad arrivare a mettere tragicamente in gioco la loro stessa vita. A questo proposito varrà forse la pena aggiungere che Zyed era stato fermato da alcuni agenti, solo qualche mese prima della sua morte, mentre discuteva per strada con un altro ragazzo a proposito di una bicicletta. E pare avesse conservato un pessimo ricordo di quella esperienza.


LA MEMORIA NEL FUOCO

La storia delle rivolte scoppiate nelle periferie francesi nel corso dell'ultimo quarto di secolo, descrive del resto una condizione analoga a quella che si è verificata a Clichy sous Bois. Sono le bavures della polizia, gli eccessi violenti degli agenti, spesso la morte in circostanze poco chiare di un giovane della banlieue a dare il via a scontri e incidenti. «Si contano i morti e si attende il prossimo. Quale sarà il prossimo nome che si scriverà sui muri di queste non-città che sono le cité della banlieue, luoghi dove sono stati confinati quei sotto-cittadini che sono i poveri e quei non-cittadini che sono gli stranieri?» si chiedeva in Arabicides (La Découverte, 1992) Fausto Giudice, un giornalista indipendente figlio di immigrati italiani in Francia.

C'è, in effetti, sempre il nome di un ragazzo – morto o ucciso fa poca differenza – ad accompagnare queste esplosioni ricorrenti che però non possono certo essere liquidate come semplici reazioni violente a uno stato di disagio. Se è vero che le lotte sociali, la storia stessa del vecchio movimento operaio, hanno costruito, stratificando avvenimento su avvenimento, una memoria collettiva degli sfruttati, anche queste rivolte, considerate a prima vista come «impolitiche», sembrano aver lasciato ogni volta dietro di sé una traccia visibile. Una sorta di memoria scritta nel fuoco, dentro la quale prendono corpo rivendicazioni e bisogni sia politici che simbolici, ma che ancora fatica a essere colta dal vocabolario politico tradizionale. Anche della sinistra. Forse perché, come scriveva già nel 1997 Alain Bertho, sociologo e docente all'Università di Paris VIII, in Banlieue, banlieue, banlieue (La Dispute): «La sfida che propone la periferia è la seguente: quali conseguenze trarre dalla fine delle classi sociali come paradigma sia scientifico che politico?»

Bertho, che è cresciuto e vive ancora oggi a Saint Denis, sostiene che la periferia non è stata «abbandonata» dalla politica, ma sta invece costruendo un laboratorio sociale ancora non traducibile nelle forme a cui la politica ci ha abituato. «La banlieue – precisa intatti Bertho – è oggi portatrice di un'altra modernità, a cui vanno strette le nozioni tradizionali di inserimento e integrazione. Su questa sfida si misura però gran parte del futuro della nostra società».

In questi anni, infatti, dalla banlieue sono usciti apparentemente più dei segnali di rabbia che dei veri progetti. Segnali che spesso hanno assunto proprio le forme dello scontro. Anche se, come spiega il sociologo e ricercatore del Cnrs di Parigi Laurent Mucchielli, questa «violenza dei giovani rimanda alla violenza della società, a una violenza materiale e simbolica, che si misura sia nell'ampiezza dei problemi economici e sociali di chi vive in queste zone, sia nel divorzio tra queste popolazioni e chi dovrebbe presiedere teoricamente al loro destino». Mucchielli, che ha dedicato un volume proprio al ruolo che le violenze urbane giocano ormai da tempo nel dibattito pubblico transalpino, Violence et insécurité (La Découverte), pensa che da questo punto di vista la Francia si trovi davanti a una necessità: quella di leggere in termini sociali quanto accade nelle periferie, violenze comprese, rinunciando a porsi soltanto la questione dell'ordine pubblico.

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Pagina 46

Poi è arrivato un libro, un ampio saggio che sostiene fin dal titolo l'esistenza della Fracture coloniale (La Découverte), raccogliendo in una ventina di capitoli le prove di come questa «frattura» ereditata dal passato coloniale del paese continui a farsi sentire nella vita quotidiana di milioni di francesi. In poche settimane La fracture, uscito alla fine dell'estate 2005, è diventato non solo un piccolo caso editoriale, ma ha prodotto un ampio dibattito che si è svolto sia sulle pagine dei maggiori quotidiani che nelle università e in molti spazi simbolici del movimento antirazzista.

Un libro, perciò, che proponendo una lettura «della società francese attraverso il prisma dell'eredita coloniale», costruisce una riflessione storica che è in realtà tutta volta, se non al futuro, perlomeno al presente. Perché «oggi – ci spiega lo storico Pascal Blanchard, ricercatore presso il Cnrs di Marsiglia e curatore insieme a Nicolas Bancel e Sandrine Lemaire del volume della Découverte – la questione coloniale fa il suo ritorno perché tutti, implicitamente o esplicitamente, sentono che questo periodo occultato per tanto tempo, può tornarci utile per illuminare alcune zone in ombra del nostro presente».

«Questa riflessione – aggiunge Blanchard –, riguarda in particolare i rapporti che la "società globale" intrattiene con "l'Altro", e soprattutto con gli immigrati postcoloniali, o i quesiti sull'Islam e il suo ruolo nella società contemporanea, oggi decisamente all'ordine del giorno».

Per Blanchard, come per gli altri storici che hanno partecipato alla stesura di La fracture coloniale, non si tratta di vedere nella Francia di oggi un paese dai contorni coloniali, ma di utilizzare l'analisi di quel periodo storico per leggere le grandi contraddizioni che sul tema dell'identità nazionale come dei diritti di cittadinanza sembrano attraversare il paese. «Sarebbe un grave errore – precisa infatti Blanchard –, quello di credere che il passato coloniale possa riprodursi tale e quale nel presente. L'eredità di quel periodo, come quella di ogni altra fase storica, è passata attraverso una serie di trasformazioni durante l'era postcoloniale. Ciò che però sosteniamo con questo libro è che sarebbe illusorio, oltreché nefasto, pensare di poter comprendere la società francese di oggi occultando il periodo coloniale». Come a dire che se è nelle colonie che la République ha forgiato almeno una parte del proprio immaginario dell'«altro», specie di un'alterità divenuta oggi sempre più di coabitazione come è quella dell'Islam in Europa, non si potrà che volgersi anche a quel repertorio per comprendere fenomeni tutti attuali come l'islamofobia del dopo 11 settembre.

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Il 17 Ottobre del 1961 la lotta per l'indipendenza dell'Algeria non si era ancora conclusa, anche se solo pochi mesi dopo, con gli accordi di Evian tra il governo di Parigi e il Fronte di Liberazione Nazionale, la strada all'autogoverno degli algerini si sarebbe aperta definitivamente. Ai segnali che annunciavano la pace, però, corrispondevano in quel momento anche i segni di una frattura ancora più violenta e crudele: ad aprile c'era stato il tentativo di putsch dei generali di Algeri e avevano preso il via le azioni terroristiche dei fascisti dell'Oas, che avrebbero fatto dell'intera Francia il teatro dei loro sanguinosi attentati. Il conflitto era sbarcato sull'altra riva del Mediterraneo, trasferendo in quella che i francesi chiamano «la metropoli», il portato tragico della loro ultima grande avventura coloniale.

Per gli algerini che vivevano in Francia il clima era molto pesante: la stampa popolare voleva vedere dietro tutti gli arabo-francesi un combattente del Fln. Proprio in quei giorni la prefettura di Parigi decise di istituire il coprifuoco per tutti gli algerini e gli arabi, residenti nella città e nella sua ampia banlieue. Una decisione chiaramente discriminatoria che cercava di militarizzare il paese e a cui verrà data rapidamente una risposta. I dirigenti del Fln della capitale francese lanceranno un appello per una manifestazione pacifica e non violenta, una sorta di invasione silenziosa del centro cittadino, dei boulevard eleganti che si volevano precludere agli arabi. L'appuntamento è fissato per le otto di sera, l'ora di inizio del coprifuoco.

Una folla di uomini, donne, bambini si mette in marcia in silenzio fin dal pomeriggio. Scendono verso Parigi dalle bidonville di Nanterre, dalle periferie estreme di Gennevilliers, Saint-Denis, Levallois-Perret, Clichy. Una moltitudine muta che porta come divisa il proprio orgoglio, come i movimenti per i diritti civili degli afroamericani (attivi allora, e a cui si aggiunsero più tardi quelli dei sudafricani in lotta contro l'apartheid).

La risposta delle autorità, ma anche di molti cittadini comuni, a questa sfida democratica, sarà bestiale. Immediata scatterà la repressione con una violenza senza pari. Gli algerini saranno feriti, colpiti a morte nelle strade, gettati nella Senna, torturati. Verranno aggrediti sui boulevard, nei vagoni del metrò, stipati sugli autobus e trasportati nei commissariati dove le violenze continueranno anche nei due giorni successivi. Alla fine si conteranno circa quindicimila fermi.

Il bilancio ufficiale fornito dalle autorità parlerà soltanto di 3 morti e 64 feriti. Ma Jean-Louis Einaudi, un giovane storico, autore nel 1991, del volume La bataille de Paris, 17 Octobre 1961 (Seuil), dopo più di cinque anni di ricerche – nessun archivio pubblico gli è mai stato messo a disposizione – ne ha contati circa 130: 74 uccisi da colpi di pistola o in seguito alle botte ricevute o annegati, e altri 66 scomparsi nei giorni seguenti a quel 17 ottobre. Dopo aver raccolto centinaia di testimonianze orali, Einaudi ritiene però che complessivamente siano stati più di 200 gli arabi uccisi in quei giorni a Parigi.

Dunque una vera strage, compiuta in nome della guerra coloniale che la Francia si avviava a perdere definitivamente in Algeria. E del razzismo. Franηois Maspero, che quel giorno marciava con un gruppo di giovani arabi, ricorda ancora come i poliziotti, che si lanciavano contro il corteo silenzioso, gridassero: «Non i bianchi, non colpite i bianchi». «Di quel giorno – aggiunge l'intellettuale francese – ricordo sopratutto il rumore, il rumore dei manganelli e degli scarponi degli agenti sulle teste delle persone. Tutt'intorno intanto c'era solo il silenzio, il silenzio dei tanti francesi che guardavano senza intervenire, senza fare nulla».

Eppure, malgrado possa apparire assurdo, di quella giornata non si parlerà più, e questo per decenni. Sarà solo negli anni Ottanta, quando la Francia farà nuovamente i conti con il proprio razzismo, dopo i primi successi elettorali del Front National di Jean Marie Le Pen, che il 17 di ottobre si trasformerà in una giornata di riflessione e di mobilitazione democratica. Anche se sarà un giallista, uno scrittore di romanzi polizieschi come Didier Daeninckx, che con un libro di grande successo Meurtres pour mémoire (A futura memoria, Mondadori), pubblicato nel 1984, porterà davvero la vicenda di fronte all'opinione pubblica.

Sarà poi nel 1998, in occasione del secondo processo contro Maurice Papon – prefetto della Gironda durante l'occupazione nazista del paese e responsabile della deportazione verso i campi di sterminio di migliaia di ebrei (che sarà condannato per complicità in crimini contro l'umanità) – la Francia scoprirà un nuovo tassello di quella terribile giornata. Perché nell'ottobre del 1961 il prefetto di Parigi era proprio Papon che, da zelante funzionario dello stato, aveva costruito la propria carriera, prima con il collaborazionismo e poi massacrando gli algerini per le strade della capitale.

Ma anche a sinistra, come ha spiegato il filosofo Etienne Balibar in Le frontiere della democrazia (Manifestolibri), si è faticato molto a riconoscere a quella tragedia il suo peso reale. «Si tratta di una vicenda troppo lontana – ha spiegato Balibar – dal classico conflitto sociale rappresentato dalla polizia che reprime le lotte operaie». Del resto, lo storico Benjamin Stora, autore di alcune delle più recenti e documentate opere sul conflitto franco-algerino, sostiene da tempo che «Il problema dell'immigrazione di cui si parla tanto oggi in Francia, non è un problema di immigrazione, bensì il problema della presenza araba nel paese. Si ricade così nell'epoca coloniale, non assunta, non rivista. Tornano le ideologie della revanche e dell'esclusione».

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