Copertina
Autore Guido Caldiron
Titolo L'impero invisibile
SottotitoloDestra e razzismo dalla schiavitù a Obama
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Contemporanea , pag. 176, cop.fle., dim. 14,4x21x1,1 cm , Isbn 978-88-7285-598-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe paesi: USA , destra-sinistra , storia: America
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Indice


Introduzione                                                          7

CAPITOLO PRIMO
LA SCHIAVITU CON UN ALTRO NOME (1861-1945)

L'eredità dello schiavismo. Dalla Guerra civile alla segregazione    17
Il Ku Klux Klan dalla resistenza bianca al fascismo                  21
National building: immigrazione, razzismo e antisemitismo            25
I fondamentalisti processano Darwin nel Tennessee                    29
Il New Deal, i repubblicani e il socialismo in America               33
Joseph McCarthy e la paranoia anticomunista                          35

CAPITOLO SECONDO
IL SOGNO DEGLI AFROAMERICANI E LA RIVINCITA DEI BIANCHI (1945-2008)

Martin Luther King e la rivoluzione nera                             37
Il terrorismo del Klan contro i diritti civili                       43
George Wallace: «Tutti gli americani odiano i neri»                  49
Barry Goldwater e l'invenzione della nuova destra                    53
John Birch Society. Anticomunismo e valori americani                 55
Richard Nixon e la maggioranza silenziosa                            57
Il Vietnam perduto: da John Wayne a John Rambo                       61
Christian Identity, quando la religione è razzista                   63
Anita Bryant e la crociata contro gli omosessuali                    65
Earl Turner alla guerra delle razze                                  67
Proposition 13: la destra contro le tasse                            69
L'antisemitismo incendia le campagne. Il Posse Comitatus             71
Louis Beam, Robert E. Miles e la Leaderless Resistance               73
The Order e la Repubblica Ariana del Nordovest                       75
Maggioranza morale, destra cristiana e guerra dei valori             77
Ronald Reagan e la Rivoluzione conservatrice                         83
Il Klan dopo il Klan. David Duke e Stormfront                        93
Le Milizie contro il Nuovo Ordine Mondiale                           95
L'Fbi in guerra con gli americani: Ruby Ridge e Waco                101
Proposition 187: la California contro gli immigrati                 105
The Bell Curve e l'ineguaglianza delle razze                        107
Timothy McVeigh, un terrorista americano a Oklahoma City            109
Rudolph Giuliani e la tolleranza zero a New York                    113
Rupert Murdoch e il partito di Fox News                             117
Michael Douglas contro l'affirmative action                         121
Neoconservatori: think tank e gramscismo di destra                  123
George W Bush: «Dio lo vuole». La Bibbia e l'Impero                 127
Gli skinhead e la Woodstock ariana                                  137
Samuel Huntington, i latinos e lo scontro di civiltà                141
Minutemen e nativisti difendono la frontiera                        145

CAPITOLO TERZO
UN HUSSEIN ALLA CASA BIANCA (2008-2010)

Patriots contro Obama: la new wave delle Milizie e i lupi solitari  149
Tea Party Nation. La piazza di destra                               153
Toxic talk, la destra in onda. Rush Limbaugh e Glenn Beck           157
Guerra all'aborto al Super Bowl                                     159
Sarah Palin e la Gomorra del Partito Repubblicano                   161
La Corte suprema e la mano destra del diavolo                       165
Il futuro dell'America nelle strade dell'Arizona                    167

Bibliografia                                                        171


 

 

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Pagina 7

Introduzione



«La razza è un problema che penso questa nazione non si possa permettere di ignorare. (...) Come scrisse William Faulkner, "Il passato non è morto e sepolto: di fatto non è nemmeno passato". Non occorre raccontare la storia dell'ingiustizia razziale in questo paese, ma dobbiamo ricordarci che molte delle disparità che ancora oggi affliggono la comunità afroamericana possono essere collegate direttamente a ineguaglianze arrivate fin qui da una generazione precedente che ha sofferto sotto l'eredità brutale della schiavitù. (...) Alcuni si sono tracciati a forza una strada per prendere un pezzo del "Sogno americano", ma molti non ce l'hanno fatta: molti sono stati alla fine sconfitti, in un modo o nell'altro, dalla discriminazione. (...) Anche per i neri che ce l'hanno fatta, i problemi della razza e del razzismo continuano a definire la loro visione del mondo in modo significativo. (...) Le memorie dell'umiliazione, del dubbio e della paura non sono scomparse, così come non sono scomparse la rabbia e l'amarezza di quegli anni». «Di fatto, una rabbia simile esiste anche in segmenti della comunità bianca. La maggior parte degli americani bianchi di classe medio-bassa non pensano di essere stati particolarmente privilegiati dalla loro razza. La loro esperienza è l'esperienza tipica dell'immigrato: nessuno ha regalato loro niente, si sono costruiti tutto da zero. Hanno lavorato duro per tutta la vita, spesso solo per vedere il loro posto di lavoro trasferito all'estero o la loro pensione azzerata dopo una vita di fatiche. Sono preoccupati per il loro futuro e sentono che i loro sogni stanno sfuggendo. (...) Così, quando si sentono dire di mandare i loro figli in una scuola dall'altra parte della città, quando capiscono che un afroamericano ha un vantaggio nel trovare lavoro o un posto in una buona università a causa di ingiustizie che loro non hanno mai commesso, quando si sentono dire che le loro paure sulla criminalità in alcuni quartieri urbani sono in qualche modo dovute al pregiudizio, il risentimento cresce progressivamente. Al pari della rabbia della comunità nera, questi risentimenti non sempre vengono espressi nell'ambito della civile convivenza, ma hanno contribuito a costruire il paesaggio politico per almeno una generazione. La rabbia diffusa nei confronti dello stato sociale e della discriminazione positiva ha contribuito a costruire il blocco sociale che ha sostenuto Reagan. (...) Conduttori di talk show e commentatori conservatori hanno costruito intere carriere smascherando finte accuse di razzismo e liquidando al contempo discussioni legittime sull'ingiustizia o la disuguaglianza razziale in termini di politically correct o razzismo al contrario».

Con queste parole Barack Obama, in un discorso pronunciato nel marzo del 2008 al Constitution Center di Philadelphia, in Pennsylvania, affrontava un tema che, inesorabilmente, ha accompagnato la sua corsa verso la Casa Bianca. Di lì a qualche mese in molti si sarebbero chiesti se, a 150 anni dall'abolizione della schiavitù, la nomina a presidente di un afroamericano, stava conducendo gli Stati Uniti verso un'era post-razziale, vale a dire una stagione in cui il colore della pelle di un individuo non avrebbe più contato nulla.

«Il razzismo – ha scritto di recente Enrico Beltramini, docente in un'università della California, interrogandosi proprio sull'avvento de L'America post-razziale – ha attraversato la vita di decine di generazioni di americani che hanno pagato costi altissimi in nome della diversità razziale. Ha costruito muri di diffidenza e d'odio, ha scatenato il male e ha compresso íl bene. E oggi questi muri vacillano, crollano, e dalle macerie escono storie fino ad oggi afone, le voci di milioni di uomini e donne che hanno attraversato la storia in silenzio, perché la storia non era interessata a loro, non era fatta per loro. Storie di milioni di bianchi e neri che hanno partecipato delle stesse speranze di eguaglianza e hanno sofferto delle stesse delusioni, che hanno sognato e lavorato per un orizzonte d'inclusione, di comune appartenenza, di condivisione. E che ora festeggiano». Ovviamente, l'elezione di Obama, spiega Beltramini, non basta a rimuovere le disuguaglianze razziali che, in termini economici, politici, sociali e urbanistici, continuano ancora oggi a caratterizzare gli Stati Uniti.

La presidenza Obama fotografa però un fenomeno che può essere destinato a mutare profondamente l'identità del paese: «il declino della superiorità numerica e culturale dei bianchi». In questo senso la vittoria di un candidato afroamericano appare più come il portato di trasformazioni ancora in atto che il punto d'arrivo di un processo. «Che piaccia o meno – spiegava in un'intervista a Le Monde Eric Forner, uno dei maggiori storici americani, a conclusione delle elezioni presidenziali –, il paese va verso una società sempre più diversificata, non bi-razziale, ma decisamente multirazziale. Del resto Obama ha vinto a livello nazionale, dove i neri non rappresentano che il 12% della popolazione». È di questa trasformazione che parlano del resto i dati del Censimento americano del 2010 che annunciano, in base alle percentuali di crescita demografica delle diverse comunità, come entro il 2050 i bianchi perderanno il loro primato numerico a favore delle minoranze, in particolare di quella ispanica in grande crescita, mentre già nel 2020 "il sorpasso" si realizzerà nella fascia di età inferiore ai 18 anni.

In questo senso, dopo oltre un secolo e mezzo di predominio degli wasp, i bianchi di origine anglosassone e di fede protestante, e delle altre famiglie rappresentanti la "whiteness" statunitense, le cose, almeno sulla carta, sono destinate a cambiare. Questo dato, insieme alla novità rappresentata dall'elezione di Obama, sembra invitare ad una sorta di bilancio: interrogarsi sul ruolo e la funzione svolta dal pregiudizio razziale nella storia della democrazia americana. Partendo da una necessaria premessa, quella che gli economisti Alberto Alesina, Edward Glaeser e Bruce Sacerdote hanno posto al centro di una ricerca sul welfare realizzata per il Nationl Bureau of Economic Research: «Le discordie razziali determinano in misura significativa le opinioni riguardo ai poveri. La presenza preponderante dei membri delle minoranze tra le fasce più povere della popolazione americana comporta che qualsiasi misura di redistribuzione del reddito vada a beneficio in primo luogo delle minoranze. Gli avversari della redistribuzione ricorrono regolarmente ad argomenti retorici basati sulla razza per combattere le politiche di sinistra. In tutti i paesi la frammentazione razziale è un indicatore affidabile del grado di redistribuzione. Negli Stati Uniti la razza rappresenta l'indicatore più importante del livello di consenso per lo Stato sociale. I difficili rapporti tra le razze in America sono palesemente una delle principali ragioni dell'assenza di uno Stato sociale americano». E negli ultimi quarant'anni, dall'elezione di Richard Nixon nel 1968 a quella di Barack Obama due anni fa, lo strapotere della destra – oltre un quarto di secolo di predominio repubblicano anche attraverso le presidenze di Reagan e Bush Jr. – si è caratterizzato proprio per un sistematico smantellamento dello stato sociale. Ma se i repubblicani, nati come ha raccontato da poco la storica della New York University Kim Phillips-Fein in Invisibile Hands. The Making of the Conservative Movement from the New Deal to Reagan, per rappresentare gli interessi dell'impresa, hanno costruito le loro fortune su questa versione "sociale" del pregiudizio razziale, il razzismo è profondamente iscritto nello sviluppo stesso della società statunitense.

Il tema può essere affrontato sinteticamente attraverso alcune chiavi di lettura fondamentali, vale a dire il modo in cui il razzismo ha accompagnato lo stesso definirsi dello spazio territoriale del paese, e in parte, di conseguenza, delle sue istituzioni, nella sua lunga espansione verso la frontiera occidentale, la conquista del West; e le caratteristiche che ha assunto all'interno della battaglia per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e nella ricerca di cittadinanza da parte delle successive ondate migratorie, elementi che hanno caratterizzato la trasformazione dell'identità bianca in modo da poterle continuare a garantire la supremazia sui neri.

Illuminanti, sul primo punto, appaiono le riflessioni esposte già a metà dello scorso decennio dalla storica del Connecticut Catherine McNicol Stock nel suo Rural Radicals. Righteous Rage in the American Grain, una ricostruzione di come le culture razziste abbiano accompagnato il farsi dell'America, nelle aree rurali e lungo le linee di espansione della frontiera interna, dalla Virginia del Settecento all'apparizione delle Milizie "patriottiche" a metà degli anni Novanta del Novecento. Prima dell'attentato di Oklahoma City «gli americani pensavano che avere a che fare con i fertilizzanti significasse far crescere le piante e non maneggiare gli ingredienti di una bomba», spiega McNicol Stock riferendosi al fatto che l'ordigno confezionato dall'estremista di destra Timothy McVeigh per la strage del 19 aprile 1995 – la più grave mai avvenuta nel paese prima dell'11 settembre, conclusasi con un bilancio di 168 morti e 680 feriti –, era stato realizzato con del comune fertilizzante disponibile in molte fattorie americane. Un modo, per la giovane storica, di individuare una sorta di "normalità" nello sviluppo del razzismo e dell'estrema destra nelle aree rurali del paese. Nel suo studio McNicol Stock traccia infatti una sorta di albero di famiglia della "destra rurale" che sarebbe legata, a suo giudizio, al permanere del mito, se non del ruolo, della nozione di "frontiera" nella società americana. In molte zone rurali, campagne, montagne, deserti, "l'esperienza della frontiera" ha continuato a rappresentare un punto di riferimento anche di fronte all'emergere di una modernità che, insieme a nuove tecnologie del lavoro e a un sostegno da parte dello Stato federale, ad esempio nella fase del New Deal, portava anche modelli culturali alternativi e difficili da maneggiare. Un indice di questo complesso confronto è dato dalla religione e in particolare dal ruolo giocato dal fondamentalsimo evangelico. «Malgrado l'America rurale non sia l'unica parte del paese che ha vissuto diversi revival religiosi – scrive la storica –, nondimeno tutte le statistiche spiegano come la maggiore concentrazione delle "sette" evangeliche si concentri nel Sud, nelle montagne rocciose dell'Ovest e nel Midwest. E oggi si tende ad associare questi fenomeni al conservatorismo sociale».

Un'altra delle caratteristiche delle aree rurali che spiegherebbe la fioritura di una forte cultura di destra, spesso venata di razzismo e xenofobia, riguarda quella che McNicol Stock definisce come "la cultura del vigilantismo", sviluppatasi fin dal primo insediamento dei coloni europei nel Nuovo Mondo e cresciuta poi con il loro espandersi dall'Est all'Ovest del paese. «All'inizio della colonizzazione del continente, gli americani delle aree rurali avevano la giustizia nelle loro mani»: vigilare sulla comunità e assicurare il rispetto delle regole che si era data, rappresentava l'unica forma di autodifesa possibile. Solo che "amministrare la giustizia" in questo modo, specie nei territori di nuova colonizzazione, significava spesso "conquistare" la terra cacciando i precedenti abitanti, come indica la lunga strage dei nativi americani perpetrata fino ai primi anni del Novecento. E significava in ogni caso stabilire "chi" appartenesse davvero alla comunità. Un tipico esempio di questa tendenza era il corpo dei Texas Rangers (oggi celebrato in una serie televisiva) un'"organizzazione di vigilantes" sorta nella seconda metà dell'Ottocento per difendere il territorio della Repubblica del Texas dall'esercito messicano, ma che si distinse anche nella caccia ai "pellerossa".

Una volta stabilite le frontiere definitive degli Stati Uniti, questi gruppi si riciclarono nel "controllo" della manodopera immigrata. Prima i lavoratori cinesi, nelle miniere della California come lungo i binari in costruzione della ferrovia della Union Pacific in Wyoming e in California, e poi quelli messicani, in California come in Texas, fecero le spese di ricorrenti pogrom razzisti guidati da vigilanti e da gruppi di autodifesa dei cittadini di origine "caucasica", cioè bianchi. Del resto dalla stessa cultura, vale a dire l'idea di amministrare da sé la giustizia in assenza di istituzioni stabili o riconosciute, almeno sulla carta, muoverà anche il Ku Klux Klan, nato come organizzazione di "autodifesa dei bianchi", responsabile di migliaia di linciaggi e omicidi razzisti, divenuto a più riprese un vero e proprio movimento di massa sia negli Stati del Sud che in ampie zone del Midwest: alla fine dell'Ottocento come nel periodo tra le due guerre mondiali e infine, nuovamente, tra gli anni Cinquanta e Sessanta durante la stagione della lotta degli afroamericani per i diritti civili.

Se lo sviluppo incerto delle istituzioni e della legalità nelle aree selvagge o di nuova conquista, di cui è rimasta una sorta di eco storica nelle "periferie interne" rappresentate da campagne e zone di montagna – e specificamente, per altre ragioni storiche, nel Sud –, ha accompagnato il diffondersi del razzismo e delle culture di destra, nel mondo urbano, cresciuto fin dalla fine dell'Ottocento grazie allo sviluppo industriale e all'immigrazione proveniente prevalentemente dall'Europa e dall'Asia, questi fenomeni hanno assunto un profilo molto particolare. Come ha sottolineato lo storico dell'Università del Minnesota David R. Roediger, in The Wages of Whiteness, lo stesso sviluppo della working class americana, così come la conosciamo oggi, è infatti inestricabilmente legato alla nozione di "razza". La tesi centrale del suo studio, considerato come una sorta di apripista in materia, è che il riferimento prioritario al colore della propria pelle è emerso tra i lavoratori bianchi per tener testa allo sfruttamento e alle necessità imposte dalla disciplina dell'organizzazione produttiva capitalistica. «La classe operaia, cresciuta principalmente nel Nord, lontana dalle repubbliche schiaviste del Sud, è maturata nell'eredità dei principi della Rivoluzione americana, coltivando un proprio personale mito dell'indipendenza e della potenza maschile». In questo contesto, specie tra gli irlandesi-americani, che hanno rappresentato la prima e più consistente comunità di immigrati coinvolta nello sviluppo industriale, l'immagine del nero, identificato tout court con la figura dello schiavo, aggiunge Roediger, ha finito per impersonare uno stile di vita arcaico, indolente e dall'erotismo debordante: l'esatto contrario del modello risoluto e probo che gli operai del Nord pensavano di rappresentare. Se a questa definizione del nero come sorta di "altro" assoluto si aggiunge la concorrenza che la forza lavoro di più recente immigrazione, come più tardi gli stessi afroamericani una volta emancipati dalla schiavitù, rappresenterà per una classe operaia sottoposta perlomeno fino agli anni Trenta a un duro regime di repressione nei confronti dell'attivismo sindacale e delle rivendicazioni dei lavoratori, si può forse intuire perché, proprio tra i blue collar, i pregiudizi razziali troveranno spesso terreno fertile e saranno codificati anche all'interno delle organizzazioni sindacali. Al punto che sarà talvolta proprio nei settori più sindacalizzati del mondo del lavoro che si svilupperanno alcune campagne xenofobe. Andò ad esempio così nella California a cavallo tra Ottocento e Novecento per i lavoratori cinesi e giapponesi arrivati con lo sviluppo della ferrovia e dei commerci marittimi. Come racconta l'americanista dell'Università di Paris 13 Annick Foucrier in La peau de l'autre: «Un movimento anti-giapponese apparve nel 1888 tra gli operai di San Francisco. Inoltre a partire dal 1900 tutti i partiti politici, Repubblicani, Democratici e Populisti, ma anche i Socialisti (tra loro anche Jack London – che si definiva "bianco" prima che socialista – e che giocò un ruolo molto attivo in quella fase) e i sindacati si mobilitarono contro l'immigrazione asiatica. La Lega per l'esclusione degli asiatici, a cui aderirono molti lavoratori bianchi, fu creata nel 1905 per chiedere che venissero prese misure legali contro la manodopera di origine asiatica».

Più profondamente, è l'emergere di un forte connubio tra l'identità di "classe" e quella di "razza" – tendenza alimentata da sempre dall'élite wasp del paese, per evitare una possibile unione tra le diverse componenti delle classi subalterne – a caratterizzare per molto tempo buona parte degli operai americani: questo anche perché l'essere "bianchi" rappresentava la via migliore per diventare a tutti gli effetti americani e il razzismo poteva apparire come una sorta di sinistra pratica di socializzazione. Un po' come era accaduto per decenni nel Sud, dove i poveri bianchi considerati "white trash" dai piantatori, godevano del privilegio di appartenere allo stesso gruppo razziale, ma non alla stessa classe, dei padroni di schiavi. A questo proposito Stefano Luconi e Matteo Pretelli, ne L'immigrazione negli Stati Uniti, spiegano come «negli ultimi anni la storiografia si è concentrata intorno al tema del "whitening" (imbiancamento) con il quale si intendono le pratiche messe in atto da un gruppo etnico per essere riconosciuto come "bianco" e venire perciò pienamente accettato nel consesso sociale americano. Prima gli irlandesi, poi i "nuovi arrivati" dell'Europa meridionale e orientale, lottarono per il riconoscimento della propria "bianchezza"».

Prendendo spunto dagli omicidi di due ragazzi neri da parte di giovani italo-americani nei quartieri del Queens e di Brooklyn di New York nel 1986 e nel 1989, un gruppo di ricercatori figli dell'emigrazione dal nostro paese negli Usa, coordinati da Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno, ha realizzato all'inizio di questo decennio una ricerca intitolata Gli italiani sono bianchi? che indaga proprio questa progressiva costruzione dell'identità bianca nel paese. «Gli Stati Uniti che gli immigrati italiani conobbero – scrivono i due studiosi – erano una nazione fondata su un processo di colonizzazione, espropriazione e schiavitù e pertanto percorso da profonde fratture causate da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza. Ancora oggi, il persistere della privazione dei diritti civili, della segregazione, della ghettizzazione, del profiling e di altre forme di razzismo strutturale continua a ribadire i sostanziali benefici della bianchezza. Democrazia, libertà e altri ideali che gli americani considerano sacri non sono un dato di fatto, ma il risultato di una lotta condotta dal basso, spesso da quelli maggiormente esclusi. Praticamente tutti gli immigrati italiani sono arrivati negli Stati Uniti senza essere consapevoli dell'esistenza della linea del colore. Ma impararono in fretta che essere bianchi significava riuscire a evitare molte forme di violenza e di umiliazione, e assicurarsi, tra gli altri privilegi, l'accesso preferenziale alla cittadinanza, al diritto di proprietà, a un'occupazione soddisfacente, a un salario con cui si poteva vivere, ad abitazioni decorose, al potere politico, allo status sociale e a un'istruzione di buon livello».

Se agli immigrati dalla pelle chiara è stata così proposta una paradossale integrazione sociale "attraverso" il pregiudizio, da riversare di volta in volta verso gli ultimi arrivati – e comunque sui neri –, che potesse rinnovare di continuo il mito fondativo della "democrazia dei bianchi", è però interessante notare come proprio il razzismo nei confronti delle nuove ondate migratorie abbia assunto ormai un ruolo simile a quello giocato un tempo da quello riservato ai neri. «Nel Novecento la vita politica americana è oscillata tra la paura degli immigrati e quella dei neri, a seconda delle stagioni e delle fasi politiche», ha sostenuto sul Daily Beast Peter Beinart, all'indomani del varo della legge anti-clandestini dell'Arizona, spiegando come la destra, e il Partito repubblicano in particolare, abbiano alternato o mescolato le due "fobie" a seconda del periodo e del pubblico a cui si rivolgevano. E il reverendo Jesse Jackson ha parlato proprio di Phoenix, capitale dell'Arizona, come della «nuova Selma», la città dell'Alabama divenuta negli anni Sessanta un simbolo del movimento per i diritti civili.

Riflettendo anch'egli sulla vicenda dell'Arizona, l'economista Paul Krugman ha spiegato che «i repubblicani, o amano l'immigrazione o la odiano. L'ala filoimprenditoriale del partito ama la manodopera a buon mercato, e sarebbe felicissima di avere politiche migratorie che garantiscano l'afflusso di questi lavoratori e al tempo stesso facciano in modo che non possano né votare né, di fatto, organizzarsi sindacalmente. Ma la destra culturale, in molti casi di tendenza xenofoba, non ama avere sul suolo patrio gente culturalmente diversa, nell'aspetto e nella lingua». «Per lungo tempo – ha aggiunto Krugman – il Partito repubblicano è stato guidato essenzialmente dagli interessi delle imprese, mentre la destra culturale andava a rimorchio. (...) Il reale significato della recente raffica di proteste del movimento dei cosiddetti Tea Party, è che il grande capitale non controlla più le leve del Partito repubblicano e che la base della destra culturale, con la sua paura per l'"altro" nella società americana, non si lascia più né dirigere né controllare. Le improvvise polemiche sulla questione dell'immigrazione sono parte di questo fenomeno. (...) Sul lungo periodo, se il Partito repubblicano diventerà il partito dei maschi bianchi arrabbiati a briglia sciolta (diversamente da prima, quando era il partito dei maschi arrabbiati legati al carro dell'élite imprenditoriale) il suo futuro rimarrà incerto».

Le considerazioni del Premio Nobel per l'economia conducono a interrogarsi sul ruolo che il tema della "razza", anche sotto le mentite spoglie dell'"allarme immigrazione", può giocare ancora oggi nella società americana. E quanto la destra può cercare di servirsene per ritornare maggioranza nel paese.

Nell'analizzare «il modo in cui i conservatori hanno conquistato il cuore degli Stati Uniti» nel corso dell'ultimo decennio, nel suo What's the Matter With Kansas?, il politologo Thomas Frank ha messo in evidenza come per fare in modo "che i poveri votino per i ricchi", la destra abbia dato voce a un populismo radicale e a una critica delle élite in grado di costruire una sorta di antropologia del rancore che veicolasse il malessere e il risentimento della classe media bianca. «Lo si può osservare, nella sua versione più comune e più ordinaria – ha spiegato Frank –, tutte le volte che ascoltiamo un politico o un opinionista conservatore deplorare la "guerra di classe" – vale a dire ogni pur timida rimessa in discussione del capitalismo di mercato – prima di prendersela con i "media elitisti" o con l'arroganza dell'"establishment della costa Est" e dei suoi "guidatori di Volvo"». A questa denuncia della distanza tra lo stile di vita delle élite progressiste e quello della stragrande maggioranza della middle-class, evocato negli ultimi mesi anche nelle piazze mobilitate dalla destra contro la Riforma sanitaria, le tasse, ipotetiche leggi per la riduzione delle armi vendute liberamente o la possibile riforma dell'immigrazione, si è aggiunto negli ultimi tempi l'allarme – alimentato anche dai dati sulla rivoluzione demografica delle minoranze – per la fine del primato numerico dei bianchi nella società americana. Un fenomeno che Kelefa Sanneh ha ironicamente affrontato sul New Yorker chiedendosi se «i bianchi sono destinati a diventare i nuovi neri?». Politici e anchorman conservatori parlano ormai sempre più spesso come i portavoce di una minoranza minacciata, se non d'estinzione perlomeno nei suoi diritti elementari. Ovviamente si tratta di un paradosso, ma di paradossi e esagerazioni sembra nutrirsi oggi la destra che, orfana di un leader credibile e segnata dall'eredità contraddittoria del bushismo, ha trovato in una violenta opposizione ad Obama la propria principale ragion d'essere, tornando ad arruolare, come è accaduto in Arizona, i miti del nativismo, se non direttamente quelli della razza camuffati da "scontro tra culture", e a flirtare apertamente con gli estremisti. Una situazione che fa dire ancora a Krugman che «la frontiera che separa i conservatori dai fanatici sta diventando sempre più sottile».

Del resto, come ha spiegato Neal Gabler sul Los Angeles Times «il cambiamento più profondo conosciuto dalla cultura politica americana nel corso degli ultimi trent'anni, è probabilmente costituito dal fatto che il conservatorismo è passato dall'essere un movimento politico al diventare una sorta di fondamentalismo religioso. Per secoli la democrazia americana si è costruita su delle concessioni reciproche, il negoziato, il compromesso, l'accettare il fatto che la maggioranza governa nel rispetto dei diritti della minoranza, e, soprattutto, il saper riconoscere la legittimità del voto dei propri concittadini, anche se di opinione diversa dalla nostra. Il fondamentalismo religioso, al contrario, si basa su delle verità immutabili che non possono essere negoziate, essere oggetto di un compromesso o essere cambiate». «I manifestanti anti-Obama, i militanti del Tea Party, gli aspiranti guerrieri che sfilano con le loro armi in pugno, i conduttori radiofonici o televisivi che trattano i liberal da "nemici dell'America" – ha concluso Gabler – credono sinceramente che il sistema politico americano, forse anche perché ha eletto proprio Obama, non funzioni più e vada in qualche modo rimpiazzato con le loro "sacre" certezze».

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