Copertina
Autore Guido Caldiron
Titolo La destra sociale da Salò a Tremonti
Edizionemanifestolibri, Roma, 2009, Contemporanea , pag. 160, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-470-9
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe politica , economia , destra-sinistra , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

INTRODUZIONE                                             7


CAPITOLO PRIMO
IL NOVECENTO. RADICI CULTURALI ED ESPERIENZE STORICHE   17


La terza via passata per Salò                           17
Operai e guerrieri per Ernst Jünger                     20
Il welfare del nazionalsocialismo                       25
Ezra Pound contro l'usurocrazia                         28
Né destra né sinistra: il peronismo                     32


CAPITOLO SECONDO
IL LABORATORIO INTERNAZIONALE                           37


L'anticapitalismo della Nouvelle Droite                 37
Front national, le case départ                          49
Storytelling: quando la destra racconta la storia       60
Usa, il volto sociale della Rivoluzione conservatrice   63
Quando la crisi è razzista                              80
Euroscettici contro l'establishment                     86


CAPITOLO TERZO
IL MODELLO ITALIANO                                     93


Il popolo della libertà                                 93
Governare la crisi da destra. Tremonti e Sacconi       102
La "destra sociale" dal Msi ad An                      114
Il sindacalismo nazionale                              128
Il mutuo sociale e il fascismo del Terzo Millennio     137
La Lega primo partito operaio                          147


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione



Gli "operai" indossano i gilet fosforescenti e i caschetti protettivi gialli sopra jeans e scarponi da lavoro, sono dei tipici "muratori inglesi", ligi alle regole e alla fatica, come quelli raccontanti da Ken Loach in molti suoi film. I "padroni" hanno completi scuri e occhiali fumé, si direbbero operatori della City, solo che dalle loro giacche spuntano mazzette di banconote, altre, sparse, sono ai loro piedi, quasi avessero cercato di cacciarsele tutte nelle tasche, ma senza successo. Non è però la sola stranezza della scena, loro, i ricchi, a un certo punto indossano delle maschere di carnevale a forma di testa di maiale e, grugnendo, quei soldi che sembrano fargli così tanta gola cominciano a mangiarseli. A questo punto gli "operai" si avvicinano, minacciosi, stringendo dei cartelli in mano e gridando insulti. Sui cartelli c'è scritto "British jobs for british workers" e "Punish the pigs". I "maiali" da punire sono esterefatti, poi spaventati, alla fine scappano via sollevando una nuvola di banconote. Il pubblico del teatro municipale di Grays, nella contea dell'Essex, riempito di Uníon Jacks e altri simboli del nazionalismo inglese, sghignazza e batte la mani, mostra di aver gradito lo show. Per "punire i maiali", gli è stato spiegato, si deve votare per il British National Party ed è certo che qualcuno, in sala, ci sta già facendo un pensierino.

"British jobs for british workers": lo slogan era già risuonato all'inizio dell'anno in varie zone delle regioni settentrionali del Regno Unito. «Da tre giorni centinaia di operai (...) stazionano davanti ai cancelli della raffineria Lindsey Oil di Grimsby, nel Lincolnshire, per contestare la decisione della Total – padrona dello stabilimento – di appaltare la costruzione di un impianto ad alta tecnologia alla ditta italiana Irem», racconta La Stampa del 31 gennaio 2009. «Millecinquecento in Scozia, quasi duemila in Inghilterra, qualche centinaio in Galles. La protesta contro i lavoratori italiani della Irem di Siracusa impegnati nella raffineria Total di Lindsey nel Lincolnshire esplode nel Regno Unito, coniugando istanze antiche e pulsioni nuove, seppellite, come parevano essere dal grande totem della globalizzazione», precisa Il Sole 24 ore dello stesso giorno. «La protesta – spiega uno degli scioperanti – non è contro gli operai di altri Paesi, ma contro le imprese straniere che discriminano la manodopera locale. È una battaglia per poter lavorare a casa nostra. Non c'è nulla di razzista».

Sarà proprio nella circoscrizione elettorale Yorkshire e Humber – comprendente anche la cittadina di Grimsby – che alle europee di giugno dello stesso anno, il British National Party, poco più che un cartello elettorale di neonazisti, raggiungerà il suo score più alto, il 9,8% dei voti rispetto al 6,2% nazionale, eleggendo uno dei suoi due eurodeputati. Si tratta di una vittoria, dichiarerà subito Nick Griffin leader del Bnp, contro «il razzismo subito ogni giorno dalla popolazione bianca indigena».

Secondo il sociologo Marco Revelli, quello arrivato all'inizio del 2009 dagli scioperi nel nord dell'Inghilterra è «un segnale importante di come la crisi morde sulle società. Sarà la guerra tra poveri se non si costruiscono anticorpi nella cultura politica. C'è un istinto primordiale alla chiusura nazionalistica che si diffonde in tutti i paesi. La crisi enfatizza tutte le fratture nel momento in cui scatta il meccanismo della sopravvivenza. È la "mors tua, vita mea" (...) Il mondo orribile del neoliberismo ha al di sotto una dimensione ancora più orribile che è quella del mondo post-neoliberista e iperprotezionista. È quello che è successo tra gli anni Venti e Trenta. Il rimbalzo protezionista dopo l'ubriacatura liberista è micidiale. Può innescare una spirale in fondo alla quale c'è la guerra e la recrudescenza dei conflitti di razza. Dalla crisi del '20 si è usciti con la Seconda guerra mondiale, mica con il New Deal».

Già, "la crisi", perché nell'anno che segna l'anniversario del "venerdì nero" del 25 ottobre del 1929, è questo lo scenario con cui il mondo torna a misurarsi.

«Tutto è cominciato negli Stati Uniti con í mutui subprime. Vale a dire coi mutui contratti da persone che non possedevano i tradizionali requisiti di affidabilità economica per indebitarsi. Col crollo del mercato immobiliare, la gente ha smesso di pagare le rate di quei mutui. Era l'estate del 2007, e le fondamenta del sistema hanno cominciato a tremare. La crisi è partita da lì. Come nel gioco del domino, l'insolvenza ha colpito una lunga catena di istituzioni bancarie e finanziarie. Dagli Stati Uniti il contagio ha aggredito il resto del mondo e in particolare l'Europa. Dalla finanza e dalla caduta inarrestabile delle Borse, si è allargato all'economia reale: alle imprese, alle famiglie, ai cittadini», spiegano i redattori di la voce.info nel volume collettivo che hanno firmato: Il mondo sull'orlo di una crisi di nervi (Castelevecchi, 2009). «All'inizio fu chiamata "crisi dei mutui". Poi "crisi finanziaria". Poi, ancora, allungò i tentacoli e divenne "crisi economica". Come un virus mutante che invade l'organismo, la crisi è passata dai gangli finanziari alle vene e alle arterie dell'economia reale, creando milioni di disoccupati», aggiunge il giornalista economico Fabrizio Galimberti in Sos economia (Laterza, 2009) che ricorda quanto possa pesare il paragone con le vicende di settant'anni prima: «Il '29, l'anno simbolo di un grande crollo della Borsa, fu seguito da molti anni di crisi, quasi l'intero decennio degli anni Trenta, un periodo conosciuto come la Grande Depressione. (...) Una crisi non della Borsa ma dell'economia reale, con fallimenti, chiusure, disperazione, disoccupazione, sofferenze...». Anche allora ci fu chi, a destra, seppe trarre beneficio dal peggioramento delle condizioni di vita e dalla crisi economica, sociale e politica. In particolare in Germania furono i nazisti.

Immaginare un parallelo, per altro non fondato sul piano della concretezza, tra il 1929 e il 2009, significa fare i conti con una parte delle radici culturali della destra europea che seppe allora, come sta cercando di fare oggi, costruire una propria "cultura della crisi" e darsi un forte profilo "sociale".

«Il crollo del mercato azionario statunitense nell'ottobre 1929 determinò una crisi bancaria che interessò ben presto la Germania con la richiesta, da parte delle banche americane, dell'estinzione dei prestiti a medio termine. La crisi finanziaria si trasformò rapidamente in crisi della produzione, che si allargò a macchia d'olio con i licenziamenti in massa, la diminuzione delle entrate statali e l'inevitabile crollo della domanda. Fu così che pian piano un disastro economico si trasformò in conflitto politico e in crisi radicale del sistema della Repubblica di Weimar», scrive lo storico statunitense Eric D. Weitz in La Germania di Weimar (Einaudi, 2008). «La repubblica liberale – chiedeva ai tedeschi l'estrema destra guidata da Adolf Hitler – è capace di risolvere gli enormi problemi economici del paese o ne è, forse, la causa?». «In questa fase particolare i suffragi dell'elettorato convergenti su Hitler e sul suo partito – precisa Walter Laqueur, tra i maggiori storici del fascismo, ne La Repubblica di Weimar (Bur, 1988) – furono essenzialmente l'espressione d'uno stato d'animo, una protesta diretta contro la situazione esistente assai più che il consenso a un programma politico specifico. Il vero significato del voto non era un sì al nazismo; era un no al modo in cui il paese veniva governato, esprimeva il convincimento generale che i partiti politici tradizionali e il parlamento si mostravano incapaci, proclamava ch'erano necessari uomini e idee nuovi per venire a capo della crisi». Sullo sfondo un'economia distrutta e, soprattutto, sei milioni di disoccupati.

Prima ancora di proporre delle "soluzioni", che poi sarebbero arrivate, terribili, una volta preso il potere, la destra nazista si fece interprete di un clima. Del resto la cultura della destra nel periodo tra le due guerre mondiali fu soprattutto "cultura della crisi": indicò il declino in atto e propose le sue terribili soluzioni. Gli intellettuali della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice tedesca furono gli interpreti più noti di quella fase della cultura europea che, anche se solo in parte, contribuì alla genesi dei fascismi continentali. Con Il tramonto dell'Occidente (Longanesi, 2008), Oswald Spengler si fece interprete di quella sorta di senso comune che cominciava a prendere piede, propugnando un rinnovamento della società a partire dai suoi valori "tradizionali" e in opposizione sia alle istanze socialiste che allo sviluppo di un capitalismo senza regole. «Comprendere se la cultura occidentale è al tramonto e quali sono le ragioni della decadenza, diventa la condizione necessaria per affidarsi a un destino di declino e prepararsi all'evento della rinascita», scrive Stefano Zecchi nell'introduzione al libro di Spengler, sottolineando che «quando il partito di Hitler prese il potere, la sua propaganda si preoccupò subito di mostrare l'inversione di un processo: contro la coscienza della disgregazione e del tramonto furono usate parole come "risveglio", "rottura", "insurrezione", per sottolineare che se l'epoca borghese stava per finire, qualcosa di nuovo stava nascendo. Il nazionalsocialismo si presentava in questo modo come superamento del nichilismo, dell'ideologia scientista del progresso e della dittatura del denaro».

Ma, anche al di là del caso tedesco, si chiede ancora Laqueur in un'altra sua opera – Fascismi, "Passato, presente, futuro" (Tropea, 2008) – «quali settori della popolazione erano affascinati dal fascismo? Essi variavano da paese a paese, a seconda delle tradizioni politiche e delle condizioni sociali. In genere, la piccola borghesia mostrò più affinità col fascismo, specie gli individui che avevano sofferto maggiormente gli effetti della depressione». Quanto agli operai, «uno degli assiomi fondamentali del fascismo era la sua contrarietà alla lotta di classe. A un certo punto, gli elementi di sinistra nell'ideologia fascista (tedesca e italiana) vennero cassati (...) Il conflitto venne in teoria risolto con la fondazione dello Stato corporativo, la cui legge sui rapporti di lavoro collettivo proibiva sia gli scioperi sia le serrate. In Germania l'istituzione del Fronte del lavoro, col suo relativo codice, si fondava sul principio autoritario e mise fine a qualsiasi azione indipendente da parte della classe operaia».

Ma nella genesi del fascismo in Europa, c'è chi ha voluto leggere anche altro. Già nel 1972 con la pubblicazione di Maurice Barrès et le nationalisme francais (Pfnsp) la prima di una serie di ricerche dedicate alle radici culturali del fenomeno, lo storico Zeev Sternhell ha avanzato la sua ipotesi che identifica nel fascismo una "nuova destra" antiborghese e rivoluzionaria, contrapposta alla vecchia tradizione conservatrice. Così, come ha spiegato Marco Revelli nell'introduzione a Nascita dell'ideologia fascista (Baldini & Castoldi, 2002), il libro forse più importante di Sternhell, l'essenza più profonda del fascismo andrebbe cercata nello spostamento di centralità dalla "classe" alla "nazione" come nuovo "soggetto rivoluzionario": «Che qualifica, appunto, il fascismo come "ideologia di rottura" per definizione, radicalismo allo stato puro, capace di catalizzare tutte le istanze antagonistiche (...) al di là del loro fondamento materiale, sostituendo alla "rivoluzione sociale" una "rivoluzione etica" (una "rivoluzione senza proletariato") e all'inerzia deterministica delle forze sociali la potenza volontaristica dello Stato».

Ma se queste sono state le forme con cui "i fascismi" hanno cercato di intercettare nel corso del Novecento le trasformazioni sociali e le conseguenze della grande crisi della fine degli anni Venti, con quali caratteristiche "le nuove destre" cercano di darsi oggi un profilo sociale nel pieno di una nuova tempesta dell'economia internazionale?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Cap. I
Il Novecento
Radici culturali ed esperienze storiche



LA TERZA VIA PASSATA PER SALÒ

«Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione. (...) In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all'equa fissazione dei salari, nonché all'equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori». Verona, 14 novembre 1943, al congresso del Partito Fascista Repubblicano viene letto il testo del "Manifesto" che riassume le idee della Repubblica Sociale Italiana nata a Salò per proseguire l'esperienza del fascismo dopo caduta del regime di Mussolini. I punti del testo sono 18 e accanto a quello che annuncia la "socializzazione" delle imprese, con la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione, ce ne è uno che stabilisce che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». È in quel clima, dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia a giugno e la proclamazione dell'armistizio l'8 settembre, che ciò che resta del fascismo, all'ombra dei carri armati tedeschi, scrive la sua pagina "sociale" destinata a maggiore fortuna, anche se postuma.

«Il mito della socializzazione sarà lungamente presente nel neofascismo. Lo stesso neofascismo nell'esperienza repubblicana, pur riconciliandosi nel corso degli anni con gli aspetti più "compromissori" del regime (...), continuerà pur sempre a trovare nell'esperienza repubblichina il nucleo ideale e sentimentale più coinvolgente e di maggiore presa emotiva», spiega Gianpasquale Santomassimo in La terza via fascista (Carocci, 2006). «Per quasi cinquant'anni, – aggiungono Luciano Lanna e Filippo Rossi in Fascisti immaginari (Vallecchi, 2003) – il ricorso al "corporativismo" e alla "socializzazione", sono stati l'occasione di un "riscatto" psicologico per moltissimi missini, permettendogli di intravedere nel proprio patrimonio ideologico e nella propria progettualità politica l'idea di una democrazia sostanziale e di un modello politico e sociale post-liberale, superiore e vincente rispetto alle soluzioni liberticide del marxismo». Ciò che appariva come una sfida lanciata alla sinistra e alla conquista del mondo del lavoro, come quel "Partito di lavoratori, Partito proletario, animatore di un nuovo ciclo sociale, senza più remore plutocratiche" che annunciava lo stesso Mussolini a pochi mesi dalla sua fucilazione da parte dei partigiani, avrebbe perciò attraversato – riproposta nei programmi elettorali e negli statuti del Movimento Sociale Italiano e del sindacato Cisnal ad esso legato – ben più di mezzo secolo di storia italiana, al punto di riemergere oggi nelle proposte sostenute dal Popolo della Libertà per "la partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende".

Il cuore "sociale" della destra italiana batte cioè lungo un asse della memoria che sembra rimandare a quel capitolo della storia del Novecento. Ma, all'epoca, di cosa si trattò davvero?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

IL WELFARE DEL NAZIONALSOCIALISMO

«Come è potuto accadere? Come poterono i tedeschi consentire che in mezzo a loro fossero commessi crimini senza precedenti e in particolare lo sterminio degli ebrei europei? La risposta è chiara. Hitler risparmiò l'ariano medio a scapito delle basi esistenziali degli altri. Per tenere alto il morale del proprio popolo, il governo del Reich rovinò le altre monete europee imponendo contribuzioni sempre più elevate. Per garantire lo standard di vita nazionale fece predare molti milioni di tonnellate di viveri per sfamare sul posto i soldati tedeschi e trasportare in Germania tutto il resto su cui poté mettere le mani. Con la sua guerra razzista e di rapina, il nazionalsocialismo fece in modo che in Germania vigessero un'eguaglianza e una mobilitazione in funzione dell'ascesa sociale senza precedenti. Ciò lo rese contemporaneamente popolare e delinquenziale. E furono la possibilità di vivere materialmente bene e i vantaggi indiretti tratti dal grande crimine — di cui i singoli non furono personalmente responsabili, ma i cui frutti erano bene accetti – a determinare l'atteggiamento della maggior parte dei tedeschi dinnanzi alle premure del regime. L'assenza nella Germania nazista di un'opposizione interna degna di menzione e la scarsità di sensi di colpa nella Germania postbellica si spiegano con lo stesso contesto storico».

Il libro in cui il giovane storico tedesco Gotz Aly avanza questa tesi ha un titolo esplicito: Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo (Einaudi, 2007). Alla base dell'affermazione che vi è contenuta, c'è una lettura per così dire "sociale" del razzismo nazista: «La Nsdap (il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) – spiega infatti Aly – si basava sulla teoria dell'ineguaglianza delle razze e promise però ai tedeschi, contemporaneamente, una maggiore uguaglianza di opportunità di quanta ve ne fosse mai stata in Germania ai tempi del Kaiser e anche durante il periodo detto della repubblica di Weimar».

Il "mito ariano" su cui era fondata l'ideologia nazista contemplava del resto anche una versione dell'antisemitismo sotto forma di critica al sistema economico vigente, vale a dire il capitalismo, di cui gli ebrei sarebbero stati i principali animatori. Come ha spiegato con precisione lo storico Gorge L. Mosse ne Le origini culturali del Terzo Reich (Il Saggiatore, 2008): «L'antisemitismo poteva sintetizzare in sé tutte le accuse di inquinamento razziale, di sabotaggio economico e di implacabile ostilità nei confronti del Volk tedesco, oltre ad attribuire agli ebrei il carattere di incarnazione dell'inferiorità razziale, del capitalismo oppure del bolscevismo». I "rivoluzionari nazional-patriottici tedeschi", fautori di una terza via tra capitalismo e marxismo, operavano così «una fusione tra primitive concezioni economiche e onnipresente religiosità germanica, in modo da dirigere gli attacchi non tanto contro la borghesia, di cui pure si condannavano le inclinazioni plutocratiche, quanto contro gli ebrei».

Questo "socialismo degli imbecilli", secondo la definizione dell'antisemitismo data da August Bebel, non poté essere rivendicato da nessuno all'indomani della Seconda guerra mondiale. Anche se è evidente una certa sua sinistra attualità in rapporto al clima creato oggi dalla crisi e sfruttato in termini razzisti dalle destre.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 102

GOVERNARE LA CRISI DA DESTRA. TREMONTI E SACCONI

Vincere la paura con l'identità

«La crisi che viviamo non è solo una crisi economica. È soprattutto una crisi sociale e morale. È la crisi del modello europeo finora dominante in Europa ed è il prodotto di un errore. Il mercatismo, la riduzione ideologica dell'uomo nel mercato – esisto per consumare, consumo e dunque esisto –, basa infatti la sua essenza su di un calcolo troppo sintetico, un calcolo che si sta dimostrando sbagliato. Per non continuare nell'errore non basta dire che ora al mercato si deve "aggiungere" la politica (...) Per cambiare, l'unica politica che si può fare è una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una "filosofia" politica diversa, una filosofia che ci sposti dal primato dell'economia al primato della politica. Serve una leva che — come ogni leva — per funzionare deve però avere un punto d'appoggio. Questo punto può essere uno solo: quello delle "radici", le "radici giudaico-cristiane dell'Europa"».

Giulio Tremonti è ministro dell'Economia e delle Finanze del IV governo Berlusconi, eppure a sentirlo parlare lo si potrebbe quasi prendere per un telepredicatore, di quelli che hanno fatto le fortune della destra americana fino all'arrivo di Obama — nel febbraio del 2009 durante la trasmissione Annozero ha esclamato: «Questo è il momento di chiudere i libri di economia e di aprire la Bibbia». Al punto che il suo libro La paura e la speranza, (Mondadori, 2008) — da cui è tratta la lunga citazione iniziale – potrebbe essere preso come una sorta di manifesto della via indicata dalla destra per affrontare prima la globalizzazione e ora la crisi economica internazionale. Questo perché in quel testo Tremonti traccia in qualche misura le "coordinate" culturali da mettere in campo – accanto a misure parzialmente protezionistiche in particolare a difesa dall'"invasione" delle merci cinesi – per affrontare le grandi sfide sociali di questi anni, costruendo una stabile egemonia delle destre sul nostro paese. Non a caso il sottotitolo di La paura e la speranza, uscito nella primavera del 2008 e quindi prima del crack finanziario, recita comunque "Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla".

«Per la difesa dell'Europa non basta il Pil — scrive Tremonti — serve un demos (...) Per il demos serve la politica, e alla politica servono tanto una cultura e uno spirito collettivo positivo – un ethos – quanto il potere per affermarlo. I popoli domandano e i governi devono poter rispondere; le imprese domandano decisioni; i bisognosi domandano assistenza; nell'insieme i popoli domandano certezze e sicurezze». Ma non si può «iniziare un nuovo corso partendo dall'economia - dai "valori secondi" –, ma dai "valori primi" di un nuovo ordine morale. Un nuovo ordine morale porta infatti con sé e naturalmente anche progresso economico, ma senza un nuovo ordine morale ci sono solo declino generale e conflitto sociale». Anche perché hanno fallito entrambe le "estremizzazioni" con cui l'economia "è entrata" nella politica: «prima il comunismo (che è stato in parte dominante una specifica ideologia economica) e poi il mercatismo (l'economia è tutto, sa tutto, fa tutto)».

La terza via di Tremonti, per affrontare ciò che viene definito come "il lato oscuro della globalizzazione" – vale a dire "il vocabolario" con cui difendersi dall'invasione delle merci cinesi, o delle nuove economie emergenti, dall'impoverimento dei lavoratori europei in una prima fase e, oggi, dagli effetti di una crisi di proporzioni "globali" –, assume così l'aspetto di un progetto ideologico, quello di una nuova destra che concilia mercato e identità, difesa dei lavoratori autoctoni e chiusura della frontiere, populismo e ristrutturazione, al ribasso, del welfare, riduzione dei diritti nel mondo del lavoro e proposte "partecipative" che leghino saldamente imprenditori e dipendenti, riducendo la conflittualità e aumentando la produttività. Il tutto tenuto insieme da un impianto culturale che esalta l'identità".

«Il codice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime: "identità" e "valori" — spiega infatti il ministro –. L'identità è fatta dai valori, i valori fanno l'identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni "proprie". (...) Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono "altre". Perché è proprio e solo nella "differenza", nella comparazione differenziale, che si forma il carattere unitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica "noi-altri". Se il "noi" non viene marcato, ma all'opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è "altro" e niente è "noi"».

| << |  <  |